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La nonviolenza e' in cammino. 1022
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1022
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 14 Aug 2005 00:32:55 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1022 del 14 agosto 2005 Sommario di questo numero: 1. Della mitezza 2. Cindy Sheehan: Perche' mio figlio e' morto? 3. Marco Deriu: La decrescita dell'immaginario 4. Umberto Galimberti: Perche' siamo tutti figli di Eichmann 5. Riletture: Maria Antonietta La Torre, Ecologia e morale 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. MATERIALI. DELLA MITEZZA [Da "Azione nonviolenta" n. 8-9 dell'agosto-settembre 2005 (per contatti: e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org) riprendiamo il seguente testo, della serie di interventi dedicati al tema delle "caratteristiche della personalita' nonviolenta"] Alcune forse non inopportune premesse Cio' su cui di seguito si approssimano alcune interrogative riflessioni richiede altresi' alcuni chiarimenti preliminari. Mitezza e nonviolenza naturalmente non coincidono, si puo' essere persone amiche della nonviolenza senza essere affatto persone miti (anche tra le piu' note e fin celebrate, pochissime persone amiche della nonviolenza ed impegnate in lotte nonviolente sono state anche miti, sebbene qui si cerchera' di argomentare che solo scegliendo la mitezza si possa essere buoni ed efficaci militanti nonviolenti), e si puo' naturalmente essere persone miti senza per questo aver nulla a che fare con la nonviolenza. Non solo: vorremmo mettere in guardia anche rispetto all'espressione "personalita' nonviolenta", che e' una formula utile per intendersi e nei suoi limiti felice, ma che a rigore, cioe' se interpretata rigidamente, designa qualcosa che semplicemente non esiste. Inoltre: chi scrive queste righe non crede che esistano persone nonviolente, ma solo persone amiche della nonviolenza: il termine "nonviolento/a" puo' ben essere - a precise condizioni - un adeguato aggettivo, ma mai un pronome. Crede anche che la mitezza sia una qualita' morale che si apprende e si affina (o si logora) nell'esercizio, e non una essenza metafisica. Infine: ritiene che il concetto stesso di nonviolenza sia complesso e pluridimensionale e di assai ardua definizione (la riflessione consapevole sulla nonviolenza, quantunque essa sia "antica come le montagne", e' ancora agli inizi ed in impetuoso creativo svolgimento tale per cui ogni persona che ad essa si accosta ed ogni esperienza che ad essa si richiama apporta nuovi originali preziosi contributi teoretici ed empirici, euristici ed applicativi); qui di seguito lo si utilizzera' nel senso specifico proposto da Aldo Capitini, come equivalente sintetico dei due concetti gandhiani di ahimsa e satyagraha, ovvero - per dirla assai rozzamente - come scelta di non nuocere e come legame con il permanentemente vero che fonda e promuove l'azione buona, cioe' l'azione che si oppone alla violenza, l'azione che salva, l'azione che libera, l'azione che guarisce, l'azione che accomuna. Ma ancora una cosa va detta, ed e' questa: la nonviolenza e' gestione del conflitto: senza lotta non si da' nonviolenza; senza incontro con l'altro non si da' nonviolenza, senza riconoscimento dell'altro non si da' nonviolenza, senza conflitto con l'altro non si da' nonviolenza, senza comunicazione con l'altro non si da' nonviolenza: la nonviolenza e' sempre relazionale, contestuale e dialogica a un tempo. Parlare di nonviolenza al di fuori della lotta nonviolenta (che beninteso puo' anche essere solo - e sempre e' comunque anche - lotta interiore) e' mera retorica. * Una minima definizione Proporremmo la seguente definizione, provvisoria e parziale, complessa e dialettica, di mitezza: una qualita' morale, ovvero un modo di condursi nelle relazioni con le altre persone e con il mondo, che tiene insieme fermezza nel buono e nel vero e umilta' personale, benevolenza non sorda ma anche non cieca, comprensione e carita' ma insieme limpida e intransigente difesa della dignita' altrui e propria, amore per la giustizia ed insieme coscienza del limite e della propria ed altrui fallibilita', un onesto ascoltare e ascoltarsi che si traduca in un operare giusto e misericordioso. Ovvero la mitezza come contrario sia dell'iracondia che dell'accidia, come opposto della presunzione, del pregiudizio e della prepotenza. * Dieci tesi sul rapporto tra mitezza e nonviolenza Nell'articolare il rapporto tra mitezza e nonviolenza proporremmo quindi le seguenti tesi. I. Per resistere al male senza lasciarsene contaminare e' bene esercitare la virtu' della mitezza. Senza mitezza la resistenza e' fragile, la violenza invade la persona. II. Per agire il conflitto senza esserne travolti e' bene esercitare la virtu' della mitezza. Senza mitezza il conflitto e' lacerante, la violenza disgrega la persona. III. Solo la mitezza sa essere misericordiosa. E un'azione buona e giusta ma senza misericordia e' gia' meno buona e meno giusta. IV. Solo nella mitezza si puo' istituire una convivenza tra persone libere ed eguali in dignita' e diritti; una societa' non oppressiva, non autoritaria, non alienante; una comunita' che non omologhi o peggio annienti le preziose diversita' di cui ogni persona consiste ed e' portatrice. V. La mitezza si fonda sulla coscienza della dimensione tragica della vita. Chi e' frivolo, cosi' come chi e' cinico, non e' adeguato ai compiti dell'ora, non sa essere responsabile, non sa essere solidale. VI. Non si puo' essere persone amiche della nonviolenza se non ci si esercita nella virtu' della mitezza. Proprio perche' la nonviolenza e' conflitto, a maggior ragione le persone che nella lotta nonviolenta si impegnano hanno il dovere di scegliere la mitezza. Promuovere il conflitto, resistere all'ingiustizia, contrastare il male, e' inane senza mitezza. La mitezza e' la virtù principe del combattente satyagrahi. VII. Virtu' relazionale per eccellenza, la mitezza e' terapeutica, socializzante, giuriscostituente. La persona mite mitiga le altre persone, disinquina le relazioni, da' sollievo agli attori coinvolti nel conflitto. Ma non solo: la mitezza e' altresi' virtu' politica e puo' essere finanche principio di organizzazione giuridica. VIII. La mitezza s'impara, e s'impara passando attraverso le prove del dolore e dello smarrimento. Non si nasce miti, lo si diventa scegliendolo. IX. "Beati i miti, poiche' erediteranno la terra" (Matteo, V, 4): interpreto cosi': solo la scelta della mitezza puo' salvare un mondo che va insieme trasformato e conservato, difeso e rovesciato, restituito e redento. Solo la nonviolenza nella sua pienezza (non solo insieme di scelte logiche, epistemologiche, assiologiche, esistenziali; non solo insieme di tecniche ermeneutiche, metodologiche, deliberative, operative; non solo azione e progetto politico e sociale: ma insieme di insiemi) puo' salvare l'umanita'. X. E' nel momento della lotta che si prefigura e quindi si decide l'esito di essa. Una lotta contro l'ingiustizia condotta senza mitezza non e' una lotta contro l'ingiustizia, poiche' ingiustizia riproduce; una lotta per la pace senza mitezza non e' una lotta per la pace, poiche' pace non costruisce. La mitezza e' liberazione dall'oppressione. La nonviolenza e' solo in cammino. * Due amici Quando penso alla mitezza subito mi vengono in mente Primo Levi ed Alexander Langer. Due persone che resistevano, due persone che non opprimevano. Due persone gentili e magnanime. Due persone che conoscevano la tragedia, ma che la tragedia non aveva reso feroci bensi' ancor più benevole, limpide, rigorose, essenziali. Quando penso all'umanita' come dovrebbe essere subito mi vengono in mente Primo Levi ed Alexander Langer. La fragilita' delle persone e del mondo: e tu abbine cura. La resistenza che e' da opporre al male: e tu resisti. * Per approfondire Innanzitutto il dialogo sulla mitezza tra Norberto Bobbio e Giuliano Pontara, dialogo che si puo' leggere in Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d'ombra, Milano 1994, alle pp. 11-51; e naturalmente cfr. anche Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, particolarmente alle pp. 61-63. Di Primo Levi occorrerebbe leggere tutto (nell'edizione delle Opere, Einaudi, Torino 1997, in due volumi), ma almeno Se questo e' un uomo e I sommersi e i salvati. Di Alexander Langer l'antologia degli scritti piu' ampia e rappresentativa e' Il viaggiatore leggero, Sellerio, Palermo 1996. Come e' noto, nelle grandi tradizioni culturali indiane e cinesi, ma anche nelle grandi tradizioni culturali occidentali - sia quelle religiose in senso stretto: l'ebraismo, il cristianesimo, l'islam; sia quelle piu' late: la grecita', l'umanesimo, la laicita', il pensiero delle donne - vi sono molti fulgidi esempi sia di figure e di condotte miti, sia di riflessioni sulla mitezza dense e complesse. Volendo proporre qualche testo e figura esemplare: il discorso della montagna in Luca e Matteo, le figure di Averroe', Francesco d'Assisi, Thomas More, Etty Hillesum. E volendo ricordare qualche persona che vi ha riflettuto con lucidita' e pieta' grandi: Simone Weil e Hannah Arendt, Aldo Capitini ed Emmanuel Levinas. Somme figure di resistenti miti sono emerse nella lotta contro il totalitarismo e nella resistenza contro il sistema concentrazionario. Ricordano donne e uomini che seppero difendere l'umanita' di fronte all'estremo due fondamentali libri di Tzvetan Todorov: Face a' l'extreme, Seuil, Paris 1991, 1994 (seconda edizione rivista), e Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001. Sul versante giuridico cfr. almeno Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (da leggere nell'edizione curata da Franco Venturi, Einaudi, Torino 1965, 1994), e Gustavo Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992; ma soprattutto l'esperienza della Commissione per la verita' e la riconciliazione sudafricana. Sulle lacerazioni, i drammi e gli scacchi della mitezza hanno scritto pagine terribili e magnifiche Dostoevskij e Tolstoj. 2. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: PERCHE' MIO FIGLIO E' MORTO? [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente discorso di Cindy Sheehan, tenuto il 5 agosto 2005 alla convenzione dei Veterani per la pace. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey in Iraq; dal 6 agosto staziona con una tenda a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush sta trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli] Non avrei mai immaginato di venire qui come relatrice al vostro convegno. Non lo avrei mai immaginato, ma la vita lo ha portato con se'. E non avevo mai sentito parlare dei Veterani per la pace, non prima del 4 maggio 2004, quando vidi un servizio sulla Cnn. Mancavano quattro giorni alla "festa della mamma" e mio figlio era morto da un mese esatto. Io vidi il servizio che trattava di Arlington West a Santa Barbara e dissi a mio marito: "C'e' un unico posto dove voglio andare per la festa della mamma, e' li'". Cosi' ci andammo, per la prima volta, e ad Arlington West erano piantate oltre 700 croci. Oggi sono oltre 1.800. Saro' felice di ascoltare le parole di chiunque, perche' qualcuno deve fermare questi bugiardi. Qualcuno deve fermarli. Ad un'altra madre che ha perso il figlio in Iraq e' stato detto che il decesso era dovuto ad overdose di stupefacenti. Tre mesi dopo hanno avuto il referto tossicologico, e non c'era traccia di stupefacenti nel cadavere. La madre era distrutta. Le hanno assicurato che i commilitoni di suo figlio hanno rilasciato dichiarazioni in cui dicevano che lui si drogava. Ora il referto dice che non e' vero. Com'e' morto suo figlio? Ma i criminali di guerra che stanno a Washington non perdono una notte di sonno. C'e' questo bugiardo matricolato, George Bush, che si prende cinque settimane di vacanza mentre siamo in guerra. Sapete? A causa sua, non credo che riusciro' mai piu' a godere di una vacanza. La mia vacanza probabilmente sara' in prigione, o nella tenda a Crawford, aspettando che questo mostro esca dal ranch e mi dica perche' mio figlio e' morto. * Ad ogni modo, ho ricevuto una e-mail ieri, vengo contattata da ogni genere di persone, e quest'uomo mi ha scritto: "Cindy, leggo sul web tutto quello che scrivi, e lo leggo con le lacrime agli occhi. Ma oggi sto piangendo davvero, e gridando, perche' il mio caro cugino di 19 anni e' stato ucciso in Iraq. Cindy, perche' non l'ho salvato? Perche' non l'ho portato via?". E' una cosa che pensiamo tutti. Io dissi a mio figlio di non partire. Gli dissi: "Lo sai che e' sbagliato. Lo sai che succede laggiu'. La tua unita' uccidera' gente innocente, e tu potresti morire". E lui rispose che doveva andare, perche' i suoi compagni partivano e se qualcun altro avesse dovuto sostituirlo i suoi compagni sarebbero stati in pericolo. Quello che mi fa veramente impazzire e' che questi mandano i nostri figli a morire, e non sono mai stati in guerra. Non sanno cos'e'. Trenta giovani sono gia' morti questo mese, e siamo solo al 5 di agosto. Vi ricordate quando in marzo abbiamo protestato, era il secondo anniversario dell'invasione dell'Iraq, ma tutti i media parlavano di Terry Schiavo, e 5.000 di noi a Fayetteville non li hanno visti. Allora scrissi un pezzo, "Gli straordinari ipocriti", e chiesi: perche' lei merita la vita piu' di mio figlio, piu' degli iracheni, e piu' di tutta la gente che la guerra ha ucciso? Ma voi pensate che George Bush interrompa la sua vacanza per fare visita alle famiglie dei marines che sono morti questa settimana? No, perche' non gliene importa nulla. Quella tragedia non e' sufficiente a fargli smettere di giocare al cowboy per cinque settimane a Crawford. * Come potete immaginare, i genitori i cui figli sono stati uccisi in guerra non riescono a far crescere una cicatrice sulla ferita, perche' ogni giorno essa si riapre. Ogni giorno, e non so perche' lo faccio, so gia' che la guerra e' brutta, ma ogni giorno vado a vedere chi e' diventato un angelo mentre io dormivo. E questo mi lacera il cuore, perche' so che c'e' un'altra madre la cui vita quel giorno sara' rovinata per sempre. Non possiamo mai in iziare a guarire. Quando quel guerrafondaio di George Bush ha parlato della tragedia dei marines in Ohio, ha detto un paio di cose che mi hanno veramente indignata. So che non lo sembro, sono sempre calma e cosi' via, ma e' perche' se dovessi cominciare a colpire qualcosa non mi fermerei prima di aver fatto tutto a pezzi. Percio' neppure comincio, perche' so quanto pericoloso sarebbe. E George Bush ha detto che le famiglie degli uccisi dovevano essere certe che i loro cari erano morti per una nobile causa. Ed ha anche detto, lo dice spesso e mi fa diventare pazza, che dobbiamo restare in Iraq e completare la missione per onorare il sacrificio di coloro che sono caduti. Ma dico, perche' dovrei volere che una sola altra madre passi quello che sto passando io: perche' mio figlio e' morto? Sapete, l'unico modo in cui si puo' onorare il sacrificio di mio figlio e' portando il resto delle truppe a casa, fare in modo che la morte di mio figlio conti per la pace, per l'amore, non per la guerra e l'odio che Bush difende. Non voglio che costui usi la morte di mio figlio o la sofferenza della mia famiglia per continuare il massacro. * Percio', come molti di voi hanno sentito, sto andando a Crawford. Non so neppure dov'e', ci arrivero' da Dallas, non importa, ci sto andando. Ed ho intenzione di dire a quella gente: "Portate qua fuori il maniaco: c'e' una madre con una medaglia d'oro, il cui sangue gli sporca le mani, che ha qualcosa da chiedergli". E gli diro': "Ascolta bene, George, ogni volta che andrai da qualche parte a dire che bisogna continuare gli ammazzamenti in Iraq per onorare gli eroi caduti aggiungerai 'ad eccezione di Casey Sheehan', e inoltre 'ad eccezione di tutti i membri della Gold Star Families for Peace' [l'associazione pacifista di famiglie che hanno ricevuto un'onorificenza per i parenti caduti in guerra - ndt], perche' noi pensiamo che non una singola goccia di sangue debba essere versata in nostro nome". E poi diro': "Ora vorrei sapere qual e' la nobile causa per cui mio figlio e' morto". E se mi rispondera' "la liberta' e la democrazia", io diro': "Stupidaggini! Dimmi la verita'. Di' che mio figlio e' morto per il petrolio, per arricchire i tuoi amici. Mio figlio e' morto per diffondere il cancro della Pax Americana, l'imperialismo in Medio Oriente. Tu ci stai portando via la nostra liberta'. Noi non siamo liberi. Gli iracheni non sono liberi, stanno molto peggio di come stavano prima che tu ti impicciassi del loro paese. Porta fuori l'America dall'Iraq...". * Non so che succedera'. Andro' a Crawford con mia sorella, ma c'e' molta altra gente che pensa di venire ad aiutarci, a sostenerci, perche' in questo anno ho viaggiato per il paese, ho scritto, ho parlato, ho ascoltato, e solo in questo piccolo anno ho visto grandi cambiamenti. La gente non vuole solo avere informazioni, vogliono sapere cosa possono fare. Cosa possiamo fare per togliere il potere a George Bush. E qui dico la parola: impeachment. Tutti coloro che hanno mentito al popolo americano, nell'esecutivo, nel congresso (e dobbiamo andare fino in fondo, perche' non possiamo lasciare in cima qualcuno che perdonera' questi criminali di guerra), devono essere condannati, per cio' che hanno fatto a questo mondo. Devono rispondere di quel che hanno fatto. Ecco, andro' a Crawford e diro' che voglio parlargli, e se mi diranno che lui non esce, piantero' la mia tenda e restero' li' fino a che non verra' fuori. Ho tutto il mese di agosto a disposizione, proprio come lui. Staro' li' sino a che verra' a parlarmi. E se dovesse interrompere le ferie e andarsene a Washington io smontero' la tenda e la rimontero' nel prato di fronte alla Casa Bianca. * Un'altra cosa che sto facendo riguarda le tasse. Mio figlio e' morto nel 2004, percio' non pago le tasse per il 2004. Se mi mandano un sollecito scrivero': "La guerra e' illegale e vi spiego perche', e la guerra e' immorale, ed ecco perche', e voi avete ucciso mio figlio per questo. Non vi devo nulla. Se pure dovessi diventare milionaria, non vi daro' un centesimo". Spero proprio che mi contattino, perche' voglio che questa guerra vada in tribunale, dove potro' dire: "Ridatemi mio figlio, ed io paghero' le vostre tasse". Henry David Thoreau ando' in prigione per non aver pagato le tasse ed Emerson gli chiese: "Perche' sei li' dentro?". Thoreau gli rispose: "Perche' non sei qui con me?". A volte la prigione e' il solo posto per una persona che ha una morale, in un mondo immorale. Sta a noi, gente, spezzare leggi immorali e resistere. Se i leader di questo paese vi mentono, allora non hanno autorita' su di voi. Questi folli non hanno autorita' su di noi. Potranno mettere in prigione i nostri corpi, ma non i nostri spiriti. * Dopo aver ascoltato tutte le testimonianze, stasera, mi domando: perche' continuiamo a permettere che la guerra accada? Il nostro paese e' molto bravo nel demonizzare la gente. Ho parenti che dalla seconda guerra mondiale continuano a chiamare i giapponesi "musi gialli". E abbiamo demonizzato gli iracheni, di modo che la maggior parte di questo paese non pensa neppure che stiamo uccidendo esseri umani innocenti. E mi dicono: "Ma Cindy, non ricordi cos'e' successo l'11 settembre?". "Certo, rispondo io, E qualcuna di quelle persone stava in Iraq? E chi ha portato gli aerei al Trade Center, era iracheno?". Mentre crescevo, dovevamo aver paura dei comunisti. Adesso dobbiamo aver paura dei terroristi. Cosi', vedete, c'e' sempre qualcuno da combattere e da cui essere spaventati, e la macchina della guerra puo' costruire piu' bombe, piu' fucili, pallottole e quant'altro. Ma io ho speranza. Vedo speranza in questo paese. Il 58% dell'opinione pubblica ci sostiene. Stiamo predicando al coro, ma il coro non sta cantando. Se tutto questo 58% cominciasse a cantare, la guerra finirebbe. * Un'altra e-mail che ho ricevuto l'altro giorno diceva: "Cindy, e' meglio se non usi tutte quelle imprecazioni e parolacce. C'e' della gente, sai, quella che sta 'alla finestra', nel mezzo, che si risente". Sapete cosa ho risposto? "Dannazione, non me lo dire! Come, come? C'e' ancora gente che sta alla finestra in questo mondo? Se cade dalla parte pro Bush e pro guerra che alzi il didietro e vada in Iraq, a prendere il posto di qualcuno che vuole tornare a casa. E se cade dall'altra parte che si alzi in piedi e cominci a parlare. Ma qualsiasi sia il lato in cui volete cadere, smettete di stare alla finestra". L'opposto del bene non e' il male, e' l'apatia. Dobbiamo scuotere questo paese, e far cantare il coro. Dobbiamo essere noi a dire: "Le nostre truppe tornano a casa". Non possiamo dipendere da quelli che dovrebbero decidere di farlo, perche' non stai pianificando di portare i soldati a casa quando spendi i soldi della ricostruzione per stabilire basi permanenti. Mi sarebbe piaciuto venire alla vostra cena, domani sera, ma fino a che George Bush non parlera' con me, faro' del campeggio a Crawford. Grazie. 3. RIFLESSIONE. MARCO DERIU: LA DECRESCITA DELL'IMMAGINARIO [Dal mensile "Aprile", n. 128 di giugno 2005 (sito: www.aprile.org) riprendiamo il seguente intervento di Marco Deriu. Marco Deriu, sociologo e saggista, docente universitario, e' stato direttore della rivista "Alfazeta" dal 1996 al 1999; consulente culturale per diversi enti pubblici e privati, segue in particolare la progettazione e le attivita' del "Laboratorio per la cultura della pace" dell'assessorato ai servizi sociali della Provincia di Parma. Tra le opere di Marco Deriu: (a cura di), Gregory Bateson, Bruno Mondadori, Milano 2000; (a cura di), L'illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarieta' internazionale, Emi, Bologna 2001; (a cura di, con Pietro Montanari e Claudio Bazzocchi), Guerre private, Il ponte, Bologna 2004; La fragilita' dei padri. Il disordine simbolico paterno e il confronto con i figli adolescenti, Unicopli, Milano 2004; Dizionario critico delle nuove guerre, Emi, Bologna 2005] Per ragionare delle alternative alla crescita, o meglio alla societa' della crescita, la domanda centrale non e' "Che cosa?", ma piuttosto "In che modo?". Le categorie economiche della crescita e dello sviluppo hanno messo radici nel nostro immaginario in maniera molto piu' profonda di quanto crediamo. Per cui e' molto difficile riuscire veramente ad uscire dalle cornici in cui siamo rinchiusi. * Una fiducia mal riposta Alcuni fautori della decrescita, insistono ingenuamente sulla "semplicita' volontaria". Il nostro rapporto con il consumo ha radici profonde che abbiamo ereditato e interiorizzato, dunque non si tratta semplicemente di educare il comportamento o di colpevolizzare la corsa all'acquisto. Noi dipendiamo dal consumo in termini materiali, politici, psicologici e identitari. L'eccessiva fiducia nell'autocontrollo e' un elemento del problema - della nostra patologia culturale - piuttosto che un aspetto della sua soluzione. Piu' ci si illude di controllare il consumo e la dipendenza dai prodotti della nostra societa' di mercato e piu' si ricade nella dipendenza. Ogni volta che mettiamo avanti una mentalita' o un modo di ragionare che insiste sulla nostra capacita' di porci razionalmente dei limiti, finiamo in realta' per riconfermare un dualismo tra una mente pensante buona, innocente ed ecologica, ed un'abitudine del nostro corpo o della nostra societa' a sfruttare, a produrre, a consumare qualcosa. La strada verso un rapporto piu' equilibrato con le cose e il consumo e' molto piu' simile ad un processo di disapprendimento e di disintossicazione. Il cambiamento di cui abbiamo bisogno non e' semplicemente soggettivo, nel senso che non avviene semplicemente nella mente del singolo individuo. E' piuttosto qualcosa che avviene nelle relazioni e nelle interazioni tra piu' persone o soggetti. Il problema mi sembra dunque quello di ricreare forme di socialita' che indeboliscano la coazione del consumo, rafforzando altre fonti d'identita' e di sicurezza. Dobbiamo costruire un senso del limite e della misura incorporato, intrinseco nel nostro modo di vivere, di relazionarci, di definirci socialmente e culturalmente. Come ha giustamente sottolineato Wolfgang Sachs, "Una 'rivoluzione della sufficienza' non puo' essere programmata ne' pianificata; per realizzarla abbiamo bisogno di cambiamenti rapidi e sottili nel pensiero culturale e nell'organizzazione istituzionale della societa'". Dunque la nostra riflessione sulla sostenibilita' deve concentrarsi sui valori e sugli schermi istituzionali e, quindi, sull'universo simbolico della societa', piu' che sui processi energetico-materiali e sul mondo delle quantita' materiali. * La logica dell'austerita' La seconda questione richiama il tema dell'austerita' e della riduzione dei consumi all'essenziale. Ma che cosa e' superfluo e che cosa e' essenziale per delle persone e per una societa' umana? Molte delle societa' tradizionali hanno proibito o limitato l'accumulazione individuale, ma hanno favorito le forme di dispendio sociale dei beni. Non esiste societa' tradizionale per quanto "povera" che si sia privata di forme di dono e controdono, di momenti di festa e di ostentazione sontuosa. Il consumo legato alla vita sociale per le societa' tradizionali e' l'essenziale, mentre l'utile e il tornaconto individuale sono secondari. Le nuove forme di austerita' e di semplicita' volontaria proposte dalla cultura alternativa sembrano riportarci alla direzione contraria: il calcolo dell'essenziale per l'individuo e la singola unita' famigliare e il discredito di ogni forma di consumo e dispendio sociale. Coloro, tra gli stessi fautori della decrescita, che invitano per esempio a non regalarsi nulla per Natale per contrastare il consumismo, senza rendersene conto fanno un'operazione di riduzionismo economico utilitarista. Stabiliscono che quello che basta alla loro sopravvivenza individuale e famigliare e' l'essenziale, mentre cio' che appartiene allo sperpero, al consumo sontuoso e' superfluo. Cosi' essi gettano discredito su uno dei pochi riti sociali rimasti di dono e controdono che, per quanto sfruttato commercialmente, rappresenta ancora un modo per creare, rinnovare, rinsaldare legami familiari, d'amicizia e d'amore. Rinunciare alla logica sontuosa del dispendio, che si accompagna ai rituali di dono, senz'altro ci fa risparmiare e ridurre gli sprechi ma ci rinchiude in un'austerita' e in un'autosufficienza beata e in fondo deprimente. La logica antiutilitaria del dono si oppone alla valutazione ponderata dei filosofi dell'austerita'. Anziche' attaccare il dispendio irrazionale tipico del dono si dovrebbe piuttosto attaccare la razionalita', apparentemente inscalfibile, del quotidiano calcolo individuale. L'ideologia dei bisogni essenziali e' in fondo asociale: cosi' notava lucidamente Ivan Illich gia' molti anni fa: "Incitando la gente ad accettare una limitazione volontaria della produzione senza mettere in questione la struttura-base della societa' industriale, non si farebbe che conferire maggior potere ai burocrati che ottimizzano lo sviluppo, e ci consegnerebbe come ostaggi nelle loro mani. La produzione stabilizzata di beni e servizi ultra-razionalizzati e standardizzati allontanerebbe dalla produzione conviviale ancor piu', se possibile, di quanto non faccia la societa' industriale di sviluppo". Per mostrare i limiti dell'etica dell'austerita' suggerisco di tornare al lavoro di Max Weber sulle origini del capitalismo. La lezione di Weber e' che il capitalismo, lungi dal nascere da una brama smodata di guadagno, dal punto di vista dei valori morali trae origine al contrario dallo spirito di ascesi tipico dell'etica puritana. Almeno alle sue origini, sottolinea Weber, "l'avidita' smodata di guadagno non si identifica minimamente col capitalismo e meno ancora con il suo 'spirito'. Il capitalismo puo' addirittura identificarsi con l'inibizione di questo impulso irrazionale, o almeno con la sua attenuazione razionale. Piuttosto il capitalismo si identifica con la ricerca continua, razionale, nell'impresa capitalistica, di un guadagno sempre rinnovato: ossia della 'redditivita''". Questo non significa sostenere che tra i capitalisti odierni non abbia un ruolo anche l'avidita', ma ricordare che la spinta originaria e ancor oggi fondamentale del capitalismo non e' la brama ma il calcolo, ovvero nelle parole di Weber "l'uso pianificatorio di prestazioni reali o personali al fine di conseguire un profitto". Anche di fronte al capitalismo speculativo di oggi ci si puo' chiedere come uscire da questa folle danza di una ricerca della ricchezza virtuale. Ma dubito che si possa andar lontano semplicemente con un richiamo moralistico ad un'economia piu' sobria e concreta, anche quando sia ancorata ai territori e ai reali bisogni della gente. Il punto non puo' essere quello di contrapporre ad un'economia speculativa, basata sulla moltiplicazione infinita dei desideri, un'economia piu' giudiziosa e un'immagine di essere umano piu' ascetica e distaccata; ridando nuovo fiato a quella coscienza "enormemente buona" o "farisaicamente buona" che, secondo Weber, accompagnava l'attivita' lucrativa alle origini del capitalismo. La questione centrale rimane invece quella del senso, della vita che desideriamo. * Nuovi scenari sociali In questa prospettiva appare piu' chiaro quindi il rischio che la proposta della decrescita, come quella dell'economia alternativa, finiscano col concentrarsi ancora sulle dimensioni economiche e materiali della nostra condizione, anziche' liberare nuovi immaginari sociali. "Paradossalmente - notava Ivan Illich - la dimostrazione economica della controproduttivita' della crescita conferma la credenza che, per gli esseri umani, cio' che conta possa essere espresso in termini economici". Se lottiamo per uscire dalla societa' di crescita non e' principalmente perche' la crescita e' dannosa o perche' abbiamo paura delle conseguenze ecologiche del nostro sistema di vita. Al contrario se ha un qualche senso parlare di antiutilitarismo, di decrescita, di convivialita', e' perche' vogliamo ricollocare il conflitto sul piano dei sistemi simbolici, sul piano della lettura antropologica della societa' e dell'essere umano, dei suoi valori e desideri. Perche' vogliamo contrapporre al desiderio illimitato di una ricchezza economica e di status, un desiderio altrettanto forte di una ricchezza della propria esistenza, delle nostre relazioni, dei nostri affetti, del piacere di vivere assieme e non in competizione con gli altri. Da questo punto di vista, lo stesso termine "decrescita", costruito aggiungendo un "de" privativo al concetto di crescita, rischia di prestarsi ad un fraintendimento continuo. Costringe a chiarire ogni volta che la decrescita non e' la crescita stazionaria o negativa, ovvero non e' il suo semplice opposto ma allude ad un'altra societa' possibile. A chiarire che la decrescita non e' privazione o depressione, ma convivialita' o addirittura una vita festiva e dionisiaca. Che non e' una questione puramente di quantita' ma di qualita' della vita. E soprattutto che non e' l'ultima ricetta dell'Occidente per il sud del mondo. Insomma ci sono molti malintesi, molte ambiguita' per un concetto che aspira niente meno che a fondare un altro immaginario. Per questo motivo, dunque, sarebbe probabilmente un errore ridurre il dibattito solo a fautori o critici della decrescita: non siamo ancora approdati ad un altro paradigma, anzi a dir la verita' temo che non siamo ancora nemmeno usciti da quello vecchio. 4. RIFLESSIONE. UMBERTO GALIMBERTI: PERCHE' SIAMO TUTTI FIGLI DI EICHMANN [Il seguente articolo e' apparso sul quotidiano "La Repubblica" del 22 maggio 1996. Umberto Galimberti, filosofo, saggista, docente universitario; dal sito http://venus.unive.it riprendiamo la seguente scheda aggiornata al settembre 2004: "Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, e' stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 e' professore ordinario all'universita' Ca' Foscari di Venezia. Dal 1985 e' membro ordinario dell'international Association for Analytical Psychology. Dal 1987 al 1995 ha collaborato con "Il Sole-24 ore" e dal 1995 a tutt'oggi con il quotidiano "la Repubblica". Dopo aver compiuto studi di filosofia, di antropologia culturale e di psicologia, ha tradotto e curato di Jaspers, di cui e' stato allievo durante i suoi soggiorni in Germania: Sulla verita' (raccolta antologica), La Scuola, Brescia 1970; La fede filosofica, Marietti, Casale Monferrato 1973; Filosofia, Mursia, Milano 1972-1978, e Utet, Torino 1978; di Heidegger ha tradotto e curato: Sull'essenza della verita', La Scuola, Brescia 1973. Opere di Umberto Galimberti: Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente, Marietti, Casale Monferrato 1975, Il Saggiatore, Milano 1994); Linguaggio e civilta', Mursia, Milano 1977, seconda edizione ampliata 1984); Psichiatria e Fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979; Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983; La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo, Feltrinelli, Milano 1984; "Antropologia culturale", ne Gli strumenti del sapere contemporaneo, Utet, Torino 1985; Invito al pensiero di Heidegger, Mursia, Milano 1986; Gli equivoci dell'anima, Feltrinelli, Milano 1987; "La parodia dell'immaginario", in W. Pasini, C. Crepault, U. Galimberti, L"immaginario sessuale, Cortina, Milano 1988; Il gioco delle opinioni, Feltrinelli, Milano 1989; Dizionario di psicologia, Utet, Torino 1992, nuova edizione: Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Milano 1999; Idee: il catalogo e' questo, Feltrinelli, Milano 1992; Parole nomadi, Feltrinelli, Milano 1994; Paesaggi dell'anima, Mondadori, Milano 1996; Psiche e techne. L'uomo nell'eta' della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999; E ora? La dimensione umana e le sfide della scienza (opera dialogica con Edoardo Boncinelli e Giovanni Maria Pace), Einaudi, Torino 2000; Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000; La lampada di psiche, Casagrande, Bellinzona 2001; I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano 2003; e' in corso di ripubblicazione nell'Universale Economica Feltrinelli l'intera sua opera". Guenther Anders (pseudonimo di Guenther Stern, "anders" significa "altro" e fu lo pseudonimo assunto quando le riviste su cui scriveva gli chiesero di non comparire col suo vero cognome) e' nato a Breslavia nel 1902, figlio dell'illustre psicologo Wilhelm Stern, fu allievo di Husserl e si laureo' in filosofia nel 1925. Costretto all'esilio dall'avvento del nazismo, trasferitosi negli Stati Uniti d'America, visse di disparati mestieri. Tornato in Europa nel 1950, si stabili' a Vienna. E' scomparso nel 1992. Strenuamente impegnato contro la violenza del potere e particolarmente contro il riarmo atomico, e' uno dei maggiori filosofi contemporanei; e' stato il pensatore che con piu' rigore e concentrazione e tenacia ha pensato la condizione dell'umanita' nell'epoca delle armi che mettono in pericolo la sopravivvenza stessa della civilta' umana; insieme a Hannah Arendt (di cui fu coniuge), ad Hans Jonas (e ad altre e altri, certo) e' tra gli ineludibili punti di riferimento del nostro riflettere e del nostro agire. Opere di Guenther Anders: Essere o non essere, Einaudi, Torino 1961; La coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e di Guenther Anders, Einaudi, Torino 1962, poi Linea d'ombra, Milano 1992 (col titolo: Il pilota di Hiroshima ovvero: la coscienza al bando); L'uomo e' antiquato, vol. I (sottotitolo: Considerazioni sull'anima nell'era della seconda rivoluzione industriale), Il Saggiatore, Milano 1963, poi Bollati Boringhieri, Torino 2003; L'uomo e' antiquato, vol. II (sottotitolo: Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale), Bollati Boringhieri, Torino 1992, 2003; Discorso sulle tre guerre mondiali, Linea d'ombra, Milano 1990; Opinioni di un eretico, Theoria, Roma-Napoli 1991; Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995; Stato di necessita' e legittima difesa, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi) 1997. Si vedano inoltre: Kafka. Pro e contro, Corbo, Ferrara 1989; Uomo senza mondo, Spazio Libri, Ferrara 1991; Patologia della liberta', Palomar, Bari 1993; Amare, ieri, Bollati Boringhieri, Torino 2004. In rivista testi di Anders sono stati pubblicati negli ultimi anni su "Comunita'", "Linea d'ombra", "Micromega". Opere su Guenther Anders: cfr. ora la bella monografia di Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Guenther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003; singoli saggi su Anders hanno scritto, tra altri, Norberto Bobbio, Goffredo Fofi, Umberto Galimberti; tra gli intellettuali italiani che sono stati in corrispondenza con lui ricordiamo Cesare Cases e Renato Solmi] E se avesse ragione Erich Priebke quando, alla sbarra, utilizza quel fastidioso argomento che suona pressappoco cosi': "Se almeno sapessi cosa volete da me! Io mi sono semplicemente attenuto agli ordini. Allora ero pure in regola e quindi, se volete, 'morale'. In fin dei conti non ho colpa se quell'ente di gestione con cui ho collaborato oggi e' sostituito da un altro. Oggi e' 'morale' collaborare con questo, allora era 'morale' collaborare con quello"? Per confutare questo argomento, ripetuto da tutti i criminali di guerra fino alla noia, ogni anno celebriamo il 25 aprile perche' "non bisogna dimenticare, perche' ogni amnesia e' una sorta di amnistia". Giusto principio, ma non all'altezza dell'evento. E tutte le persuasioni, le convinzioni, i ragionamenti che non sono all'altezza dell'evento sono gia' essi stessi macchine d'oblio destinate a naufragare in quella forma di indifferenza che sempre accompagnano le retoriche che perdono di vista la vera natura dei problemi. Il 25 aprile festeggia la liberazione da quella forma che l'umanita' ha assunto sotto il giogo del nazismo. Ma dire "liberazione" significa dire che quel giogo non c'e' piu', e che occorre ricordarlo ed esecrarlo perche' non si ripresenti. E probabilmente come totalitarismo politico non si ripresentera' piu' almeno in Europa. Ma siamo sicuri che l'aggettivo "politico" e' sufficiente a caratterizzare il nazifascismo, o non dobbiamo piuttosto pensare che la sua anima sia da rintracciare in una sorta di totalitarismo tecnico rispetto a cui quello politico risulta essere solo un fenomeno secondario? E se l'ipotesi fosse vera non siamo noi, tutti noi, uomini d'oggi, "figli di Eichmann", non di Hitler, simbolo dell'espressione "politica" del totalitarismo, ma proprio di Eichmann, il burocrate, che, come funzionario di un apparato, piu' o meno come oggi noi tutti siamo nel regime della tecnica, compiva dal ridotto della sua scrivania azioni dagli effetti che oltrepassano l'immaginazione di cui puo' essere capace un uomo? * Noi figli di Eichmann e' il titolo di un libro, ottimamente tradotto da Antonio G. Saluzzi (Giuntina, pp. 108, lire 15.000) che raccoglie due lettere che Guenther Anders ha scritto al figlio di Eichmann nel 1963 dopo la condanna a morte di suo padre in Israele, e nel 1988 venticinque anni dopo aver atteso una risposta mai arrivata. Karl Adolf Eichmann, lo sterminatore in stile industriale degli ebrei e degli zingari europei era riuscito, grazie a un passaporto del Vaticano, a riparare in Argentina dove aveva trovato lavoro presso la Mercedes-Benz sotto il falso nome di Ricardo Klement. La moglie, che nel frattempo aveva ripreso il nome da ragazza Veronika Liebl, dopo aver accreditato la versione della fucilazione di suo marito che sarebbe avvenuta a Praga il 30 aprile del 1945, lo raggiunse nel 1951 a Buenos Aires e al figlio Klaus disse che l'uomo che gli avrebbe fatto da secondo padre era lo zio Ricardo Klement. Nel maggio del 1960 due agenti del servizio segreto israeliano sequestrarono Adolf Eichmann mentre usciva dall'officina in cui lavorava e lo condussero in Israele dove si svolse il processo che si concluse con la pena capitale. Fu dopo quell'esecuzione che Guenther Anders, che nel 1923 si era laureato con Edmund Husserl e che nel 1936, dopo essersi separato dalla moglie Hannah Arendt, ando' in esilio negli Stati Uniti, scrisse la prima lettera al figlio di Eichmann, Klaus, allora ventiquattrenne: "L'origine non e' una colpa, come non lo e' per i sei milioni di ebrei passati sotto la solerte contabilita' di suo padre. Nessuno e' artefice della propria origine, neppure lei che non solo venne a sapere quello che lui aveva fatto, non solo delle camere a gas e dei sei milioni. Gia' questo sarebbe stato sufficiente. No. Oltre a cio' lei dovette venire a sapere che il nuovo padre che aveva cancellato la memoria del suo primo padre altri non era che questo stesso primo padre. Insomma che quest'uomo era proprio Adolf Eichmann". "La sua esperienza - cosi' prosegue la lettera - che a prima vista potrebbe sembrare un'esperienza che ha potuto fare solo lei, e' un'esperienza che facciamo o almeno dovremmo fare anche noi. E questa e' la ragione per cui lei per noi e' un simbolo. Perche' anche noi negli ultimi due decenni abbiamo vissuto nella convinzione che il mostruoso mondo di ieri da cui traiamo origine ce l'eravamo lasciato alle spalle e l'avevamo sostituito con un altro. E adesso anche noi dobbiamo prendere atto che eravamo vittime di un'illusione: cio' che per noi ha fatto 'le veci del padre' e' identico al 'padre' che aveva dominato due decenni fa. Oppure, espresso altrimenti: il mostruoso non soltanto e' 'stato', ma e' stato una introduzione". In che senso? * Nel senso che Guenther Anders coglie l'essenza del mostruoso nella discrepanza (Gefaelle), che, allora come ora, esiste tra l'azione che uno compie all'interno di un apparato e l'impossibilita' per lui di percepire le conseguenze ultime delle sue azioni. Allora furono sterminati in modo industriale sei milioni di zingari ed ebrei da parte di persone che accettarono questo lavoro come qualsiasi altro lavoro adducendo a giustificazione la pura e semplice ubbidienza agli ordini e la fedelta' all'organizzazione. Per questo, nei processi "contro i crimini verso l'umanita'" gli accusati si sentivano "offesi", "sgomenti" e qualche volta, come Eichmann, "inadeguati", non perche' si trattava di esseri privi di coscienza morale, aberranti psicopatici, o persone ormai disumanizzate, come piu' volte si e' sentito ripetere, ma perche' applicavano il principio da loro inaugurato e oggi diventato mentalita' aziendale secondo cui essi avevano soltanto collaborato. Se prima di indignarci di fronte a una simile difesa riflettessimo sul fatto che gli autori di quei crimini, o per lo meno molti di loro senza i quali l'ente di gestione criminale non avrebbe potuto funzionare, non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i loro crimini molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell'esercizio del loro lavoro, e come ciascuno di noi e' invitato a comportarsi quando inizia il suo lavoro in un apparato, allora comprendiamo perche' siamo tutti "figli di Eichmann". La divisione del lavoro che vigeva in quell'apparato di sterminio e che oggi vige in ogni struttura aziendale fa si' che, all'interno di un apparato produttivo burocratico, l'operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente non ha piu' niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli e' tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l'esito ultimo a cui portera' la sua azione. In questo modo l'operatore non solo diventa irresponsabile, ma addirittura gli e' precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perche' la sua competenza e' limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti altrettanto circoscritti previsti dall'apparato, la sua azione approdi a una produzione di armi o a una fornitura alimentare. Limitando l'agire a quello che nella cultura tecnologica si chiama button pushing (premere il bottone) la tecnica sottrae all'etica il principio della responsabilita' personale che era poi il terreno su cui tutte le etiche tradizionali erano cresciute. E questo perche' chi preme il bottone lo preme all'interno di un apparato dove le azioni sono a tal punto integrate e reciprocamente condizionate che e' difficile stabilire se chi compie un gesto e' attivo o viene a sua volta azionato. In questo modo il singolo operatore e' responsabile solo della modalita' del suo lavoro, non della sua finalita', e con questa riduzione della sua competenza etica si sopprimono in lui le condizioni dell'agire per cui anche l'addetto al campo di sterminio con difficolta' potra' dire di aver "agito", ma, per quanto orrendo cio' possa apparire, potra' dire di si', che ha soltanto "lavorato". E questo vale ancora oggi sia per chi lavora nelle grandi fabbriche d'armi americane, sia nei centri studio francesi per le sperimentazioni delle armi nucleari fatte esplodere a Mururoa, sia nelle fabbriche bresciane di mine anti-uomo che per vent'anni continueranno a esplodere in Bosnia. La mostruosita' che l'apparato nazista ha inaugurato e che poi e' diventato il paradigma di ogni produzione aziendale e' la discrepanza tra la nostra capacita' di produzione che e' illimitata e la nostra capacita' di immaginazione che e' limitata per natura e comunque tale da non consentirci piu' di comprendere e al limite di considerare "nostri" gli effetti che l'inarrestabile progresso tecnico e' in grado di provocare. Quel che si e' detto per l'immaginazione vale anche per la percezione. Quanto piu' si complica l'apparato in cui siamo incorporati, quanto piu' si ingigantiscono i suoi effetti, tanto meno vediamo, e piu' ridotta si fa la nostra possibilita' di comprendere i procedimenti di cui noi siamo parti e condizioni. Questo scarto tra produzione tecnica da un lato e immaginazione e percezione umana dall'altro rende il nostro sentimento inadeguato rispetto alle nostre azioni che, al servizio della tecnica, producono qualcosa di cosi' smisurato da rendere il nostro sentimento incapace di reagire. Il troppo grande ci lascia freddi perche' il nostro meccanismo di reazione si arresta appena supera una certa grandezza e allora, da analfabeti emotivi, assistiamo oggi al mezzo milione di trucidati in Uganda, ai milioni di bambini che ogni anno muoiono di fame e malattie, come un giorno ai sei milioni di zingari ed ebrei sterminati nei lager. "E poiche' vige questa regola infernale - scrive Guenther Anders - ora il 'mostruoso' ha via libera". * Bene allora celebrare il 25 aprile, ma alla sola condizione di ricordare che se ci siamo liberati dal nazismo come evento storico ancora non ci siamo liberati da cio' che ha reso possibile il nazismo e precisamente di quell'indifferenza di fronte al mostruoso che nasce dalla discrepanza tra cio' che possiamo produrre con la tecnica e cio' di cui possiamo sentirci responsabili ogni volta che "irresponsabilmente" lavoriamo in un apparato che ci esonera dal farci carico degli scopi finali per cui l'apparato e' stato costruito. Non si e' ancora fatto sera. Nel senso che la tecnica che il Terzo Reich ha avviato su vasta scala, non ha ancora raggiunto i confini del mondo, non e' ancora tecnototalitaria. Ma questo non ci deve consolare e soprattutto non ci deve far considerare il regno (Reich) che ci sta dietro, cioo' il "terzo" come qualcosa di unico, di erratico, come qualcosa di atipico per la nostra epoca o per il nostro modo occidentale, perche' l'operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacuna, con conseguente irresponsabilita' individuale, ha preso le mosse da li'. Non riconoscerlo, come e' capitato al figlio di Eichmann nei confronti di suo padre, significa, per Guenther Anders, non rendersi conto che "l'orrore del regno che viene superera' di gran lunga quello di ieri che al confronto apparira' soltanto come un teatro sperimentale di provincia, una prova generale del totalitarismo agghindato di stupida ideologia". Guenther Anders offre al figlio di Eichmann una chance per riscattarsi dalla condizione in cui l'ha ridotto suo padre, che e' poi la condizione della vittima seimilionieuno. La chance consiste nell'invito a non ripetere che suo padre aveva "soltanto collaborato" rendendo cosi' innocenti tutti quelli che oggi non fanno altro che "collaborare" nel regime totalizzante della tecnica senza riconoscere nel volto "buono" del padre (la tecnica benefica) i tratti dell'autore "irresponsabile" di tanti crimini. Il figlio di Eichmann non risponde, e allora Guenther Anders venticinque anni dopo torna a scrivergli per dire che se non siamo responsabili della nostra origine, qualunque essa sia, siamo comunque responsabili della fedelta' alla nostra origine. E allora il comandamento, tra l'altro di origine ebraica, "onora il padre e la madre" non vale in tutte le circostanze. Talvolta l'infedelta' puo' essere una virtu' "con l'assicurazione - conclude Guenther Anders - che io non la considero colpevole perche' e' venuto al mondo come figlio di suo padre, ma la considererei colpevole soltanto qualora lei, confondendo la pigrizia mentale con la pieta', continuasse a restare figlio di suo padre". 5. RILETTURE. MARIA ANTONIETTA LA TORRE: ECOLOGIA E MORALE Maria Antonietta La Torre, Ecologia e morale, Cittadella, Assisi 1990, pp. 160, lire 15.000. Un'agile, utile monografia introduttiva. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1022 del 14 agosto 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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