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La domenica della nonviolenza. 34
- Subject: La domenica della nonviolenza. 34
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 14 Aug 2005 12:02:07 +0200
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 34 del 14 agosto 2005 In questo numero: 1. Johan Galtung: Una conferenza a Roma del giugno 2004 2. Donne e uomini di cultura musulmana: Un manifesto delle liberta' 3. Mariuccia Salvati presenta "Camillo Berneri" di Carlo De Maria 1. RIFLESSIONE. JOHAN GALTUNG: UNA CONFERENZA A ROMA DEL GIUGNO 2004 [Dal mensile "Lo straniero", n. 52, ottobre 2004 (sito: www.lostraniero.net), riprendiamo la seguente sintesi della conferenza tenuta a Roma il 24 giugno del 2004 da Johan Galtung, nella trascrizione curata da Giulio Marcon e Duccio Zola, con il titolo "Nessun impero dura per sempre. Verso un nuovo ordine mondiale?". Johan Galtung, nato in Norvegia nel 1930, fondatore e primo direttore dell'Istituto di ricerca per la pace di Oslo, docente, consulente dell'Onu, e' a livello mondiale il piu' noto studioso di peace research e una delle piu' autorevoli figure della nonviolenza. Una bibliografia completa degli scritti di Galtung e' nel sito della rete "Transcend", il network per la pace da lui diretto, cui rinviamo: www.transcend.org Giulio Marcon, presidente del Consorzio italiano di solidarieta' (Ics), e' tra gli ispiratori del progetto Sbilanciamoci. Rapporto sulla finanziaria. Opere di Giulio Marcon: (a cura di), Fare la pace, Kaos Milano 1992; Il paese nascosto. Storie di volontariato, Edizioni e/o, Roma 1993; Volontariato italiano, Lunaria, Roma 1996; Le ambiguita' degli aiuti umanitari. Indagine critica sul terzo settore, Feltrinelli, Milano 2002; Come fare politica senza entrare in un partito, Feltrinelli, Milano 2005. Duccio Zola e' un ricarcatore impegnato nel progetto Globi dell'associazione Lunaria di Roma] Giovedi' 24 giugno 2004 l'associazione Lunaria, in collaborazione con il Master in Educazione alla pace dell'Universita' degli Studi di Roma Tre, ha invitato un ospite d'eccezione, Johan Galtung, a delineare i possibili scenari geopolitici dopo la fine dell'era imperialistica americana. La conferenza ha avuto luogo presso la facolta' di Lettere di Roma Tre. Johan Galtung (Oslo, 1930) e' il piu' insigne teorico dei moderni studi sulla pace. Studioso del pensiero gandhiano della nonviolenza, ha sviluppato un approccio teorico-metodologico interdisciplinare e organico, capace di legare economia, sociologia, letteratura, storia delle civilta' e delle religioni. Molti dei suoi saggi e delle sue pubblicazioni sono raccolti nei nove volumi di "Essays on Peace Resarch and Methodology". Fondatore nel 1959 dell'International Peace Research Institute di Oslo, consigliere presso le Nazioni Unite, professore onorario in numerose universita', tra cui la Princeton University e la Freie Universitaet di Berlino, attualmente titolare della cattedra di Peace Studies presso l'Universita' delle Hawaii, Galtung ha dato vita al "Journal for Peace Research" e al "Bulletin of Peace Proposals". La sua decennale attivita' scientifica e divulgativa gli ha meritato il conferimento, nel 1987, del Right Livelihood Award (sorta di Nobel alternativo per la pace). Direttore di Transcend (www.transcend.org), un'organizzazione internazionale per la risoluzione dei conflitti che opera in tutto il mondo, la sua ultima fatica e' La pace con mezzi pacifici (Peace by peaceful means), pubblicato in Italia da Esperia. Cosmopolita, poliglotta e instancabile viaggiatore, legato all'Italia e alla cultura italiana, Galtung e' un grande conoscitore delle opere e del pensiero di Aldo Capitini e Danilo Dolci, che ha frequentato in anni lontani. * La trama della conferenza che ha tenuto per noi si dipana a partire da un nodo centrale che potrebbe, a tutta prima, sembrare paradossale e addirittura provocatorio, la fine dell'imperialismo americano. Galtung ritiene che l'attuale politica estera americana, fondata su una volonta' di dominio imperiale e su una logica unilateralistica irrispettosa del diritto internazionale, non possa durare a lungo. Proprio come e' avvenuto per l'Unione Sovietica, anche l'impero degli Stati Uniti finira' schiacciato sotto il peso di quelle contraddizioni che emergono, ad esempio, dal suo preoccupante isolamento internazionale. La conclusione di un'epoca segnata dalla potenza economica, culturale, politica e militare americana determinera' la creazione di un nuovo scenario geopolitico. In questo quadro si inseriscono le analisi, le predizioni, le proposte di Galtung per realizzare un ordine mondiale fondato sulla cooperazione internazionale e sulla pace, in cui il modello federativo possa garantire un riconoscimento reciproco, una condivisione delle forme di sovranita' e un dialogo tra diversi. Il tema della riforma strutturale e della democratizzazione delle Nazioni Unite rappresenta dunque la logica conclusione del discorso di Galtung, in cui si intrecciano dimensione descrittiva e dimensione prescrittiva, battute taglienti e analisi illuminanti. La divisione in paragrafi rispecchia l'impostazione della relazione dell'autore, scandita in diverse aree geografico-tematiche, mentre il titolo dei paragrafi rimanda a elementi concettuali centrali di ognuno di essi. Non e' stato purtroppo possibile rendere in forma scritta l'appassionante incedere della narrazione di Galtung, che ha tenuto la conferenza in un italiano colto e brioso. L'invito e' quello di ascoltarlo personalmente, appena tornera' in Italia. La sua conferenza e' stata dedicata alla memoria di Tom Benettolo. * L'Unione Sovietica, gli Stati Uniti e la teoria della sinergia delle contraddizioni sincronizzate Gli imperi vengono, gli imperi vanno. Nessun impero dura per sempre. Un impero e' un insieme articolato di conquiste militari, dominio politico, sfruttamento economico e penetrazione culturale. Per una corretta definizione di cosa si intenda per impero non ci si puo' dunque ridurre alla sola dimensione economica. La conferma indiretta di questa teoria viene da un famoso pianificatore del Pentagono [Ralph Peters, colonnello dell'esercito americano durante gli anni ottanta e novanta - ndr], il quale ha affermato che il fine dell'esercito degli Stati Uniti sia quello di rendere il mondo sicuro per favorire, oltre all'interesse commerciale, l'offensiva culturale americana, prima di aggiungere con grande lungimiranza: "Toward this end there will be a fair amount of killing" ("Per questo scopo avremo un numero non trascurabile di morti"). A tal proposito e' bene ricordare che, in seguito a settanta interventi militari a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti si sono resi colpevoli della morte di un numero di persone compreso tra dodici e sedici milioni. L'ultimo di questi interventi, risalente a poche settimane fa, porta il nome di Haiti, il penultimo quello dell'Iraq. Nel 1980 ho sviluppato una teoria sulla fine dell'impero dell'Urss che aveva come fondamento la "sinergia delle contraddizioni sincronizzate" e che prevedeva il crollo sovietico entro dieci anni, preceduto dalla caduta del muro di Berlino. Un impero fortemente militarizzato, che imponga uno strettissimo controllo sociale, e' in grado di impedire che una contraddizione generi una condizione di crisi irreversibile, ma quando le contraddizioni aumentano e si crea una correlazione tra di esse, l'unica soluzione e' rappresentata da un cambio dell'intero sistema. Nell'ex-Unione Sovietica erano presenti sei contraddizioni sincronizzate, tra l'Unione Sovietica stessa e gli Stati satellite, tra la nazione russa e le altre nazioni dell'impero, tra aree urbane e rurali, tra borghesia socialista e classe operaia socialista, tra liquidita' e mancanza cronica di beni di consumo, tra miti e realta'. Due mesi prima rispetto alla mia previsione, nel novembre del 1989, e' stato abbattuto il muro di Berlino, subito dopo si e' smembrato l'impero sovietico. Ebbene, al momento gli Stati Uniti hanno ben quindici contraddizioni, che non elenchero' in questa sede, ma che potete trovare sul sito di Transcend, l'organizzazione internazionale per la risoluzione dei conflitti di cui sono direttore. Cinque anni fa, nel 1999, ho azzardato che l'impero americano sarebbe crollato entro venticinque anni. Da quando e' stato eletto Bush, ho ridotto di cinque anni questa previsione: nelle teorie sistemiche si direbbe che siamo di fronte a un acceleratore di sistema. A differenza di Bill Clinton, persona brillante che non ha creduto nel ruolo imperiale statunitense e per questo si e' occupato di altro alla Casa Bianca, anche di attivita' non proprio virtuose, trovo che Bush sia profondamente arrogante e ignorante. Meglio ancora, credo che egli sia stupido, esattamente come uno studente di un college che non riesce ad andare oltre una misera "c" nelle sue votazioni. Naturalmente sto sperando nella sua rielezione! Dietro questa battuta si celano una reale preoccupazione e una piccola provocazione nei confronti di John Kerry, che considero piu' come una sorta di Bush-light, che come un'alternativa affidabile in grado di segnare una svolta decisiva nei confronti della politica imperialista di Washington. A questo punto proviamo a intraprendere un rapido giro del mondo per identificare i possibili scenari del cambiamento geopolitico dovuti alla scomparsa dell'attuale forma di dominio imperiale americano, iniziando proprio dagli Stati Uniti. * Golpe fascista o processo di verita' e riconciliazione negli Stati Uniti? Quando, come abbiamo detto, tra quindici o venti anni un presidente americano illuminato si rendera' conto dell'inevitabilita', per gli Stati Uniti, di ritirare le truppe di occupazione, di ridurre drasticamente il numero delle basi militari dislocate ai quattro angoli del mondo, di partecipare alle relazioni internazionali come un paese uguale a tutti gli altri e non piu' sovraordinato a essi, quando insomma si apprestera' a modificare radicalmente la politica estera americana, allora prevedo la minaccia incombente di un golpe di stampo fascista e reazionario. Lo scopo di questo colpo di stato, che ricalcherebbe quello sfiorato negli anni 1932-'33 durante la presidenza di Roosevelt, sarebbe di riaffermare il dominio imperiale della nazione americana, naturalmente sotto il mandato di Dio come popolo eletto. Cio' che dobbiamo fare fin da ora, dunque, e' insegnare al popolo americano i valori dell'uguaglianza, far capire loro che non esistono popoli scelti, che apparteniamo tutti allo stesso pianeta, che solo lavorando insieme possiamo migliorare le cose e che il luogo deputato per un'azione politica comune e condivisa si chiama Onu, a patto che il funzionamento di quest'ultimo non dipenda esclusivamente dal ruolo di un consiglio di sicurezza dotato di poteri esclusivi ed egemonizzato da un'unica superpotenza. Quando mi reco negli Stati Uniti per tenere conferenze o seminari e faccio circolare la lista dei settanta interventi militari americani cui prima accennavo, mi accorgo che c'e' un'ignoranza diffusa su questi temi. Un professore universitario americano mi ha raccontato che nel 1991 aveva chiesto in un test ai propri studenti di indicare tra quali nazioni fosse stata combattuta la guerra del Vietnam. La risposta piu' frequente era stata tra Corea del Nord e Corea del Sud. Uno studente aveva addirittura sbagliato a scrivere correttamente il nome dei due paesi. Da questo esempio si capiscono molte cose, si capisce ad esempio perche' gli americani non abbiano compreso affatto l'11 settembre. Essi non colgono il nesso strettissimo tra economia e guerre. A questo proposito vorrei far notare che uno studioso italiano molto famoso ha scritto un testo, "Impero", senza analizzare gli interventi militari americani. Naturalmente questo libro, che personalmente non ho apprezzato affatto, e' stato entusiasticamente pubblicato negli Stati Uniti dalla Harvard University Press! Sono convinto che in America ci sia bisogno di un processo pubblico di verita' e riconciliazione e che sia assolutamente realistico attendersi questo esito. E' importante ricordare che l'emancipazione dei cittadini tedeschi dall'eredita' del passato nazista e' avvenuta proprio in seguito a un percorso analogo, che essi hanno compiuto non soltanto grazie all'ammissione delle proprie colpe, al risarcimento economico nei confronti di chi e' stato vittima del regime hitleriano, alla confessione totale dei propri crimini, ma anche grazie alla pubblicazione di testi scolastici e alla diffusione di un tipo di narrativa in cui la parola Auschwitz ricorre molto spesso. In questo modo le generazioni che si sono succedute dal dopoguerra hanno avuto la possibilita' di capire e di imparare: oggi la Germania e' uno Stato democratico e per molti aspetti illuminato. Il nostro compito, oggi, e' quello di sostenere con forza le ragioni del dialogo e del confronto culturale in modo tale che anche i nostri amici americani possano svelare la verita' che finora e' rimasta loro nascosta. Tornando al nostro breve viaggio intorno al mondo, una scossa positiva negli Stati Uniti senza dubbio favorirebbe il processo di liberazione che sta avvenendo in America Latina, processo che vedo destinato alla futura costituzione degli Stati Uniti dell'America Latina: proprio come per gli Stati Uniti, ma senza la bomba atomica! Spostiamoci ora in Europa occidentale, dove la situazione e' particolarmente delicata. * L'effetto euro e il peso genetico del passato coloniale europeo Gli europei non immaginano quale minaccia rappresenti per gli Stati Uniti il percorso di cementificazione dell'Unione Europea. Essi, preoccupati piuttosto dell'impatto dell'euro sulle rispettive economie nazionali, non conoscono il pericolo dell'introduzione di una moneta continentale sempre piu' forte e accreditata per gli scambi internazionali rispetto a un dollaro svalutato e soggetto a tendenze inflazionistiche. In America c'e' il forte timore che l'euro venga utilizzato come moneta di scambio commerciale, che in euro, ad esempio, venga pagato il petrolio. Saddam Hussein, non a caso, e' stato il primo capo di stato a concretizzare le paure americane: un'analisi esauriente della guerra irachena non puo' prescindere da una chiave di lettura che tenga conto delle relazioni geopolitiche ed economiche tra blocchi continentali. Per quanto riguarda il futuro europeo, dobbiamo prestare molta attenzione al fatto che ben undici nazioni dell'Unione abbiano avuto un passato coloniale. L'Italia, ad esempio, e' stato tra i primi paesi a utilizzare il terrorismo di stato per fini imperialistici. Quando, nel 1911, sono avvenuti bombardamenti e massacri di civili nel deserto libico, l'esercito italiano ha rivendicato il buon esito dell'operazione, sostenendo di aver prodotto un effetto morale molto positivo. Forse anche per l'Italia, almeno nel caso della vicenda libica, c'e' bisogno di un processo di verita' e riconciliazione. Tenere presente il peso genetico del passato coloniale europeo, allora, e' di fondamentale importanza per impedire che si affermi in Europa una linea politica centrata sulla volonta' di istituire un contrappeso, o meglio un'alternativa imperialista nei confronti degli Stati Uniti. L'Europa, invece, deve restare sotto l'ombrello di un'Onu riformata. L'entrata a breve termine della Turchia nell'Unione, inoltre, e' un fatto molto positivo che puo' colmare il vuoto di relazioni, la distanza politica e culturale, tra l'Islam e l'Occidente, e puo' rappresentare l'occasione per un ruolo di pace e dialogo da parte di questo continente. Un altro elemento degno di considerazione e' la possibilita' di intrattenere buone relazioni con una futura e possibile Unione Russa, in cui per la Cecenia si prospetti una collocazione autonoma e federata, simile a quella del Lussemburgo rispetto all'Unione Europea. Quest'ultima dunque, se si delineasse il quadro che ho appena abbozzato, potrebbe risolvere due seri problemi, il rapporto con il mondo musulmano e quello con le regioni cristiano-ortodosse e potrebbe contare su un futuro piu' sereno e su un ruolo centrale nelle future relazioni internazionali. Quando terminera' la fase imperiale americana prevedo che si verra' a costituire una comunita' dell'Asia orientale tra paesi confuciani e buddisti, comprendente Giappone, Cina, Vietnam e Corea, forte di una popolazione di oltre un miliardo e mezzo di persone e di una economia dai tassi di crescita notevoli, con i cui futuri stati membri l'Unione Europea ha gia' intessuto buoni rapporti. Andiamo a verificare ora la situazione mediorientale e quella africana. * Un'autostrada, una ferrovia: un modello federativo per Africa e Medio Oriente L'idea di Abramo di indicare una terra promessa per un popolo eletto e' interessante, ma, come dicono gli arabi, nessuno ha firmato questo patto, ne' esiste una registrazione o un rapporto stenografico in merito! Dico questo per sottolineare la presenza di un asse religioso di stampo fondamentalista tra giudaismo e cristianesimo, un'alleanza pericolosa e molto stretta, la cui voce, sostenuta negli Stati Uniti da una lobby di pressione piu' forte ancora della National Rifle Association, gode di grande ascolto e considerazione a Washington. Personalmente credo nella legittimita' dell'esistenza di uno stato israeliano e di uno palestinese, ma non ritengo che la soluzione dei "due popoli, due stati" sia la migliore. Tra i due paesi c'e' una evidente sproporzione di forze a scapito della Palestina, attestata peraltro dalle risoluzioni Onu n. 242 e 338, che priverebbe di qualsiasi fondamento questo progetto. Dovremmo piuttosto pensare a un modello federativo, a creare cioe' una comunita' di paesi mediorientali, di cui facciano parte uno stato palestinese riconosciuto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Egitto, e in cui proprio le nazioni arabe, in particolare quella egiziana, possano rappresentare un legittimo contrappeso rispetto a Israele. Dopo mille anni senza traccia alcuna di una sinergia tra le culture mediorientali, questa soluzione permetterebbe, sul modello della Comunita' europea del 1958, l'affermazione di un'economia cooperativa e, nel lungo periodo, della libera circolazione delle persone, oltre che degli investimenti, nell'intera regione. Un primo segnale per dar corpo al progetto federativo potrebbe essere quello di realizzare un'autostrada che attraversi tutta la zona mediorientale, che parta da Damasco e arrivi al Cairo, passando per Tiberiade, Gerusalemme, Tel Aviv, Gerico, Amman e Akaba. Dal punto di vista politico il tracciato da seguire non puo' pero' essere quello, tradizionale, delle relazioni diplomatiche tra i governi della regione interessata. Oggi quei governi sono screditati, non godono di rappresentativita' e non possono essere considerati interlocutori affidabili. Ho tenuto moltissimi seminari, conferenze, incontri in Medio Oriente e ho accumulato una lunga esperienza da cui ho tratto un insegnamento e un'indicazione preziosi. Occorre agire dal basso, coinvolgendo in modo ampio e costante quante piu' persone e gruppi possibili della societa' civile mediorientale per prospettare insieme gli scenari di una regione pacificata. Invece di rivolgere lo sguardo al passato, di risvegliare odi e rivalita' mai sopiti attribuendo colpe e responsabilita', e' necessario elaborare idee costruttive tenendo presente che l'unico collante possibile e' la volonta' di costruire un futuro comune di pace e cooperazione. Quando ho fatto questo, quando insieme si e' discusso su quale futuro si immagina per il Medio Oriente, ho visto occhi lucidi e carichi di speranza. La pace sta nel futuro, non in un dibattito senza uscita sulle colpe del passato. Questo lo sanno soprattutto le giovani generazioni mediorientali, su cui ripongo grandi aspettative. Il modello federativo che ho proposto per il Medio Oriente vale anche per l'Africa centrale. Qui, dove e' molto forte il peso dell'imperialismo europeo, vedo infatti la possibilita' della costituzione di una Confederazione Bioceanica, che comprenda Tanzania, Uganda, Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo e Congo Brazzaville. Parlo di una confederazione con confini aperti, dall'Oceano Indiano all'Oceano Atlantico, attraversata da una ferrovia, a patto che non venga costruita dagli europei: a essi piuttosto andrebbe cambiata la bussola dal momento che non conoscono la direttrice est-ovest, ma solo quella nord-sud! Per quanto riguarda, inoltre, l'intero continente, dobbiamo sostenere con forza il processo di unita' africana, fortemente osteggiato da Europa e Stati Uniti. Noi occidentali non abbiamo alcun diritto di mantenere le divisioni, ma solo il dovere delle scuse, del risarcimento e della verita' nei confronti delle popolazioni africane che abbiamo colonizzato e sfruttato. * La Cina, l'India, la Russia, il documento JCS570/2 e la terza guerra mondiale Spostiamoci ora nella zona piu' delicata del mondo, quella che comprende Cina, India e Russia. Proprio qui gli Stati Uniti stanno preparando la terza guerra mondiale. Gli strateghi americani della Casa Bianca e del Pentagono seguono una dottrina imperiale che si puo' sintetizzare in una vecchia formula, risalente al periodo coloniale inglese dei primissimi anni del Novecento: chi domina l'Europa orientale, domina l'Asia centrale; chi domina l'Asia centrale, domina l'isola mondiale (cioe' la regione che comprende Europa, Asia e Africa); chi domina l'isola mondiale, domina il mondo. Questa tesi, evidentemente folle, gode di grande considerazione a Washington. Essa viene riproposta nientemeno che nel piu' importante e illuminante documento che attesta la linea geopolitica imperialista americana, il documento JCS570/2. Provate a richiederlo presso l'ambasciata o il ministero degli esteri americano, vedrete che faccia faranno! Questo documento rappresenta la risposta all'interrogativo di Roosevelt riguardo a quale linea di politica estera avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. L'esigenza era quella di rendere il mondo sicuro per i commerci americani. A questo scopo furono individuate tre aree geografiche su cui imporre un rigido controllo, l'Europa occidentale, l'Asia orientale e l'America Latina del nord. Il progetto fu concretizzato e formalizzato attraverso la sigla di tre distinti trattati militari, rispettivamente la Nato, l'Ampo e il Tiap. Lo stesso Kerry si e' pronunciato a favore del mantenimento di questo sistema di alleanze in modo tale da poter continuare a dominare il mondo con mezzi multilaterali, cioe' con l'appoggio degli alleati. Da cio' si capisce il motivo per cui non mi aspetto molto da lui. Tornando alla regione di Cina, India e Russia appare subito evidente che essa presenta il 40% dell'intera popolazione mondiale e che si situa precisamente nel bel mezzo dell'espansione della Nato, da una parte, e dell'Ampo, dall'altra. Se a questo poi aggiungiamo che gli Stati Uniti stanno prendendo il controllo della regione grazie alla costruzione di numerosi avamposti militari, ad esempio nelle repubbliche islamiche dell'ex-Unione Sovietica, e che i tre paesi in questione prevedibilmente raggiungeranno un accordo per il controllo comune della zona, avremo tutti gli elementi per comprendere la delicatezza della situazione. Di tutto questo, naturalmente, nessuno sa nulla. I giornalisti invece di promuovere un dibattito, di informare l'opinione pubblica su temi cosi' importanti, preferiscono restare a dormire nel proprio letto, in attesa di essere svegliati dall'esplosione di una bomba e di poter dare cosi' notizia dell'inizio di una nuova guerra. Rimanendo ancora per un momento nell'area asiatica, vorrei accennare al fatto che l'idea di fare dell'Afghanistan e dell'Iraq due stati unitari e' un'illusione occidentale. Sul territorio iracheno convivono quattro nazionalita', curda, turcomanna, sunnita e sciita, su quello afgano ben undici. Un modello federale e' l'unica alternativa praticabile per questi due paesi. * Una ristrutturazione, un ampliamento, un trasloco: tre riforme per le Nazioni Unite Da quanto detto finora apparira' chiaro che per prevenire il delinearsi di scenari drammatici legati alla volonta' di dominio imperialista, gli Stati Uniti, molto semplicemente, dovrebbero lasciare la gestione del mondo al mondo stesso. Anche se necessita di una profonda riforma, lo strumento per l'auto-governo del mondo si chiama Onu. Penso che una complessiva riarticolazione possa avvenire nell'arco di venti anni e debba fondarsi su tre punti programmatici fondamentali. Il primo di questi riguarda un ripensamento del ruolo e delle funzioni del Consiglio di sicurezza. Innanzitutto e' necessario abolire il diritto di veto, un sistema feudale che non ha nulla da spartire con il mondo moderno e grazie a cui gli Stati Uniti, che lo hanno utilizzato 76 volte, hanno potuto paralizzare il funzionamento dell'intera Organizzazione. Si deve inoltre espandere il numero dei paesi membri del Consiglio di sicurezza a 54, cioe' il numero degli stati presenti nel Consiglio economico e sociale, l'organo che dirige con buoni risultati le agenzie speciali. Infine occorre abolire l'articolo 12/A della carta delle Nazioni Unite, che afferma che sui temi di competenza del Consiglio di sicurezza, l'Assemblea generale non ha il diritto di promuovere risoluzioni. Piu' in generale si puo' affermare che la presenza di cinque membri permanenti, quattro cristiani e uno confuciano, con diritto di veto all'interno del Consiglio di sicurezza, sia un'assurdita' clamorosa agli occhi dei 56 stati musulmani. Noi occidentali potremmo assegnare legittimita' e promettere obbedienza a un Consiglio di sicurezza egemonizzato dalla presenza del veto di quattro membri musulmani e uno confuciano? Non credo. Inoltre non vedo come sia possibile che i paesi musulmani rispettino la volonta' di un Consiglio che si e' reso colpevole della morte di oltre cinquecentomila persone, soprattutto bambini, in seguito all'imposizione delle sanzioni economiche in Iraq. Questo naturalmente non e' un argomento a favore di Saddam Hussein, ma solo la constatazione di un fatto drammatico. Per uscire pacificamente dallo stallo e per garantire la piena sovranita' irachena credo che si debba affiancare all'Onu, necessario ma non sufficiente, la Conferenza islamica, che conta 56 stati membri e di cui si sente parlare ben poco. Il secondo punto di riforma riguarda la democratizzazione delle Nazioni Unite. E' necessario creare un Parlamento che preveda un rappresentante per ogni milione di cittadini. In questo modo avremmo un'Assemblea con 1.250 cinesi, 1.000 indiani, 275 americani, 190 russi, 9 svedesi, forse un po' troppi!, 4 norvegesi e via dicendo. La presenza degli occidentali in un Parlamento siffatto si ridurrebbe al 22%: un buon test per verificare la disposizione ai valori democratici che diciamo di sostenere. La precondizione che sta dietro a questa soluzione prevede che tutti i rappresentanti non siano scelti e designati, bensi' vengano eletti in elezioni democratiche, regolari, libere e segrete. Questo elemento fondante consentirebbe, ad esempio, l'avanzamento del processo di democratizzazione in Cina. Se l'intervento militare in Iraq fosse stato discusso in questo Parlamento mondiale, e non al Congresso americano, certamente non sarebbe stato avallato. Il terzo e ultimo punto di riforma consiste nel trasferimento dell'Onu. Credo che la sede ideale sia Hong Kong, dove si parlano le due lingue piu' importanti, inglese e cinese, e dove i servizi segreti cinesi sono sicuramente meno dannosi rispetto a quelli americani e inglesi. A me pare che il progetto di riforma che ho appena abbozzato sia pienamente realistico, non e' invece realistica la continuazione della politica imperialista americana. * Mr President, the choice is yours! Ho da poco scritto il testo per un'inserzione su un'intera pagina del "Washington Post". Rivolgendomi direttamente al presidente Bush ho espresso un'opinione e un giudizio diffusi sugli Stati Uniti e sulla vicenda irachena. Noi tutti amiamo l'immensa forza creativa e la generosita' americana e per questo ci aspettiamo una politica forte, generosa e creativa per l'Iraq. Solo un paese debole non e' in grado di cambiare una linea falsa e fallimentare. Desideriamo quindi scuse pubbliche e ufficiali nei confronti del popolo iracheno per aver intrapreso una guerra ingiusta e illegale e risarcimenti economici per le vittime del conflitto, il cui costo sia in parte coperto dagli stati che hanno appoggiato l'intervento. "Mr President, the choice is yours", Signor Presidente, a lei la scelta! Se Bush, o chi verra' dopo di lui, avra' il coraggio di cambiare radicalmente la rotta della politica estera americana, guadagnera' rapidamente la stima per gli Stati Uniti e il terrorismo rapidamente cessera', altrimenti con la perdita definitiva della prima avremo la crescita esponenziale del secondo. Se, da una parte, devo ammettere di non essere ottimista sul tanto auspicato cambio di registro, dall'altra e' doveroso sottolineare che la carta del cambiamento non sta esclusivamente nelle mani dei vertici dell'amministrazione politica e militare di Washington, ma anche in quelle dell'intero popolo americano. Su di esso ripongo le mie speranze. Gli americani hanno l'occasione di liberarsi definitivamente dell'immagine ambigua che gli Stati Uniti hanno agli occhi del mondo, di rendere il loro paese esattamente uguale agli altri 191, di creare e governare insieme a essi un mondo migliore. 2. FRANCIA. DONNE E UOMINI DI CULTURA MUSULMANA: UN MANIFESTO DELLE LIBERTA' [Dal mensile "Lo straniero", n. 49, luglio 2004 (sito: www.lostraniero.net), riprendiamo il seguente testo "Dalla Francia, un manifesto delle liberta', di donne e uomini di cultura musulmana, credenti, agnostici o atei...", ripreso dal sito www.manifeste.org] Donne e uomini di cultura musulmana - credenti, agnostici o atei -, noi denunciamo con la massima forza le dichiarazioni e gli atti di misoginia, di omofobia e di antisemitismo di cui siamo testimoni da un certo tempo in Francia, e che si richiamano all'islam. Vediamo manifestarsi in essi tre aspetti caratteristici dell'islam politico che infieriscono da molto tempo in molti nostri paesi di origine e contro i quali noi abbiamo lottato e siamo intenzionati a continuare a lottare. * L'eguaglianza dei sessi, condizione preliminare di ogni democrazia Sostenitori convinti dell'eguaglianza dei diritti tra i sessi, noi combattiamo l'oppressione di cui sono vittime le donne sottomesse a codici che negano molti diritti della persona, come avviene in Algeria (e su questo punto le recenti conquiste in Marocco gettano una luce molto piu' cruda sui ritardi algerini), e a volte perfino in Francia per il tramite di accordi bilaterali. Noi siamo convinti che non ci possa essere una democrazia senza questa eguaglianza nei diritti, ed e' in questa misura che sosteniamo senza ambiguita' la campagna chiamata "20 anni, arakat!" (20 anni, basta!) promossa dalle associazioni delle donne algerine che proseguira' per tutto il 2004 e che chiede la definitiva soppressione del codice di famiglia contro il quale esse si battono da vent'anni. E' anche per questo motivo che noi ci opponiamo all'uso del velo islamico, quale che sia la posizione di ciascuno sull'opportunita' di una legge che lo ha proibito nelle scuole francesi. Abbiamo visto in diversi paesi le violenze e perfino la morte inflitte ad amiche o conoscenti che rifiutavano di portarlo, e diciamo a noi stessi che, se e' vero che la diffusione del velo nella Francia di oggi ha trovato un terreno fertile nelle discriminazioni di cui sono vittime i ragazzi nati nell'emigrazione, questa non ne e' assolutamente una causa, e di certo non lo e' il richiamo alla memoria maghrebina: dietro la pretesa "scelta" rivendicata da un certo numero di ragazze velate c'e' la volonta' di promuovere una societa' politica islamista basata su un'ideologia militante, attiva sul territorio e che propone valori che noi rifiutiamo. * Basta con l'omofobia Per gli islamisti - come per tutti i maschilisti e gli integralisti - "essere un uomo" vuol dire esercitare potere sulle donne, compreso il potere sessuale. Ai loro occhi, ogni uomo che sia per l'eguaglianza tra i sessi e' potenzialmente un sotto-uomo, un "pede'". Questo modo di pensare e' ricorrente dopo l'ascesa dell'islamismo politico e la sua ferocia e' comparabile solo alla sua ipocrisia. Uno degli organizzatori della manifestazione del 7 gennaio 2004 a favore del velo ha dichiarato che "e' scandaloso che persone che si sentono scioccate dal foulard non si sentano invece scioccate dall'omosessualita'": per lui una societa' virtuosa e' certamente quella che chiude le donne dietro i veli e gli omosessuali dietro le sbarre, come abbiamo visto accadere in Egitto. C'e' da rabbrividire al pensiero di cosa queste teorie comporterebbero, qualora trionfassero, per "gli impudichi", cioe' per le donne non velate, gli omosessuali e i miscredenti. Noi consideriamo al contrario che il riconoscimento dell'esistenza dell'omosessualita' e la liberta' per gli omosessuali di condurre la propria vita secondo le proprie idee siano un progresso innegabile: a partire dal momento in cui un individuo non contravviene alle leggi che proteggono i minori, le scelte sessuali di ciascuno riguardano lui soltanto e in nessun caso lo Stato. * Contro l'antisemitismo Infine noi condanniamo con la piu' grande fermezza le affermazioni antisemite veicolate negli ultimi tempi da tanti discorsi fatti in nome dell'islam. Cosi' come le donne "impudiche" e gli omosessuali, anche gli ebrei sarebbero da distruggere: "Loro hanno tutto e noi niente", si e' sentito gridare nella manifestazione del 7 gennaio. In questo noi vediamo all'opera la strumentalizzazione del conflitto israelo-palestinese da parte dei movimenti integralisti in sostegno dell'antisemitismo piu' inquietante. Nonostante la nostra opposizione alla politica attualmente condotta dal governo israeliano noi rifiutiamo di nutrire una visione arcaica e fantasmatica dell'"Ebreo" tramite l'utilizzazione di un conflitto storico e reale tra due popoli; noi riconosciamo il diritto all'esistenza di Israele come e' stato fatto dal Congresso dell'Olp nel 1988 e dal vertice della Lega araba riunito Beirut nel 2002; ed e' in questo rinnovato riconoscimento che si inscrive il nostro impegno a fianco del popolo palestinese nel suo diritto di fondare uno Stato e di far evacuare i Territori occupati. * Un laicismo vivo Siamo ben coscienti che l'islam non e' stato in Francia riconosciuto a dovere e che manca di luoghi di preghiera, centri di assistenza, cimiteri. Siamo coscienti che dei giovani francesi figli dell'immigrazione soffrono di forti ritardi nella loro promozione sociale e di una discriminazione constatata da tutti gli osservatori, e che l'idea di "laicismo" alla francese ha perso per loro molto del suo valore. Di fronte a questa perdita di valore, si prospettano loro due strade: quella di ritrovare la forza di un laicismo vivo, e cioe' dell'azione politica quotidiana per i propri diritti e la rivendicazione delle conquiste per i quali gia' si sono battuti i loro padri e le loro madri, i quali prima che membri dell'islam appartenevano a determinate classi sociali, culture, popoli, nazioni; o quella di riconoscersi in una umma fittizia e informatizzata che non ha piu' niente a che vedere con le realta' che li circonda e che si ammanta di orpelli repubblicani o terzomondisti per meglio stabilire una societa' inegualitaria, repressiva, intollerante. Questa seconda strada non puo' essere certamente la nostra. 3. LIBRI MARIUCCIA SALVATI PRESENTA "CAMILLO BERNERI" DI CARLO DE MARIA [Dal mensile "Lo straniero" n. 57, marzo 2005 (sito: www.lostraniero.net), riprendiamo la seguente recensione di Mariuccia Salvati. Mariuccia Salvati, storica, docente di storia contemporanea all'Universita' di Bologna, e' condirettrice scientifica della Fondazione Basso, ha fatto parte della direzione della "Rivista di storia contemporanea", e' stata membro del comitato scientifico di "Storia, Amministrazione, Costituzione", e' nel comitato internazionale di "Geneses. Sciences sociales et histoire", e nella direzione di "Parolechiave" (Roma). Tra le opere di Mariuccia Salvati: Stato e industria nella ricostruzione (1944-1949), Feltrinelli, Milano 1982; Da Berlino a New York. Crisi della classe media e futuro della democrazia nelle scienze sociali degli anni Trenta, Bologna, 1989, B. Mondadori, Milano 2000 (nuova edizione); Il regime e gli impiegati, Laterza, Roma-Bari 1992; L'inutile salotto. L'abitazione piccolo-borghese nell'Italia fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1993; Cittadini e governanti. La leadership nella storia dell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997; Il Novecento. Interpretazioni e bilanci, Laterza, Roma-Bari 2001, 2004; (con Chiara Giorgi), Introduzione e cura di Lelio Basso, Scritti scelti, Carocci, Roma 2003. Carlo De Maria, storico, e' autore del volume: Camillo Berneri. Tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano 2004. Camillo Berneri (1897-1937), pensatore e militante anarchico, antifascista, esule, accorso volontario in Spagna in difesa della repubblica, fu assassinato dagli stalinisti; dal sito del Comune di Reggio Emilia riprendiamo la seguente scheda: "Nato a Lodi nel 1897, Camilo Berneri trascorre l'infanzia seguendo la madre maestra elementare, nei suoi incarichi a Palermo, Milano, Cesena, Forli' e Reggio Emilia. Qui entra nel partito socialista, dove inizia la sua attivita' politica. Alla fine del 1915 passa tra le fila anarchiche. Nel 1916 si trasferisce con la madre ad Arezzo. L'anno successivo sposa Giovanna Caleffi di Gualtieri e viene richiamato alle armi. Congedato nel 1919, comincia a collaborare assiduamente alla stampa anarchica partecipando poi alla costituzione dell'Unione anarchica italiana. Nel 1922 si laurea in filosofia a Firenze con Gaetano Salvemini, entra in contatto con Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi, e' vicino a "Italia libera" e collabora con il "Non mollare!". I suoi studi spaziano da argomenti di carattere filosofico ad altri di contenuto sociale e politico. Nel 1926 abbandona l'Italia, per recarsi a Parigi dove inizia la sua collaborazione con la stampa libertaria e dove verra' arrestato assieme ad altri fuoriusciti italiani, tra cui Carlo Rosselli. Scarcerato nel maggio del 1930, inizia a peregrinare tra Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Germania. Allo scoppio della guerra civile in Spagna, e' tra gli organizzatori del primo contingente di volontari italiani. Nel corso degli scontri del maggio 1937 tra comunisti e anarchici e poumisti, sara' assassinato il 5 maggio da una pattuglia di polizia comandata da agenti staliniani". Opere su Camillo Berneri: per un avvio cfr. Carlo De Maria, Camillo Berneri. Tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano 2004] La biografia, per lo storico, e' un'arte difficile, e di non forti tradizioni nel nostro paese. Se proviamo a chiederci il perche' e a tentare di rispondere guardando ad altri contesti in cui e' stata meglio praticata - anglosassoni soprattutto - scopriamo che una delle possibili spiegazioni risiede nel forte individualismo che caratterizza il "comune sentire" di quelle societa' e nella voluta esemplarita' delle vite oggetto di studio. Una societa', cioe', quanto piu' e' articolata e autoriflessiva, tanto meno accetta di vedersi rappresentata in contrapposizioni sistemiche e deduzioni astratte: in tal caso le elites diventano una somma di uomini "eminenti", la vita politica appare l'opera di leaders attentamente e ripetutamente biografati (con relative storie di famiglie, scuole, amici, club), gli intellettuali riflettono e scrivono grazie agli intensi scambi che si producono in precisi circoli, reti, salotti; persino le masse, nel Novecento, sembrano irriducibili a un uniformante sguardo esterno (1). Dovremmo concludere, pur consapevoli del rischio di ogni generalizzazione, che la ricchezza di biografie prodotte da una societa' e' da interpretarsi come un segnale di riflessivita' e democrazia? E come dovremmo intendere, allora, il caso italiano? * A questo genere di considerazioni - storiografiche, metodologiche, sociogenerazionali - induce la lettura del saggio di Carlo De Maria su Camillo Berneri (Franco Angeli Editore) in cui si combinano rigore filologico, approfondimento problematico e simpatia umana. Uso volutamente il termine saggio, perche' il suo giovane autore, Carlo De Maria, si dimostra in grado di offrire, pur affrontando un argomento denso di autorevoli antecedenti (2), una interpretazione nuova e originale. La novita' e' data dalla scelta dell'approccio biografico: nel racconto sullo snodarsi degli anni di questa breve vita (40 anni), non solo apprendiamo nuovi particolari e nuove informazioni (si tratta del primo lavoro completo e sistematico compiuto sul fondo archivistico della famiglia, integrato da altri archivi privati e dall'Acs), ma vediamo come la personalita' stessa di Berneri si venga costruendo, in Italia, in luoghi significativi (Reggio Emilia e Firenze) e si vada poi dispiegando nell'impegno militante, prevalentemente all'estero, in esilio: Parigi, Bruxelles (ma anche Ginevra, l'Olanda, Berlino), di nuovo Parigi e infine Barcellona. Basterebbe l'elenco delle citta' in cui ha vissuto per raccontare la vita di Berneri, ma nel racconto, come nella vita, dell'anarchico, le citta' sono soprattutto occasioni di incontri e di stimoli: e' con riferimento a questi luoghi e agli uomini che vi ha conosciuto (i piu' influenti sono Salvemini a Firenze e Rosselli a Parigi) che De Maria delinea i tratti salienti della figura di Berneri come "militante" (una parola che qui si carica di nuovi significati), quei tratti che rendono problematica ogni definizione univoca del suo pensiero politico. Reggio Emilia, capitale del socialismo prampoliniano, da cui Berneri si distacca con la nota "Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico", nel 1915 (Berneri era nato nel 1897); Firenze, "l'Atene d'Italia" (3), la capitale della cultura critica anti-giolittiana, dove egli trova finalmente un maestro in Gaetano Salvemini e gli amici di una vita tra i suoi allievi (Rosselli); Parigi, il lavoro, lo studio e la riflessione, ma anche l'attivita' militante per intrecciare alleanze tra i gruppi politici in esilio, sullo sfondo di tristi e tragiche storie di provocazioni e di infiltrazioni da parte della polizia fascista; Bruxelles, Ginevra, Berlino, tutti luoghi in cui Berneri si aggira inseguito da mandati di polizia, intimazioni di arresto e di espulsione dal territorio francese, ma anche dove proseguono i contatti con gli esuli: socialisti (Jacometti), repubblicani (Schiavetti), popolari (F. L. Ferrari) e, soprattutto, Giustizia e Liberta' (4). * Mai come in questo caso, le citta sono simboli, piu' che spazi fisici, luoghi "non innocenti" - avrebbero detto i situazionisti - perche' ricchi di storie e di memorie di tanti individui che hanno lasciato un segno, come qui si racconta. Sullo sfondo, due citta' in cui l'anarchico non visse mai, ma da cui dipesero la sua vita... e la sua morte. Roma e Mosca: due citta' simbolo della "sconfitta dell'antifascismo" (come scrive con disincanto Berneri a meta' degli anni trenta, osservando quanti studiosi francesi antifascisti fossero accorsi al convegno di studi corporativi in Roma del 1935, e quanti altri visitassero la Mosca di Stalin). Roma e' la sede della macchina spionistica che oggi consente allo storico De Maria di ricostruire una diversa vicenda biografica, quella narrata da uno sguardo esterno e nemico; ma e' soprattutto la capitale del fascismo, nei confronti del quale l'odio di Berneri, nel corso del tempo, cresce e si dilata, mentre progressivamente calano le speranze, fino a comprendere tutte le dittature. Eppure il fascismo non perde i suoi connotati specificatamente italiani: per lui, il fascismo romano e' l'esito della storia di uno Stato accentrato, ma anche di un momento politico e psicologico particolare, il 1919-'20, su cui si sofferma a piu' riprese stigmatizzando con lucida consapevolezza il ricorso a una diseducativa demagogia da parte dei capi dell'opposizione (ricordando un discorso di Bombacci, Berneri scrive nel 1936 su "L'Adunata dei refrattari": "Oggi e' costume ridere della retorica fascista. Ma siamo delle scimmie che ridono davanti a uno specchio"). Ostile al mito astratto delle masse operaie, con annessa retorica (cui dedica un apposito pamphlet, "L'operaiolatria"), egli non crede nemmeno al loro innato spirito rivoluzionario e tanto meno alla leadership di Mosca, la citta' del bolscevismo (cui Berneri contrappone il "soviettismo"), cioe' di una nuova forma di ipertrofico Stato-governo (in una lettera a L. Battistelli del 7 dicembre 1929, Berneri manifesta il suo dissenso di fronte al bolscevismo russo, per eccesso di comunismo e non per difetto, contrariamente a quasi tutti i suoi compagni). * Le parole-chiave del suo pensiero, ricostruisce De Maria attraverso testi editi e inediti, sono, infatti: liberta' (5), federalismo, comunalismo, in sintonia con la tradizione anarchica, cui Berneri, di suo, aggiunge un forte pragmatismo, "problemismo" e individualismo (di marca cattaneana e salveminiana), una visione moralmente elevata, quasi ascetica, dei compiti delle elites (cio' che lo avvicina a Rosselli, Trentin, e soprattutto a Gobetti), una interpretazione della auspicata rivolta anarchica come rivoluzione italiana, nazionale, radicata: Cattaneo e Salvemini, piu' Pisacane, usava elencare, per sintetizzare il proprio pensiero, aggiungendo anche il soviettismo (alla Luxemburg). Sullo sfondo del quadro cosi' delineato (un quadro difficile da comporre, perche' Berneri fu soprattutto autore di articoli, oppresso, come si lamentava, dal "facchinaggio giornalistico"), De Maria ricostruisce in maniera attenta e delicata nuove affinita' con altri intellettuali (un termine cui attribuisce, sulla scorta di Walzer e Bobbio, un forte significato etico) che, al pari di Berneri, si interrogarono, in quegli anni "di ferro e di fuoco", sulle sorti dell'Europa ("I lumi stanno per spegnersi", e' la bella immagine che Berneri ci regala, nel manoscritto "Il nazional-anarchismo", nel 1935) e si nutrirono delle stesse angosce, anche se in dialogo con mondi diversi: Ortega y Gasset, De Man, Merleau-Ponty, Chiaromonte e Simone Weil, soprattutto (nella ricostruzione biografica di Domenico Canciani). * Eccoci infine tornati al tema della biografia: cioe', al sempre piu' frequente ricorrere a questa formula narrativa nella storia del Novecento e, ancor piu', nella storia degli anni fra le due guerre, in particolare da parte di una giovane generazione di studiosi. Non e' una novita', si osservera', nella storia del pensiero anarchico, che, rifiutando per definizione ogni sistematicita', da sempre si nutre della ricostruzione di singole grandi individualita' (6). Cio' che tuttavia appare originale nel nostro panorama storiografico e' l'uso della biografia, non per ricostruire un movimento collettivo (in questo caso l'anarchismo), ma lo spirito di una comunita' (in questo caso gli antifascisti), di cui quella biografia ci trasmette tracce e esempi. Le figure "eretiche" (la definizione e' di Rosselli) come Camillo Berneri (e altre cui via via vengono dedicate sempre nuove biografie, tra gli esuli repubblicani (7), socialisti e anche comunisti) ci aiutano a scoprire le tracce di un pensiero, libero ma responsabile, critico ma costruttivo, di cui si era persa la memoria: un pensiero che si e' formato grazie a scambi e influenze reciproche tra singoli individui, in grado di superare le barriere delle organizzazioni di appartenenza in nome dell'obiettivo (la lotta al fascismo). Ogni biografia di persone capaci di auto-riflessione conserva tracce importanti della storia di una societa'. Per parafrasare una illuminante frase di Guido Guglielmi sul "senso" dei testi, potremmo concludere: "[le vite] appartengono al tempo che le ha prodotte e al tempo che le legge". Che sia davvero giunta l'ora delle biografie nella storia contemporanea? * Note 1. Sto pensando a classici titoli come Eminenti Vittoriani di Lytton Strachey, ai "casi" letterari rappresentati da monumentali biografie dedicate a scrittori, scienziati, intellettuali (ogni componente del circolo di Bloomsbury ha una propria biografia), politici (non solo Churchill. Si pensi, invece, all'assenza di biografie di nostri grandi statisti, le cui "vite" sono in genere assorbite dentro la storia del loro movimento o partito di militanza), per concludere con una recente sintesi della storia del Novecento, intitolata per scelta (avendo privilegiato la storia delle masse): A History in Fragments. Europe in the Twentieth Century (di Richard Vinen, Abacus, London 2000). 2. Soprattutto ad opera di P. Adamo, G. Berti e R. C. Masini. 3. Cfr. Laura Cerasi, Gli ateniesi d'Italia. Associazioni di cultura a Firenze nel primo Novecento, Franco Angeli, Milano 2000. 4. Sulla simpatia fra i due movimenti ha richiamato l'attenzione S. Fedele, "Carlo Rosselli e gli anarchici italiani", in Id., Il retaggio dell'esilio. Saggio sul fuoruscitismo antifascista, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. A proposito dell'esilio, De Maria ricorda che in un capitolo del suo Esilio, Berneri si proponeva di fare "l'elogio dell'Esilio". 5. Interessanti le riflessioni di De Maria sul senso della parola liberta' (e la sua variante libertarismo, oggi nuovamente attuale in una versione di libero mercato), ma si vedano anche gli interventi, tra gli altri di P. Ferraris, P. Adamo, N. Urbinati, in La sinistra e le due liberta', "Quaderni dellíaltra tradizione - 2", Una citta', Forli' 2004. 6. L'esempio piu' recente e' Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale, 1872-1932, l'ultima grande opera di Giampietro Berti (Franco Angeli, Milano 2003). 7. Cfr. E. Signori, M. Tesoro, Il verde e il rosso. Fernando Schiavetti e gli antifascisti nell'esilio fra repubblicanesimo e socialismo, Le Monnier, Firenze 1987. 8. G. Guglielmi, La parola del testo. Letteratura come storia, Il Mulino, Bologna 1993, p. 38, cit. in De Maria, p. 197. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 34 del 14 agosto 2005
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