La nonviolenza e' in cammino. 1019



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1019 dell'11 agosto 2005

Sommario di questo numero:
1. Bertrand Russell: Un decalogo liberale
2. Una ragionevole proposta
3. Ida Dominijanni intervista Elena Paciotti
4. Marina Graziosi: Infirmitas sexus. La donna nell'immaginario penalistico
(parte quarta e conclusiva)
5. Letture: Maurizio Chierici (a cura di), Favelas e grattacieli
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. MAESTRI. BERTRAND RUSSELL: UN DECALOGO LIBERALE
[Da Bertrand Russell, L'autobiografia, Longanesi, Milano 1970, vol. III, pp.
96-97, riprendiamo il seguente testo, originariamente pubblicato sul "The
New York Times Magazine" del 16 dicembre 1951. Bertrand Russell e' una
figura pressoché leggendaria, nato nel 1872 da Lord e Lady Amberley e
deceduto quasi un secolo dopo nel 1970 dopo una vita straordinariamente
intensa, civilmente impegnata e intellettualmente feconda. Filosofo,
scrittore, ha subito la prigione per il suo impegno pacifista ed ha avuto il
Premio Nobel per la letteratura; ha promosso iniziative contro la guerra e
per il disarmo, per i diritti civili e il progresso sociale; tra tante altre
iniziative: quelle per l'obiezione di coscienza, la dichiarazione
Einstein-Russell, la lettera "ai potenti della terra", la fondazione del
movimento Pugwash, la campagna per il disarmo nucleare, la costituzione del
Tribunale internazionale per i crimini di guerra nel Vietnam. Opere di
Bertrand Russell: la bibliografia di Russell e' sconfinata, per i temi che
maggiormente ci interessano sono particolarmente utili la monumentale
Autobiografia, edita da Longanesi, ed i numerosissimi saggi di argomento
pacifista, politico ed etico. Una utile antologia essenziale con specifici
riferimenti bibliografici e' nel volume di Mario Alcaro, Bertrand Russell,
che citiamo di seguito. Opere su Bertrand Russell: specifico su Russell
pacifista e impegnato per i diritti umani e' il libro di Mario Alcaro,
Bertrand Russell, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi)
1990; piu' centrati sugli aspetti filosofici sono i libri di Alfred J. Ayer,
Russell, Mondadori, Milano 1992; Michele Di Francesco, Introduzione a
Russell, Laterza, Roma-Bari 1990; Alberto Granese, Che cosa ha veramente
detto Russell, Ubaldini, Roma 1971]

Forse l'essenza dell'ideale liberale si potrebbe riassumere in un nuovo
decalogo, non in sostituzione del vecchio ma quasi a supplemento di esso. I
dieci comandamenti che, come maestro, mi piacerebbe promulgare, potrebbero
essere enunciati come segue:
1. Non sentirti mai pienamente certo di nulla.
2. Non pensare mai che ti convenga portare avanti qualcosa nascondendo i
fatti poiche' essi si riveleranno da se'.
3. Non cercare mai di indurre la gente a non pensare con la propria testa,
perche' sei sicuro che ci riuscirai.
4. Quando incontri opposizione, fosse anche da parte di tuo marito o dei
tuoi figli, cerca di vincerla con la persuasione e non con l'autorita',
perche' una vittoria che sia imposta non e' vera vittoria ma illusione.
5. Non rispettare le affermazioni autorevoli degli altri, poiche' troverai
sempre un'affermazione autorevole opposta.
6. Non usare del potere per sopprimere opinioni che consideri nefaste,
perche' se lo farai saranno le opinioni a sopprimere te.
7. Non temere di avere opinioni originali, poiche' tutte le opinioni ora
accettate sono state un tempo giudicate eccentriche.
8. Prova maggior piacere se ti trovi di fronte il dissenso intelligente che
non l'accettazione passiva, poiche' se valuti l'intelligenza come dovresti,
il primo implica un accordo piu' profondo della seconda.
9. Sii scrupolosamente sincero, anche se la verita' e' scomoda, perche'
sara' ancora piu' scomoda se cercherai di nasconderla.
10. Non invidiare la felicita' di coloro che si nutrono di illusioni,
poiche' solo uno sciocco potra' considerare quella la felicita'.

2. RIFLESSIONE. UNA RAGIONEVOLE PROPOSTA
Una ragionevole proposta che da anni questo foglio propugna: cessare di far
morire nel Mediterraneo le persone che in fuga da guerre, da fame, da
dittature, cercano di giungere nel nostro paese sperando trovarvi
accoglienza: quell'asilo che e' loro diritto ottenere, quell'asilo che e'
nostro dovere offrire.
Ed invece qui trovano morte o schiavitu', prigionia ed espulsione verso
quegli stessi luoghi da cui fuggivano per salvarsi la vita.
Non e' questo che afferma la nostra legge fondamentale. Poiche' l'articolo
10, comma terzo, della Costituzione della Repubblica Italiana recita invece:
"Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio
delle liberta' democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha
diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni
stabilite dalla legge". E questa e' la legge. Benedetta legge, la legge
buona di un paese civile per secoli oppresso, un paese che ha conosciuto le
invasioni e le dittature, il paese di un popolo che ha conosciuto nelle
proprie carni il dolore dell'esilio dei suoi figli migliori nell'ora - nei
secoli - della lotta contro la dominazione straniera prima, e contro il
fascismo poi; e il dolore delll'emigrazione: esperienza di milioni di donne
e uomini italiani.
Abbattuto il fascismo, tra i principi fondamentali della Costituzione
italiana furono scritte quelle parole, con piena cognizione di causa. E
quelle parole sono la nostra legge. Una legge benedetta.
E dunque, che fare? Certo non lasciar naufragare la povera gente; certo non
recludere chi nessun reato ha commesso; certo non lasciar nelle mani dei
poteri mafiosi le persone che qui giungono; certo non riconsegnare a regimi
assassini le loro vittime fuggiasche.
E dunque, che fare? Gia' sai la risposta: la risposta scritta nella legge
fondamentale della Repubblica Italiana scaturita dalla Resistenza; la
risposta statuita nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948;
la risposta che e' incisa nella tua stessa coscienza.
Tra far morire delle persone o salvar loro la vita, non dovrebbe essere
difficile sapere quale sia la scelta giusta.

3. DOCUMENTAZIONE. IDA DOMINIJANNI INTERVISTA ELENA PACIOTTI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 agosto 2005.
Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia
sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale
femminista.
Elena Paciotti, nata a Roma nel 1941, gia' magistrato, membro del Consiglio
superiore della magistratura, presidente dell'Associazione nazionale
magistrati, parlamentare europea, e' attualmente presidente della Fondazione
Basso]

Ex deputata europea e ora presidente della Fondazione Basso, Elena Paciotti
ha partecipato alla stesura della Carta europea dei diritti inserita nel
Trattato costituzionale europeo. Carta che, forse non a caso, e' la grande
assente del discorso con cui Tony Blair ha presentato venerdi' le misure
straordinarie antiterrorismo, annunciando che esse potranno anche comportare
deroghe allo Human Rights Act inglese del '98, che e' a sua volta la legge
con cui la Gran Bretagna ha - molto tardivamente - recepito la Convenzione
europea sui diritti umani del 1950. Annuncio preoccupante, evidentemente,
che se trovasse seguito e inveramento nel testo dei provvedimenti porterebbe
la Gran Bretagna e l'Europa sulla strada dello stato d'eccezione gia'
praticata dopo l'11 settembre dagli Stati uniti del Patriot Act e dei campi
di Guantanamo. Piu' sicurezza meno liberta', e' questa ormai la ricetta
della lotta al terrorismo. Funziona? E vale fino alla rottura
dell'ordinamento dei diritti umani, nonche' della filosofia giuridica e
politica che lo sostiene?
- Elena Paciotti: Per difendere la societa' dai seminatori di violenza e dai
propugnatori del terrorismo non c'e' nessun bisogno di violare i diritti
umani. Anzi, la prima battaglia da fare oggi e' contestare la presunta
divisione fra chi vuole difendere la societa' e percio' accetta la
limitazione dei diritti, e chi non accetta la limitazione dei diritti e
percio' non vuole difendere la societa'. Questa logica e' sbagliata in
radice.
*
- Ida Dominijanni: Dunque e' sbagliato in radice anche il discorso di Blair?
- Elena Paciotti: A me pare che il discorso di Blair non sia privo di
elementi di prudenza, sia quando assume le comunita' islamiche come
interlocutrici della lotta all'estremismo e di una migliore integrazione
degli immigrati, sia quando promette, nel rispetto della Convenzione
europea, che nel caso di espulsioni il suo governo si assicurera' che i
paesi in cui i sospetti verranno rinviati non li sottoporranno a tortura o
trattamenti degradanti. Non mi scandalizzano di per se' ne' le espulsioni
ne' la necessita' di filtrare meglio gli ingressi in Gran Bretagna. Quello
che getta una luce inquietante sul discorso di Blair e' l'aggiunta che
questo sara' fatto anche a costo di violare i diritti umani. E da questo
punto di vista, il pericolo maggiore e' costituito dal previsto allungamento
della carcerazione preventiva in assenza di imputazioni formali. Questo
mette la Gran Bretagna sulla strada del Patriot Act, della detenzione
indefinita e delle corti speciali di Guantanamo. Ovvero sulla strada
dell'aumento abnorme dei poteri di polizia e dell'eliminazione del controllo
giurisdizionale sui diritti e le garanzie dei "sospetti" e degli imputati.
Bisognera' percio' vigilare con attenzione sul modo in cui gli annunci di
Blair verranno tradotti in norme scritte.
*
- Ida Dominijanni: D'accordo. Ma anche le espulsioni e i filtri negli
ingressi non rischiano di basarsi solo su controversi reati d'opinione? Dove
passa il confine fra liberta' d'espressione e predicazione del terrorismo?
- Elena Paciotti: Anche su questo punto, sara' cruciale la formulazione
della norma. Nessuna manifestazione della liberta' di espressione puo'
essere perseguita, finche' non diventa palesemente pericolosa. Un conto e'
scrivere un libro sulla superiorita' della religione cristiana rispetto
all'Islam, un altro e' incitare all'odio religioso in un raduno pubblico. La
liberta' di opinione non puo' diventare liberta' di incitamento al reato: in
questo caso la legge deve intervenire, sanzioni di questi comportamenti sono
presenti in tutti gli stati e non sono in contraddizione ne' con lo Human
Rights Act ne' con la Convenzione europea dei diritti.
*
- Ida Dominijanni: Blair ha citato la Convenzione europea sui diritti umani
del '50, ma non la Carta dei diritti dell'Unione europea del 2000. Non
avrebbe dovuto tenere presente anche questa?
- Elena Paciotti: Si', tanto piu' che la Carta riprende, assume e rilancia
la Convenzione, estendendo il catalogo dei diritti politici del '50 ai
diritti sociali e a quelli di terza e quarta generazione, che vanno dal
campo della bioetica a quello della privacy. Non e' un caso che Blair la
trascuri: ne e' stato il principale oppositore. Comunque, la Carta non
riguarda il comportamento dei singoli stati nei confronti dei loro
cittadini, ma il comportamento delle istituzioni europee nei confronti dei
cittadini europei. E formalmente non diventa vincolante finche' il Trattato
costituzionale europeo non viene approvato.
*
- Ida Dominijanni: La Convenzione sui diritti umani era del 1950, tempi di
fiducia nella potenza espansiva dell'universalismo...
- Elena Paciotti: Si', la ispirava l'idea dei diritti universali basati
sull'eguaglianza degli esseri umani in quanto tali, senza distinzione di
sesso, razza, religione, cultura.
*
- Ida Dominijanni: Appunto. Nell'annuncio che sia possibile "derogare" alla
Convenzione, non c'e' un segnale di crisi, o di difficolta',
dell'universalismo? In che rapporto stanno oggi l'universalismo e il
multiculturalismo, o meglio il progetto universalista e la crisi di un
multiculturalismo che sfocia in incomunicabilita' o scontro fra culture o
religioni diverse?
- Elena Paciotti: Credo che ci sia una crisi del multiculturalismo, ma non
del progetto universalista: anzi, e' proprio riaffermando l'universalismo
che si puo' trovare una via d'uscita dalla crisi del multiculturalismo. La
tolleranza multiculturale si ammala di indifferenza, se il rispetto per la
diversita' altrui diventa l'alibi per lasciare confinato l'altro nella sua
comunita' e nella sua legge. I diritti universali valgono proprio in quanto
li dobbiamo applicare a ogni essere umano, indipendentemente dal fatto che
li condivida: altrimenti dovremmo restare indifferenti e complici di fronte
alle mutilazioni genitali o al taglio delle mani. Il rispetto delle
diversita' religiose e' un valore universale che deve valere per tutti, ma
altresi' la predicazione dell'odio religioso e' contraria ai diritti umani,
e questo divieto anch'esso universale deve valere per tutti, leghisti
antimusulmani e islamisti anticristiani. Il progetto dei diritti universali
si verifica ogni volta in questo difficile equilibrio, e va rilanciato tanto
piu' oggi che tante pulsioni sociali lo contrastano e lo rendono piu' arduo.

4. STUDI. MARINA GRAZIOSI: INFIRMITAS SEXUS. LA DONNA NELL'IMMAGINARIO
PENALISTICO (PARTE QUARTA E CONCLUSIVA)
[Dal sito di "Jura gentium. Centro di filosofia del diritto internazionale e
della politica globale" (http://dex1.tsd.unifi.it/juragentium/it/)
riprendiamo il seguente saggio originariamente pubblicato in "Democrazia e
diritto", n. 2, 1993, pp. 99-143 (vi e' anche una traduzione spagnola - di
Mary Beloff e Christian Courtis -: Infirmitas sexus. La mujer en el
imaginario penal, in "Nueva Doctrina Penal", 1999/A, pp. 55-95; ristampata
in A. E. C. Ruiz (a cura di), Identidad femenina y discurso juridico,
Editorial Biblos, Buenos Aires 2000, pp. 135-17. Marina Graziosi insegna
sociologia del diritto all'Universita' "La Sapienza" di Roma, fa parte delle
esperienze di "Balena" e di "Antigone"]

6. Il senso di un'aporia: la pena di morte a chi e' genitrice di vita
Come si e' visto, il carcere come pena sembra aver seguito, per le donne,
itinerari originali e specifici. Altrettanto puo' dirsi sotto molteplici
aspetti e con diverse implicazioni, anche per la pena capitale.
Come giustiziare correttamente una donna, come suppliziare un corpo
femminile? Rispondere, anche sommariamente, a questi interrogativi,
significa ripercorrere una storia millenaria, alla ricerca di tracce
identificabili al di fuori di determinazioni puramente giuridiche.
Se e' vero che la pena e' per la collettivita' anche un pharmakon (68),
l'antidoto che imita la violenza avvenuta, e, riproducendola sul condannato,
ricostruisce l'equilibrio sociale violato, la donna - quale che sia il posto
che le e' assegnato in una societa' data - rappresenta quando e' criminale
una malattia " diversa" e richiede una diversa risposta.
Intervenire infatti con una morte artificiale su chi e' comunque - anche al
di la' della sua volonta' - portatrice di elementi vitali di negazione della
stessa morte, potrebbe essere dannoso per la collettivita'. Occorre quindi,
in qualche maniera, esorcizzare la potenzialita' di vita contenuta nel corpo
femminile e predisporre metodi adeguati a questo fine. Primo fra tutti
quello che chiamero' della "attenuazione simbolica" della pena.
I modi e le forme di questa complessa operazione di simbolizzazione non sono
ne' univoci ne' espliciti. Tentero' comunque di ricostruirne il senso a
grandi linee.
La politica dell'attenuazione simbolica e' certamente connessa ad una sorta
di intangibilita' pubblica del corpo femminile, di cui non sempre e'
semplice decifrare il senso; anche perche' essa assume di volta in volta
forme diverse. Cio' che comunque e' evidente e' la sua costanza nel tempo.
Dall'interdizione della ruota e della forca prevista per le donne dalla
Constitutio criminalis di Carlo V (la cosiddetta "Carolina") del 1532,
tracce di questa operazione di attenuazione simbolica si possono rinvenire
perfino nel mondo contemporaneo: ad esempio nell'attuale divieto di eseguire
la condanna capitale su di una donna incinta, presente ancor oggi ovunque
sia prevista la pena di morte. Si puo' dire che segni di questo genere
accompagnino costantemente la storia della pena per le donne, e a seconda
del contesto storico e sociale esprimano in qualche maniera una volonta' di
manifestare un'attenuazione. Potra' essere, come nel codice Napoleone, la
possibilita' di scontare in un carcere e senza la continua afflizione della
catena la pena dei lavori forzati, o quella, prevista dal codice Zanardelli
per le donne, purche' non recidive, di scontare in casa la pena che non
ecceda il mese, beneficio questo, accordato anche ai minori.
Per secoli la punizione di una donna colpevole di qualche grave delitto era
stata affidata, anche dopo un pubblico processo, alla responsabilita' della
famiglia che si incaricava di eseguire in segreto la sentenza (69). Quando
la pena passa nella mano pubblica, qualcosa di questo segreto sembra volersi
mantenere, si preferisce cosi' per le donne l'annegamento e la
vivisepoltura, pene con le quali il corpo punito sparisce, cosi' come
spariva anticamente nei recessi della casa.
Sembra inoltre che la pena, in certi casi, abbia assunto, se inflitta ad una
donna, un valore simile a quello di un giudizio di Dio, che anche se
terribile, puo' comunque - in via ipotetica - lasciare aperta una qualche
via di salvezza. Questa via pero' quando si configura come una attenuazione
del supplizio e' puramente simbolica e quasi sempre priva di effetti
concreti: una cannuccia per "respirare" alla donna sepolta viva (70), che
ovviamente prolunghera' il supplizio in modo atroce anziche' attenuarne gli
effetti, del cibo e dell'acqua alla murata viva condannata a morire
d'inedia, la possibilita' di essere " immersa" e non annegata, "appesa" e
non impiccata. Molti altri elementi suggeriscono che la pena
dell'impiccagione - pena per i servi da cui i nobili sono esclusi - sia
particolarmente infamante, soprattutto per una donna, ed e' forse per questo
che si puo' leggere in qualche cronaca l'orrore che suscita qualcuna di
queste esecuzioni (71) e la proposta di risparmiare, anche per ragioni di
pudicizia, questa pena alle donne.
Nel ricostruire il senso di queste interdizioni, omogenee come tali pur
nella diversita' dei contesti storici e culturali da cui sono prodotte,
appare evidente che ogni mondo "vede" e "pensa" il corpo femminile e la sua
tangibilita' o intangibilita' in modo diverso. Ed elabora diverse
interpretazioni e risposte intorno a questo problema. E' chiaro tuttavia,
che non solo di pena si tratta, ma di qualcosa di molto piu' complesso.
Questa donna non si vuole toccata pubblicamente e legittimamente dal
carnefice forse perche' appartiene ad un altro uomo - padre, marito,
fratello o figlio - cui dovrebbe spettare la punizione? E non e' forse il
supplizio piu' accettabile, piu' adeguato ad un corpo che non appartiene del
tutto a se stesso, e che quindi non si puo' legittimamente toccare, quello
dell'occultamento con la vivisepoltura o con l'annegamento, pene capitali
"tipiche" in eta' moderna per le donne, che ne attuano la scomparsa senza
che, in apparenza, mano estranea partecipi direttamente all'esecuzione?
La scoperta di un crimine femminile, sembra caricare la collettivita' del
peso di una individualita' incontrollata che, prima della trasgressione, era
percepita solo come "parte" inglobata in un "tutto" e ad esso affidata. La
pena da' luogo dunque a risposte ambigue e paradossali, si realizza una
punizione ma se ne sottolineano le cautele, si castiga e si arretra.
Giustiziare pubblicamente una donna, mette in luce l'esistenza e la presenza
scomoda di un/a cittadino/a diverso e particolare.
Colei che ha trasgredito, infatti, e' portatrice di fertilita'; e va sempre
comunque ribadito il divieto assoluto di giustiziare una donna incinta. A
meno che, come sostengono con macabra consequenzialita' alcuni criminalisti,
non siano passati almeno quaranta giorni dal parto, o il bambino non sia
stato svezzato (72). Bisogna quindi che la comunita' e il potere che
l'esprime difendano prima di tutto questa dimensione al tempo stesso
pubblica e sacra del corpo della donna, lo rispettino almeno esteriormente,
trovando un rimedio non troppo "artificiale" - come sarebbe invece il
supplizio vero e proprio, visibile, spettacolare, diseconomico - cercando di
delegare alla natura un gesto, che si avverte contro-natura.
Non entro nel merito del piu' complesso, e in parte diverso atteggiamento
nei confronti della donna colpevole di un crimine connesso con questioni
religiose. In questi casi, la punizione deve essere visibile e pubblica, e
assume per la comunita' il significato di un rito collettivo, sacrificale ed
espiatorio. Si tratta infatti di una trasgressione ben diversa da un
semplice reato. La violazione religiosa viene sentita non solo come offesa
alla comunita', rottura delle sue regole e dei suoi equilibri, ma
soprattutto come minaccia all'intera collettivita' che potrebbe esserne
danneggiata. Non sempre il senso profondo delle diverse forme di esecuzione
e' univoco e trasparente.
Certo e' che la pena, che prima della Rivoluzione francese non era "uguale
per tutti", ma minutamente differenziata nella sua astratta previsione come
nella sua concreta applicazione a seconda delle differenti condizioni di
status, per le donne assume ulteriori e specifiche differenziazioni; anche
se non si puo' dire che l'essere donna sia uno status paragonabile agli
altri tipi di status. Piu' che di attenuare concretamente il supplizio o la
pena sembra ci si preoccupi principalmente di dire e di significare in
qualche modo questa attenuazione, che sembra corrispondere fondamentalmente
alla generica minorita' che si attribuisce al femminile.
La diversita' femminile infatti, anche se le donne sono state spesso
associate ai minori, ai vecchi, ai pazzi e talvolta ai servi, non e' stata
mai pensata dai legislatori come omologabile alle altre diversita'. Essa non
va ne' spiegata ne' giustificata: la sua evidenza la rende non dimostrabile,
non tematizzabile, indiscutibile come un assioma o un dato di fatto. Antonio
Pertile, nella sua monumentale storia del diritto italiano ancora negli anni
'90 del secolo scorso scrive a proposito delle pene del passato
"L'ineguaglianza di trattamento delle varie condizioni di persone, in cui ci
siamo imbattuti per entro ad ogni istituto giuridico, ci si para innanzi
anche nel sistema penale; e questa ineguaglianza vi e' fondata non solo
sulle diversita' naturali, il che, in massima, puo' essere conforme a sani
principi di economia punitiva, ma eziandio sulle fittizie e sociali. Non
sono cioe' punite diversamente per lo stesso reato soltanto le donne dagli
uomini, ma ben anco i cittadini e i forestieri, i liberi e i servi, i nobili
e i plebei: alla qual costumanza quantunque si opponesse qualche
giureconsulto, i piu' l'approvarono appoggiandosi anche alle fonti romane"
(73).
*
7. Il diritto al patibolo
Un senso d'insofferenza per la palese differenziazione che riguarda le donne
nella sfera penale e' espresso, con grande lucidita', da Olympe de Gouges
quando, all'indomani della rivoluzione, introduce nella sua dichiarazione
dei diritti delle donne, anche il diritto ad essere punite alla pari degli
uomini (74).
Dopo aver enunciato nell'art. 6 il principio di uguaglianza, in forza del
quale la legge, "espressione della volonta' generale... deve essere uguale
per tutti" e "tutte le cittadine e tutti i cittadini, uguali ai suoi occhi,
devono poter ugualmente accedere a tutte le cariche, posti e impieghi
pubblici, secondo le loro capacita' e senz'altra distinzione che quella dei
loro meriti e dei loro talenti", la Dichiarazione di Olympe de Gouges
rivendica, come un diritto, l'uguaglianza tra uomini e donne anche di fronte
ai rigori della legge penale: "Non si fa eccezione per nessuna donna, che
dev'essere accusata, arrestata e detenuta nei casi determinati dalla legge.
Le donne sono soggette come gli uomini a questa legge rigorosa" (art. 7). E
ancora: "Una volta che la donna e' dichiarata colpevole, e' sottoposta al
pieno rigore della legge" (art. 9); "La donna ha diritto di salire il
patibolo; deve avere anche il diritto di salire alla tribuna" (art. 10). "La
garanzia dei diritti della donna, e della cittadina, - scrive ancora de
Gouges - implica una piu' vasta utilita'; questa garanzia deve essere
istituita per il vantaggio di tutti, e non per il particolare beneficio di
quelle alle quali e' concessa".
Come si vede, nella rottura del principio dell'infirmitas sexus Olympe de
Gouges vede un passo importante sulla via della conquista dei diritti
femminili, la "tribuna" e il "patibolo" sono qui chiaramente connessi. Non
si possono rivendicare diritti politici senza essere soggette ai rigori
della legge, in quanto cittadine. L'affermazione del diritto alla pena e'
tutt'uno con la rivendicazione della dignita' delle donne come cittadine e
della loro uscita dalla minorita' (75).
Sembra qui di cogliere un'anticipazione della nota tesi di Hegel secondo cui
la pena e' per il reo un diritto: "la lesione che tocca il delinquente",
scrivera' Hegel, "non e' soltanto giusta in se', essa e', insieme, la sua
volonta' che e' in se', un'esistenza della sua liberta', il suo diritto":
nella pena "il delinquente e' onorato come essere razionale" (76). Olympe de
Gouges infatti chiede proprio questo per le donne: che se ne onori la
razionalita' e se ne ribadisca l'appartenenza a pieno titolo nella
comunita'.
Il nesso tra inflizione della pena ed appartenenza a pieno titolo ad una
comunita' e' stato messo in evidenza recentemente anche da Elizabeth H.
Wolgast che scrive: "Senza la comprensione del trasgressore, il castigo e'
privo di senso morale, e pertanto della sua piu' forte giustificazione
morale. La comprensione morale di un trasgressore va quindi ritenuta un
aspetto dell'appartenenza alla comunita' che egli offende... La percezione
dell'aspetto morale del castigo e' collegata alla visione di se' quale
membro di una comunita'... la legge infranta ha uno statuto proprio
all'interno della comunita' che comprende anche il trasgressore, anche nel
momento in cui lo punisce. Un malfattore fa parte della comunita', non ne e'
il nemico o l'avversario e, appunto in quanto appartenente, viene punito"
(77).
Forse e' possibile interpretare le ambivalenze che si registrano quando una
collettivita' deve infliggere una pena ad una donna proprio in questa
chiave: le donne fanno parte della comunita' in modo ambiguo, e certamente
non con la stessa pienezza dei maschi; a volte sono inglobate in essa, a
volte ne sono escluse. La loro sfera di appartenenza e' partecipe della
comunita', ma solo in quanto legata in modo fondamentale e subalterno alla
famiglia. Esse incarnano insieme l'inferiorita' sociale, e una sublime
vicinanza al sacro in quanto portatrici di vita. Sono quindi intoccabili
pubblicamente, perche' insieme sacre e inferiori. Si preferisce percio'
delegare il loro controllo alla famiglia, unica entita' sovrana cui le lega
un vero patto. Quando, per qualche ragione, questo controllo viene meno o
chi lo esercita preferisce delegarlo al potere pubblico, si manifestano i
meccanismi ambigui della punizione sotto il segno della politica
dell'"attenuazione simbolica".
C'e' poi un altro aspetto, del controllo sociale esercitato sulle donne
mediante la mano pubblica dell'intervento penale. Questo controllo sembra
riguardare prevalentemente le donne senza una solida guida familiare. Si
tratta cioe' di un controllo "estremo", che scatta e si applica solo quando
ogni altro - quello domestico, quello religioso, quello dettato dalla
femminile etica della responsabilita' (78), difettano o falliscono. Sono
insomma soltanto le donne che sfuggono a questi diversi ordini di controllo,
quelle che vengono piu' facilmente criminalizzate.
*
8. Disuguaglianza e diritto
L'evidenza naturale della diversita' delle donne ha giustificato in passato
e reso a priori possibili e praticabili tutte le ipotesi di
differenziazione, rispetto ai maschi, nella applicazione della pena.
Altri elementi di differenziazione possono essere rinvenuti anche nella
costruzione stessa di alcune figure di reato. Si pensi, ad esempio, alle
diverse discipline dell'adulterio, all'obbligo di dichiarare il proprio
stato di gravidanza (79), alla creazione per le donne dei reati connessi
all'aborto, all'infanticidio (80), al problema del governo della
prostituzione, alle alterne vicende del divieto della ricerca della
paternita' e ancora - anche se fuori dall'ambito penale - al ruolo di
disciplinamento del costume femminile che assumono in eta' moderna le
antiche leggi suntuarie (81), alla regolazione del lutto delle vedove. A
questo proposito mi sembra assai interessante e sintomatico il fatto che
comunemente non si rilevi, e che anzi venga data come ovvia e naturale, una
differenziazione assai importante riguardante la disciplina del matrimonio,
presente nel diritto civile vigente, che richiama caratteristici elementi di
arcaicita' che si trovano spesso associati alla vita delle donne come
cittadine. Mi riferisco al divieto di contrarre un secondo matrimonio prima
che sia trascorso un adeguato tempo di "lutto vedovile". Alla base del
divieto vi e' la proibizione della turbatio sanguinis che tutelerebbe errate
attribuzioni di paternita' a causa della incertitudo seminis (82).
Non approfondiro' qui le ragioni di tale divieto. Basti ricordare che a
partire dal diritto romano esse si configuravano principalmente in due
ordini di considerazioni, da un lato il rispetto per la convenienza e la
decenza, cioe' per la memoria del marito morto, quale religio priori viro,
dall'altro le questioni ereditarie. La donna che si risposava prima del
tempo non tenendo conto dei dieci mesi di lutto, andava incontro all'infamia
e a sanzioni patrimoniali. Questo sistema, attraversando indenne secoli e
secoli e' giunto pressoche' intatto fino a noi. Il codice civile (articolo
89, Divieto temporaneo di nuove nozze) vieta infatti alla vedova di passare
a seconde nozze, prima che siano trascorsi trecento giorni dallo
scioglimento o dall'annullamento del precedente matrimonio. Vi possono
essere ovviamente alcune deroghe, come quella ad esempio che la donna abbia
partorito o che il precedente matrimonio sia stato annullato per impotenza
del coniuge, ma resta comunque il fatto che nel caso di inosservanza del
divieto si applica una sanzione penale (articolo 140 del codice civile) a
carico degli sposi e dell'ufficiale di stato civile. L'articolo 102 del
codice civile attribuisce anche ai parenti del precedente marito il diritto
di opporsi alla celebrazione anzitempo del nuovo matrimonio. Mi sembra che
qui, dietro le motivazioni di carattere patrimoniale ed ereditario che
sembrano aver informato l'opera del legislatore - a partire dal mitico re
Numa Pompilio primo autore, come sembra, della legge sul lutto vedovile,
fino ai nostri contemporanei - si nasconda qualcosa di piu' importante e
profondo: il timore tipico delle culture patriarcali, del potere femminile
che si manifesta da una parte nel generare, nell'esser madre in modo certo,
dall'altra nel nominare, e quindi nel decidere la paternita'.
Esempi di diritto "disuguale" si possono ovviamente trovare nel mondo
contemporaneo anche in molte altre leggi, e basterebbe la legge dell'aborto
a farcelo ricordare. Si pensi alle norme che regolano il lavoro femminile,
al diritto di famiglia, alle leggi in vigore fino a poco tempo fa in tema di
estensione della cittadinanza al coniuge. Ma un caso di disuguaglianza
permane anche nel penale: il reato di infanticidio che comporta una pena
praticamente diversificata. In quasi tutte le legislazioni europee,
l'infanticidio viene configurato come un reato proprio della madre, commesso
nell'immediatezza del parto quando la donna viene supposta in menomate
condizioni fisio-psichiche. In alcuni codici viene semplicemente stabilita,
per la madre infanticida, una pena piu' mite di quella prevista per
l'omicidio. In altri, come in quello italiano, esisteva addirittura una
figura di "infanticidio per causa d'onore" punito "con la reclusione da tre
a dieci anni", oggi sostituito, nell'attuale formulazione dell'articolo 578
del codice penale, dall'"infanticidio in condizioni di abbandono materiale e
morale" che punisce la madre con una pena "da quattro a dodici anni", e
cioe' con una misura comunque inferiore a quella prevista per gli eventuali
correi anche se "hanno agito al solo scopo di favorire la madre" (83).
Circola inoltre da vari anni, soprattutto in area anglosassone, una ipotesi
riconducibile a un diritto di tipo "differenziato", che si esprime
soprattutto in campo penale. Mi riferisco al concetto di "sindrome
pre-mestruale" o di Pmt (Pre-menstrual tension), come comunemente viene
indicata, che identificherebbe in alcune donne una vera e propria malattia
connessa con il ciclo mensile. Questo concetto, forse utile nel campo del
diritto del lavoro per garantire alle donne una migliore tutela della loro
salute, puo' generare, se generalizzato ed usato in altri campi, primo fra
tutti il penale, esiti assai pericolosi. Si e' voluto sostenere infatti che
alcune donne vedono aumentare, a causa della Pmt, la loro aggressivita', e
si e' tentato percio' di utilizzarla come attenuante della responsabilita',
in alcuni processi penali soprattutto in Inghilterra. Il risultato, se
questa "attenuante" venisse introdotta, sarebbe francamente inaccettabile:
si costituirebbe una sorta di generalizzato favor rei nei confronti delle
donne, sottintendendo pero' una capacita' di intendere e di volere
diminuita, sia pure per un periodo di tempo determinato. Le conseguenze
sarebbero pesanti per non dire catastrofiche: il ritorno delle donne, sul
piano giuridico, ad uno stato di minorita' e di inferiorita' permanente che
non potrebbe non avere conseguenze, ovviamente, anche in altri ambiti di
esercizio della liberta' femminile (84).
*
9. Un diritto di genere
Come si e' visto, il "femminile", per il diritto, e' stato per secoli un
"sesso infermo", da governare e tutelare, per il senso di minorita' e di
mancanza ad esso sempre associato. Ne e' una riprova la millenaria
impossibilita' per le donne - che il diritto ha sancito - di rappresentare
altri se non se stesse. Alle donne sono state vietate le cariche pubbliche
quali forme di rappresentanza di altri e dei loro interessi (85). E' stato
precluso l'esercizio dell'avvocatura come assunzione di una difesa non in
proprio ma pro alio. La stessa tutela dei figli da parte delle madri e'
stata oggetto di contrasti e diatribe e di una lunghissima conflittualita'
femminile, risoltasi spesso con soluzioni compromissorie (86).
Le donne, ancora, sono state escluse dal potere di denunciare e di accusare
per reati commessi in danno di estranei (87). Non hanno potuto essere
giudici, perche' avrebbero incarnato una sovranita' delegata da altri (88),
e analogamente neppure soldati o poliziotti perche' non abilitate a
rappresentare l'ordine, l'autorita' e la forza del popolo o del sovrano.
Anche il divieto di essere testimoni, ruolo che in varie forme e' stato
negato alle donne, sembra esprimere questa congenita impossibilita' (89).
Qual e' il senso di questa imposizione di non-continuita', di non- relazione
con l'altro? Sul piano simbolico la donna esprime una relazione di
continuita' paradigmatica, fondamentale con l'altro da se' perche' lo
genera. L'esclusione giuridica da ogni altra forma di rappresentanza e di
tutela, nella vita pubblica come in quella civile, nasce allora,
probabilmente, dall'esigenza di porre un limite a questa originaria e
fondamentale continuita' con l'altro.
Esclusa da funzioni rappresentative, la donna e' sempre stata, dal diritto,
fatta oggetto di rappresentanza e di tutela, oltre che di menomazione e di
esclusione. Oggi il diritto concede l'inclusione. E di nuovo prospetta
funzioni di tutela, sia pure a favore dell'uguaglianza tra uomini e donne.
E' chiaro che tutto questo non puo' non suscitare diffidenza.
Di qui l'ipotesi e l'esigenza di una nuovo paradigma giuridico, di una
teoria alternativa in grado di elaborare e rifondare "fonte e principi di un
nuovo diritto" (90).
Ma un diritto nuovo, ove si prospetti come "diritto differenziato", rischia
sempre, pur se finalizzato a dar valore alla differenza, di ribadirla come
minorazione. Non si trattera' piu' di discriminazioni, ma al contrario di
tutele contro le discriminazioni. Ma sara' pur sempre un modo di sancire una
minorazione. E' su questo piano, quello del diritto disuguale o
differenziato, che si sono mosse in passato le leggi di dominio patriarcale.
Ma e' ancora su questo stesso piano che si muovono gli interventi di azione
positiva, che ci propongono una legislazione di tipo emancipazionista
informata all'idea di una "funzione promozionale" del diritto anche per le
donne. Si tratta di un piano insidioso, dalle possibili valenze regressive,
fatto oggetto da tempo di critica acuta ed attenta da parte delle donne.
Piu' feconda, anche se piu' difficile e problematica, e' a mio parere
l'ipotesi, del tutto diversa, di un nuovo diritto come "diritto di genere",
legato al riconoscimento e alla garanzia di diritti fondamentali che
dall'appartenenza di genere traggono una parte almeno del loro senso e della
loro portata normativa. Solo in una simile prospettiva, infatti, si possono
prefigurare nuovi assetti in cui possano liberamente manifestarsi e avere
peso autorita' e sapere femminile.
Certo, le difficolta' che si oppongono a una simile ipotesi sono molte:
prima tra tutte una sorta di inadeguatezza del diritto a tematizzare, nella
sua complessita', il concetto stesso di "genere". L'attribuzione di diritti
ad un gruppo - o meglio a persone in quanto appartenenti ad un gruppo unito
da comunanza culturale e interni vincoli normativi - al fine di garantirne
l'identita' differente, e' un'operazione possibile, anche se non semplice,
che puo' informarsi ai principi liberali dell'autonomia, della tolleranza e,
oggi, anche al modello del pluralismo giuridico (91). Ma le donne non sono
un gruppo. Il genere non e' legato ad identita' culturali ne' cementato da
vincoli normativi che non siano quelli, "politici", liberamente costruiti
tra donne. Ne' puo' essere paragonato ad altre forme di "identita'
differenti", proprie di minoranze o di gruppi oppressi, che pure richiedono
"protezione": se non altro perche' il genere non e' una
"identita'-differente" che possa, come le altre, essere rimossa, o superata,
o neutralizzata, o compensata. La differenza di genere e' irriducibile. Le
donne sono irriducibilmente diverse dagli uomini e viceversa. Il principe,
scrive Wolgast (92), puo' cambiarsi con il povero, ma non puo' cambiarsi con
una donna, fosse pure una principessa.
"Diritto di genere" vuol dire allora, semplicemente, che donne e uomini sono
individui portatori di diritti fondamentali sessuati. Sembrerebbe una cosa
ovvia. Eppure si avverte una gran paura, come se declinare i diritti a
seconda del sesso rischiasse d'infrangere in qualche modo il principio di
uguaglianza e di condurre, percio', a qualcosa di regressivo. Ma proprio
l'uguaglianza non puo' essere realizzata tra generi se non si supera la
logica della mera tutela propria del diritto differenziato e non ci si muove
"sopra la legge", da un orizzonte che la trascende (93). La tutela, infatti,
finisce sempre per ricalcare non gia' il paradigma della
differenza-diversita', ma quello della differenza-inferiorita', della
minorita' biologica di triste memoria. Se un'indicazione possiamo trarre dal
passato, essa e' sicuramente quella di evitare gli ambigui percorsi della
tutela e del diritto differenziato, poco importa se oggi riproposti con
lodevoli intenzioni.
*
Note
68. Si veda questa interpretazione dell'origine e della funzione della pena
in E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza,
Laterza, Roma-Bari 1992.
69. E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Rizzoli, Milano
1991, pp. 129-146.
70. H. von Hentig, La pena. Origine, scopo e psicologia (1932), tr. it. di
M. Piacentini, F.lli Bocca, Milano 1942, p. 114.
71. Sul significato dell'impiccagione delle donne, cfr. N. Loraux, Come
uccidere tragicamente una donna, tr. it. di P. Botteri, Laterza, Roma-Bari
1989; E. Cantarella, op. cit., pp. 19 ss; Y. Thomas (a cura di), Du
chatiment dans la cite'. Supplices corporales et peines de mort dans le
monde antique, in "Collection de l'Ecole francaise de Rome", vol. IX, Roma
1984. Cfr. inoltre le cronache di impiccagioni femminili in H. von Hentig,
op. cit., p. 91, e in B. Geremek, Mendicanti e miserabili nell'Europa
moderna (1350-1600), Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 113-114.
72. Scrive per esempio Andrea d'Isernia (1220?-1316) "Mulier si est
pregnans, et est damnanda propter delictum, differtur iudicium post 40 dies
postquam peperit" (cit. da V. Manzini, Trattato di diritto processuale
penale italiano, cit., p. 37 nota). C. Ginzburg riferisce che nel 1321, in
un editto con cui Filippo V il Lungo aveva ordinato il rogo dei lebbrosi
accusati di aver avvelenato fontane e pozzi, le donne lebbrose furono
parimenti condannate ad essere bruciate a meno che non fossero gravide, nel
qual caso dovevano essere segregate fino al parto e allo svezzamento dei
figli e poi bruciate (Storia notturna. Una decifrazione del Sabba, Einaudi,
Torino 1986, p. 6). L'art. 27 del codice Napoleone stabili' che "si une
femme condamnee a' mort se declare et s'il est verifie' qu'elle est
enceinte, elle ne subira la peine qu'apras sa delivrance".
73. A. Pertile, Storia del diritto penale, in Idem, Storia del diritto
italiano dalla caduta dell'impero romano alla codificazione, vol. V, Utet,
Torino 1892, p. 407.
E' comunque interessante osservare come Johann Wier - medico tedesco del XVI
secolo che contesto' ripetutamente la legittimita' dei processi alle
streghe - critico' i supplizi inflitti alle donne accusate di stregoneria
come una strana eccezione alla regola generale secondo cui, a causa
dell'infirmitas sexus, le donne dovevano essere punite meno severamente
degli uomini: "Huc accedit, quod mulieres minus puniendas esse viris in
eodem delicti genere, ceteris tamen per omnia paribus, universus legum
consensus velit, nimirum ob animi, mentis et ingenij imbecillitatem, et
sexus infirmitatem" (J. Wier, De lamiis liber: item de commentitiis
ieiuniis, Basilea, 1582, col. 90; tr. it. di A. Tacus, Le streghe, Sellerio,
Palermo 1991, p. 113).
74. O. de Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina
(1791), in 1789-1989. Donne e Rivoluzione: un cammino di liberta', Udi,
Circolo "La Goccia", Roma 1989. Su Olympe de Gouges, cfr. da ultimo U.
Gerhard, Sulla liberta', uguaglianza e dignita' delle donne: il "differente"
diritto di Olympe de Gouges, in G. Bonacchi e A.Groppi (a cura di), Il
dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza, Roma-Bari
1993, pp. 37-58; V. Fiorino, Essere cittadine francesi: una riflessione sui
principi dell'89, ivi, pp. 59-86.
75. Mentre il codice penale del 1791 e l'Ordonnance criminelle del 1670
avevano escluso le donne dalla pena delle "galere" e da quella dei "ferri",
l'art. 16 del codice Napoleone stabili' anche per le donne la pena dei
lavori forzati, con cui venivano sostituite le vecchie galere, aggiungendo
tuttavia che essa doveva essere scontata all'interno di un carcere senza
catena ne' palla al piede (M. Carnot, Commentaire sur le code penal, Waree,
Paris 1823, t. I, pp. 40 e 80).
76. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it. di F.
Messineo, Laterza, Bari 1954, 100, p. 97.
77. E. H. Wolgast, La grammatica della giustizia, tr. it. di Sylvie Coyaud,
Editori Riuniti, Roma 1991, p. 175
78. Sull'etica femminile della responsabilita', cfr. C. Gilligan, Con voce
di donna, Feltrinelli, Milano 1987.
79. G. Pomata, In scienza e coscienza. Donne e potere nella societa'
borghese, La Nuova Italia, Firenze 1979, p. 33. Sulle declarations de
grossesse si veda J. Depauw, Amour illegitime et societe' a' Nantes au
XVIIIe siecle, in "Annales ESC", XXVII, 1972, p. 1155.
80. R. Selmini, Profili di uno studio storico sull'infanticidio, Giuffre',
Milano 1987.
81. D. Owen Hughes, La moda proibita. La legislazione suntuaria nell'Italia
rinascimentale, in "Memoria", n. 11-12, 1984, pp. 82-105. Si veda anche,
sulla diversa punizione di uomini e donne in materia di prostituzione e di
adulterio, K. Thomas, The double standard, in "Journal of the History of
Ideas", n. 20, 1959, pp.195-216.
82. Cfr. G. Ferri, Lutto vedovile, in "Novissimo Digesto", Utet, Torino
1963, pp. 1119-1121. Si veda anche E. Pincherli, La vedova. Patria potesta',
diritti patrimoniali, seconde nozze, F.lli Bocca, Milano 1901, pp. 168 ss;
A. C. Jemolo, Il matrimonio, Utet, Torino 1957, III ed., pp. 88-90.
83. Cfr. C. Fiore, Infanticidio, in Enciclopedia del diritto, XXI, Giuffre',
Milano 1971, pp. 391-402. L'articolo 578 del codice penale stabilisce: "La
madre che cagiona la morte del proprio neonato, immediatamente dopo il
parto, o del feto durante il parto, quando il fatto e' determinato da
condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, e' punita con
la reclusione da quattro a dodici anni. A coloro che concorrono nel fatto di
cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno.
Tuttavia se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena
puo' essere diminuita da un terzo a due terzi" (cioe' da sette a quattordici
anni).
84. Cfr. S. Laws, V. Hey, A. Eagan, Seeing Red. The Politics of Premenstrual
Tension, Hutchinson, London 1985; A. Morris, Women, Crime, and Criminal
Justice, Basil Blackwell, Oxford 1987, pp. 46-51
85. Si ricordi la massima di Ulpiano citata alla nota 7.
86. Cfr. G. Baggio, Delle persone fisiche incapaci, Utet, Torino 1888, pp.
423-436. Cfr. anche G. Calvi, Dal margine al centro. Soggettivita'
femminile, famiglia, stato moderno in Toscana. XVI- XVIII secolo, in
Discutendo di storia, soggettivita', ricerca, biografia, Rosenberg e
Sellier, Torino 1990.
87. Questa preclusione si trova sancita perfino in quella che e' stata la
prima solenne dichiarazione dei diritti. L'articolo 54 della Magna Charta
stabili': "Nessuno sara' arrestato ed imprigionato per la morte di una
persona su accusa di una donna, a meno che la persona morta non sia il
marito della donna". Il principio, come ricordo' Gaetano Filangieri, risale
al diritto romano: cfr. Scienza della legislazione (1783), in La scienza
della legislazione e gli opuscoli scelti, Tip. della Soc. Belgica, Bruxelles
1841, lib. III, cap. II, p. 337. Sulla capacita' processuale della donna nel
diritto canonico, cfr. G. Minnucci, La capacita' processuale della donna nel
pensiero canonistico classico. Da Graziano a Uguccione da Pisa, Giuffre',
Milano 1989.
88. Cfr. M. T. Guerra Medici, I diritti delle donne nella societa'
altomedioevale, Esi, Napoli 1986, pp. 292-295, che dopo aver ricordato
numerosi casi nei quali, nell'alto medioevo, imperatrici, regine e
feudatarie avevano presenziato a giudizi in forza delle loro prerogative
sovrane, riferisce come la vecchia regola romana torno' ad affermarsi nel
basso medioevo.
89. La capacita' di testimoniare, ad esempio, e' stata nel corso dei secoli
piu' volte messa in dubbio. "Conditio, sexus, aetas, discretio, fama et
fortuna fides: in testibus ista requires": e' il distico mnemonico divulgato
da Tancredi di Bologna, Ordo iudiciarius, in Pillii, Tancredi, Gratiae libri
de iudiciorum ordine, 3, 6 (1216), a cura di F. C. Bergmann, Vandenhoeck und
Ruprecht, Gottingen 1842. Fu Cesare Beccaria a dichiarare "frivolo il motivo
della debolezza delle donne" quale fattore di non credibilita', Dei delitti
e delle pene (1776), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino 1981, par. XIII,
p. 32. Un ultimo residuo di questo impedimento che, come molti altri,
associava le donne ai pazzi, ai vecchi e ai minori, fu eliminato in Italia
con una legge del 1877, che consentiva alle donne di essere testimoni in
"atti pubblici e privati", come i contratti, i testamenti o altro. Il
dibattito parlamentare che ne precedette l'approvazione e' un saggio
illuminante delle idee correnti allora sulla credibilita' e affidabilita'
delle donne.
90. E' il titolo dell'articolo di Mariagrazia Campari e Lia Cigarini, in Un
filo di felicita', in "Sottosopra", gennaio 1989, pp. 6-7.
91. Cfr. M. Corsale, Pluralismo giuridico, in Enciclopedia del diritto,
XXIII, Giuffre', Milano 1983, pp. 1003-1026.
92. E. H. Wolgast, Equality and the Rights of Women, Cornell University
Press, Ithaca and London 1980, p. 14.
93. Cfr. L. Cigarini, Sopra la legge, in "Via Dogana" n. 5, pp. 3-4. Si veda
anche, contro la ricomparsa nel diritto moderno della differenza sessuale
come oggetto di tutela e non come fonte di misura autonoma, I. Dominijanni,
Donne si nasce, differenti si diventa. L'eguaglianza e il percorso
femminista, in "Il Bimestrale", n. 1, gennaio 1989, pp. 74-78. Nello stesso
fascicolo cfr. inoltre M. L. Boccia, L'eguaglianza impermeabile. Il corpo
femminile ridisegna l'orizzonte dei diritti uguali, pp. 81-86.
(Parte quarta - Fine)

5. LETTURE. MAURIZIO CHIERICI (A CURA DI): FAVELAS E GRATTACIELI
Maurizio Chierici (a cura di), Favelas e grattacieli, Nuova Iniziativa
Editoriale, Roma 2005 (suppl. a "L'Unita'"), pp. 240, euro 6,90. Sesto
volume della collana dei "Quaderni dell'America Latina" (agili libri di
taglio giornalistico), ancora una ricognizione a piu' voci del Brasile di
oggi (che fa seguito al precedente "Quaderno" anch'esso al Brasile
dedicato). Con la collaborazione di Giancarlo Summa, una prefazione di
Walter Veltroni e contributi di Walter Fanganiello Maierovitch, Ana Paula
Sousa, Ettore Masina, Laura Fantozzi, Francesco Pierri, Breno Altman, Lucio
Flavio Pinto, Sandra Papaiz, Andrea Lanzi, Roberta Barni, Darwin Pastorin,
Roberto Vecchi, Gianni Mina', e colloqui con Oscar Niemeyer, Pedro
Casaldaliga, Miguel Rossetto, Joao Pedro Stedile, Carlos Alberto "Beto"
Ricardo, Giorgio Della Seta, Gilberto Gil.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1019 dell'11 agosto 2005

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