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Nonviolenza. Femminile plurale. 24
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 24
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 11 Aug 2005 14:20:04 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 24 dell'11 agosto 2005 In questo numero: 1. Maria Chiara Pievatolo: Postfazione a "Le donne e la giustizia" di Susan Moller Okin 2. Chiara Zamboni: Tra visibile e invisibile 3. Dominique Vidal: Le donne della Rosenstrasse 1. RIFLESSIONE. MARIA CHIARA PIEVATOLO: POSTFAZIONE A "LE DONNE E LA GIUSTIZIA" DI SUSAN MOLLER OKIN [Dal sito www.sp.unipi.it riprendiamo la Postfazione di Maria Chiara Pievatolo al libro di Susan Moller Okin, Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, Dedalo, 1999, a cura di G. Palombella e M. C. Pievatolo. Maria Chiara Pievatolo e' docente associata di filosofia politica all'Universita' di Pisa. E' curatrice del Bollettino telematico di filosofia politica e della collana Methexis. Tra le opere di Maria Chiara Pievatolo: La giustizia degli invisibili. L'identificazione del soggetto morale, a ripartire da Kant, Carocci, Roma 1999; I padroni del discorso. Platone e la liberta' della conoscenza, Plus, Pisa 2003. Susan Moller Okin, illustre pensatrice femminista americana, e' docente di scienze politiche alla Stanford University. Tra le opere di Susan Moller Okin: Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, Dedalo, Bari 1999] Justice, Gender and the Family e' un testo di filosofia politica che parla di donne, bambini ed asili infantili. Un lettore europeo di formazione accademica potrebbe convincersi di avere buoni motivi per riesumare il dileggio di Hegel nei confronti dei filosofi che si perdevano in questioni empiriche ed esteriori: "Platone poteva tralasciare di raccomandare alle balie di non star mai ferme con i bambini, di dondolarli sempre sulle braccia" (1). Ma la Okin giunge a questi temi per motivi tutt'altro che esteriori, dopo aver scritto un libro importante come Women in Western Political Thought (2),nel quale si confronta con la tradizione filosofica occidentale, da Platone fino a John Stuart Mill, sul problema del ruolo della donna nell'essere e nel dover essere politico e sociale. Alle origini di questa tradizione, nella Repubblica, Platone affronta il problema della famiglia come luogo di potere e di interessi privati, che si contrappongono all'interesse pubblico. E lo affronta con tale radicalita', da proporre di eliminare la famiglia e di trasformare la comunita' politica in una grande comunita' fraterna, nella quale perfino gli accoppiamenti sono determinati in base agli interessi eugenetici della citta'. Egli, naturalmente, ha di mira la famiglia del mondo greco a lui contemporaneo: una comunita' economica schiavista e patriarcale, che si occupava dei bisogni materiali e riproduttivi, mentre a quelli affettivi ed erotici provvedevano, fuori casa, la pederastia e le cortigiane. Numerosi interpreti del Novecento hanno rigettato questa proposta, ritenendola totalitaria, lesiva dei piu' profondi affetti individuali, o semplicemente inattuabile. Ma la Okin, su questo tema, e' una voce fuori dal coro. Secondo lei non e' possibile sostenere, come G. M. A. Grote, che il sistema di accoppiamento eugenetico previsto nella Repubblica violenti le piu' profonde emozioni umane: la famiglia greca non era affatto il centro delle piu' profonde emozioni umane. Contro Leo Strauss, il quale afferma che il progetto platonico e' fallimentare semplicemente perche' gli uomini desiderano per natura avere figli propri, e perche' il controllo politico sul comportamento eterosessuale mette a tacere le normali pretese dell'eros, ella osserva che questa critica si regge sul presupposto che la famiglia nucleare borghese-cristiana sia qualcosa di naturale, quando, nell'Atene del V secolo, il luogo prevalente dell'amore erano le relazioni omosessuali, non certo il matrimonio. Grube, A. E. Taylor e Strauss, che trattano la proposta platonica come inattuabile ed eccessivamente severa, non ricordano che la vita di una qualsiasi donna greca rispettabile era molto piu' controllata di quella dei componenti delle classi superiori nella polis ideale della Repubblica. Le donne ateniesi rimanevano in uno stato di minorita', e il loro tutore legale poteva, a suo arbitrio, farle sposare a chi voleva o darle a un bordello. Se leggiamo la Repubblica nel suo contesto storico, ci accorgiamo che Platone chiede semplicemente agli uomini di scindere i doveri coniugali dall'affettivita' personale, com'era gia' loro abitudine, ma offre alle donne quell'accesso paritario all'istruzione e alla vita politica che era loro rigorosamente negato (3). Platone, quando pone il problema della famiglia come luogo di potere privato, va preso sul serio. Perche' mai famosi interpreti del suo pensiero trascurano circostanze, altrimenti notissime, della vita e del costume dell'Atene del V secolo? Perche' soltanto una studiosa femminista si ricorda di leggere il filosofo confrontando le sue proposte con la vita familiare degli uomini e delle donne del suo tempo, e non con la famiglia nucleare borghese-cristiana? La tesi fondamentale della Okin puo' rispondere a queste domande: l'esclusione delle donne e della famiglia dall'oggetto della filosofia politica induce a dare acriticamente per scontato un modello di famiglia particolare, storico, e dunque esposto, come ogni altra istituzione sociale, alla discussione e al superamento, e bisognoso di giustificazione. * Women in Western Political Thought vuole dimostrare che esiste un legame fra l'assunzione della famiglia come istituzione naturale e necessaria - come qualcosa di dato, al di qua della critica filosofica e della scelta politica - e una definizione filosofica della donna di tipo naturalistico e funzionale. La politica e' il luogo della cultura e delle scelte: a coloro che vi sono ammessi e' riconosciuto un certo grado di liberta'. Chi, di contro, viene confinato nella natura resta fuori dal mondo della liberta'. Il modo piu' semplice per sottrarre un'istituzione sociale alla critica e alla scelta e' darla per scontata e trattarla come "naturale": cosi', il ruolo di chi fa parte di questa istituzione puo' essere determinato con strumenti e argomentazioni differenti da quelli impiegati per chi e' ammesso al mondo della liberta'. I filosofi politici, per millenni, hanno parlato dei maschi, in quanto esseri liberi, interrogandosi su che cosa dovessero e potessero fare. Ma questo interrogativo non e' stato rivolto alle donne, escluse dal mondo della liberta'. Le donne, pur essendo trattate come soggetti di morale e di diritto, sono state viste come enti naturali, in relazione all'uomo. Creature per le quali l'unica domanda appropriata e': "a che cosa servono?". L'arbitrarieta' del confine fra natura e cultura e la doppia morale costruita dalla tradizione filosofica occidentale si rivelano insostenibili non appena la filosofia tenta di produrre giustificazioni universalistiche (4). In un mondo ferocemente esclusivo e misogino come quello greco antico, Platone scopre, quasi suo malgrado, il problema delle donne non appena tenta di formulare, in base a un canone di uguaglianza geometrica, un paradigma unitario e riformatore di giustizia politica. Aristotele - prosegue la Okin - subordina coerentemente la donna all'uomo, ma cristallizzando il mondo in una gerarchia metafisica e teleologica nella quale cio' che e' inferiore e' un semplice strumento di cio' che e' superiore (5). Ma e' soprattutto interessante vedere in che modo i pensatori contrattualisti moderni, pur essendo convinti dell'uguaglianza universale degli uomini, introducano una logica gerarchica e naturalistica quando si tratta di parlare di donne, di bambini e di famiglia. Hobbes e Locke vedono lo stato come bisognoso di una giustificazione filosofico-politica dal punto di vista degli individui, ma assumono la famiglia come naturale, col semplice, ancorche' paradossale, espediente di attenuare tacitamente il loro individualismo e l'esigenza di giustificare la coercizione in base alla volonta' e agli interessi dei singoli. Nella loro prospettiva, un'autorita' e' legittima solo se e' possibile vederla come esito di una contrattazione fra individui. Ma il potere familiare del marito e del padre non e' negoziato, neppure idealmente: percio', a ben guardare, gli "individui" protagonisti del mondo politico non sono uomini, donne e bambini, ma capi-famiglia maschi, i quali rappresentano organicamente, senza essere legittimati da nessun contratto, gli altri membri del nucleo familiare (6). I valori fondamentali del pensiero politico di Jean-Jacques Rousseau sono l'uguaglianza e la liberta', che dovrebbero riavvicinarci alla natura, ponendo rimedio alla corruzione della civilta': ma questi valori sono negati alle donne, viste come funzionali ai desideri del maschio e alla conservazione della famiglia in quanto cellula fondamentale della societa'. Conseguenza paradossale di questa doppia morale e' che - se vogliamo criticare Rousseau alla luce di Jean-Jacques - la cellula fondamentale della societa' diviene il regno della corruzione e della dissimulazione: la donna, educata alla logica privatistica dell'asservimento al marito e al suo buon nome, potra' essere tutto tranne che una buona moglie e una buona cittadina (7). Infine John Stuart Mill, che pure e' l'unico filosofo liberale a sostenere l'uguaglianza politica e giuridica delle donne, tratta gli aspetti sociali e culturali della maternita' come se fossero naturali: questo gli impedisce di interrogarsi sulla anomalia costituita dal lavoro domestico, non retribuito, delle donne (8), per la quale solo queste ultime si trovano a dover scegliere fra famiglia e professione. La Okin approfondisce questo tema proprio in Justice, Gender and the Family, affrontando autori contemporanei. La Okin, dunque, parla di problemi di donne, che sono anche problemi importanti per la filosofia politica: tutto il Novecento si e' agitato, da Weber in poi, sugli interrogativi connessi ai valori, ai loro conflitti e al loro relativismo, mentre e' stato assai meno consueto, una volta venuta meno la tradizione marxista, e fino all'affacciarsi di autrici femministe, discutere non sull'oggetto, ma sulla modalita' in cui le teorie politiche e morali costruiscono i propri soggetti. Se disponiamo di una tassonomia metafisica delle creature, e di una gerarchia naturale fra loro, possiamo interrogarci sui valori dando per scontati i soggetti per i quali i valori si pongono; ma se questa tassonomia e' venuta meno, chiedersi: "di chi stiamo parlando, ora?" puo' diventare una questione tutt'altro che banale. Questo vale, in particolare, per le teorie politiche moderne che vogliono essere universalistiche e ugualitarie: per esempio, a chi si riferiscono Hobbes, Locke o Nozick quando parlano di "individuo"? Piu' in generale: e' possibile produrre una filosofia pratica ugualitaria coerente, fondandola su una descrizione esclusiva dei soggetti e dei luoghi di decisione che si ritengono politici? * Il modo di ragionare della Okin in merito ai diritti delle donne imbocca una via difficile, e dunque speculativamente interessante. Per imporre le donne all'attenzione della filosofia politica si puo' usare - ed e' stato usato - un metodo semplice: produrre una descrizione della donna e delle sue eventuali peculiarita' morali, e riservarle dei diritti corporativi che la integrino, o, meglio, la coordinino, al mondo politico maschile. Si tratta, insomma, di trovare la differenza sessuale, garantirla teoreticamente e sviluppare una morale e un diritto sessuato. Ma, molto significativamente, la riedizione del 1992 di Women in Western Political Thought reca un Afterword (9), nel quale, tracciando un bilancio del pensiero femminista dell'ultimo quindicennio, la Okin mette in luce le ambiguita' di quella corrente che si basa sulla constatazione teoretica e sulla valorizzazione pratica di una presunta differenza femminile. La corrente criticata dalla Okin ha preso spunto dalle ricerche della psicologa Carol Gilligan, la quale ha creduto di poter generalizzare la tesi che le donne parlino con un linguaggio morale differente da quello degli uomini: la femminilita' si associa ad un'etica della cura, concreta e contestuale, che viene contrapposta all'etica della giustizia, astratta e universalistica, nonche' tipicamente maschile (10). Questo passaggio dalla constatazione empirica di una differenza alla sua celebrazione teorica e' ambiguo, secondo la Okin, sia sul piano filosofico, sia su quello politico. In primo luogo, il dato empirico viene assunto nel cielo della teoria come se fosse naturale, senza che venga in mente di interrogarsi sulla sua origine storica e sociale. In secondo luogo, la celebrazione della differenza e' un'arma a doppio taglio: se valorizzare le donne significa valorizzarne la differenza esistente, perche' criticare lo status quo nel quale questa differenza si e' formata e si colloca? La critica femminista all'ideale dell'uguaglianza (11), che e' stata generata da questo sfondo teorico, si basa sulla tesi che l'uguaglianza sia, semplicemente, la conformita' a un modello gia' dato, e non invece, nel suo uso giuridico e morale, qualcosa che ha a che vedere con le relazioni e le possibilita' di persone assunte come libere e dunque in grado di sfuggire alle classificazioni. In questa prospettiva, la Okin non condivide la tesi di C. Pateman, per la quale, se per femminismo s'intende una lotta per l'uguaglianza delle donne come individui, lavoratrici e cittadine, allora e' difficile trovare una difesa contro coloro che lo accusano di voler trasformare le donne in uomini (12). Questo modo di ragionare, secondo la Okin, si basa sulla discutibile premessa che le femministe vogliano semplicemente estendere alle donne lo stesso status degli uomini, senza ripensare la sfera non politica della vita domestica e senza interrogarsi sulle radici storiche della disuguaglianza - interrogativo, questo, che una attenzione acritica alla differenza tende a dimenticare. Dal suo punto di vista, la questione fondamentale non e' capire in che cosa le donne sono diverse, ma chiedersi perche' le donne sono state diversamente trattate: questo non puo' essere fatto senza una critica politica. Secondo la Okin, il femminismo della differenza, che insiste sulla peculiarita' dei problemi delle donne, ha comportato l'autolesionistica conseguenza culturale di confinare simili questioni nei cosiddetti Women's Studies. Queste discipline vorrebbero riconoscere e valorizzare la differenza sessuale, ma rischiano di rinchiudere le questioni femminili in ghetti accademici, la cui presenza autorizza la storia e la filosofia politica istituzionali a disinteressarsi di tutto cio' che concerne le donne, come se queste non facessero parte della storia dell'umanita' e non fossero soggetti - e oggetti - politici. Le domande sull'identificazione del soggetto della morale e del diritto, e sul rapporto fra il potere pubblico e formale dello stato e quello privato e largamente informale della famiglia non sono soltanto cose da donne, proprio perche' nessuna differenza data e nessuna istituzione radicata puo' riempire coerentemente quello spazio della liberta', cioe' della storia e del progetto, che deve essere presupposto da qualsiasi teoria politica normativa. * Susan Moller Okin, che, nel suo corso di Political Science presso la Stanford University, parla delle donne nel pensiero politico occidentale (13), non si propone di celebrare e valorizzare differenze esistenti, in una prospettiva particolaristica, ma vuole rivelare il carattere storico e politico del problema del genere, inteso come percezione sociale del sesso. Per questo, e' fondamentale affrontare il tema della famiglia e del suo potere: la famiglia e' il luogo in cui ha origine la divisione sessuale del lavoro e in cui si costruisce ricorsivamente la percezione sociale del sesso (genere). Il problema della famiglia e' politico: la distinzione fra pubblico e privato, sulla quale, per tanto secoli, ha riposato l'ideologia della spoliticizzazione della famiglia, non soltanto e' arbitraria, ma deriva essa stessa da una decisione politica (14). Il rifiuto di una logica corporativa e particolaristica - della "zoologia dell'umanita'" (15), per dirla con il giovane Marx - conduce la Okin, nella sua ultima produzione, a discutere il multiculturalismo, perche' le sue classificazioni sono in potenziale contrasto con l'autodeterminazione delle donne (16): il rispetto per le culture non e' identico al rispetto per le persone. * Il libro qui tradotto e' soltanto una tappa di un itinerario filosofico complessivo, ma offre spunti per almeno due riflessioni possibili, a seconda che si ritenga o no affidabile, in relazione agli scopi critici della sua teoria, la fondazione rawlsiana dell'autrice. Justice, Gender and the Family, risalendo al 1989, precede di qualche anno la pubblicazione di Political Liberalism (1993) (17), testo nel quale Rawls chiarisce, in risposta alle critiche ricevute, le tesi di A Theory of Justice (1971). Secondo la teoria della giustizia di Rawls, le regole di una societa' giusta sono quelle che potrebbero stipulare idealmente individui posti in una "posizione originaria", nella quale un velo d'ignoranza copre tutte le loro particolarita' storiche e sociali. In questo modo, viene pattuita una giustizia equa e senza privilegi: sarebbe imprudente stabilire norme che discriminano, ad esempio, donne o neri, perche', dietro il velo di ignoranza, a qualsiasi contraente potrebbe capitare di essere egli stesso donna o nero. In Political Liberalism, Rawls difende questa tesi dalle critiche dei communitarians, che lo accusavano di descrivere i suoi contraenti ideali in una maniera talmente rarefatta da non avere nulla a che vedere con gli individui reali per i quali dovrebbe valere la sua giustizia: nelle nostre societa' pluralistiche, il contratto serve a produrre una mediazione politica fra i diversi sistemi di valore concretamente esistenti. Ma questa apologia comporta l'esplicita ammissione che la costruzione contrattualistica non e' una vera e propria posizione normativa, ma un mero artificio politico, il quale richiede che ci siano sistemi di valore plurali, esistenti, e assunti nella discussione filosofica come dati, al di qua di ogni critica. La posizione originaria con i suoi vincoli e' solo un espediente per definire il mondo comune della giustizia pubblica. L'origine dei sistemi di valore particolari, l'acculturazione e l'educazione morale primaria sono questioni che, a rigore, non riguardano la filosofia politica di Rawls: il problema politico della giustizia si pone solo a condizione che ci siano sistemi di valore diversi, sorti prima e al di fuori del negoziato politico: sorti, percio', in comunita' non contrattuali, come la famiglia. Usare strumenti rawlsiani - come fa la Okin - per porre il problema della famiglia come questione di giustizia politica significa essere, nei confronti dell'esistente, molto piu' radicali e molto piu' prescrittivi di Rawls. Significa trattare il contratto come una norma e non come un simbolo dei "nostri" valori comuni. * La Okin pensa che la teoria della giustizia rawlsiana possa essere un utile strumento per una teoria normativa della giustizia, per due motivi principali (18): in primo luogo, Rawls riconosce la famiglia come una delle istituzioni sociali fondamentali che devono essere oggetto della giustizia politica, anche se ne da' per scontate le strutture esistenti. In secondo luogo, l'espediente della contrattazione dietro un velo d'ignoranza non solo permette di sospendere, in quella sede, il genere, ma, soprattutto, mostra che giustizia e cura non sono prospettive reciprocamente inconciliabili. Infatti, sospendere il genere e altri aspetti concreti della condizione delle persone significa chiedere a ciascuno di mettersi nei panni di un gran numero di altri e considerare il loro punto di vista, nel decidere i principi di giustizia: se mi capitasse, per esempio, di essere donna, troverei accettabile la divisione sessuale del lavoro domestico? Secondo la Okin, in base al neocontrattualismo cosi' riformulato, e' possibile costruire una teoria liberale della giustizia, che richieda una distribuzione equa del lavoro domestico (19), e che connetta cio' che avviene nella famiglia al mondo della politica e del lavoro, finora strutturato in base al presupposto implicito che il lavoratore sia un uomo con la moglie a casa. Questa prima proposta, costruita su Rawls e dunque, di fatto, sui valori costituzionali della societa' americana, puo' certo essere tacciata di provincialismo filosofico, ma - nei limiti della sua provincia - ha gia' il merito di sottolineare il ruolo del comportamento gratuito (20) e non contrattuale non solo entro la famiglia, ma anche nel mondo dell'economia. La stessa organizzazione attuale del mondo del lavoro si basa su presupposti non completamente contrattualistici, e mutarla per rendere giusta la vita familiare e per rispondere alle esigenze vitali delle persone non comporterebbe certo una gran rivoluzione concettuale (21). Ma le tesi della Okin potrebbero offrire spunti di riflessione assai piu' radicali se investissero il problema speculativo della relazione fra antropologia e liberta', invece di basarsi implicitamente e ambiguamente sui valori americani (22) e sulla richiesta di una loro realizzazione meno settoriale e piu' coerente. Com'e' consapevole la stessa Okin, per dare a tutti la possibilita' dell'autodeterminazione non e' sufficiente suddividere l'antropologia in un'andrologia e in una ginecologia morale, o frammentarla in una miriade di culture e stili di vita riconosciuti. In questo modo si ottiene, tutt'al piu', una zoologia dell'umanita', per la quale le persone godono di diritti e liberta' solo nei confini fissati dalla loro tassonomia. E siccome le tassonomie sono classificazioni finite e attuali, una simile prospettiva disconoscera' fatalmente le variazioni non classificate e quelle non classificabili, perche' ancora nel regno della possibilita'. Il problema dell'autodeterminazione dei soggetti morali e giuridici si pone genuinamente solo nella misura in cui ci si rende conto che l'aspetto fondamentale della liberta' come autonomia non e' fiorire lungo una linea di sviluppo determinata, secondo una qualche classificazione teoretica - aristotelica o, piu' modestamente, rawlsiana -, ma poter andare oltre la propria immagine sociale. Le comunita' etiche - a partire dalla famiglia - non possono mai essere intese come "naturali" e come date, sulla scorta di constatazioni teoretiche, ma vanno sempre viste come costruzioni che, per diventare etiche, devono essere aperte non solo ad una mera contrattazione ideale, ma soprattutto alla discussione e alla decisione effettiva, su un piede di liberta' e di uguaglianza. Percio', devono sempre interrogarsi su come comprendere e contenere gli strumenti che rendano possibile il loro superamento. * Si potrebbe obiettare che vedere la famiglia come un'associazione non piu' naturale, ma convenzionale e politicamente rilevante, conduce ad abbattere la distinzione fra pubblico e privato, cioe' quella linea di confine sulla quale il liberalismo moderno ha combattuto la sua battaglia contro lo stato totalitario e il moralismo giuridico. Si potrebbe, anzi, sostenere che sia necessario lasciare, al di la' dei confini dello stato, degli ambiti di poteri informali e naturali, perche' il potere dello stato possa essere formalizzato e convenzionalmente limitato. E poco importa se il prezzo di questa limitazione e' pagato per lo piu' dalle donne e dai bambini. Una tesi del genere riposa sulla convinzione che l'esito inevitabile di una critica politica alla famiglia sia l'assimilazione e la confusione fra famiglia e stato: si presuppone, cioe', che la forza della societa' politica convenzionale possa essere contrastata solo da comunita' pensate come naturali e quindi intangibili. Ma le cose non stanno esattamente cosi': per rendercene conto, puo' essere d'aiuto un testo kantiano non molto frequentato dai filosofi politici (23), La religione entro i limiti della sola ragione (24). Qui, Kant distingue fra uno stato giuridico-civile e uno stato etico-civile; e aggiunge allo stato di natura giuridico della tradizione contrattualistica uno stato di natura etico. Per uscire dallo stato di natura giuridico occorre un diritto garantito formalmente, che comporta il monopolio pubblico della coercizione, e dunque l'abolizione della coercizione privata. Per uscire dallo stato di natura etico, cioe' per formare comunita' etiche, e' assolutamente indispensabile la liberta' individuale, perche' la coercizione puo' imporre un comportamento esteriore, ma non certo la disposizione interiore che caratterizza la virtu'. Ma questo requisito concerne tanto la coercizione pubblica statale, quanto, e a maggior ragione, la coercizione privata interindividuale. Le comunita' etiche, per essere tali, non devono basarsi sulla coercizione. Non a caso, il problema del controllo e della formalizzazione della coercizione fra gli individui ricade nella sfera di competenza dello stato, e non in quella delle comunita' etiche. Anzi, si puo' pensare a uno stato di natura etico accanto a quello giuridico proprio perche' lo spazio delle comunita' etiche si puo' costituire solo a condizione che sia gia' stato posto e risolto politicamente il problema della coercizione e della manipolazione interindividuali. Non esistono comunita' etiche "naturali": anche le comunita' etiche, secondo Kant, sono qualcosa che dobbiamo costruire, sulla base di una liberta' che non si trova nella natura, ma puo' essere da noi conosciuta solo come presupposto della legge. Ma da cio' segue che uno stato che accogliesse in se disuguaglianze formatesi naturalmente, solo per rispettare il santuario della famiglia, accetterebbe, da una parte, di farsi dettar legge da una zona franca allo stato di natura, con sue proprie forme, non statali, di coercizione, e dall'altra, impedirebbe che in questa zona si costituissero le condizioni di liberta' necessarie al sorgere di una genuina comunita' etica. Per questo, trattare la famiglia come una questione politica non conduce necessariamente a riscrivere la Repubblica di Platone: tutt'al piu', ci puo' dare lo stimolo a rileggerla - come ha fatto la Okin - con uno spirito simile a quello di Kant (25), piuttosto che alla maniera di chi ha voluto ridurre un testo filosofico fondamentale per il pensiero occidentale ad uno spauracchio totalitario (26). * Note 1. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 1987, Prefazione, p. 14. 2. S. M. Okin, Women in Western Political Thought, Princeton, Princeton UP, 1979, 1992. 3. Ibidem, pp. 28-50. 4. Ibidem, pp. 3-12. 5. Ibidem, pp. 73-96. 6. Ibidem, pp. 197-201. Su questo tema v. anche C. Pateman, The Sexual Contract, Stanford, Stanford UP, 1988 (trad. it. di C. Biasini, Il contratto sessuale, Roma, Editori Riuniti, 1997). 7. S. M. Okin, Women in Western Political Thought, cit., pp. 99-194. Sul tema v. anche N. O'Keohane, "But for her Sex...": the Domestication of Sophie, in J. MacAdam, M. Neumann, G. Le France, Trent Rousseau Papers, Ottawa, University of Ottawa Press, pp.135-145, nonche' L. Lange, Rousseau and Modern Feminism, in M. L. Shanley, C. Pateman (eds), Feminist Interpretations and Political Theory, Cambridge, Polity Press, 1996, pp. 95-109. 8. S. M. Okin, Women in Western Political Thought, cit., pp. 201-231. 9. S. M. Okin, Women in Western Political Thought, pp. 309-340. 10. C. Gilligan, In a Different Voice, Cambridge (Mass.), Harvard UP, 1982 (trad. it. Con voce di donna, Milano, Feltrinelli, 1987). Vale la pena ricordare la critica alla Gilligan compiuta da Susan Moller Okin in Thinking like a Woman, in D. L. Rhode (ed.), Theoretical Perspectives on Sexual Difference, New Haven, Yale UP, 1990, pp. 145-159: Per una prospettiva italiana favorevole ad una declinazione femminile dell'etica cfr. V. Franco, Etiche possibili, Milano, Donzelli, 1996. 11. Per una prospettiva italiana v. ad esempio T. Pitch, Diritto e diritti. Un percorso nel dibattito femminista, "Democrazia e diritto", 1993, 33/2, pp. 3-44, nonche', nello stesso numero, L. Ferrajoli, La differenza sessuale e le garanzie dell'uguaglianza, pp. 49-73, e L. Gianformaggio, Correggere le disuguaglianze, valorizzare le differenze: superamento o rafforzamento dell'uguaglianza?, "Democrazia e diritto", 1, 1996, pp. 53-71. 12. C. Pateman, Introduction a C. Pateman, E. Gross (eds.), Feminist Challenges: Social and Political Theory, Boston, Northwestern UP,1987, pp. 7-8. 13. V. a questo proposito il capitolo dedicato al femminismo accademico da M. C. Nussbaum, in Cultivating Humanity, Harvard UP, Cambridge, Massachusetts,1997. 14. Cfr. il VI capitolo di questo volume. La Okin sostiene che l'insistenza sulla politicita' del personale non elimina il concetto di privacy, come sfera di autodeterminazione individuale: perche' nel mondo privato sia possibile l'autodeterminazione di ciascuno, tutti devono essere uguali. E l'uguaglianza non e' un dato naturale, ma una costruzione politica e morale. Sul carattere politico della distinzione fra pubblico e privato v. almeno F. E. Olsen, The Myth of State Intervention in the Family, in "University of Michigan Journal of Law Reform", 18/4, 1985, pp. 835-864. 15. MEW, I, 205, [114]. 16. Si veda ad esempio S. M. Okin, Recognizing Women's Rights as Human Rights, in "APA Newsletters", Vol. 97/2 (Spring, 1998); Is Multiculturalism Bad for Women? When minority cultures win group rights, women lose out, "Boston Review", October/November 1997 (trad. it. presso http://lgxserver.uniba.it/lei/filpol/okin.htm, con una mia scheda sull'autrice e un link al sito della "Boston Review", che ospita un dibattito sull'articolo in questione); Un conflitto sui diritti umani fondamentali? I diritti umani delle donne, la formazione dell'identita' e le differenze culturali e religiose, in "Filosofia e questioni pubbliche", 3/1, pp. 5-28, con un dibattito sul testo; infine S.M. Okin, Feminism and Multiculturalism: Some Tensions, in "Ethics", 108/4, 1998. 17. J. Rawls, Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993 (trad. it. di G. Rigamonti, Liberalismo politico, Milano, Comunita', 1994, a cura di S. Veca). 18. Cfr. il V capitolo di questo volume. 19. Si veda, sul tema della famiglia, l'integrazione di I. M. Young alla proposta della Okin: eliminare ogni vestigia di diritti sessuali, e trattare la famiglia come una "domestic partnership" che non abbia a che vedere col numero e col genere, ma solo coll'effettiva collaborazione e condivisione di risorse vitali (Iris M. Young, Reflections on Families in the Age of Murphy Brown: on Justice, Gender and Sexuality, in Ead., Intersecting Voices, Princeton, Princeton UP, 1997, pp. 95-113). 20. Si veda in particolare il brillante argomento con cui la Okin riduce alla contraddizione la tesi nozickiana che identifica la liberta' delle persone con la proprieta' privata e al titolo legittimo su di essa (cap. IV di questo volume). 21. Si veda l'ultimo capitolo di questo volume. Sul tema cfr. anche V. Held, Feminist Morality: Transforming Culture, Society and Politics, Chicago, The University of Chicago Press, 1993 (trad.it. di L. Cornalba, Etica femminista, Milano, Feltrinelli, 1997). 22. V. in particolare l'incipit del I capitolo di questo volume. 23. Cfr. G. Marini, Kant e il diritto cosmopolitico, "Iride", IX, 17, 1996, pp. 126-140. 24. I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, B131/A123-B134/A126 (trad. it. di A. Poggi, riv. da M. Olivetti, La religione entro i limiti della sola ragione, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 101-102). 25. Si veda il celebre omaggio kantiano alla Repubblica di Platone in Kritik der reinen Vernunft, B370/A314-B374/A317 (trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 300-301). 26. K. R. Popper, The Open Society and Its Enemies, The Spell of Plat, New York-Evanston, Harper Torchbooks, 1962, pp. 138-144 (trad. it. di R. Pavetto, La societa' aperta e i suoi nemici, vol. I. Platone totalitario, pp. 198-205), cui puo' essere contrapposta la lettura neokantiana di E. Cassirer in The Myth of the State, New Haven-London, Yale University Press, 1946, pp. 75-76 (trad. it. di C. Pellizzi, Il mito dello stato, Milano, Longanesi, 1971, pp. 138-139). 2. RIFLESSIONE. CHIARA ZAMBONI: TRA VISIBILE E INVISIBILE [Dalla rivista "Per amore del mondo" (nel sito: www.diotimafilosofe.it) riprendiamo il seguente articolo di Chiara Zamboni. Chiara Zamboni e' docente di filosofia del linguaggio all'Universita' di Verona, partecipa alla comunita' filosofica femminile di "Diotima". Tra le opere di Chiara Zamboni: Favole e immagini della matematica, Adriatica, 1984; Interrogando la cosa. Riflessioni a partire da Martin Heidegger e Simone Weil, IPL, 1993; L'azione perfetta, Centro Virginia Woolf, Roma 1994; La filosofia donna, Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 1997] Parlo dell'ultimo libro di Diotima intitolato Approfittare dell'assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione (Liguori, Napoli 2002). Mi piacerebbe che qualcuno riprendesse i temi del libro a partire da queste riflessioni. So che scrivendo queste note ho dialogato tra me e me con donne e uomini che il libro l'hanno letto e hanno trovato il modo di parlarcene in modo attento. Per me questo e' stato un orientamento prezioso. Accettando la provocazione di Carla Lonzi ad approfittare dell'assenza delle donne da duemila anni di storia, ci siamo trovate a fare i conti con la storia e con la tradizione a partire dall'esperienza femminile. Nostra e di altre. Tradizione: le generazioni passate hanno creato saperi e comportamenti. La tradizione e' cio' che ci viene trasmesso di questi saperi e pratiche. * Nel nostro libro la questione della tradizione e' affrontata in particolare in due testi. Uno e' Tabula rasa di Annarosa Buttarelli. Fare tabula rasa significa sospendere il riferimento a testi e pratiche del passato, che ci vengono invece presentati come vincolanti per quel che vogliamo dire e fare nel presente. Il valore della tradizione ci obbligherebbe a confrontarci necessariamente con essi se vogliamo che quel che diciamo e facciamo venga considerato degno di attenzione. Fare vuoto dentro di se' rispetto a questa autorita' della tradizione: questa e' una pratica che Annarosa suggerisce, riprendendola dalla mistica. Allora, fatto il vuoto dentro di se', ci fa da guida non piu' la voce autorevole del passato ma il grande libro dell'esperienza. Questo e' un passaggio simbolico che e' presente non solo nel nostro libro ma anche in molti scritti, testi, ragionamenti di donne che si sono mosse con molta autorita', fondando questa loro liberta' nella fedelta' all'esperienza, che si incerniera nel presente. Il secondo testo sulla tradizione e' di Anna Maria Piussi. Lei osserva giustamente che dopo il femminismo ci troviamo nella necessita' di sottrarci non solo alla cultura maschile, che ha costruito canoni volendo imporre tradizioni, ma anche a quell'accumulo di sapere, che dal femminismo in poi molte hanno prodotto, e che ora alcune indicano come un dato inaggirabile. Tuttavia trincerarsi dietro la tradizione femminista e' piu' che altro un segnale che molte hanno perso la capacita' di stare in un rapporto sorgivo con il sapere, che si nutre del senso di quel che ci capita nel presente. L'instaurarsi di una tradizione femminista mi mette in contraddizione perche' cio' che e' diventato sapere accumulato e' il prodotto di un percorso esistenziale e politico a cui io stessa ho partecipato ed ora mi viene proposto dall'esterno come oggettivo. E' una contraddizione nuova, segnata dall'evento del femminismo. Cosa ben diversa dal radicamento che ognuna di noi ritrova in una genealogia femminile - come scrive Ida Dominijanni -, che e' legame vivo con donne che ci hanno preceduto, ben lontano da una tradizione imposta. Ambiguita' della tradizione dunque. Eppure noi tutte siamo - e siamo state - lettrici appassionate di alcuni grandi libri del passato. Hanno inciso e sono stati ripresi dalla tradizione - e' vero -, ma possiamo avere un rapporto con loro che metta da parte gli imperativi della tradizione e averne una lettura misurata da altro: il rimando all'esperienza, il senso di una rivelazione. Allora si tratta di saper dire quale sia stato il legame forte per cui ci hanno parlato in una lettura diretta, a partire dal nostro presente e dal nostro contesto. Ho in mente come facevano le beghine della Francia del nord, delle Fiandre e della Germania nel Duecento: leggevano con altre l'antico e il nuovo Testamento lasciando che parlasse direttamente alla loro anima, senza tener conto di quel che gli ecclesiastici del tempo ne dicevano. Non volevano criticare la chiesa, anzi, ma semplicemente indicavano nella risonanza che aveva in loro la parola scritta dei testi sacri la mediazione essenziale piu' importante ancora della guida dei padri spirituali e dei confessori. Solo cosi' le parole del testo erano vissute come parole di verita'. E non e' forse vero che ci capita di leggere romanzi, racconti, pagine di filosofia che ci illuminano come una rivelazione? E che ne parliamo allora con passione alle amiche e amici? * E' in questo senso che in Approfittare dell'assenza abbiamo cercato di mostrare come siamo entrate in risonanza con alcuni libri e testi e come a partire da li' sia stato possibile indicare delle mediazioni nuove, diverse da quelle della tradizione. Ci sono vie privilegiate per fare questo? Non ci sono strade a senso unico. Wanda Tommasi parla di un amore per il testo, che lo stravolge, lo incorpora, lo fa proprio, senza piu' tenere i confini tra se' e quel che si e' letto. Luisa Muraro si fa guidare da una domanda nel leggere il Simposio di Platone: chi e' Diotima, a mezzo tra l'esistenza storica e la non esistenza? La domanda guida la lettura e questa la conduce la' dove la domanda stessa viene superata. Si tratta di un processo. Leggendo il vangelo di Matteo con Francesca Doria mi ha guidato l'ascolto di come l'anima si orientava, quali erano i punti sui quali insisteva. E con Francesca ritornavamo poi al giudizio, alle mediazioni, ma a partire da quel primo orientamento inconscio e a suo modo passivo. Vita Cosentino cerca di comprendere il fascino esercitato su di lei dagli scritti di don Milani e la distanza maturata a causa della propria attenzione alla soggettivita' femminile. Diana Sartori si fa guidare nel leggere La dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789 dalla logica del dono. Se quel testo ha donato molto, cio' impegna ad una restituzione e ad un rilancio, che non e' pero' quello previsto interno al diritto. Al dono dei diritti lei restituisce il dono - non equivalente, perche' piu' ampio - dell'obbligo. Come si vede e' una costellazione di modi di lettura che rendono vivo un testo, opponendosi proprio percio' a farne un classico, un caposaldo della tradizione come vorrebbe il canone. * Il nostro libro parte dal presente cercando un gioco simbolico nei confronti della tradizione, percio' direi che sono le relazioni nel presente il nostro inizio. E questo e' un inizio che raccoglie e lega, e dunque in un certo senso religioso - nel senso etimologico del termine -, ma per avere liberta' dalla tradizione, piuttosto che iniziarne un'altra. Diversa e' la questione della storia e del legame con cui stare in rapporto ad essa. Punto di vista del libro: per le donne la storia non e' tutto. Riferimento: l'invito di Carla Lonzi ad approfittare della nostra assenza da essa. In che senso? "A mezza strada fra l'esistenza storica documentata e l'inesistenza, in mezzo a date incerte, professioni senza nome, leggende oscure, ci sono molte donne che mi interessano, una e' mia madre" scrive Luisa Muraro. Di fronte a questa condizione tra esistenza storica documentata e la vita nella sua imprecisione di fatti sfumati quale posizione simbolica prendere? Negli anni '70 le storiche, di fronte a questo dilemma, hanno scelto di portare a visibilita' storica l'esistenza delle donne. Partendo dal presupposto che l'assenza fosse un difetto, una mancanza di attenzione. Questo ha prodotto una grande quantita' di lavori, guidati dal desiderio di dimostrare la presenza delle donne nella storia. Questa onda lunga, che ha moltiplicato le ricerche, si e' pero' ritirata, quanto ad invenzione di pensiero. Questo per il fatto che non c'e' stato un rilancio: non c'e' stata una presa in carico di trasformazione di sguardo su che cosa significhi fare storia a partire dalla differenza femminile oggi. Vorrei valorizzare pero' le storiche che hanno rifiutato la mossa di includere le donne nella storia degli uomini. Penso a certi studi pubblicati sulla rivista "Memoria", che, volendo sottrarsi all'idea di una inclusione simmetrica all'esclusione, hanno messo in primo piano il vivere quotidiano, la cultura materiale, in cui le donne sono state protagoniste. Altre, come Luisa Passerini, hanno messo al centro la storia orale, costruita su narrazioni personali, criticando il concetto di storia unica e sottolineando la molteplicita' di storie, che si incernierano con la memoria. Altre hanno elaborato l'idea di un andamento carsico della storia delle donne, che ora affiora e ora si inabissa. Il nostro libro si inserisce in questo dibattito. * Siamo partite dal fatto che il legame delle donne con la storia e' fatto di intermittenze, senza continuita' ne' prevedibilita'. Quando parlo di intermittenza non faccio tanto riferimento ad una presenza piu' o meno forte delle donne nelle narrazioni storiche, nelle cronache e nei documenti, quanto ad un certo legame con l'invisibile che corre attraverso l'esperienza femminile e spinge sullo sfondo il bisogno di visibilita' a tutti i costi. Nel nostro libro questo legame con l'invisibile e' letto in modi diversi. E' esso ad essere discontinuo. Sicuramente e' ancora una volta questo legame con l'invisibile a rendere simbolici quei momenti in cui le donne creano luoghi tra privato e pubblico: periodi che sono innovativi e fedeli all'esperienza, e che allo stesso tempo si sottraggono a quella divisione tra privato e pubblico, che risulta invece cosi' fondamentale nel modo maschile di fare storia. Sono momenti che hanno avuto nell'invisibile la loro sorgente. Di questa inclinazione maschile a separare pubblico da privato fecero le spese le beghine. Avevano creato una nuova pratica religiosa costituita da piccole comunita' aperte alla citta', in uno spazio simbolico diverso dai recinti visibili di un ordine monastico e d'altra parte con uno scambio attivo con la citta' molto diverso da un vivere privato. Vivevano della tessitura, aiutavano i malati, la loro casa era frequentata da chi voleva venirci. E' interessante come la chiesa reagi': dapprima le invito' ad entrare in ordini monastici femminili, creati quasi appositamente, perche' in questo modo la loro esperienza religiosa fosse regolata in modo esplicito, pubblico, lasciando al solo recinto dell'intimita' piu' segreta la loro vita spirituale. La dichiarazione di eresia fu per chi non accetto' tale invito. L'autonomia creatrice affidata al desiderio e ai legami liberi tra donne era troppo provocatoria. * Certo l'idea di intermittenza puo' suggerire un senso di frammentarieta': si tratterebbe di brevi periodi senza legame tra loro. Non ci sarebbe piu' percio' un filo conduttore nella modificazione storica e dunque verrebbe meno anche la possibilita' di pensare una storicita' "altra", a partire dalla differenza femminile. Io vedo un senso "aurorale", sorgivo della storia proprio a partire da quei momenti intermittenti. Si tratta di pensare ad un senso della storia che ponga al centro le singole pratiche nelle quali le donne abbiamo avuto immaginazione, autorita', capacita' di reggere nel tempo lo stile di vita assunto. Momenti che si sono simbolicamente sottratti alla spartizione tra ordinamenti visibili da un lato e dall'altro esperienze solo intime. E questo con delle risonanze con la sessualita' femminile schiusa come un fiore tra interno ed esterno. Di un momento intermittente c'e' un esempio molto bello, nel libro, portato da Luisa Muraro. Si tratta delle Madres de Plaza de Mayo, a Buenos Aires. Da ventiquattro anni ogni giovedi' suonano i campanelli di coloro che ritengono gli assassini dei loro figli. Cio' ha avuto efficacia politica in Argentina, e lo si vede dalla decisione del governo di affrontare finalmente questa questione. Del futuro di questa pratica non si preoccupano, ne' vogliono insegnarla, trasmetterla ad altri. Essa vive, finche' esse sentono il desiderio e la forza per compierla. Sono loro ad esserne mediazione vivente. Poi ci sara' altro, Di questo non si preoccupano. * Si tratta dunque di cercare un senso nella storia ragionando su pratiche, che non sono affidate ad ordinamenti visibili, ma al desiderio di chi se ne fa mediazione viva e cerca l'invisibile nel mondo, di cui c'e' gia' traccia, dandogli spazio simbolico nel mondo stesso e la sua necessita'. E che terminano quando viene meno desiderio e forza. Un'opera, una pratica: la maggior parte delle donne sanno che non e' qualcosa di compiuto e del tutto oggettivabile ed esprimibile in una historia rerum gestarum, ovvero nelle narrazioni di azioni e fatti compiuti, sulla quale molti uomini hanno scommesso. Cio' che e' esterno a se' e' forse per loro piu' riconoscibile proprio come la loro sessualita'? Io so che le pratiche sono visibili e al medesimo tempo mai veramente concluse, oggettivabili: sono percorsi sempre aperti, di cui nessuno e' l'autore singolo perche' in esse valgono le relazioni e il processo. Tra visibile e invisibile. 3. MEMORIA. DOMINIQUE VIDAL: LE DONNE DELLA ROSENSTRASSE [Riprendiamo il seguente articolo da "Le Monde diplomatique" (edizione italiana), maggio 2005 (disponibile nel sito: www.ilmanifesto.it/MondeDiplo). Dominique Vidal, giornalista e saggista, e' redattore-capo aggiunto del prestigioso periodico] All'alba del 27 febbraio 1943, a Berlino (1), le SS della Leibstandarte Hitler, incaricate della sicurezza personale del Fuehrer, prendono posto su camion coperti che partono in tutte le direzioni. La loro missione: arrestare a casa o sul posto di lavoro, con l'aiuto della Gestapo e della polizia municipale, gli ultimi ebrei della capitale del III Reich. Alcuni lavorano in fabbriche vitali per la Wehrmacht; altri, sposati a tedeschi, sono sfuggiti alle leggi di Norimberga del 1935. Ministro della propaganda e Gauleiter (capo regionale) del partito nazional-socialista, Joseph Goebbels, che da dieci anni sogna di eliminare gli ebrei dalla sua citta', puo' finalmente mettere fine a queste eccezioni. La sera, circa 5.000 persone sono gia' state rastrellate, di cui 1.700 sono mariti di donne tedesche. Alcuni sono gia' in viaggio verso i campi della morte. Altri, in attesa di essere deportati, vengono ammassati in due carceri improvvisati, uno ai numeri 2-4 della Rosenstrasse (2), dove aveva sede un ufficio di assistenza sociale della comunita' ebraica. Gia' nel pomeriggio, decine di donne, preoccupate di non vedere rientrare i mariti, si riuniscono nella strada: ben presto se ne contano 200. Alcune ci passano la notte... Il giorno dopo sono due volte piu' numerose... e piu' decise. Il fatto che gli uffici per gli affari ebraici della Gestapo si trovino a due passi, nella Burgstrasse, non impedisce loro di gridare in coro: "Ridateci i nostri mariti". Ne' la presenza delle SS, ne' la chiusura della vicina stazione della metro di Boerse, e neppure i terribili bombardamenti aerei britannici della serata, impediscono loro di sfidare il regime. Lo storico David Bankier, testimone a sostegno, racconta (3) di come molte donne si siano scontrate con gli agenti della Gestapo e "osino dirgli di andare loro sul fronte dell'Est e di lasciare in pace i vecchi ebrei" - ma "la maggior parte dei passanti, aggiunge, guardava la scena con totale indifferenza". Nel suo diario, il 2 marzo, Goebbels scrive: "Stiamo cacciando definitivamente gli ebrei da Berlino. Domenica scorsa li abbiamo presi tutti con una retata e li stiamo mandando rapidamente all'Est". Significa fare i conti senza la folla che aumenta nella Rosenstrasse. Quando le SS minacciano di sparare, le donne si rifugiano sotto i portici o sotto un viadotto vicino, poi ritornano: "Vogliamo i nostri mariti", esigono in coro. Il 5 marzo, il regime tenta le ultime manovre di intimidazione. La Gestapo allontana brutalmente decine di manifestanti. Poi una jeep, occupata da quattro SS in uniforme e casco d'acciaio, armati di mitragliatrici, carica la folla sparando. Le donne fuggono e si disperdono, per poi tornare davanti al carcere. Alcune, incoraggiate dalla forza dimostrata dal movimento, si fanno coraggio fino a chiedere alla Gestapo notizie dei loro mariti. Altre entrano addirittura nel palazzo della Rosenstrasse. "Continuavamo a sperare che i nostri mariti potessero tornare a casa e che non fossero deportati", testimonia una manifestante. La cosa piu' incredibile e' che non sbagliano. Il 6 marzo, non solo la dittatura mette fine agli arresti e alle deportazioni che erano proseguite fino ad allora, ma ordina la liberazione di tutti gli ebrei sposati a tedesche - e ne fara' anche ricercare venticinque ad Auschwitz, che potranno ritornare a casa. Quasi tutti, del resto, sopravvivranno alla guerra. Ufficialmente, la Gestapo di Berlino ha semplicemente commesso un abuso, rastrellando e deportando ebrei sposati a tedesche e il potere, naturalmente, ha rimesso le cose a posto. La realta' non ha niente a che vedere con la favola dell'"errore" burocratico corretto. E' Goebbels stesso che, dopo avere ordinato la retata, la sospende a seguito di un incontro con Adolf Hitler, avvenuto il 3 marzo nella sua Wolfschanze (tana del lupo). Perche'? La risposta va forse cercata nel momento in cui si svolge la vicenda: immediatamente dopo la disfatta di Stalingrado. Il morale dei tedeschi e' a terra. I dirigenti nazisti temono soprattutto una cosa: che il "fronte interno" crolli, come nel 1917, sotto le bordate dell'Armata rossa e i bombardamenti anglo-americani. La resistenza coraggiosa, ma relativamente apolitica, delle donne della Rosenstrasse rischia di estendersi a macchia d'olio: e se altre proteste si levassero contro le deportazioni in massa degli ebrei, che hanno luogo in molte citta' tedesche? "A Berlino - tende a mitigare lo storico Peter Longerich (4) - furono temporaneamente internati, in due immobili della comunita' ebraica, centinaia di ebrei coniugati a non ebree, con l'evidente intento di scambiarli con quegli impiegati della comunita' che dovevano essere deportati. La spontanea protesta pubblica di membri di questo gruppo radunatisi davanti al palazzo della Rosenstrasse, per quanto notevole sia stata l'azione, non fu certo la causa della liberazione degli uomini incarcerati, perche' a quell'epoca non era prevista la deportazione degli ebrei che vivevano in 'coppia mista'". Leopold Gutterer, vice ministro della propaganda, non concorda con questa posizione: "Goebbels libero' gli ebrei per eliminare definitivamente qualsiasi protesta (...) Per evitare che altri imparassero da questa contestazione e ne imitassero l'esempio, bisognava rimuovere ogni ragione di malcontento" (5). Nel suo libro piu' importante, La Destruction des juifs d'Europe (6), Raul Hilberg conferma questa valutazione, scrivendo che i mariti ebrei di donne tedesche "alla fine furono liberati, perche' si percepi', in ultima analisi, che la loro deportazione rischiava di compromettere tutto il processo di distruzione". Vista in prospettiva, la vittoria delle donne della Rosenstrasse pone agli storici alcuni interrogativi. Prima di tutto, rappresenta una risposta sferzante a quanti hanno voluto giustificare la propria passivita' con l'assunto che contro il regime nazista "non c'era nulla da fare". Anzi, prova che l'azione poteva farlo recedere, lungi dall'essere solo una testimonianza simbolica. Al di la' del contesto molto particolare dell'inverno 1943, induce inoltre ad una riflessione sui rapporti tra la dittatura e la popolazione: forse la prima ne temeva le reazioni molto piu' di quanto affermato dalla storiografia tradizionale? Ecco che si spiegherebbe, tra l'altro, il segreto con cui i dirigenti nazisti hanno cercato di coprire il genocidio, ma anche il notevole impegno profuso - come mostra in questo stesso dossier Goetz Aly - nel "comprare" i tedeschi. Ma, purtroppo, di Rosenstrasse ce n'e' stata una sola. * Note 1. Solo un libro in francese tratta in maniera esaustiva questo episodio: Nathan Stoltzfus, La Resistance des coeurs. La revolte des femmes allemandes mariees a' des juifs, Phebus, Parigi, 2002. Questo articolo si e' servito ampiamente delle informazioni ivi contenute. 2. La vicenda e' raccontata nell'omonimo film di Margarethe von Trotta del 2003. 3. Die Oeffentliche Meinung im Hitlerstaat, Berlino 1995, p. 187. 4. Politik der Vernichtung, Piper, Monaco di Baviera 1998, p. 537. 5. Nathan Stoltzfus, op. cit., p. 355. 6. Fayard, Parigi 1988, p. 369, tr. it. La distruzione degli ebrei d'Europa, Einaudi. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 24 dell'11 agosto 2005
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