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La nonviolenza e' in cammino. 1017
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1017
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 9 Aug 2005 00:18:57 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1017 del 9 agosto 2005 Sommario di questo numero: 1. Rasha Elass: Le parole per ricostruire un paese 2. Ernesto Milanesi: Albino Bizzotto, un prete contro tutte le bombe 3. Marina Graziosi: Infirmitas sexus. La donna nell'immaginario penalistico (parte seconda) 4. Norberto Bobbio presenta "Pasqua di maggio" di Goffredo Fofi 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. INIZIATIVE. RASHA ELASS: LE PAROLE PER RICOSTRUIRE UN PAESE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Rasha Elass, corrispondente per "We News" da Kabul] Kabul, Afghanistan. Un pomeriggio, nel maggio 1999, i Talebani batterono Shukria Barakzai con una frusta di gomma, perche' si trovava fuori di casa. Lei torno' a casa, decisa a combatterli, e fondo' una scuola clandestina per le bambine, arruolando come insegnanti tutte le sue amiche che avevano unistruzione. Oggi la trentatreenne Barakzai, nata e cresciuta a Kabul, dice che i suoi sforzi per contribuire alla ricostruzione dell'Afghanistan sono solo all'inizio. Pochi mesi dopo la scomparsa dei Talebani da Kabul, aveva pero' gia' dato vita al giornale "Aina-E-Zan" ("Lo specchio delle donne"), un settimanale pubblicato nelle due lingue nazionali del paese, Pashtu e Dari, nonche' la prima pubblicazione afgana che si rivolgeva alle donne. "Senza la partecipazione delle donne, il processo democratico sarebbe come un essere umano senza occhi", ha detto nel maggio scorso, quando ha ricevuto a New York un premio per la sua attivita' di giornalista dall'Organizzazione mondiale della stampa. * Barakzai, che ha tre figlie, e' oggi candidata alle prossime elezioni di settembre per il Parlamento. "Anche prima dei Talebani la situazione era molto brutta, spiega, Piu' di 65.000 civili erano morti nella sola Kabul a causa della guerra e dei mujaheddin. E la violenza contro le donne era sempre piu' alta, di giorno in giorno". Gli Usa finanziarono la guerriglia contro l'occupazione sovietica dell'Afghanistan e i Mujaheddin vennero da tutto il mondo per parteciparvi. Quando i sovietici lasciarono il paese negli anni '90, il vuoto di potere venne riempito dai Talebani. Costoro imposero una versione estremista dell'Islam. Proibirono alle donne di lavorare fuori casa, imposero che tutte portassero il burqa, le punivano con fustigazioni pubbliche per reati quali "orgoglio" e "immodestia", e vietarono alle bambine di andare a scuola. "Ero andata dal medico, quel giorno, nel 1999. Mentre tornavo a casa i Talebani mi assalirono. Tentai di spiegare che ero malata, ma non ascoltarono, e mi colpirono con lo 'shalock', la frusta di gomma". Lo shalock veniva usato dalla "polizia morale" dei Talebani per punire velocemente i civili, principalmente le donne, con una fustigazione sulle gambe e sul dorso. Barakzai la subi' perche' si trovava all'esterno della propria casa. Quel giorno vi torno' determinata a sfidare la nuova oppressione che era caduta sul suo popolo. "Percio' pensai che avrei dato inizio ad una scuola per le bambine. Per la prima volta in vita mia, divenni un'insegnante. Ho amato molto quel lavoro, perche' capii subito quanto avevamo bisogno di assicurare un'istruzione alle bambine. Ne avevamo bisogno forse piu' che del cibo". * In circa tre anni Barakzai e le sue amiche volontarie, sostenute dalle proprie famiglie, hanno insegnato a centinaia di ragazze di tutte le eta'. "Le bambine arrivavano una per volta, racconta, Mai in gruppi, altrimenti avrebbero potuto essere prese e punite dai Talebani. Nascondevano i libri e la cancelleria negli indumenti intimi, sotto i burqa. Alcune erano cosi' giovani che non capivano perche' dovevano nascondere tutto. Abbiamo dovuto spiegare loro i motivi". La scuola segreta funziono': molte delle studenti di Barakzai sono oggi al liceo o all'universita', oppure gia' lavorano come impiegate e giornaliste. "L'altro giorno ero all'Universita' di Kabul, e i professori mi hanno detto che erano sorpresi dal fatto che molte ragazze avessero frequentato solo 'scuole domestiche'. Erano impressionati dal livello di istruzione delle studenti della nostra scuola". * Ora nessuna legge impedisce alle bambine di avere un'istruzione, ma altri ostacoli permangono. Shukria Barakzai dice che la mancanza di sicurezza rende alcuni aspetti della vita ancora piu' terrificanti di quanto lo fossero sotto il regime talebano. L'Onu ha di recente rilasciato una dichiarazione assai preoccupata per il peggioramento delle condizioni delle donne in Afghanistan. Il paese ha uno dei piu' alti tassi al mondo di mortalita' correlata al parto: le statistiche Onu riportano che una madre su nove e un bimbo su sei muoiono a causa di svariate complicazioni durante il travaglio. "Nelle zone piu' povere una madre deve camminare otto o nove ore per raggiungere l'ospedale piu' vicino, commenta Barakzai, E quando e se ci arriva, spesso scopre che l'ospedale stesso non e' attrezzato abbastanza per aiutarla. Nel frattempo, per quanto si strombazzi a livello internazionale, l'istruzione delle donne anche in campo sanitario e' lenta a migliorare. Alle donne sposate, anche se sono giovanissime, non viene permesso di frequentare scuole assieme alle ragazze nubili. Ci sono oltre un milione di donne sposate che chiedono istruzione e formazione. Ben poco dei fondi destinati all'istruzione delle donne viene indirizzato verso questa richiesta. Ci sono solo due piccole scuole, a Kabul, con due classi ciascuna, che servono circa 500 donne. E' niente. Eppure gli Usa le indicano e dicono: Guardate cos'abbiamo fatto, come abbiamo aiutato le donne afgane". * Barakzai e' rimasta poco a New York, quando e' andata a ritirare il premio giornalistico, perche' doveva occuparsi della propria campagna elettorale e del settimanale che edita. "Lo specchio delle donne" ha una tiratura di 3.000 copie, ed informa le donne a proposito dei loro diritti rispetto alle leggi dello stato e all'Islam. Pare che anche gli uomini apprezzino la pubblicazione. "Un giorno una coppia, marito e moglie, sono venuti nel mio ufficio per dirmi che, grazie a me, la loro unione era piu' forte. Lui voleva divorziare, ma aveva letto un articolo sul mio giornale che spiegava come l'Islam non permetta ai mariti di maltrattare le mogli. Anche se un marito pensa che la moglie abbia sbagliato ne deve discutere con lei, e gentilmente. Quest'uomo fece cosi', comincio' a parlare con sua moglie, e parlando insieme riuscirono a risolvere i loro problemi". Guardando al futuro, Barakzai ha le idee chiare: "Le cose che servono alle donne, le cose importanti, sono l'istruzione, la democrazia e la liberta'". 2. PROFILI. ERNESTO MILANESI: ALBINO BIZZOTTO, UN PRETE CONTRO TUTTE LE BOMBE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 agosto 2005. Ernesto Milanesi, giornalista, scrive sul quotidiano "Il manifesto". Albino Bizzotto, impegnato in molte iniziative di pace e di solidarieta', promotore e presidente del movimento nonviolento "Beati i costruttori di pace", e' una delle figure piu' vive della nonviolenza in Italia] Un prete strano, fuori dal comune. Un uomo mite che, con coraggio, offre un contraltare all'indifferenza. Un pacifista radicalmente nonviolento: da sempre. Un testimone di frontiera. Una vita spesa, da un quarto di secolo, per gli ultimi. Un simbolo, perfino suo malgrado. Don Albino Bizzotto e' la figura che coincide ed incarna "Beati i costruttori di pace", il movimento di base esploso dentro la Chiesa del Triveneto nel 1985 e ancora in prima fila contro ogni guerra. Don Albino in questi giorni, frenetici come sempre, sta preparando le manifestazioni per i 60 anni dell'esplosione dell'atomica ad Hiroshima e Nagasaki. "Facciamo tutto con lo stesso spirito di condivisione e volontariato, che ci aveva spinto a marciare da Vicenza a Longare contro le testate nucleari e poi fino al 'campo' di Comiso. Ci ostiniamo a difendere la speranza, a denunciare gli squilibri del mondo, a costruire ponti al posto delle trincee", spiega concitato fra una telefonata, una riunione, una pedalata e una preghiera. Don Albino lo conoscono tutti come l'animatore instancabile dei "Beati", ma nessuno lo ha mai piegato a tradire la sua missione. E' fatto a modo suo. E non cambia piu'. "Predicava" le ragioni della pace dai microfoni di Radio Gamma5 senza concessioni alle nostalgie staliniste dei seguaci del generale Pasti. E' saltato sui binari ferroviari, quand'e' scoppiata la guerra globale, anche se continua a preferire don Milani ai Disobbedienti. Adesso rilancia la battaglia contro il nucleare militare, nonostante la sua Chiesa abbia espunto la teologia della liberazione. Un prete scomodo. Un uomo convertito. Racconta don Albino com'e' cominciato tutto: "Nel 1980 mi e' stato regalato un viaggio in America Latina: 40 giorni in Brasile e Ecuador. Ho visto la situazione nella baixada fluminense, vicino a Rio de Janeiro, con le case in un fiume di scolo e un tasso di violenza indescrivibile. Ma anche Riobamba con la piu' bella scuola del mondo, fatta per radio insieme agli indios. In Ecuador ho conosciuto la storia di monsignor Romero, che era stato assassinato in Salvador cinque mesi prima. In Italia si sapeva ben poco di lui. Quando e' morto credo ci sia stato un piccolo lancio di agenzia: niente altro. Quel viaggio, di fatto, ha cambiato la mia vita. Non sono piu' riuscito ad andare in vacanza e la croce di cuoio che porto al collo viene da Quito. E' diventata il mio habitus". * Nel "covo anarchico" Don Albino nasce a Cassola (Vicenza) nel 1939 da una famiglia contadina. Fin da bambino sente la vocazione, tant'e' che a soli 23 anni e' gia' prete diocesano. A Padova, insegna religione alle superiori: al liceo artistico di via Canal, scuola senza nome e con la fama di "covo anarchico", diventa l'interlocutore preferito di una generazione di ragazzi che al talento abbinano la rabbia. Don Albino tiene sempre la porta aperta nel piccolo appartamento che si affaccia su piazza dei Frutti. Casa di tutti nella stagione degli anni di piombo. Un via vai infinito di gente che aggiunge una sedia spaiata o discute stappando l'ultima bottiglia in comune. In Curia, quel prete troppo disponibile con i ragazzi e che si espone pubblicamente perfino sul referendum sull'aborto proprio non piace. E dal vescovo partira' un provvedimento disciplinare dopo l'altro: addio insegnamento, stipendio e pensione; la pecora nera sconta l'emarginazione della Chiesa ufficiale; in compenso, don Albino viene adottato dalle comunita' di base, cattoliche e non. Gli anni Ottanta, in Veneto, sono ancora segnati dalle trincee ideologiche: il processo 7 aprile, il Pci impermeabile al rinnovamento, l'Autonomia Operaia ancora organizzata. Don Albino "pacifica" con pazienza questo scenario paralizzante. "Abbiamo cominciato con un'azione di solidarieta' con il popolo del Salvador, che in quel momento si trovava nell'occhio del ciclone, fino alla manifestazione in piazza, a Padova, il 23 marzo 1981. E' stata l'iniziativa che ha spezzato il clima degli anni di piombo. Mi ricordo, quella sera c'erano Raniero La Valle, Alberto Tridente e Marianella Garcia. Alcune persone sono venute in lacrime a ringraziarmi: era la prima volta che si manifestava insieme. In piazza tornava, finalmente, la gente comune: vecchi, giovani, donne, bambini". E' un successo per il Comitato popolare veneto per la pace, l'intuizione che don Albino aveva condiviso (fra gli altri) con Michele Di Martino, Alberto Trevisan, Flavio Lotti e Gianna Benucci. Si spalanca piu' di un varco alle bandiere dell'arcobaleno: in marcia lungo la riviera berica, a fianco degli obiettori di coscienza e dei pionieri dell'obiezione alle spese militari, nelle prime manifestazioni contro i missili Cruise e Ss20. Il "nuovo pacifismo" prende sostanza nel cuore del Veneto ancora democristiano. "E' partita una scintilla che ha portato alla prima grande manifestazione, dalla caserma Ederle di Vicenza alla base Usa di Longare. Era il 30 agosto 1981. Subito dopo e' stata la volta della Perugia-Assisi e il 24 ottobre la grandissima manifestazione nazionale", spiega don Albino. L'anticipazione della stagione di Comiso: "Nel 1982 il primo campo pacifista a Vittoria per preparare le azioni nonviolente davanti ai cancelli dell'aeroporto di Comiso l'estate successiva. Il 6 agosto 1983, di nuovo nell'anniversario di Hiroshima, contro l'installazione dei Cruise. E' stata la prima volta che, insieme a noi pacifisti, hanno manifestato fianco a fianco i ragazzi della Fgci e gli autonomi. Tutti insieme abbiamo preso le cariche della polizia. Il 25 settembre c'e' stata un'altra azione formidabile a Comiso: invece di passare per le entrate centrali, siamo arrivati da un'altra parte. La polizia ci ha inseguito con gli idranti. Pioveva, era un giorno freddo: abbiamo preso acqua da sopra e anche da sotto. Saremo stati un migliaio, avevamo bloccato tutti gli accessi e con la polizia e' iniziato uno scontro diretto: noi bloccati li' per terra sotto i teloni di nylon, loro con gli idranti. Se il getto ti arrivava sulle orecchie, te le faceva saltare". Due anni dopo, don Albino si lancia in una nuova avventura. Con il comboniano Alex Zanotelli (il direttore di "Nigrizia" che aveva puntato l'indice su Craxi e Spadolini) e con il saveriano Eugenio Melandri lancia l'idea di "Beati i costruttori di pace". Riprendono il messaggio del Concilio, vent'anni dopo. Dal confine del Triveneto scrivono l'appello contro "l'aggressione che si fa crimine: gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame". Sono trascorsi vent'anni. Era davvero un altro mondo. Il pacifismo radicale dentro la Chiesa rappresentava una vera rivoluzione. Don Albino riavvolge il nastro della storia dei "Beati" e rivela qualche retroscena: "Servivano promotori autorevoli per un simile appello. Il primo da cui sono andato e' stato padre Germano Pattaro, il teologo veneziano dell'ecumenismo, molto amato, che era ammalato gravemente. Lui ha mostrato il testo a monsignor Luigi Sartori, presidente dei teologi italiani. E si sono aperte le porte. E' stato molto bello l'incontro con monsignor Alfredo Battisti, vescovo di Udine, che era stato il mio vicario generale a Padova e che conosceva bene la mia vita e le mie vicende ai margini della Chiesa. Mi ha detto: 'Questi contenuti sono evangelici'. Aderiva. Era fatta. Ma il nostro vero interlocutore era l'incaricato per la Commissione Giustizia e pace della Conferenza episcopale del Triveneto: il vescovo di Trieste, Lorenzo Bellomi. E lui aveva bisogno del placet del patriarca Marco Ce'. Nel 1985, mi guadagnavo da vivere come manovale. Mi mandarono a chiamare in cantiere: Bellomi aveva telefonato e mi voleva parlare. Sono corso a casa e dall'altra parte del filo la voce: 'Ti do l'adesione come commissione episcopale Giustizia e Pace del Triveneto'. Cosi' l'appello puo' cominciare a venir diffuso. Adesioni a valanga: cinquemila firme di preti, frati, suore. Si sono aggregati anche i laici. Alla fine, siamo arrivati a quindicimila adesioni". * Nel tempio della lirica Il 4 ottobre 1986 i "Beati" organizzano il primo meeting all'Arena di Verona dal titolo "Pace: diritto ed urgenza dei popoli" con migliaia di partecipanti uniti dai colori dell'arcobaleno. Nel tempio della lirica scaligera, l'appuntamento si ripetera': sfilano Rigoberta Menchu', Susan George, David Maria Turoldo a sostenere le campagne sul disarmo, contro l'apartheid. Con i "Beati" don Albino attraversa gli anni Novanta: in Bosnia e Kosovo, ma anche in Palestina, si concretizzano le "azioni di diplomazia popolare". Fra l'altro, le carovane de volontari dei "Beati" hanno garantito il servizio postale da e per Sarajevo dall'estate 1993 fino al gennaio 1996 consegnando complessivamente ottocentomila lettere e pacchi. Si chiude il Novecento e i "Beati" (nel frattempo costituiti in vera e propria associazione) lasciano il segno in Africa. Febbraio 2001, l'azione di "Anch'io a Bukavu": a Butembo, in Congo, oltre duecentomila persone hanno accolto i partecipanti ad un altro piccolo grande "miracolo". Poi esplode la guerra globale: don Albino ritorna a sventolare la bandiera dell'arcobaleno. E' in buona compagnia: il "popolo della pace" invade piazze e balconi. E come ogni 6 agosto, l'anima dei "Beati" che non va piu' in vacanza si prepara ad ammonire: "Mai piu' Hiroshima". 3. STUDI. MARINA GRAZIOSI: INFIRMITAS SEXUS. LA DONNA NELL'IMMAGINARIO PENALISTICO (PARTE SECONDA) [Dal sito di "Jura gentium. Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale" (http://dex1.tsd.unifi.it/juragentium/it/) riprendiamo il seguente saggio originariamente pubblicato in "Democrazia e diritto", n. 2, 1993, pp. 99-143 (vi e' anche una traduzione spagnola - di Mary Beloff e Christian Courtis -: Infirmitas sexus. La mujer en el imaginario penal, in "Nueva Doctrina Penal", 1999/A, pp. 55-95; ristampata in A. E. C. Ruiz (a cura di), Identidad femenina y discurso juridico, Editorial Biblos, Buenos Aires 2000, pp. 135-17. Marina Graziosi insegna sociologia del diritto all'Universita' "La Sapienza" di Roma, fa parte delle esperienze di "Balena" e di "Antigone"] 3. Un doppio sistema punitivo? Anche se in Italia il codice penale Zanardelli del 1889 sembro' chiudere l'argomento escludendo il sesso come fattore minorante l'imputazione, per opera in gran parte di Francesco Carrara - tra gli artefici del codice -, contrario da sempre all'idea di una possibile diversa imputabilita' per le donne (27), il dibattito continuera' a mantenersi vivo ancora per qualche decennio e interessera' non solo i giuristi ma anche e soprattutto gli scienziati e i medici positivisti, e in particolare - tra i medici - quelli che facevano riferimento alla scuola di ginecologia positiva e ai suoi piu' importanti esponenti, Muzio Pazzi e Luigi Maria Bossi (28). Mai come in questo periodo la questione del corpo femminile fu cosi' tematizzata e approfondita dalla riflessione giuridica, grazie anche all'emergere degli studi di medicina legale, e alle figure dei suoi piu' importanti esponenti, che molto spesso erano psichiatri. Identificando, in accordo con gli orientamenti medici piu' moderni, nelle "condizioni patologiche" "degli organi della maternita'" (29) l'origine di un'instabilita' nervosa che potenzialmente puo' condurre al delitto, alcuni proponevano per le donne diversi criteri di punibilita'. Anche Lombroso nel suo ampio trattato sulla donna delinquente (30) aveva affrontato fondamentalmente il tema del corpo femminile, partendo fin dalla descrizione della normalita' e delle anomalie nelle femmine degli animali per risalire via via fino alla donna. Ma la questione della pena e della imputabilita' era stata posta solo marginalmente. La sua antropologia era infatti rigidamente deterministica: in base ad essa non solo le azioni umane, ma anche le attitudini, le inclinazioni e le doti morali e intellettuali delle persone sono effetti meccanicistici della fisiologia o dalla patologia del corpo umano; il libero arbitrio, quindi, non esiste, le persone sono diverse l'una dall'altra in ragione delle loro differenze antropologiche, ed e' difficile percio' poter parlare di imputabilita' e pena. Tuttavia nel capitolo intitolato "terapia" aggiunto nell'edizione del 1927 del trattato dalla curatrice Gina Lombroso (31) troviamo un Lombroso favorevole al probation system, a una legislazione matrimoniale meno oppressiva per la donna in cui sia contemplato il divorzio, e inoltre la proposta di leggi piu' flessibili sull'aborto e sull'infanticidio. Quanto alle pene, "piu' che punire, basta nella maggior parte dei delitti delle donne, educare, far loro capire che esse hanno agito male" (32). Con quali sistemi? Le ipotesi punitive che vengono proposte si commentano da se': "Nelle donne percio' il carcere e le pene afflittive sono tanto meno necessarie che il loro reato, quasi sempre effetto di suggestione o di passione, le rende meno terribili quando si allontanino dal suggestionatore o dal tormentatore: amante o marito. Vista poi la grande vanita' femminile, l'importanza che essa da' al vestito, ai gingilli e ai mobili della sua casa si potrebbe sostituire molte volte nei reati di piccoli furti, di risse, le pene carcerarie con delle pene afflittive della loro vanita', come il taglio dei capelli, il sequestro degli ornamenti, dei mobili: soprattutto si deve nei ricoveri imporre il lavoro alle oziose collo spauracchio della fame". Neppure il punire le donne in modo particolare sembra essere una novita': "Adottando speciali pene per le donne noi ritorniamo a quanto facevano i nostri antichi, gli indiani, gli ebrei (Deuteronomio, XII), i Germani; anche in Russia nel medioevo la donna che aveva colpito il marito doveva cavalcare un asino al rovescio; in Inghilterra le donne che avevano rissato fra loro dovevano percorrere le vie del villaggio sollevando un peso a cui erano legate con catene, e le calunniatrici e ciarlone dovevano camminare con una musoliera" (33). Ma e' invece la questione del libero arbitrio quella che sembra essere la piu' importante per chi, come il penalista Enrico Ferri, dara' una versione direttamente giuridica delle teorie lombrosiane: "Tutti i criminalisti" - scrive nel suo La teorica dell'imputabilita' e la negazione del libero arbitrio del 1878 - "sono d'accordo nell'ammettere il sesso come circostanza minorante la pena... La questione verte invece nel decidere se il sesso debba ammettersi anche quale causa minorante il delitto o la imputazione" (34). Dopo aver distinto in generiche e specifiche le cause minoranti l'imputabilita' potenziale, Ferri annovera il sesso femminile tra le specifiche, insieme alla vecchiaia e al difetto d'educazione. Precisamente, il sesso femminile e' per Ferri una causa permanente di diminuzione della imputabilita' potenziale; a differenza delle cause che egli chiama "generiche", come l'eta' minore e il sordomutismo "con discernimento", il sonno e l'infermita' mentale "incompleti", l'ubriachezza semipiena e l'impeto di affetti meno violento, che sono in qualche modo transitorie. Nelle stesse pagine Ferri cita, in proposito, un'illuminante lettera di Comte a Stuart-Mill del 16 luglio 1843. Comte scrive: "Per quanto imperfetta sia tuttora da ogni lato la biologia, mi sembra che essa possa gia' stabilmente affermare la gerarchia dei sessi, dimostrando anatomicamente e ad un tempo fisiologicamente che in quasi tutta la serie animale, e soprattutto nella nostra specie, il sesso femminile e' costituito in una specie di stato di infanzia radicale che lo rende essenzialmente inferiore al tipo organico corrispondente" (35). Le tesi di Enrico Ferri - e in generale della Scuola positiva - sulla disuguaglianza tra i sessi e sulla sua rilevanza penale, sono ovviamente aderenti all'antropologia positivistica. L'imputabilita' delle donne, pertanto, e' tendenzialmente negata al pari di quella degli uomini, essendo considerata uno pseudoconcetto fondato sul pregiudizio del libero arbitrio ed e' sostituita dalla categoria della pericolosita'. Una simile antropologia vale a fondare "scientificamente" la differenza di sesso come disuguaglianza e precisamente come inferiorita' della donna rispetto all'uomo. Per questo nelle argomentazioni di Ferri, come in generale in quelle degli altri positivisti, i riferimenti alle tesi romanistiche e piu' in generale ai giuristi del passato sono piu' rare: la tesi dell'inferiorita' della donna non ha infatti piu' bisogno di accreditarsi con il principio d'autorita' ma s'inquadra perfettamente nella nuova antropologia; tanto piu' che il nuovo indirizzo si presenta come radicalmente innovatore rispetto alla tradizione e rifiuta programmaticamente qualunque continuita' con la vecchia cultura penalistica. Una tematica assai dibattuta - oltre a quella sulle ragioni e sull'origine di una criminalita' femminile statisticamente cosi' poco rilevante rispetto alle cifre globali - e' quella della discrasia tra penale e civile che si verrebbe a creare ammettendo la piena responsabilita' e imputabilita' delle donne. Se infatti a qualche studioso sembra, ad esempio, incoerente ed ingiusto che, ad un'asserita incapacita' legale di agire autonomamente per gestire la propria vita e i propri interessi, debba corrispondere una piena responsabilita' penale (36), la proposta non e' quella di rimuovere semplicemente le discriminazioni, che costringono la donna ad una cittadinanza civile e politica non piena, ma quella di avanzare l'ipotesi di un'imputabilita' minorata e addirittura di creare un doppio diritto penale. Cosi tra gli altri il penalista Francesco Puglia che sebbene si dichiari - in via di principio - contrario ad una minore imputabilita' delle donne, si produce nella difficile prefigurazione di ipotesi punitive diverse per esse. Dopo aver sostenuto che - pur essendo le differenze organiche fra l'uomo e la donna circostanze determinanti la minore criminalita' della donna rispetto all'uomo - esse non possono essere "ragioni giustificative per stabilire come principio generale la minore imputabilita' di lei" (37), ci spiega come possa giustificarsi, non solo la "concessione di circostanze attenuanti o minoranti la responsabilita' in un numero maggiore di casi, che non per gli uomini delinquenti" (38), ma anche la "necessita' di stabilire un criterio penale speciale per la donna" (39). Accogliendo in parte le tesi lombrosiane, Puglia classifica le donne delinquenti secondo tre categorie fondamentali: le "criminali nate", le criminali pazze e le criminali d'occasione. "Donde la conseguenza, che il sistema penale non puo' essere lo stesso per tutte le donne delinquenti, e che quindi nell'interesse dell'ordine giuridico o sociale e per non sacrificare inutilmente le donne delinquenti ad un mal compreso principio di difesa sociale, bisogna che si stabiliscano tre specie fondamentali di misure repressive che potrebbero essere: le case d'incorreggibili per la prima categoria; i manicomi criminali per la seconda; le pene restrittive della liberta' personale, messe in armonia con taluni surrogati penali, per meglio adattare la repressione all'indole della donna delinquente" (40). Sulle case d'incorreggibili cui sono destinate le "deliquenti nate", Puglia non si sofferma se non per chiedersi "se convenga la perpetuita' o la temporaneita' della reclusione, poiche', quando la donna ha raggiunto un'eta' avanzata e' nella impossibilita' di commettere delitti" (41). Quanto alle pene pecuniarie, esse non sembrano proprio essere adatte a colpire le donne: e cio' deriva dalla ovvia considerazione che le donne hanno con il denaro un rapporto assai mediato, in altre parole, che il denaro che hanno non e' il loro e che anche se lo fosse non ne potrebbero disporre interamente e liberamente. Osserva Puglia che "di pene pecuniarie non bisogna parlare, quando trattasi di delitti commessi da donne, perche' data la loro speciale posizione sociale, o la pena pecuniaria verrebbe convertita in pena restrittiva della liberta' personale o sarebbe di niuna efficacia per la condannata" (42). Meglio allora sarebbe la pena corporale con l'obbligo del lavoro - e qui Puglia si riferisce prevalentemente ad una pena di tipo detentivo - "la quale per essere efficace dovrebbe essere regolata diversamente avuto riguardo non solo all'indole della rea, ma anco alla natura particolare del delitto commesso" (43). Le posizioni piu' comuni tra i giuristi sono tuttavia quelle, non estreme, che propongono per le donne delle semplici mitigazioni di pena. Ma le motivazioni che essi adducono sono le piu' diverse: alle donne spetterebbe una pena piu' lieve in nome della loro minore razionalita' e responsabilita', o in proporzione alla loro maggiore fragilita' fisica (44), o ancora - se il senso della pena e' prevalentemente la sua azione deterrente - una pena ridotta tanto quanto basti, in astratto, a spaventare una donna. Al di la' delle differenti ipotesi, quello che sembra comune e' il bisogno che emerge comunque, anche se in forme diverse, di mettere in evidenza il fatto che il femminile porta con se' una permanente minorazione, e che il giurista ne e' consapevole (45). Da un versante del tutto opposto si muove la riflessione di Valeria Benetti, esponente del movimento politico femminile che nel suo La donna nella legislazione italiana (46) conduce un'attenta critica della legislazione vigente, non solo in materia civile, ma anche in quella penale. Il metodo e' quello di cercare di spiegare, nel modo piu' chiaro e accessibile, non solo i luoghi delle piu' macroscopiche differenziazioni, ma anche tutti quei punti in cui, ad un'apparente parita' di diritti, corrisponda una discriminazione di fatto nei confronti della donna, o l'aggravio delle responsabilita' che ad essa, in concreto, competono. Riprendendo lo schema classico del contrasto tra l'esclusione dai diritti politici e la piena responsabilita' penale, fin dall'inizio del suo saggio Benetti dichiara che un principio di equita' avrebbe dovuto far corrispondere alle "limitazioni fatte alle donne nei diritti civili nonche' all'esclusione assoluta dai diritti politici" anche delle limitazioni nelle responsabilita' che comportano una pena. Il legislatore, invece, ha disposto in senso contrario. "Riguardi speciali al sesso dovevano suggerire limitazioni nelle responsabilita', che portano a subire una pena morale e materiale, e non in quelle che, come corrispettivo, offrono il godimento di diritti". La legge invece riconosce alla donna una imputabilita', "una capacita' volitiva e intellettiva eguale a quella dell'uomo dinanzi alla responsabilita' del delitto" e "l'esercizio della capacita' giuridica e' esteso alla donna essenzialmente in ragione inversa del vantaggio, che ad essa puo' derivarne" (47). Sulla questione della imputabilita' penale delle donne quindi anche Benetti, si pronuncia per una minore responsabilita' ma con argomenti assai diversi da quelli incontrati finora. La donna non si trova in una condizione mentale di minor razionalita' ma piuttosto in una storica "relativa irresponsabilita' e incapacita'" indotta dalla "condizione effettiva di dipendenza in cui e' posta la donna rispetto all'uomo", "sia determinando in lei una relativa irresponsabilita' e incapacita', sia compiendo nella sua psiche una vera e propria selezione dei sentimenti di remissivita', di acquiescenza, di incondizionata obbedienza" (48). E' sotto questo profilo che Benetti analizza il codice penale, passando cosi' in rassegna i luoghi che ritiene piu' significativi, come ad esempio la figura della correita'. Infatti, essa dovrebbe essere considerata diversamente quando il correo e' una donna che e' spesso legata a chi ha commesso il reato da vincoli affettivi, o quando, anche in nome di questi vincoli, si possa ipotizzare che la volonta' femminile sia stata coartata. Benetti critica anche con forza il fatto che la posizione di preminenza del marito si mantenga intatta nella famiglia, anche quando questi sia stato condannato a pene lunghe e per reati infamanti. Infatti, se il giudice lo consente, l'uomo puo' mantenere intatto l'esercizio della patria potesta' e addirittura dell'autorizzazione maritale. E critica inoltre, avendo sempre presente la concretezza delle fattispecie che possono verificarsi, la formulazione di molti reati, dall'abuso dei mezzi di correzione e dei maltrattamenti in famiglia, alla riduzione in stato di schiavita', l'adulterio, il ratto, la violenza carnale, il delitto d'onore. Con acutezza si sofferma anche sulle piu' evidenti contraddizioni di quest'ultimo, sostenendone l'abolizione, se non altro per l'impossibilita' di stabilire una vera e propria eguaglianza di trattamento fra i sessi. "Difatti e' razionalmente esclusa dalla legge la considerazione del caso in cui la sorella uccida il fratello sorpreso in illecito concubito" (49). E ancora una serrata critica, sposando la tesi della pena come difesa sociale, all'esclusione o diminuzione dell'imputabilita' per i reati commessi in stato d'ubriachezza dando per scontato che essi vedano quasi sempre come vittime delle donne. * Note 27. F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale (1857), X ed., Cammelli, Firenze 1907, I, p. 232: "Sara' minore il numero delle donne che delinquono; ma la donna che ha delinquito, appunto perche' la eccezione e' piu' rara, bisogna dirla piu' corrotta e malvagia dell'uomo che fa altrettanto: o per lo meno bisogna dirla ugualmente responsabile, e tanto basta. Affermisi pure se vuolsi, che le donne sono piu' morali degli uomini perche' piu' raramente delinquono; ma la donna che ha delinquito non puo' trovare scusa alla sua immoralita' nella moralita' delle sue compagne". 28. Sul dibattito tra ginecologi, psichiatri e criminalisti - tutti di fede positivista - cfr. V. P. Babini, F. Minuz e A. Tagiavini, op. cit. 29. E. Ferri, Prefazione a B. Fera, La donna e la sua imputabilita' in rapporto alla psicologia e patologia del suo apparato genitale, Athenaeum, Roma 1913, pp. 3-5. Muovendo dalla tesi che "la personalita' organica e psichica della donna e' la risultante della sua grande funzione specifica, la maternita'... che esige dalla donna non l'attimo fuggente di volutta' che da' l'uomo, ma il sacrificio organico della gravidanza, del parto, del puerperio e dell'allattamento, si spiega", secondo Ferri, "come la donna resti nel suo sviluppo personale fra il fanciullo e l'uomo adulto". Questa spiegazione, avverte Ferri, in quanto connette alla maternita' sia "talune superiorita'" della donna sull'uomo, "come lo spirito di sacrificio e l'altruismo", sia "le aberrazioni individuali e sociali della donna" parimenti legate alle "condizioni patologiche degli organi della maternita'", non e' solo un'acquisizione scientifica ma e' anche "di un'importanza decisiva e suprema, cosi' per il benessere materiale e morale delle famiglie, come per la vita sociale, come per la giustizia civile e penale". E rappresenta la base per una riforma penale che, nella prospettiva di "una giustizia penale piu' veramente umana" e "regolata dalle speciali condizioni della donna", si fondi sulla necessita' che "anche per le donne delinquenti bisogna che la clinica criminale adotti e adatti particolari provvedimenti", secondo il principio generale che "ad ogni categoria di delinquenti" devono sempre "adattarsi i provvedimenti di profilassi e di difesa che corrispondano alle loro particolari condizioni personali di riadattibilita' sociale". Il nesso tra funzioni intellettive e funzioni riproduttive delle donne era gia' stato sostenuto da E. Spangenberg, op. cit., pp. 169-170. La tesi sara' ripresa e sviluppata da Herbert Spencer: cfr. A. Rossi Doria, Le idee del suffragismo, in Ead. (a cura di), La liberta' delle donne. Voci della tradizione politica suffragista, Rosenberg e Sellier, Torino 1990, p. 302. 30. C. Lombroso e G. Ferrero, La donna delinquente. La prostituta e la donna normale (1892), V ed. F.lli Bocca, Torino 1927. 31. Sul modo in cui lavorava Lombroso con sua figlia Gina, cfr. il bel libro di D. Dolza, Essere figlie di Lombroso. Due donne intellettuali tra '800 e '900, Angeli, Milano 1990. 32. C. Lombroso e G. Ferrero, op. cit., p. 446. 33. Ibid. 34. E. Ferri, La teorica dell'imputabilita' e la negazione del libero arbitrio, Barbera, Firenze 1878, pp. 583 ss. 35. E .Ferri, loc. cit. 36. Si veda, per esempio, G. Michelet, La donna (1856), Libreria editrice moderna, Genova 1914, p. 18: "La legge civile dichiara la donna inferiore all'uomo e la condanna ad un'eterna interdizione. L'uomo si e' costruito abusivamente suo tutore: ma quando si tratta degli errori ch'essa puo' commettere, delle pene nelle quali puo' incorrere, oh! allora la donna e' trattata come se fosse maggiorenne, ed e' tenuta severamente responsabile di tutte le sue azioni. Eterna contraddizione delle antiche leggi barbariche! Ella e' ceduta altrui come una cosa, ma punita come una persona". La stessa tesi fu sostenuta dal medico legale G. Morache in un saggio intitolato La responsabilite' criminelle de la femme differente de celle de l'homme e apparso su "La Revue" del 15 settembre 1901, nel quale, tra l'altro, egli critica i calcoli statistici di Lombroso, che gonfiavano quantitativamente la criminalita' femminile facendovi rientrare la prostituzione e riprende tuttavia la tesi della particolare labilita' della psiche femminile partendo dalla tossicita' post-partum per poi considerare gli altri "periodi" di instabilita' femminile. Su quest'ultima questione, si veda anche, di G. Morache, Grossesse et accouchement, etude de socio-biologie et de medecine legale, F. Alcan, Paris 1903. 37. F. Puglia, Le donne delinquenti e la legge penale, in "La Scuola Positiva nella giurisprudenza penale", III, 1893, p. 585. 38. Ibid. 39. Ibid. 40. Ivi, p. 586. 41. Ibid. 42. Ivi, p. 588. 43. Ibid. 44. Cosi', per esempio, Tancredi Canonico pone il sesso tra le altre "considerazioni che consigliano una diminuzione nel grado della pena": "Parlando del grado del reato, gia' abbiamo riconosciuto che ne' la vecchiaia ne' il sesso femminile non sono cause che scemino l'imputabilita': perche' la maggiore debolezza o la maggiore sensibilita' nell'organismo non diminuisce la pienezza ne' dell'intelletto, ne' della libera volonta'. Ma questa minore vigoria fisica renderebbe in realta' piu' pesante pel vecchio e per la donna la pena ordinaria: per conseguenza esige una diminuzione nel grado della pena. La medesima cosa si dica di quelle altre fisiche debolezze che venissero da infermita' o da gracilissima costituzione. Per cio' i Romani raddolcivano pel vecchio la pena corporale, non la pecuniaria. Per cio' il codice penale del 1859 stabilisce che sia mitigata la pena dei lavori forzati pel settuagenario, per la donna, e per chi fosse riconosciuto fisicamente inetto al genere di lavori prescritti" (Del reato e della pena in genere. Memorie delle lezioni, Utet, Torino 1872, p. 329). 45. Cfr. M. Manfredi e A. Mangano, op. cit., p. 46; V. Babini, op. cit., pp. 29 ss. 46. Edito per la prima volta nel 1904 dall'associazione "Per la donna" e in seguito nel 1908 a cura del Consiglio nazionale delle donne italiane, in occasione del primo Congresso femminile nazionale delle donne italiane, l'opuscolo, stampato su due colonne, da un lato riporta gli articoli piu' significativi del codice civile e di quello penale, dall'altro lato il commento. La figura di Valeria Benetti e' ricordata da F. Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia. 1848-1892, Einaudi, Torino 1963, pp. 266 e 275, e da M. De Giorgio, Le italiane dall'Unita' a oggi, Laterza, Bari-Roma 1992, pp. 13 e 331. Cfr. anche M. Manfredi e A. Mangano, op. cit., p. 53. 47. V. Benetti, La donna nella legislazione italiana, cit., p. 47. 48. Ivi, pp. 48-49. 49. Ivi, p. 68. (Parte seconda - Segue) 4. LIBRI. NORBERTO BOBBIO PRESENTA "PASQUA DI MAGGIO" DI GOFFREDO FOFI [Dal sito www.lindice.com riprendiamo la seguente recensione di Norberto Bobbio al libro di Goffredo Fofi, Pasqua di Maggio. Un diario pessimista (Marietti, 1988) apparsa sulla rivista "L'Indice", nel n. 1 del 1989. Norberto Bobbio e' nato a Torino nel 1909 ed e' deceduto nel 2004, antifascista, filosofo della politica e del diritto, autore di opere fondamentali sui temi della democrazia, dei diritti umani, della pace, e' stato uno dei piu' prestigiosi intellettuali italiani del XX secolo. Opere di Norberto Bobbio: per la biografia (che si intreccia con decisive vicende e cruciali dibattiti della storia italiana di questo secolo) si vedano il volume di scritti autobiografici De Senectute, Einaudi, Torino 1996; e l'Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997; tra i suoi libri di testimonianze su amici scomparsi (alcune delle figure piu' alte dell'impegno politico, morale e intellettuale del Novecento) cfr. almeno Italia civile, Maestri e compagni, Italia fedele, La mia Italia, tutti presso l'editore Passigli, Firenze. Per la sua riflessione sulla democrazia cfr. Il futuro della democrazia; Stato, governo e societa'; Eguaglianza e liberta'; tutti presso Einaudi, Torino. Sui diritti umani si veda L'eta' dei diritti, Einaudi, Torino 1990. Sulla pace si veda Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, varie riedizioni; Il terzo assente, Sonda, Torino 1989; Una guerra giusta?, Marsilio, Venezia 1991; Elogio della mitezza, Linea d'ombra, Milano 1994. A nostro avviso indispensabile e' anche la lettura di Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, 1977; Profilo ideologico del Novecento, Garzanti, Milano 1990; Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993. Opere su Norberto Bobbio: segnaliamo almeno Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante, Bollati Boringhieri, Torino 1989; Piero Meaglia, Bobbio e la democrazia: le regole del gioco, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1994; Tommaso Greco, Norberto Bobbio, Donzelli, Roma 2000. Per la bibliografia di e su Norberto Bobbio uno strumento di lavoro utilissimo e' il sito del Centro studi Piero Gobetti (www.erasmo.it/gobetti) che invitiamo caldamente a visitare. Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, ha lavorato in campo pedagogico e sociale collaborando a rilevanti esperienze. Si e' occupato anche di critica letteraria e cinematografica. Tra le sue intraprese anche riviste come "Linea d'ombra", "La terra vista dalla luna" e "Lo straniero". Per sua iniziativa o ispirazione le Edizioni Linea d'ombra, la collana Piccola Biblioteca Morale delle Edizioni e/o, L'ancora del Mediterraneo, hanno rimesso in circolazione testi fondamentali della riflessione morale e della ricerca e testimonianza nonviolenta purtroppo sepolti dall'editoria - diciamo cosi' - maggiore. Opere di Goffredo Fofi: tra i molti suoi volumi segnaliamo almeno L'immigrazione meridionale a Torino (1964), e Pasqua di maggio (1989). Opere su Goffredo Fofi: non conosciamo volumi a lui dedicati, ma si veda almeno il ritratto che ne ha fatto Grazia Cherchi, ora alle pp. 252-255 di Eadem, Scompartimento per lettori e taciturni, Feltrinelli)] Ci siamo conosciuti, credo, molti anni fa, in occasione del processo a Danilo Dolci di cui si parla nel libro a p. 166. Io avevo scritto la prefazione a Banditi a Partinico (1955), lui non ancora ventenne si era unito "da pochissimo tempo, appena laureato maestro" al "piccolo gruppo" dei collaboratori di Danilo. Poi ho letto molti suoi articoli prima sui "Quaderni Piacentini", da ultimo su "Linea d'ombra", se pure disordinatamente. Non sapevo di avere con Fofi tanti pensieri, maestri, amici, comuni. L'ho scoperto leggendo questo bel libro, amaro e aspro (sin troppo aspro, a mio parere, in certi giudizi su alcune persone). Sapevo della sua amicizia con Panzieri, che aveva affascinato molti giovani come lui per il rigore dell'impegno politico mai disgiunto dalia passione per la ricerca. Avevo, invece, un'idea vaga della sua ammirazione ed amicizia per Aldo Capitini, cui e' dedicata, insieme con Panzieri ed Elsa Morante, la prima sezione del libro, intitolata "Tre maestri" (curiosamente scrissi anch'io molto tempo fa un articolo con lo stesso titolo, ma si trattava piu' dimessamente di tre professori del mio liceo). Recentemente ho appreso, leggendo "Linea d'ombra", della attrazione esercitata su di lui dallo sconosciutissimo, in Italia, Guenther Anders, da cui anch'io avevo avuto la prima ispirazione, presentando la traduzione italiana di un suo libro, segnalatomi da Renato Solmi, ad interrogarmi sulla minaccia della guerra atomica. Tanto forte questa attrazione da provocare un serio contrasto con Panzieri, come si legge nelle pagine che lo riguardano, per quel tanto di "settario" che aveva impedito al gruppo di capire che Anders, con il suo pensiero critico e fideistico, era "piu' vicino alla verita'" (p. 34). Abbiamo condiviso l'amicizia con Ada Gobetti, di cui Fofi mette bene in evidenza l'utopia concreta - l'averci insegnato che tra il dire e il fare non c'e' di mezzo il mare, ma solo la nostra pigrizia e la gioiosa generosita'. Non avrei immaginato infine di trovare, fra i personaggi del libro, Manlio Rossi-Doria, del quale serbo tanti cari ricordi: i miei primi viaggi negli Stati Uniti e l'ultima passeggiata di qualche anno fa per le vie di Torino, a passo lentissimo, osservando cose e costumi dei torinesi e discorrendo dei meridionali immigrati. Nell'elogio di Rossi-Doria sono elencate le qualita' del maestro ideale: l'indipendenza di pensiero, la tensione pratico-utopica, la chiarezza dei rapporti tra mezzi e fini, entusiasmo e "persuasione" (parola il cui profondo significato solo un capitiniano puo' capire) (p. 175). Mi trovo a concordare quasi sempre coi giudizi che nel libro si leggono su opere e autori. Per esempio, quando a proposito della Storia di Elsa Morante scrive che essa "fu anche una messa in guardia rivolta, dalla parte delle vittime della Storia, alle vittime stesse e a coloro che si assumevano il compito di guidare la loro liberazione, col perenne rischio di ripercorrere strade che avevano portato a nuovi domini e oppressioni" (p. 38). Sono anch'io convinto che L'orologio di Carlo Levi, che Fofi chiama "bellissimo", sia "il miglior romanzo politico della nostra letteratura". Credo anch'io che Palomar, che egli definisce "un'autobiografia filosofica", sia il libro piu' affascinante di Calvino (ne ho parlato io stesso su questa rivista qualche tempo fa). E infine sono anch'io un ammiratore di Altan (e' difficile non esserlo). E poiche' Fofi ne cita alcune vignette, mi sia permesso di citarne a memoria una anch'io, feroce, in segno di omaggio. Un padrone passa accanto a un operalo che lavora con due uncini al posto delle mani e gli dice: "Coraggio, piu' di due volte non puo' succedere". * Il libro ha per sottotitolo Diario pessimista. Ma Fofi e' davvero un pessimista? Non direi. O almeno e' un pessimista scontento di esserlo, che si sforza di non esserlo. A una continua polemica con gli ottimisti faciloni (una razza che si va estinguendo pero'), per i quali viviamo nel migliore dei mondi possibili, fa da contrappunto una polemica altrettanto serrata coi pessimisti faciloni, per i quali, il mondo va in rovina ma non c'e' niente da fare. Vi e' un passo in cui vengono distinti tre tipi d'intellettuali: coloro che si appagano di cio' che esiste, gli apocalittici "non riconciliati", i "non soddisfatti", i quali non rinunciano a immaginare un mondo migliore e si danno da fare, senz'illusioni, a cambiarlo (p. 106). Fofi si schiera decisamente con questi ultimi, anche se, ma questo lo aggiungo io, per i primi non ha che disprezzo, coi secondi, invece, sente il bisogno di confrontarsi, perche' chi ha elevato a suo maestro Anders corre il pericolo continuamente di "apocalittismo". Ma contro la disperazione dell'apocalittico reagisce: "Sono portato a credere anch'io che il mondo va verso la sua rovina, ma in ogni caso, fino a un minuto prima che questo avvenga, occorre battersi per contrastarlo" (p. 177). C'e' anche un passo in cui confessandosi con estrema sincerita', dice: "Sono un po' apocalittico anch'io" (p. 105). A proposito del Palomar di Calvino, protesta contro la "piccola rigorosa apocalissi da camera" che esso c'insegna, ma precisa subito dopo: "Non abbiamo nulla contro le apocalissi e ci pare impossibile e insensato non sentirsi oggi degli apocalittici" (p. 181). Ma una volta assunta l'ipotesi dell'apocalissi, come si fa a stare con le mani in mano ad attenderla, a non fare nulla per impedirla? A questo punto, nel continuo sforzo che Fofi compie per definire la sua posizione di "chierico" gli si presenta un'altra contrapposizione, quella fra "iperrealisti" che si consolano di cio' che quotidianamente accade anche se ne provano orrore, e "serafini", che "dall'alto dei cieli guardano disincantati le miserie nostre e le macerie della storia, con gaudente e corrucciato fervore" (p. 181). Tutti e due, se pure per ragioni opposte, stanno a guardare. A chi rifiuta di appartenere agli iperrealisti e ai serafini occorre invece una "morale attiva", che non rinunci ai valori tradizionali ma li sostanzi di "analisi radicali" invece che di progetti velleitari. Chi parla cosi' e' uno che e' passato di delusione in delusione in questo "sgradevolissimo paese" (p. 13). Ma, come si vede, le delusioni non lo hanno scoraggiato. Aveva cominciato il suo tirocinio di utopista concreto con Danilo Dolci, ma a un certo punto si rende conto che questa pur nobile esperienza si e' isterilita, e lo abbandona. Inizia a collaborare a "Il Nuovo Corriere", "uno dei migliori quotidiani d'Italia", ma era un giornale troppo libero per i duri comunisti d'allora e viene bruscamente soppresso. Partecipa al gruppo della sinistra radicale di Panzieri, ma quando si accorge che questo radicalismo non e' radicale abbastanza di fronte alla negazione della violenza, se ne va e considera ''definitivamente chiusa'' questa nuova prova. Poi e' venuto il '68, che ha suscitato nei giovani non conformisti tante speranze, ma anche questa grande agitazione e' finita male in ''fallimenti brucianti" (p 177). Si legga, esemplare, la Lettera a Lotta Continua sulla violenza (p. 62 e ss.). Cosi il mai soddisfatto ha finito per trovarsi sempre dalla parte dei perdenti. "Purtroppo finiscono per vincere sempre loro" (p. 55). ''Abbiamo fallito quasi in tutto" (p 55). Non poteva del resto essere altrimenti per chi ha sempre creduto che la vera vocazione del chierico fosse quella, come gli aveva insegnato Elsa Morante, di mettersi dalla parte delle vittime. Aveva cominciato molto presto a Parigi, negli anni cinquanta, a provare, da un lato, una profonda antipatia per tutto cio' che sapeva di Terza internazionale e, dall'altro, per i valori sbandierati e non creduti del mondo occidentale. E gliene era venuto un profondo disgusto per "l'enorme inesauribile capacita' degli intellettuali di scendere a patti, di mentirsi e mentire, di voltar gabbana, d'inventarsi fittizie autonomie nel momento del piu' brutale servizio verso questo o quel potere" (p. 189). Si capisce che un giovane che aveva avuto cosi' presto simili avversioni era predestinato alla solitudine, a diventare, come si legge nella prefazione, "un piccolo savonarola esacerbato e scontento". In un breve saggio su Orwell, ammirato per l'onesta' e il coraggio, scrive le parole piu' sconsolate, che sembrano preannunziare il rifiuto definitivo del mestiere sempre piu' impraticabile e inutile del chierico: "Un modello, Orwell, seguire il quale e' oggi un'impresa piu' difficile che mai perche' sempre piu' ci si domanda che senso puo' avere ancora, nella presente situazione, scrivere e parlare. In nome di che cosa. Per chi" (p. 191). Nonostante tutto, nonostante "l'abominevole contesto che ci macina" (p. 217), Fofi crede ancora alla speranza che nasce dalla disperazione. Anche la speranza che nasce dalla disperazione, egli dice, ha le sue ragioni (p. 183). Ma sono "ragioni", o non sono forse impulsi, affetti, emozioni, volonta' di credere? Inutile chiedere una risposta a questa domanda. La sola risposta, che rinvia a un'ulteriore domanda, e' quella secondo cui la speranza che nasce dalla disperazione deve essere sorretta da "una morale superiore" e nutrita da "una ostinata aspirazione alla liberazione di tutti" (p. 188). "Liberazione di tutti" e', come ognun vede, una espressione capitiniana. Il messaggio di Aldo Capitini e' forse l'unico che per Fofi si sia salvato dal "disastro" in cui sono precipitati tutti i movimenti. Ma e' rimasto sinora inascoltato. 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1017 del 9 agosto 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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