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La nonviolenza e' in cammino. 1016
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1016
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 8 Aug 2005 00:32:59 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1016 dell'8 agosto 2005 Sommario di questo numero: 1. Ernesto Balducci: Le tre verita' di Hiroshima 2. Giulio Vittorangeli: La rosa di Hiroshima 3. Quello che resta 4. Marina Graziosi: Infirmitas sexus. La donna nell'immaginario penalistico (parte prima) 5. Riletture: Lidia Menapace, Chiara Ingrao (a cura di), Ne' indifesa ne' in divisa 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. ERNESTO BALDUCCI: LE TRE VERITA' DI HIROSHIMA [Riproponiamo ancora una volta queste nitide pagine contenute nell'introduzione del libro di Ernesto Balducci e Lodovico Grassi, La pace. Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983; un ottimo libro per le scuole che illustrava ed antologizzava la tradizione del pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a Anders. L'introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al convegno di "Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei punti di elaborazione piu' alti e profondi del grande movimento pacifista che in quegli anni si batteva contro il riarmo atomico dell'est e dell'ovest. il testo integrale dell'introduzione - la cui lettura vivamente raccomandiamo anche per le proposte di lavoro che Balducci vi formula - abbiamo piu' volte riproposto su questo foglio, da ultimo ne "La domenica della nonviolenza" n. 17, del 17 aprile 2005. Ernesto Balducci e' nato a Santa Fiora (in provincia di Grosseto) nel 1922, ed e' deceduto a seguito di un incidente stradale nel 1992. Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore culturale, promotore di numerose iniziative di pace e di solidarieta'. Fondatore della rivista "Testimonianze" nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986. Oltre che infaticabile attivista per la pace e i diritti, e' stato un pensatore di grande vigore ed originalita', le cui riflessioni ed analisi sono decisive per un'etica della mondialita' all'altezza dei drammatici problemi dell'ora presente. Opere di Ernesto Balducci: segnaliamo particolarmente alcuni libri dell'ultimo periodo: Il terzo millennio (Bompiani); La pace. Realismo di un'utopia (Principato), in collaborazione con Lodovico Grassi; Pensieri di pace (Cittadella); L'uomo planetario (Camunia, poi Ecp); La terra del tramonto (Ecp); Montezuma scopre l'Europa (Ecp). Si vedano anche l'intervista autobiografica Il cerchio che si chiude (Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una cosa (Ecp); la raccolta postuma di scritti su temi educativi Educazione come liberazione (Libreria Chiari); il manuale di storia della filosofia, Storia del pensiero umano (Cremonese); ed il corso di educazione civica Cittadini del mondo (Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su Ernesto Balducci: cfr. i due fondamentali volumi monografici di "Testimonianze" a lui dedicati: Ernesto Balducci, "Testimonianze" nn. 347-349, 1992; ed Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti umani, "Testimonianze" nn. 373-374, 1995; un'ottima rassegna bibliografica preceduta da una precisa introduzione biografica e' il libro di Andrea Cecconi, Ernesto Balducci: cinquant'anni di attivita', Libreria Chiari, Firenze 1996; recente e' il libro di Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernita', Laterza, Roma-Bari 2002; cfr. anche almeno Enzo Mazzi, Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma 2002; e AA. VV., Verso l'"uomo inedito", Fondazione Ernesto Balducci, San Domenico di Fiesole (Fi) 2004. Per contattare la Fondazione Ernesto Balducci: tel. 055599147, e-mail: feb at fol.it, sito: www.fondazionebalducci.it] Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate. L'umanita' e' entrata in un tempo nuovo nel momento stesso in cui si e' trovata di fronte al dilemma: o mutare il modo di pensare o morire. Essa vive ormai sulla soglia di una mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia. Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e' avvenuta e noi siamo vivi! Non e' forse vero che l'abisso si e' spaventosamente allargato dinanzi a noi? D'altronde le mutazioni non avvengono con ritmi serrati e uniformi. In ogni caso si puo' gia' dire, con fondatezza, che si sono andate generalizzando alcune certezze in cui e' facile scoprire il riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della mutazione. La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica della storia, essa si e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu' recente e piu' organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere umano e' ormai una verita' economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non e' il Sud a dipendere dal Nord ma e' il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la sua economia dello spreco e' resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi, piu' specificamente, perche' esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra memoria i 50 milioni di morti dell'ultima guerra, ma cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per l'appunto, nel solo anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre meglio conosciuto, che la morte per fame non e' un prodotto fatale dell'avarizia della natura o dell'ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale che riversa un'immensa quota dei profitti nell'industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioe' 10 volte di piu' del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa. Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza, non hanno piu' la coscienza tranquilla. La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della pace, ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e' arrivato a coincidere con l'istinto di conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressivita' distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo.che la sfera della morale e quella dell'istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali che la voce dell'istinto di conservazione (di cui la paura e' un sintomo non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia sta cambiando di qualita'. La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla sfera della razionalita'. Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma sempre le culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e cioe' come uno strumento limite della ragione. E difatti, nelle nostre ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare il linguaggio di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava l'"avvenimento" fausto. Ma ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non genererebbe nessun avvenimento. O meglio, l'avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo materno dell'accadimento. 2. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: LA ROSA DI HIROSHIMA [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"] Come tutti ho un sacco di paure con cui fatico a convivere, che si estendono in questa immensa continua carneficina di intreccio tra guerra e terrorismo; ma anche un sacco di sogni che mi aiutano a non cadere nell'assuefazione. Ecco perche' mi fanno paura quelli che pensano (anche in buonafede) che questo sia l'unico mondo possibile e vorrebbero impedirmi di sognare e provare a costruirne un altro. Tanto per fare un esempio, basta guardare all'Italia odierna, e inevitabilmente ci sentiamo cadere le braccia. Noi abbiamo consentito che il fascismo rientrasse dalla finestra mascherato da postfascismo. La repubblica nata dalla Resistenza e' diventata una repubblica delle banane. Con un capo del governo che, per fare nuove guerre, si e' dimenticato quella mondiale, e sostiene che Mussolini non abbia mai fatto morire nessuno. Con un ministro degli esteri che non sa decidersi se Mussolini sia stato il piu' grande statista del '900 o se il fascismo sia il male assoluto. Poi c'e' anche chi (e non solo a destra) mette sullo stesso piano partigiani e miliziani di Salo', tutti "figli di mamma" che si battevano, ciascuno a modo loro, per lo stesso "amor di patria". Il tutto tra tripudi di tricolore e inni di Mameli. * Certo non c'e' solo l'Italia, ed il tutto e' molto piu' grande e complesso: la guerra preventiva, il terrorismo fondamentalista... che fare, come capire? Apparentemente due strategie che si confrontano. La guerra preventiva e ideologica dei nostri "volenterosi" leader occidentali (fondamentalismo imperialista, se dobbiamo rispolverare questo termine quasi dimenticato), e quella altrettanto ideologica del terrorismo fondamentalista e integralista islamico. Entrambi progetti di conquista che ipotecano il futuro e la realta'. Da questo confronto mortale (semplificato nel corto circuito Baghdad-Londra) bisogna disertare contrapponendo non un'altra idea di conquista del mondo, ma una strategia di cambiamento e trasformazione; una strategia che riscatti la vita umana, mai cosi' svalutata come in questo momento. Il terrore e la guerra hanno, oggi come oggi, un punto di vista strategico. Noi, sessant'anni dopo Hiroshima e Nagasaki, forse un punto di vista adeguato ancora non ce l'abbiamo. O almeno non e' cosi' dirompente e diffuso da segnare una rottura rispetto a guerra e terrorismo, che dia senso alla vera umanita'. Ancora una volta: che fare, come capire? * Cosi' torna in mente, nei giorni in cui molto si parla e si scrive dell'atomica, una vecchia canzone di Vinicius de Morales: Pensate ai bambini muti telepatici pensate alle bambine cieche inesatte pensate alle donne rotte alterate pensate alle ferite come rose candide ma non dimenticatevi della rosa della rosa della rosa di Hiroshima la rosa ereditaria la rosa radioattiva stupida e invalida la rosa con cirrosi l'anti-rosa atomica senza colore senza profumo senza rosa senza niente. Allora, se c'e' un compito futuro e' sicuramente quello di spingerci all'umano proprio la' dove non ci aspettiamo di trovarlo, in tutta la sua fragilita', ai limiti della sua capacita' di significare. Sara' nostro compito interrogare l'emergere e il dileguarsi dell'umano ai limiti del conoscibile, dell'udibile, del visibile, del percepibile. L'umano e', ancora e sempre, cio' che dobbiamo ancora conoscere. 3. RIFLESSIONE. QUELLO CHE RESTA Questo resta, dopo Auschwitz e dopo Hiroshima: la scelta della nonviolenza. Poiche' solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. 4. STUDI. MARINA GRAZIOSI: INFIRMITAS SEXUS. LA DONNA NELL'IMMAGINARIO PENALISTICO (PARTE PRIMA) [Dal sito di "Jura gentium. Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale" (http://dex1.tsd.unifi.it/juragentium/it/) riprendiamo il seguente saggio originariamente pubblicato in "Democrazia e diritto", n. 2, 1993, pp. 99-143 (vi e' anche una traduzione spagnola - di Mary Beloff e Christian Courtis -: Infirmitas sexus. La mujer en el imaginario penal, in "Nueva Doctrina Penal", 1999/A, pp. 55-95; ristampata in A. E. C. Ruiz (a cura di), Identidad femenina y discurso juridico, Editorial Biblos, Buenos Aires 2000, pp. 135-17. Marina Graziosi insegna sociologia del diritto all'Universita' "La Sapienza" di Roma, fa parte delle esperienze di "Balena" e di "Antigone"] Il problema dell'uguaglianza, e quello dei diritti ad essa connessi, sembra essersi posto oggi in modo nuovo al centro di un ampio dibattito. Molte delle domande che vengono avanzate riguardano da un lato il senso complessivo della cittadinanza e le possibilita' di azionarla da parte di soggetti considerati "deboli", dall'altro i conflitti creati dall'emergere di tali soggetti e le risposte che ad essi si danno. Si deve soprattutto alla riflessione femminile se agli approcci piu' classici al tema si e' aggiunto un diverso punto di vista, quello della differenza di genere, che sembra aver scardinato molte antiche certezze. Il pensiero delle donne si e' mosso infatti in questi anni su percorsi teorici assai fecondi e costruttivi, nell'intento di chiarire non solo tutti quegli elementi che rendono la differenza di genere non assimilabile alle altre, ma anche di avanzare delle proposte (1). Uno dei termini del problema e' naturalmente il diritto. E la possibilita' che all'interno di esso si renda visibile - in senso nuovo - la differenza. Ma in quali forme, in che modo e' possibile realizzare il senso nuovo che a un diritto di genere vorrebbe darsi? E quali rischi puo' comportare un simile approccio? Qualche risposta alle domande di oggi puo' forse offrirla una ricognizione sommaria del passato, alla ricerca non solo delle tracce giuridiche della "servitu' delle donne", ma anche di segni che ne illuminino la complessita' ed il senso. L'esclusione delle donne, infatti, sembra essere non solo la piu' antica e la piu' duratura nel tempo, ma anche quella il cui disegno e le cui motivazioni sono iscritte piu' chiaramente nel diritto. E' possibile, quindi, per ricostruirne la storia, far riferimento ad un corpus gia' dato e articolato di norme, di concetti e costruzioni dottrinarie, anche volendone trascurare l'implementazione. Molteplici, naturalmente, sono i piani in cui il diritto misura la sua forza. Il suo compito e il suo concreto esercizio non sono solo quelli di governo e regolazione dei conflitti, di costruzione di limiti, ma anche di produzione e riproduzione del simbolico, attraverso gli universi linguistico-normativi cui il sociale deve attingere. La norma, in questo modo, pur regolando un determinato ambito, si riverbera necessariamente anche sul resto. Puo' essere interessante, percio', dare senso alle forme, spesso solo simboliche, della differenziazione del femminile nei rituali della giustizia e della pena che ricorrono nella nostra storia passata. Nel diritto stesso possono poi trovarsi anche le tracce di importanti contraddizioni, rispetto alla soggezione femminile, che testimoniano della capacita' di erosione da parte delle donne del potere patriarcale anche attraverso lo strumento giuridico. Contrariamente a quanto spesso si pensa, legislatori e giuristi hanno sempre dato senso e rilevanza, anche nel passato piu' remoto, alla presenza femminile nella societa'. Una presenza da governare saldamente per regolare, senza problemi, un assetto che si voleva di impronta patriarcale. Nel passato i giuristi non hanno affatto ignorato l'esistenza di due generi nel mondo che disciplinavano. Se questo puo' essere accaduto per i diritti politici di cittadinanza, in cui - come e' stato giustamente osservato (2) - l'universale neutro delle dichiarazioni dei diritti ha, di fatto, significato solo il maschile, cio' non sembra riguardare altri importanti ambiti giuridici, nei quali la consapevolezza della presenza femminile ha dato vita a regole precise e minuziose volte principalmente, se non esclusivamente, alla tutela e al mantenimento di una struttura patriarcale. In altri termini, l'esclusione o "dimenticanza" del femminile - sussunto nell'universale "uomo" - ha precluso alle donne, nel modello della democrazia moderna, una sfera di poteri, prima di tutto quello politico, grazie alla definizione e al concreto disegno sul maschile dei diritti fondamentali dell'individuo. Nel campo del diritto civile e del diritto penale, invece, la presenza regolata del femminile ha assunto il senso da un lato di una limitazione della sfera delle liberta', dall'altro di una regolazione degli specifici doveri delle donne. Come si sa, nel diritto civile e in quello pubblico, e' stata in atto in vari modi almeno fino al primo decennio del nostro secolo - e per alcuni ambiti ancora oltre - una sorta di tutela delle donne che impediva loro, di fatto, di esercitare una piena cittadinanza. Esclusione dal diritto di voto e dal diritto di amministrare, in modo del tutto autonomo, il proprio patrimonio, insieme alla impossibilita' di accesso pieno allo studio e all'esercizio di alcune importanti carriere, facevano fino ad allora della donna una cittadina minorata, esclusa in sostanza dalla sfera pubblica, e vincolata, da subalterna, a quella privata. E' forse meno noto pero' che nel passato venissero non solo praticati, ma anche teorizzati modi diversi di punire gli uomini e le donne. E che queste disuguaglianze - anche nella stessa costruzione di alcuni reati - presenti in Europa, in vario modo, secondo le diverse legislazioni, per tutto il corso dell'ancien regime, siano state spesso riproposte da importanti criminalisti anche nel nostro secolo. Qualsiasi ipotesi di differenziazione penale tra soggetti che si suppongano capaci di intendere e di volere ci appare oggi estranea ed ingiusta. Forse per questo motivo si e' portati a non considerare e a rimuovere cio' che per secoli e' stata una realta'. Una realta', si badi, mai del tutto esplicitata in modo chiaro, ma da rintracciare, seguendo strade secondarie, tra mille difficolta' nelle pieghe del discorso giuridico. Ad esempio nelle raccomandazioni ai giudici, espresse comunque in modo generico, di tener conto tra gli altri di un elemento di fatto, quello appunto del sesso. O di particolari forme, spesso dettate dalla cautela, talvolta invece tese alla piu' rigida esemplarita', nell'applicazione della pena ad un condannato di sesso femminile. Non intendo qui, anche se potrebbe essere un percorso molto interessante, dare conto di tutte le tracce esplicite e implicite di differenziazione che si possono reperire nel passato e identificarne le persistenze nel diritto del presente, quanto cercare di dare un senso alla ratio che ha guidato chi le ha costruite. Cio' che e' sorprendente e' infatti la sostanziale omogeneita' che puo' ritrovarsi, a tale riguardo, in societa' ed epoche anche lontane. Gli usi piu' antichi infatti si sedimentano ed operano come fonti di legittimazione, accreditando tesi che si vorrebbero invece pensate e praticate ab aeterno. Penale, pubblico e civile appaiono, inoltre, nel caso delle donne, sia pur contraddittoriamente connessi: discriminazioni e minorazioni, presenti in questi differenti campi, per secoli si sono accreditate reciprocamente riferendosi le une alle altre con procedimenti teorici di tipo circolare. Il punto di vista che qui propongo, quello di un'analisi della dottrina penalistica in una prospettiva storica, e' apparentemente anomalo, ma sicuramente produttivo. Il diritto penale offre infatti un doppio vantaggio: da un lato esso e' piu' trasparente perche' il piu' lontano, nella nostra coscienza moderna ed ugualitaria, da ogni ipotesi di differenziazione: siamo percio' portati a considerarlo come campo tutto particolare, segnato da sempre dai confini invalicabili della perfetta uguaglianza. Dall'altro lato, esso sembra rivelare, in modo piu' chiaro, le strutture simboliche che hanno guidato il legislatore, per essere invece piu' vicino - come cerchero' di mostrare piu' avanti - a quei complessi territori in cui mito e rito sembrano governare la legge. Una ricostruzione di questo tipo, non puo' costringersi, naturalmente, entro i limiti di una stretta periodizzazione. Pur privilegiando, in quanto particolarmente significative, le teorizzazioni dei criminalisti del secolo scorso, ho preferito - in una prospettiva di lungo periodo - seguire un criterio tematico identificando i filoni piu' importanti. Il primo filone riguarda la questione dell'imputabilita' penale delle donne, il secondo le differenziazioni nella pena. * 1. L'imputabilita' delle donne Fin dall'inizio del secolo scorso, e poi nelle teorizzazioni della Scuola positiva di diritto penale - quando ormai sembrano praticamente scomparse dalle legislazioni continentali le differenze legate al sesso - viene riproposta da piu' parti l'idea di una peculiarita' della devianza femminile, che richiederebbe percio', in armonia con il diritto civile, una differente considerazione, in base anche alle contemporanee acquisizioni scientifiche nel campo della fisiologia. La presenza femminile e la sua regolazione nel diritto penale avevano, fino ad allora, interessato i giuristi prevalentemente sotto due aspetti: da una parte quello del controllo della sfera della sessualita' nella definizione e costruzione di reati come quelli di adulterio, aborto, stupro, seduzione, o infanticidio, cioe' reati specificamente connotati al femminile come sesso; dall'altra quello della necessita' di porre un limite - e la valenza puramente simbolica di questo limite e' ancora tutta da indagare - nell'infliggere pene ad un corpo femminile. La questione dell'imputabilita' femminile invece era stata riproposta e piu' volte messa in discussione anche da importanti giuristi - si pensi ad esempio a Carmignani - che avevano ipotizzato per le donne una attenuazione, diminuzione o addirittura esclusione della imputabilita' richiamando l'antico principio della infirmitas sexus, l'impedimento dovuto al sesso (3). In questo periodo la questione si lega, come si e' detto, alle nascenti elaborazioni "scientifiche" sull'inferiorita' naturale della donna, e si connette al piu' generale dibattito su libero arbitrio e imputabilita' (4). Sembrerebbe che l'affermazione dell'uguaglianza di fronte alla legge, che trova la sua origine nelle prime dichiarazioni dei diritti, provochi ad un certo punto, con l'emergere delle rivendicazioni femminili, l'onere della giustificazione della persistente ideologia della disuguaglianza e delle sue conseguenze pratiche. Se per lunghi secoli la semplice evocazione del concetto generico e assai flessibile di infirmitas sexus - ad indicare, ad ogni occasione, una sorta di perpetua minorazione delle donne - era sembrata sufficiente, in questa fase si ritiene necessario invece rafforzarne la struttura. Ed e' per questo che la riflessione giuridica approfondisce e tematizza la questione del corpo femminile. Si vuole che questo incarni, infatti, una innegabile differenza che sarebbe contro natura voler colmare o cancellare: per mezzo dell'educazione, ad esempio - grande tema dell'emancipazionismo settecentesco - o peggio ancora attraverso la parita' dei diritti. Gli interrogativi che i giuristi cominciano a porsi in questa fase, sono connessi da un lato, appunto alla fisiologia del corpo femminile e alle sue implicazioni emotive e comportamentali, dall'altro alle capacita' di giudizio e di raziocinio delle donne e alla loro incidenza sulla comprensione e conoscenza delle norme. Le donne, ci si chiede, sono nella loro capacita' di delinquere uguali agli uomini, o non sono forse piu' facilmente assimilabili, per la loro debolezza ed immaturita', ai vecchi, ai minori, ai pazzi? Nel loro sviluppo personale non restano forse in un perpetuo stato intermedio tra il fanciullo e l'uomo adulto? E l'accertata maggiore sensibilita' e complessita' dell'animo femminile rende le donne che delinquono piu' o meno colpevoli? Quali sono i crimini tipici "del sesso femminile"? La pena, infine, deve essere inflitta alle donne negli stessi modi adottati per punire reati commessi da maschi? Su queste domande gli studiosi si dividono tra quanti sostengono la piena uguaglianza giuridica tra uomini e donne in campo penale - fatte salve le differenze che sussistono nel civile, considerate universalmente giuste e quasi ovvie perche' dettate dalle convenienze sociali, come garanzia dell'ordine delle famiglie - e quanti invece propongono per le donne una minore o diversa imputabilita', coerentemente, del resto, con il diritto civile che ne limitava la capacita' d'agire e con il diritto pubblico che ne negava l'elettorato attivo e passivo. Una posizione intermedia sara' quella piu' prudente di chi, diffidando dell'ipotesi di un doppio diritto penale, proponeva per le donne una semplice attenuazione delle pene. * 2. Razionalita', libero arbitrio, imputabilita' Un aspetto che rende particolarmente interessante il paradigma giuridico della diversita'/inferiorita' femminile che si sviluppera' nel corso dell'Ottocento, e' che esso, anticipando e connettendosi al paradigma scientifico della inferiorita' naturale delle donne - quale si verra' delineando nelle sistematizzazioni del pensiero positivista - sembra ritrovare, rinnovandole, le antiche argomentazioni alla base della subalternita' femminile, prima fra tutte quella della scarsa razionalita' delle donne. Entrambi i paradigmi - giuridico e scientifico - avranno naturalmente un grandissimo peso nella costruzione di un modello di donna cui sara' considerato normale adeguarsi e patologico discostarsi e che perdurera' anche nel Novecento. Guardando al secolo scorso, quando si tratta di decifrare la legittimazione giuridica della disuguaglianza delle donne, la costruzione stessa della differenza dei sessi come disuguaglianza, rivela qualcosa di arcaico che sembra persistere al di la' di ogni possibile modernizzazione. E il continuo, anacronistico, ricorso a una generica tradizione antica, trova percio' una sua naturale giustificazione. E' infatti nelle rappresentazioni ottocentesche del "femminile" che si attribuisce a questo genere una sorta di perenne arcaicita'. Quest'idea, riconducibile peraltro alla filosofia dei lumi, trova pero' la sua piu' larga diffusione - anche a livello di senso comune - prevalentemente nel corso dell'Ottocento. Quando si teorizza sulle donne, sul genere femminile, e sul mondo immutabile di questo, segnato da eventi naturali per sempre e da sempre uguali a se stessi, si presuppone e insieme si costruisce il paradigma di un'umanita' al femminile costantemente e ciclicamente identica, estranea anche ai mutamenti storici. Cio' sembra escludere la donna dall'idea di progresso lineare, dall'idea-forza che segna il secolo e che con il positivismo assume il senso di una legge necessaria alla base del processo storico (5) per relegarla, come umanita' necessariamente involuta, nella spirale della sua eterna ciclicita'. Sono gli esseri umani di sesso maschile che portano avanti il progresso aprendo e sperimentando nuove vie che conducono verso la modernita'; il femminile vivendo dentro la scansione naturale di eventi senza tempo, deve ritornare, attraverso i passaggi obbligati del biologico, sempre allo stesso punto, fuori dal "moderno" che sembra includere quindi, in tal modo, solo il maschile. Il modello di femminilita' che si suppone normale, cui e' giusto che le donne si conformino e' prima di tutto un modello materno, la donna, infatti, prima di ogni altra cosa e' madre, e nella maternita' si esprime e si realizza gran parte del destino femminile. Sembra addirittura che negli "organi della maternita'" si spenda gran parte dell'energia possibile, che percio' la forza intellettuale e la razionalita' delle donne debbano necessariamente esserne minorate. Ma anche le donne che non sono madri soffrono ugualmente questo tipo di minorazione, e, in aggiunta, corrono il pericolo che gli organi della riproduzione, rimanendo inattivi, procurino dei pericolosi " ristagni" che si possono riverberare sull'umore, e quindi sulle capacita' raziocinanti. Al di la' delle differenti valutazioni sul grado della responsabilita' e sulla conseguente imputabilita', sembra generalmente condivisa l'idea che il sesso (e dicendo "sesso" si dice sempre "sesso femminile") debba comunque essere una causa di diminuzione e di differenziazione. Anche se non e' facile stabilire quanto cio' possa aver avuto effettivamente dei riflessi sulla concreta amministrazione della giustizia. Ed e' paradossale che sia proprio dai progressi dell'anatomia e della fisiologia che si siano tratte quelle conclusioni che contribuiranno a definire il maschile come paradigma dato, e il femminile come diverso. D'altro canto, proprio la resistenza ad ogni attribuzione di modernita' al femminile potrebbe spiegare le continue oscillazioni ed il costante intreccio, nelle argomentazioni dei giuristi, tra le dissertazioni scientifiche sull'anatomia e sulla fisiologia del corpo umano e i richiami alla letteratura del passato piu' remoto, e, in particolare, alla tradizione romanistica. Un elemento ricorrente, nella letteratura criminalistica del secolo scorso sul nostro tema, e' infatti il costante richiamo alle fonti romane. I riferimenti a tali fonti, che potrebbero apparire relativamente marginali perche' molto lontane in ogni senso dall'universo di discorso in cui ci si muove, assumono invece un diretto interesse per comprendere i processi stessi della costruzione dell'inferiorita' giuridica della donna. La maggior parte dei giuristi, infatti, quando affronta la questione dell'incapacita' e degli impedimenti connessi al sesso femminile, sente la necessita' di richiamarsi alla sapienza antica, sia a quella dei giureconsulti romani, sia a quella dei Padri della Chiesa. Questi richiami sono spesso oscuri e contraddittori e si prestano talvolta a suffragare tesi diverse o addirittura opposte. Il concetto romanistico cui piu' spesso si fa riferimento - talvolta esplicitandone il significato, piu' frequentemente solo postulandolo come qualcosa di ovvio e scontato, ma quasi mai discutendone la fondatezza - e' quello di infirmitas sexus, o di imbecillitas sexus oppure di fragilitas sexus (6) che, dalle sue primitive formulazioni, mantiene pressoche' intatta la sua vitalita' nel corso dei secoli diffondendosi in tutta Europa. Cio' che e' costante nella storia di questa categoria e' da un lato la genericita' e l'ambiguita' dei suoi usi, dall'altro la duttilita' e molteplicita' delle sue applicazioni. A seconda delle necessita', l'infirmitas dispieghera' sempre, e nella maniera piu' estesa, una straordinaria capacita' di discriminazione e insieme di controllo sulle azioni delle donne. La si ritrova come presupposto al divieto per il sesso femminile di rivestire cariche pubbliche, di essere giudici, di assumere tutele, di postulare nec pro alio intervenire, cioe' di esercitare l'avvocatura (7). Di denunciare o accusare per taluni reati. Oppure ad escludere il dolo, e a giustificare talune scusanti per l'ignoranza del diritto, infine a rendere dubbia o non valida una testimonianza femminile. Ma se si risale direttamente alle fonti, e si analizzano i principali luoghi in cui e' presente questo concetto, l'estensione che nel corso del tempo si e' voluta attribuire ad esso sembra assai amplificata. E come e' stato dimostrato, la sua stessa formulazione sembra essere spesso frutto di interpolazioni (8). Cio' che qui interessa pero' non e' tanto la ricostruzione del senso legittimo dell'infirmitas quale compariva nell'opera dei giureconsulti romani, quanto il fatto che essa abbia rappresentato nel coso dei secoli un legame con la sapienza antica a giustificazione e fondamento della soggezione delle donne. Anche se con differenti determinazioni, la minorita' femminile sembra essere gia' stata sperimentata dai criminalisti nel corso dei secoli: quando filosofi come Spencer o Darwin o Comte, per non parlare di Moebius, o del nostrano Mantegazza, cominciano a dedicarsi ai loro studi sulla donna, gia' molto e' stato scritto dai giuristi per esempio in tema di femminilita' e ragione. Cosi' Farinaccio, il cui monumentale trattato Praxis et theorica criminalis esercito' una larghissima influenza sullo sviluppo del diritto penale in Italia e in Francia e fu utilizzato comunemente per tutto il corso del Settecento, sostenne una minore punibilita' delle donne in base alla loro minore razionalita' (9). Tesi in gran parte riprese da Tiraquello, che anche non sembrava nutrire molta fiducia nella razionalita' femminile, autore di un ampio saggio di diritto familiare e matrimoniale, una vera e propria summa di regole, la cui autorita' in materia oriento' i piu' importanti giuristi almeno nei due secoli seguenti (10). E ancora altri come Anton Matthaeus o il piu' moderno Renazzi sostennero con simili argomenti la minore punibilita' femminile (11). Il lavoro ottocentesco piu' significativo, se non altro per la sua ampiezza, sull'imputabilita' penale delle donne e' il saggio sul sesso femminile del medico Ernst Spangenberg, scritto negli anni venti e pubblicato in Italia in una raccolta di scritti germanici del 1846 curata da Francesco Antonio Mori (12). E' probabile che esso abbia esercitato una notevole influenza sulle opinioni dei penalisti italiani, sia per il prestigio della raccolta che per la sua larga circolazione. Anche Spangenberg, dopo essersi interrogato sul paradosso di una "perpetua tutela" delle donne nei "diritti civili" in contrasto con la loro parificazione al maschio "quando si tratta di delitti e pene", affronta il problema seguendo uno schema che sara' in seguito imitato da molti. Il suo punto di partenza e' un'analisi dettagliata delle facolta' raziocinanti della donna in rapporto alla sua sfera sessuale e l'idea che solo in base a un'ipotesi "metafisica" si possa non vedere nessuna differenza "fra l'anima virile e la muliebre" (13); sicche' gli sforzi che si vorrebbero fare in direzione di un'educazione delle donne - e qui cita significativamente Catherine Macaulay e Mary Wollstonecraft - sono illusori. Entrambi i sessi, ammette Spangenberg, appartengono alla specie umana, e in quanto esseri razionali sono certamente uguali fra loro. "Ma l'essere razionale nel mondo dei sensi dipende ancora dal corpo, e da molte altre cose, ed e' cosi' suscettivo di parecchie varieta' e disuguaglianze, che sono prodotte o determinate da quelle circostanze. Il sesso, l'eta', la salute influiscono sulla potenza dell'animo, quanto l'educazione, i costumi, le consuetudini: e percio' tutte queste cose debbono porsi in bilancia per determinare lo stato giuridico di ogni membro della citta'" (14). E' quindi necessario, in primo luogo, occuparsi della conformazione del corpo della donna, e poi delle sue attitudini intellettuali. Il corpo della donna, osserva Spangenberg, e' molto diverso da quello dell'uomo: "basta a provarlo anche uno sguardo fugace" (15). E le diversita' sono "altrettanti contrapposti alla natura virile" (16): le ossa sono molto piu' rotonde, bianche e molli, i muscoli molto piu' sottili, deboli e lenti, i loro filamenti piu' flessibili, umidi e soffici. E ancora: "I nervi ed anche il cervello sono in proporzione piu' piccoli: e quelli sono piu' molli, e i loro capi molto piu' tenui dei virili" (17). Tutto, insomma, indica una generale debolezza e delicatezza, e se si volesse con una diversa educazione modificare questa delicatezza e "ingagliardire l'espressione dei muscoli e modificare la forma delle membra, cio' sarebbe un rivestirsi del potere della natura; perche' siffatte alterazioni violente si convertirebbero in vere perturbazioni della natura muliebre" (18). Ma non solo i muscoli sono piu' delicati. Nel corpo femminile esiste una sensibilita' molto piu' acuta e i nervi sono piu' eccitabili. E questa maggiore sensibilita' "viene accresciuta, e specialmente diretta dagli organi che sono formati per lo scopo particolare della donna" (19). "La potenza degli organi sessuali esercita una maggior signoria sul corpo della donna. Tostoche' essi sono entrati in azione, e godono della loro propria vitalita', traggono a se' in qualche modo la intiera organizzazione, la dominano, e la modificano, e non di rado la disturbano, e la sconvolgono" (20). Gli organi sessuali femminili, sostiene Spangenberg, sono strettamente connessi con il sistema nervoso e quindi esercitano la loro grande influenza anche sulla "attivita' spirituale". E questa influenza, al di la' delle difficolta' di accertarla in base ad uno studio di anatomia comparata sul cervello, puo' essere stabilita "osservandone" le varie manifestazioni. Il risultato di questa osservazione - argomenta circolarmente Spangenberg - e' precisamente che c'e' una grande differenza tra la forza intellettuale dell'uomo e quella della donna. Le donne, osserva ancora Spangenberg, sono piu' sensibili a tutto cio' che e' esterno; ed hanno una "immaginativa" piu' mobile che profonda, "piu' baleni di pensiero che pensieri" (21). Il loro pensiero e' assai instabile e percio' esse non hanno mai fatto grandi scoperte. Le donne cambiano idee continuamente. Operano per sentimento piu' che per idee razionali. In esse le facolta' di conoscere e giudicare sono piu' deboli. Giudicano secondo le apparenze del momento e non si curano delle conseguenze. Sui loro giudizi influiscono molto di piu' gli esempi che i principi. Mancano quindi di indipendenza perche' il giudizio degli altri pesa enormemente sul loro. Ma se la facolta' di conoscere e giudicare e' piu' debole che negli uomini, la facolta' "appetitiva" e' nelle donne molto piu' elevata. Esse sono insomma guidate nell'azione dai sentimenti, anziche' dalla conoscenza e dalla volonta' perche' "sentono realmente piu' che non pensino" (22). Di qui anche l'eccessivita' delle donne. Nell'animo femminile si agitano le passioni piu' contraddittorie, e tutti i movimenti dell'animo dimostrano sentimenti eccessivi. "Le loro virtu' toccano l'estremo, come i loro vizi: una donna buona e' migliore di un uomo ottimo, una cattiva e' mille volte piu' trista d'un pessimo" (23). La sincerita' per le donne e' un merito maggiore che per gli uomini poiche' esse inclinano maggiormente alle simulazioni all'astuzia, alla scaltrezza. Infine Spangenberg dedica una lunga analisi alla mancanza del libero arbitrio nelle donne. "la coscienza della legge non si trova mai nel sesso muliebre al medesimo grado che nel sesso virile". E questo perche' esse, "a fronte di un sentimento attuale, sogliono disprezzar tutto cio' che lor si presenta come regola obbligatoria"; perche' "inoltre la grande vivacita' ed instabilita' dei sentimenti muliebri consente di rado che l'impressione di una legge penale duri nelle donne tanto lungamente, che esse ne serbino memoria mentre sono agitate dalla tempesta dei movimenti dell'animo e delle passioni; perche' infine esse "sono impedite il piu' delle volte di pervenire a una distinta cognizione delle leggi" cui esse "obbediscono senza comprenderne lo spirito" e "si permettono d'interpretare a capriccio". Si puo' insomma ammettere la coscienza dell'illiceita' dell'azione per i soli delitti naturali, ma non certo per i fatti "delittuosi per la sola ragione del divieto positivo" (24). D'altro canto, se nelle donne non puo' riconoscersi la coscienza della legge, neppure puo' rinvenirsi la "liberta' del volere", infatti "Si puo' credere, che esista una piena liberta' di volere in relazione all'imputabilita', allorche' le tre faculta' capitali dell'animo umano, cioe' di conoscere, di giudicare e di appetire, stanno in tal rispetto fra loro, che le prime due possano dirigere e moderare la terza. Ma in quella stessa misura, che negli uomini, cio' non si verifica nelle donne a motivo delle particolari proprieta' del loro corpo, delle conseguenti attitudini limitate del loro spirito, e di altre circostanze di educazione, di costumanze, e di relazioni civili" (25). La conclusione e' quindi che "debba l'imputazione essere ordinariamente minore nel sesso muliebre"; che in particolare si "esige una pena piu' mite pei delitti d'infanticidio e di procurato aborto, quando sono stati causati dalla tema di perdere l'onore del sesso; e che lo stesso vale per gli altri delitti "nei quali grandemente influiscono gli organi sessuali e gli appetiti che ne procedono, come l'adulterio, l'incesto e simili" che parimenti "sono meno imputabili nella donna che nell'uomo" (26). * Note 1. Si veda, in questo fascicolo ["Democrazia e diritto", n. 2 1993], l'analisi e la rassegna dei diversi contributi sul tema svolta da Tamar Pitch. 2. A. Cavarero, "Per una teoria della differenza sessuale", in Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987; Ead., "L'ordine dell'uno non e' l'ordine del due", in Il genere della rappresentanza, a cura di M. L. Boccia e I. Peretti, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 67-80. E' interessante rilevare che nella Magna Charta del 1216, che contiene la prima enunciazione di diritti "universali", la donna viene espressamente menzionata per escluderla dal diritto di denuncia e di accusa (vedi, infra, la nota 87). 3. Scrive infatti Carmignani nel suo Elementi di diritto criminale (1808), tr. it. dal latino di G. Dingli, Stab. Tip. P. Androsio, Napoli 1854, p. 56: "Egli e' certo dietro le osservazioni dei fisiologi, che gli organi della generazione hanno molta influenza su quelli che servono all'intelletto. Nelle femmine la midolla spinale e' piu' debole e delicata che non lo e' nei maschi. Quindi han quelle piu' deboli le forze dello spirito e piu' fermi i mezzi di acquistare le idee fornite loro dalla natura. Cio' posto il sesso femminile e' pure una giusta causa perche' il delitto venga all'agente meno imputato". Un'analisi delle dottrine giuridiche dell'inferiorita' della donna e' sviluppata da M. Manfredi e A. Mangano, Alle origini del diritto femminile. Cultura giuridica e ideologie, Dedalo, Bari 1983. Di grande interesse e' inoltre V. P. Babini, Il lato femminile della criminalita', in V. P. Babini, F. Minuz e A. Tagliavini, La donna nelle scienze dell'uomo. Immagini del femminile nella cultura scientifica italiana di fine secolo, Angeli, Milano 1989. 4. Va ricordata - contro le soluzioni semplicistiche proposte dal positivismo ottocentesco dell'enorme problema del dilemma tra determinismo e libero arbitrio - la voce dissonante (tacitata dal suo internamento in manicomio) di H. von Druskowitz, Sono possibili la responsabilita' e l'imputabilita' senza supporre il libero arbitrio? (1887), tr. it. di M. G. Mangione, in Una filosofa dal manicomio, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. 5-32. 5. Si veda J. Bury, Storia dell'idea di progresso (1932), tr. it. di V. Di Giuro, Feltrinelli, Milano 1984. 6. Le espressioni "fragilitas sexus", "infirmitas sexus", "sexus infirmus" e "imbecillitas sexus" compaiono in taluni luoghi romanistici: C. 5, 3, 20, 1; D. 22, 6, 9; D. 16, 1, 2, 3; D. 49, 14, 18. Ma esse ebbero anche fortuna presso i padri della Chiesa, da S. Girolamo a S. Agostino, e poi nella letteratura canonistica. Si veda, sul punto, la recensione di M. T. Guerra Medici del libro di G. Minnucci sulla capacita' processuale della donna nel pensiero canonistico, in "Studi senesi", CIII, I, 1991, pp. 170-174. 7. "Feminae ab omnibus officiis civilibus vel publicis remotae sunt et ideo nec iudices esse possunt nec magistratum gerere nec postulare nec pro alio intervenire nec procuratores existere" (D. 50, 17, 2). Sull'interdizione a Roma delle donne dai "virilia officia", cfr. E. Cantarella, La vita delle donne, in Storia di Roma, a cura di A. Momigliano e A. Schiavone, Einaudi, Torino 1989, vol. IV, pp. 557-608. Per quanto riguarda l'avvocatura, Cantarella ricorda che durante la repubblica vi furono casi sia pure eccezionali nei quali le donne sostennero direttamente in giudizio le loro ragioni, ma che sempre fu loro vietato di "postulare pro aliis". 8. Cfr. S. Solazzi, "Infirmitas aetatis" e "infirmitas sexus" (1930), in Scritti di diritto romano, Jovene, Napoli 1960, vol. III, pp. 357-367. 9. Prospero Farinacci (1544-1618) scrive: "Decima causa minuendi penam erit ea, quae sexus fragilitatem respicit: Regula enim est, mulieres non sic graviter puniendas, quam mares, ac in poenis infligendis sexus rationem habendam... Tiraquellus qui hanc conclusionem, et causam bene comprobat... ea potissimum ratione ductus, quia in foemina minus est rationis quam in viro... ergo minus puniri debet" (Praxis et theorica criminalis, II, I, Quaestio 98, n. 1, Venezia 1604, p. 309). 10. Andre' Tiraqueau (1480-1558), italianizzato in Tiraquello, seguendo un costume assai diffuso tra i giuristi invoca anche l'autorita' della sapienza antica: "Nam divinus ille Plato dubitare videtur, utro in genere mulierem, rationalium animalium, an Brutorum " (A. Tiraquello, De legibus connubialibus et iure maritali, L 1, n. 69, Lione 1554). 11. Anche l'olandese Anton Matthaeus (1601-1654) afferma: "Aliquo lenius agendum cum muliere propter infirmitatem tum corporis, tum animi, atque consilii. Qua animi infirmitate fit ut quemadmodum facile labitur, ita etiam facilius poenae cogitatio a peccando eam absterreat" (De criminibus (1644), Anversa 1771, Tit. XVIII, cap. IV, 21). Filippo Maria Renazzi (1747-1808), a sua volta, pone il sesso tra le varie cause intrinseche di attenuazione della pena: "Aetatem sequitur sexus, qui non secus ac illa generatim habetur pro intrinseca causa temperandi poenas. (Tiraquel. caus. IX) Feminae siquidem hominum voluptati, et procreationi a natura destinatae, cum corpore utantur molli, ac delicato, consilii maturitate indigent, animique vigore, qui a corporis compage et robore vel maxime pendet. Itaque viris animo et corpore longe imbecilliores non adeo, ut illi, nequiter agere, minorique quodammodo dolo videntur delinquere. Propterea existimandum leges suum non aeque ac in mares, in feminas quoque rigorem exercere. Aequum enim est sexus infirmitatis misereri; ex quo fit ut mitius sit leniusque cum feminis agendum" (Elementa juris criminalis (1773), Bologna 1826, pp. 119-120). 12. E. Spangenberg, Del sesso femminile, considerato relativamente al diritto ed alla legislazione criminale, in Scritti germanici di diritto criminale raccolti da F. A. Mori, Nanni, Livorno 1846. Nella raccolta sono pubblicati, tra l'altro, saggi di C. J. A. Mittermaier e di Waechter sull'infanticidio. 13. Ivi, p. 165. 14. Ivi, p. 166-167. 15. Ivi, p. 168. 16. Ibid. 17. Ibid. 18. Ivi, p. 169. 19. Ibid. 20. Ivi, pp. 169-170. 21. Ivi, pp. 171-172. 22. Ivi, p. 174. 23. Ivi, p. 176. 24. Ivi, pp. 178-179. 25. Ivi, p. 180 26. Ivi, pp. 180-181. "Lo stesso e' da dire", prosegue Spangenberg, "di quei delitti, in cui ha luogo la seduzione altrui, ed ai quali serve di fondamento una particolar propensione del sesso, come la vanita' e la mania di piacere": "esempigrazia", precisa in nota, "il furto di gioielli e di vesti, non per avidita' di guadagno, ma per desio d'ornamento". (Parte prima - Segue) 5. RILETTURE. LIDIA MENAPACE, CHIARA INGRAO (A CURA DI): NE' INDIFESA NE' IN DIVISA Lidia Menapace, Chiara Ingrao (a cura di), Ne' indifesa ne' in divisa, Gruppo della sinistra indipendente alla Regione Lazio, Roma 1988, pp. 244, lire 20.000. Un utile libro che raccoglie gli atti di un convegno del marzo 1987, una sezione di documentazione e riflessione giuridica, un'ampia raccolta di "percorsi, riflessioni, esperienze" di donne per la pace. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1016 dell'8 agosto 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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