La nonviolenza e' in cammino. 1016



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1016 dell'8 agosto 2005

Sommario di questo numero:
1. Ernesto Balducci: Le tre verita' di Hiroshima
2. Giulio Vittorangeli: La rosa di Hiroshima
3. Quello che resta
4. Marina Graziosi: Infirmitas sexus. La donna nell'immaginario penalistico
(parte prima)
5. Riletture: Lidia Menapace, Chiara Ingrao (a cura di), Ne' indifesa ne' in
divisa
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. ERNESTO BALDUCCI: LE TRE VERITA' DI HIROSHIMA
[Riproponiamo ancora una volta queste nitide pagine contenute
nell'introduzione del libro di Ernesto Balducci e Lodovico Grassi, La pace.
Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983; un ottimo libro per le
scuole che illustrava ed antologizzava la tradizione del pensiero per la
pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a Anders. L'introduzione
riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al convegno di
"Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei punti di
elaborazione piu' alti e profondi del grande movimento pacifista che in
quegli anni si batteva contro il riarmo atomico dell'est e dell'ovest. il
testo integrale dell'introduzione - la cui lettura vivamente raccomandiamo
anche per le proposte di lavoro che Balducci vi formula - abbiamo piu' volte
riproposto su questo foglio, da ultimo ne "La domenica della nonviolenza" n.
17, del 17 aprile 2005. Ernesto Balducci e' nato a Santa Fiora (in provincia
di Grosseto) nel 1922, ed e' deceduto a seguito di un incidente stradale nel
1992. Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore culturale, promotore
di numerose iniziative di pace e di solidarieta'. Fondatore della rivista
"Testimonianze" nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986.
Oltre che infaticabile attivista per la pace e i diritti, e' stato un
pensatore di grande vigore ed originalita', le cui riflessioni ed analisi
sono decisive per un'etica della mondialita' all'altezza dei drammatici
problemi dell'ora presente. Opere di Ernesto Balducci: segnaliamo
particolarmente alcuni libri dell'ultimo periodo: Il terzo millennio
(Bompiani); La pace. Realismo di un'utopia (Principato), in collaborazione
con Lodovico Grassi; Pensieri di pace (Cittadella); L'uomo planetario
(Camunia, poi Ecp); La terra del tramonto (Ecp); Montezuma scopre l'Europa
(Ecp). Si vedano anche l'intervista autobiografica Il cerchio che si chiude
(Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una
cosa (Ecp); la raccolta postuma di scritti su temi educativi Educazione come
liberazione (Libreria Chiari); il manuale di storia della filosofia, Storia
del pensiero umano (Cremonese); ed il corso di educazione civica Cittadini
del mondo (Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su
Ernesto Balducci: cfr. i due fondamentali volumi monografici di
"Testimonianze" a lui dedicati: Ernesto Balducci, "Testimonianze" nn.
347-349, 1992; ed Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti umani,
"Testimonianze" nn. 373-374, 1995; un'ottima rassegna bibliografica
preceduta da una precisa introduzione biografica e' il libro di Andrea
Cecconi, Ernesto Balducci: cinquant'anni di attivita', Libreria Chiari,
Firenze 1996; recente e' il libro di Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto
Balducci. La Chiesa e la modernita', Laterza, Roma-Bari 2002; cfr. anche
almeno Enzo Mazzi, Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri,
Roma 2002; e AA. VV., Verso l'"uomo inedito", Fondazione Ernesto Balducci,
San Domenico di Fiesole (Fi) 2004. Per contattare la Fondazione Ernesto
Balducci: tel. 055599147, e-mail: feb at fol.it, sito:
www.fondazionebalducci.it]

Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate.  L'umanita' e' entrata in
un tempo nuovo nel momento stesso in cui si e' trovata di fronte al dilemma:
o mutare il modo di pensare o morire. Essa vive ormai sulla soglia di una
mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia.
Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e' avvenuta e
noi siamo vivi! Non e' forse vero che l'abisso si e' spaventosamente
allargato dinanzi a noi? D'altronde le mutazioni non avvengono con ritmi
serrati e uniformi. In ogni caso si puo' gia' dire, con fondatezza, che si
sono andate generalizzando alcune certezze in cui e' facile scoprire il
riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della
mutazione.
La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un
destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di
natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica della storia, essa si
e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu' recente
e piu' organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere umano e'
ormai una verita' economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il
Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non e' il Sud a
dipendere dal Nord ma e' il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il
fatto che la sua economia dello spreco e' resa possibile dalla metodica
rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi, piu' specificamente, perche' esiste
un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi
l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra
memoria i 50 milioni di morti dell'ultima guerra, ma cominciano anche a
pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per l'appunto, nel solo
anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre meglio conosciuto, che
la morte per fame non e' un prodotto fatale dell'avarizia della natura o
dell'ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica
internazionale che riversa un'immensa quota dei profitti nell'industria
delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioe' 10 volte
di piu' del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa.
Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi.  Gli uomini e le donne che, fosse
pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza,
non hanno piu' la coscienza tranquilla.
La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della pace,
ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e'
arrivato a coincidere con l'istinto di conservazione, il medesimo istinto
che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressivita'
distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo.che la sfera della morale
e quella dell'istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante
un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva
la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum
necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali
che la voce dell'istinto di conservazione (di cui la paura e' un sintomo non
ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era
mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la
storia sta cambiando di qualita'.
La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla
sfera della razionalita'. Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo
in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma sempre le
culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e
cioe' come uno strumento limite della ragione.  E difatti, nelle nostre
ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso
le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare il linguaggio
di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava l'"avvenimento"
fausto. Ma ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non genererebbe nessun
avvenimento. O meglio, l'avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo
materno dell'accadimento.

2. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: LA ROSA DI HIROSHIMA
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Come tutti ho un sacco di paure con cui fatico a convivere, che si estendono
in questa immensa continua carneficina di intreccio tra guerra e terrorismo;
ma anche un sacco di sogni che mi aiutano a non cadere nell'assuefazione.
Ecco perche' mi fanno paura quelli che pensano (anche in buonafede) che
questo sia l'unico mondo possibile e vorrebbero impedirmi di sognare e
provare a costruirne un altro.
Tanto per fare un esempio, basta guardare all'Italia odierna, e
inevitabilmente ci sentiamo cadere le braccia.
Noi abbiamo consentito che il fascismo rientrasse dalla finestra mascherato
da postfascismo. La repubblica nata dalla Resistenza e' diventata una
repubblica delle banane. Con un capo del governo che, per fare nuove guerre,
si e' dimenticato quella mondiale, e sostiene che Mussolini non abbia mai
fatto morire nessuno. Con un ministro degli esteri che non sa decidersi se
Mussolini sia stato il piu' grande statista del '900 o se il fascismo sia il
male assoluto. Poi c'e' anche chi (e non solo a destra) mette sullo stesso
piano partigiani e miliziani di Salo', tutti "figli di mamma" che si
battevano, ciascuno a modo loro, per lo stesso "amor di patria". Il tutto
tra tripudi di tricolore e inni di Mameli.
*
Certo non c'e' solo l'Italia, ed il tutto e' molto piu' grande e complesso:
la guerra preventiva, il terrorismo fondamentalista... che fare, come
capire?
Apparentemente due strategie che si confrontano. La guerra preventiva e
ideologica dei nostri "volenterosi" leader occidentali (fondamentalismo
imperialista, se dobbiamo rispolverare questo termine quasi dimenticato), e
quella altrettanto ideologica del terrorismo fondamentalista e integralista
islamico. Entrambi progetti di conquista che ipotecano il futuro e la
realta'.
Da questo confronto mortale (semplificato nel corto circuito Baghdad-Londra)
bisogna disertare contrapponendo non un'altra idea di conquista del mondo,
ma una strategia di cambiamento e trasformazione; una strategia che riscatti
la vita umana, mai cosi' svalutata come in questo momento. Il terrore e la
guerra hanno, oggi come oggi, un punto di vista strategico. Noi,
sessant'anni dopo Hiroshima e Nagasaki, forse un punto di vista adeguato
ancora non ce l'abbiamo. O almeno non e' cosi' dirompente e diffuso da
segnare una rottura rispetto a guerra e terrorismo, che dia senso alla vera
umanita'. Ancora una volta: che fare, come capire?
*
Cosi' torna in mente, nei giorni in cui molto si parla e si scrive
dell'atomica, una vecchia canzone di Vinicius de Morales:

Pensate ai bambini
muti telepatici
pensate alle bambine
cieche inesatte
pensate alle donne
rotte alterate
pensate alle ferite
come rose candide
ma non dimenticatevi
della rosa della rosa
della rosa di Hiroshima
la rosa ereditaria
la rosa radioattiva
stupida e invalida
la rosa con cirrosi
l'anti-rosa atomica
senza colore senza profumo
senza rosa senza niente.

Allora, se c'e' un compito futuro e' sicuramente quello di spingerci
all'umano proprio la' dove non ci aspettiamo di trovarlo, in tutta la sua
fragilita', ai limiti della sua capacita' di significare. Sara' nostro
compito interrogare l'emergere e il dileguarsi dell'umano ai limiti del
conoscibile, dell'udibile, del visibile, del percepibile. L'umano e', ancora
e sempre, cio' che dobbiamo ancora conoscere.

3. RIFLESSIONE. QUELLO CHE RESTA
Questo resta, dopo Auschwitz e dopo Hiroshima: la scelta della nonviolenza.
Poiche' solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

4. STUDI. MARINA GRAZIOSI: INFIRMITAS SEXUS. LA DONNA NELL'IMMAGINARIO
PENALISTICO (PARTE PRIMA)
[Dal sito di "Jura gentium. Centro di filosofia del diritto internazionale e
della politica globale" (http://dex1.tsd.unifi.it/juragentium/it/)
riprendiamo il seguente saggio originariamente pubblicato in "Democrazia e
diritto", n. 2, 1993, pp. 99-143 (vi e' anche una traduzione spagnola - di
Mary Beloff e Christian Courtis -: Infirmitas sexus. La mujer en el
imaginario penal, in "Nueva Doctrina Penal", 1999/A, pp. 55-95; ristampata
in A. E. C. Ruiz (a cura di), Identidad femenina y discurso juridico,
Editorial Biblos, Buenos Aires 2000, pp. 135-17. Marina Graziosi insegna
sociologia del diritto all'Universita' "La Sapienza" di Roma, fa parte delle
esperienze di "Balena" e di "Antigone"]

Il problema dell'uguaglianza, e quello dei diritti ad essa connessi, sembra
essersi posto oggi in modo nuovo al centro di un ampio dibattito. Molte
delle domande che vengono avanzate riguardano da un lato il senso
complessivo della cittadinanza e le possibilita' di azionarla da parte di
soggetti considerati "deboli", dall'altro i conflitti creati dall'emergere
di tali soggetti e le risposte che ad essi si danno.
Si deve soprattutto alla riflessione femminile se agli approcci piu'
classici al tema si e' aggiunto un diverso punto di vista, quello della
differenza di genere, che sembra aver scardinato molte antiche certezze. Il
pensiero delle donne si e' mosso infatti in questi anni su percorsi teorici
assai fecondi e costruttivi, nell'intento di chiarire non solo tutti quegli
elementi che rendono la differenza di genere non assimilabile alle altre, ma
anche di avanzare delle proposte (1).
Uno dei termini del problema e' naturalmente il diritto. E la possibilita'
che all'interno di esso si renda visibile - in senso nuovo - la differenza.
Ma in quali forme, in che modo e' possibile realizzare il senso nuovo che a
un diritto di genere vorrebbe darsi? E quali rischi puo' comportare un
simile approccio?
Qualche risposta alle domande di oggi puo' forse offrirla una ricognizione
sommaria del passato, alla ricerca non solo delle tracce giuridiche della
"servitu' delle donne", ma anche di segni che ne illuminino la complessita'
ed il senso. L'esclusione delle donne, infatti, sembra essere non solo la
piu' antica e la piu' duratura nel tempo, ma anche quella il cui disegno e
le cui motivazioni sono iscritte piu' chiaramente nel diritto. E' possibile,
quindi, per ricostruirne la storia, far riferimento ad un corpus gia' dato e
articolato di norme, di concetti e costruzioni dottrinarie, anche volendone
trascurare l'implementazione.
Molteplici, naturalmente, sono i piani in cui il diritto misura la sua
forza. Il suo compito e il suo concreto esercizio non sono solo quelli di
governo e regolazione dei conflitti, di costruzione di limiti, ma anche di
produzione e riproduzione del simbolico, attraverso gli universi
linguistico-normativi cui il sociale deve attingere. La norma, in questo
modo, pur regolando un determinato ambito, si riverbera necessariamente
anche sul resto. Puo' essere interessante, percio', dare senso alle forme,
spesso solo simboliche, della differenziazione del femminile nei rituali
della giustizia e della pena che ricorrono nella nostra storia passata. Nel
diritto stesso possono poi trovarsi anche le tracce di importanti
contraddizioni, rispetto alla soggezione femminile, che testimoniano della
capacita' di erosione da parte delle donne del potere patriarcale anche
attraverso lo strumento giuridico.
Contrariamente a quanto spesso si pensa, legislatori e giuristi hanno sempre
dato senso e rilevanza, anche nel passato piu' remoto, alla presenza
femminile nella societa'. Una presenza da governare saldamente per regolare,
senza problemi, un assetto che si voleva di impronta patriarcale. Nel
passato i giuristi non hanno affatto ignorato l'esistenza di due generi nel
mondo che disciplinavano. Se questo puo' essere accaduto per i diritti
politici di cittadinanza, in cui - come e' stato giustamente osservato (2) -
l'universale neutro delle dichiarazioni dei diritti ha, di fatto,
significato solo il maschile, cio' non sembra riguardare altri importanti
ambiti giuridici, nei quali la consapevolezza della presenza femminile ha
dato vita a regole precise e minuziose volte principalmente, se non
esclusivamente, alla tutela e al mantenimento di una struttura patriarcale.
In altri termini, l'esclusione o "dimenticanza" del femminile - sussunto
nell'universale "uomo" - ha precluso alle donne, nel modello della
democrazia moderna, una sfera di poteri, prima di tutto quello politico,
grazie alla definizione e al concreto disegno sul maschile dei diritti
fondamentali dell'individuo. Nel campo del diritto civile e del diritto
penale, invece, la presenza regolata del femminile ha assunto il senso da un
lato di una limitazione della sfera delle liberta', dall'altro di una
regolazione degli specifici doveri delle donne.
Come si sa, nel diritto civile e in quello pubblico, e' stata in atto in
vari modi almeno fino al primo decennio del nostro secolo - e per alcuni
ambiti ancora oltre - una sorta di tutela delle donne che impediva loro, di
fatto, di esercitare una piena cittadinanza. Esclusione dal diritto di voto
e dal diritto di amministrare, in modo del tutto autonomo, il proprio
patrimonio, insieme alla impossibilita' di accesso pieno allo studio e
all'esercizio di alcune importanti carriere, facevano fino ad allora della
donna una cittadina minorata, esclusa in sostanza dalla sfera pubblica, e
vincolata, da subalterna, a quella privata.
E' forse meno noto pero' che nel passato venissero non solo praticati, ma
anche teorizzati modi diversi di punire gli uomini e le donne. E che queste
disuguaglianze - anche nella stessa costruzione di alcuni reati - presenti
in Europa, in vario modo, secondo le diverse legislazioni, per tutto il
corso dell'ancien regime, siano state spesso riproposte da importanti
criminalisti anche nel nostro secolo.
Qualsiasi ipotesi di differenziazione penale tra soggetti che si suppongano
capaci di intendere e di volere ci appare oggi estranea ed ingiusta. Forse
per questo motivo si e' portati a non considerare e a rimuovere cio' che per
secoli e' stata una realta'. Una realta', si badi, mai del tutto esplicitata
in modo chiaro, ma da rintracciare, seguendo strade secondarie, tra mille
difficolta' nelle pieghe del discorso giuridico. Ad esempio nelle
raccomandazioni ai giudici, espresse comunque in modo generico, di tener
conto tra gli altri di un elemento di fatto, quello appunto del sesso. O di
particolari forme, spesso dettate dalla cautela, talvolta invece tese alla
piu' rigida esemplarita', nell'applicazione della pena ad un condannato di
sesso femminile.
Non intendo qui, anche se potrebbe essere un percorso molto interessante,
dare conto di tutte le tracce esplicite e implicite di differenziazione che
si possono reperire nel passato e identificarne le persistenze nel diritto
del presente, quanto cercare di dare un senso alla ratio che ha guidato chi
le ha costruite. Cio' che e' sorprendente e' infatti la sostanziale
omogeneita' che puo' ritrovarsi, a tale riguardo, in societa' ed epoche
anche lontane. Gli usi piu' antichi infatti si sedimentano ed operano come
fonti di legittimazione, accreditando tesi che si vorrebbero invece pensate
e praticate ab aeterno.
Penale, pubblico e civile appaiono, inoltre, nel caso delle donne, sia pur
contraddittoriamente connessi: discriminazioni e minorazioni, presenti in
questi differenti campi, per secoli si sono accreditate reciprocamente
riferendosi le une alle altre con procedimenti teorici di tipo circolare.
Il punto di vista che qui propongo, quello di un'analisi della dottrina
penalistica in una prospettiva storica, e' apparentemente anomalo, ma
sicuramente produttivo. Il diritto penale offre infatti un doppio vantaggio:
da un lato esso e' piu' trasparente perche' il piu' lontano, nella nostra
coscienza moderna ed ugualitaria, da ogni ipotesi di differenziazione: siamo
percio' portati a considerarlo come campo tutto particolare, segnato da
sempre dai confini invalicabili della perfetta uguaglianza. Dall'altro lato,
esso sembra rivelare, in modo piu' chiaro, le strutture simboliche che hanno
guidato il legislatore, per essere invece piu' vicino - come cerchero' di
mostrare piu' avanti - a quei complessi territori in cui mito e rito
sembrano governare la legge.
Una ricostruzione di questo tipo, non puo' costringersi, naturalmente, entro
i limiti di una stretta periodizzazione. Pur privilegiando, in quanto
particolarmente significative, le teorizzazioni dei criminalisti del secolo
scorso, ho preferito - in una prospettiva di lungo periodo - seguire un
criterio tematico identificando i filoni piu' importanti. Il primo filone
riguarda la questione dell'imputabilita' penale delle donne, il secondo le
differenziazioni nella pena.
*
1. L'imputabilita' delle donne
Fin dall'inizio del secolo scorso, e poi nelle teorizzazioni della Scuola
positiva di diritto penale - quando ormai sembrano praticamente scomparse
dalle legislazioni continentali le differenze legate al sesso - viene
riproposta da piu' parti l'idea di una peculiarita' della devianza
femminile, che richiederebbe percio', in armonia con il diritto civile, una
differente considerazione, in base anche alle contemporanee acquisizioni
scientifiche nel campo della fisiologia.
La presenza femminile e la sua regolazione nel diritto penale avevano, fino
ad allora, interessato i giuristi prevalentemente sotto due aspetti: da una
parte quello del controllo della sfera della sessualita' nella definizione e
costruzione di reati come quelli di adulterio, aborto, stupro, seduzione, o
infanticidio, cioe' reati specificamente connotati al femminile come sesso;
dall'altra quello della necessita' di porre un limite - e la valenza
puramente simbolica di questo limite e' ancora tutta da indagare -
nell'infliggere pene ad un corpo femminile.
La questione dell'imputabilita' femminile invece era stata riproposta e piu'
volte messa in discussione anche da importanti giuristi - si pensi ad
esempio a Carmignani - che avevano ipotizzato per le donne una attenuazione,
diminuzione o addirittura esclusione della imputabilita' richiamando
l'antico principio della infirmitas sexus, l'impedimento dovuto al sesso
(3).
In questo periodo la questione si lega, come si e' detto, alle nascenti
elaborazioni "scientifiche" sull'inferiorita' naturale della donna, e si
connette al piu' generale dibattito su libero arbitrio e imputabilita' (4).
Sembrerebbe che l'affermazione dell'uguaglianza di fronte alla legge, che
trova la sua origine nelle prime dichiarazioni dei diritti, provochi ad un
certo punto, con l'emergere delle rivendicazioni femminili, l'onere della
giustificazione della persistente ideologia della disuguaglianza e delle sue
conseguenze pratiche. Se per lunghi secoli la semplice evocazione del
concetto generico e assai flessibile di infirmitas sexus - ad indicare, ad
ogni occasione, una sorta di perpetua minorazione delle donne - era sembrata
sufficiente, in questa fase si ritiene necessario invece rafforzarne la
struttura.
Ed e' per questo che la riflessione giuridica approfondisce e tematizza la
questione del corpo femminile. Si vuole che questo incarni, infatti, una
innegabile differenza che sarebbe contro natura voler colmare o cancellare:
per mezzo dell'educazione, ad esempio - grande tema dell'emancipazionismo
settecentesco - o peggio ancora attraverso la parita' dei diritti.
Gli interrogativi che i giuristi cominciano a porsi in questa fase, sono
connessi da un lato, appunto alla fisiologia del corpo femminile e alle sue
implicazioni emotive e comportamentali, dall'altro alle capacita' di
giudizio e di raziocinio delle donne e alla loro incidenza sulla
comprensione e conoscenza delle norme. Le donne, ci si chiede, sono nella
loro capacita' di delinquere uguali agli uomini, o non sono forse piu'
facilmente assimilabili, per la loro debolezza ed immaturita', ai vecchi, ai
minori, ai pazzi? Nel loro sviluppo personale non restano forse in un
perpetuo stato intermedio tra il fanciullo e l'uomo adulto? E l'accertata
maggiore sensibilita' e complessita' dell'animo femminile rende le donne che
delinquono piu' o meno colpevoli? Quali sono i crimini tipici "del sesso
femminile"? La pena, infine, deve essere inflitta alle donne negli stessi
modi adottati per punire reati commessi da maschi?
Su queste domande gli studiosi si dividono tra quanti sostengono la piena
uguaglianza giuridica tra uomini e donne in campo penale - fatte salve le
differenze che sussistono nel civile, considerate universalmente giuste e
quasi ovvie perche' dettate dalle convenienze sociali, come garanzia
dell'ordine delle famiglie - e quanti invece propongono per le donne una
minore o diversa imputabilita', coerentemente, del resto, con il diritto
civile che ne limitava la capacita' d'agire e con il diritto pubblico che ne
negava l'elettorato attivo e passivo. Una posizione intermedia sara' quella
piu' prudente di chi, diffidando dell'ipotesi di un doppio diritto penale,
proponeva per le donne una semplice attenuazione delle pene.
*
2. Razionalita', libero arbitrio, imputabilita'
Un aspetto che rende particolarmente interessante il paradigma giuridico
della diversita'/inferiorita' femminile che si sviluppera' nel corso
dell'Ottocento, e' che esso, anticipando e connettendosi al paradigma
scientifico della inferiorita' naturale delle donne - quale si verra'
delineando nelle sistematizzazioni del pensiero positivista - sembra
ritrovare, rinnovandole, le antiche argomentazioni alla base della
subalternita' femminile, prima fra tutte quella della scarsa razionalita'
delle donne. Entrambi i paradigmi - giuridico e scientifico - avranno
naturalmente un grandissimo peso nella costruzione di un modello di donna
cui sara' considerato normale adeguarsi e patologico discostarsi e che
perdurera' anche nel Novecento.
Guardando al secolo scorso, quando si tratta di decifrare la legittimazione
giuridica della disuguaglianza delle donne, la costruzione stessa della
differenza dei sessi come disuguaglianza, rivela qualcosa di arcaico che
sembra persistere al di la' di ogni possibile modernizzazione. E il
continuo, anacronistico, ricorso a una generica tradizione antica, trova
percio' una sua naturale giustificazione.
E' infatti nelle rappresentazioni ottocentesche del "femminile" che si
attribuisce a questo genere una sorta di perenne arcaicita'. Quest'idea,
riconducibile peraltro alla filosofia dei lumi, trova pero' la sua piu'
larga diffusione - anche a livello di senso comune - prevalentemente nel
corso dell'Ottocento.
Quando si teorizza sulle donne, sul genere femminile, e sul mondo immutabile
di questo, segnato da eventi naturali per sempre e da sempre uguali a se
stessi, si presuppone e insieme si costruisce il paradigma di un'umanita' al
femminile costantemente e ciclicamente identica, estranea anche ai mutamenti
storici. Cio' sembra escludere la donna dall'idea di progresso lineare,
dall'idea-forza che segna il secolo e che con il positivismo assume il senso
di una legge necessaria alla base del processo storico (5) per relegarla,
come umanita' necessariamente involuta, nella spirale della sua eterna
ciclicita'. Sono gli esseri umani di sesso maschile che portano avanti il
progresso aprendo e sperimentando nuove vie che conducono verso la
modernita'; il femminile vivendo dentro la scansione naturale di eventi
senza tempo, deve ritornare, attraverso i passaggi obbligati del biologico,
sempre allo stesso punto, fuori dal "moderno" che sembra includere quindi,
in tal modo, solo il maschile.
Il modello di femminilita' che si suppone normale, cui e' giusto che le
donne si conformino e' prima di tutto un modello materno, la donna, infatti,
prima di ogni altra cosa e' madre, e nella maternita' si esprime e si
realizza gran parte del destino femminile. Sembra addirittura che negli
"organi della maternita'" si spenda gran parte dell'energia possibile, che
percio' la forza intellettuale e la razionalita' delle donne debbano
necessariamente esserne minorate. Ma anche le donne che non sono madri
soffrono ugualmente questo tipo di minorazione, e, in aggiunta, corrono il
pericolo che gli organi della riproduzione, rimanendo inattivi, procurino
dei pericolosi " ristagni" che si possono riverberare sull'umore, e quindi
sulle capacita' raziocinanti.
Al di la' delle differenti valutazioni sul grado della responsabilita' e
sulla conseguente imputabilita', sembra generalmente condivisa l'idea che il
sesso (e dicendo "sesso" si dice sempre "sesso femminile") debba comunque
essere una causa di diminuzione e di differenziazione. Anche se non e'
facile stabilire quanto cio' possa aver avuto effettivamente dei riflessi
sulla concreta amministrazione della giustizia.
Ed e' paradossale che sia proprio dai progressi dell'anatomia e della
fisiologia che si siano tratte quelle conclusioni che contribuiranno a
definire il maschile come paradigma dato, e il femminile come diverso.
D'altro canto, proprio la resistenza ad ogni attribuzione di modernita' al
femminile potrebbe spiegare le continue oscillazioni ed il costante
intreccio, nelle argomentazioni dei giuristi, tra le dissertazioni
scientifiche sull'anatomia e sulla fisiologia del corpo umano e i richiami
alla letteratura del passato piu' remoto, e, in particolare, alla tradizione
romanistica.
Un elemento ricorrente, nella letteratura criminalistica del secolo scorso
sul nostro tema, e' infatti il costante richiamo alle fonti romane. I
riferimenti a tali fonti, che potrebbero apparire relativamente marginali
perche' molto lontane in ogni senso dall'universo di discorso in cui ci si
muove, assumono invece un diretto interesse per comprendere i processi
stessi della costruzione dell'inferiorita' giuridica della donna. La maggior
parte dei giuristi, infatti, quando affronta la questione dell'incapacita' e
degli impedimenti connessi al sesso femminile, sente la necessita' di
richiamarsi alla sapienza antica, sia a quella dei giureconsulti romani, sia
a quella dei Padri della Chiesa. Questi richiami sono spesso oscuri e
contraddittori e si prestano talvolta a suffragare tesi diverse o
addirittura opposte.
Il concetto romanistico cui piu' spesso si fa riferimento - talvolta
esplicitandone il significato, piu' frequentemente solo postulandolo come
qualcosa di ovvio e scontato, ma quasi mai discutendone la fondatezza - e'
quello di infirmitas sexus, o di imbecillitas sexus oppure di fragilitas
sexus (6) che, dalle sue primitive formulazioni, mantiene pressoche' intatta
la sua vitalita' nel corso dei secoli diffondendosi in tutta Europa.
Cio' che e' costante nella storia di questa categoria e' da un lato la
genericita' e l'ambiguita' dei suoi usi, dall'altro la duttilita' e
molteplicita' delle sue applicazioni. A seconda delle necessita',
l'infirmitas dispieghera' sempre, e nella maniera piu' estesa, una
straordinaria capacita' di discriminazione e insieme di controllo sulle
azioni delle donne. La si ritrova come presupposto al divieto per il sesso
femminile di rivestire cariche pubbliche, di essere giudici, di assumere
tutele, di postulare nec pro alio intervenire, cioe' di esercitare
l'avvocatura (7). Di denunciare o accusare per taluni reati. Oppure ad
escludere il dolo, e a giustificare talune scusanti per l'ignoranza del
diritto, infine a rendere dubbia o non valida una testimonianza femminile.
Ma se si risale direttamente alle fonti, e si analizzano i principali luoghi
in cui e' presente questo concetto, l'estensione che nel corso del tempo si
e' voluta attribuire ad esso sembra assai amplificata. E come e' stato
dimostrato, la sua stessa formulazione sembra essere spesso frutto di
interpolazioni (8).
Cio' che qui interessa pero' non e' tanto la ricostruzione del senso
legittimo dell'infirmitas quale compariva nell'opera dei giureconsulti
romani, quanto il fatto che essa abbia rappresentato nel coso dei secoli un
legame con la sapienza antica a giustificazione e fondamento della
soggezione delle donne. Anche se con differenti determinazioni, la minorita'
femminile sembra essere gia' stata sperimentata dai criminalisti nel corso
dei secoli: quando filosofi come Spencer o Darwin o Comte, per non parlare
di Moebius, o del nostrano Mantegazza, cominciano a dedicarsi ai loro studi
sulla donna, gia' molto e' stato scritto dai giuristi per esempio in tema di
femminilita' e ragione.
Cosi' Farinaccio, il cui monumentale trattato Praxis et theorica criminalis
esercito' una larghissima influenza sullo sviluppo del diritto penale in
Italia e in Francia e fu utilizzato comunemente per tutto il corso del
Settecento, sostenne una minore punibilita' delle donne in base alla loro
minore razionalita' (9). Tesi in gran parte riprese da Tiraquello, che anche
non sembrava nutrire molta fiducia nella razionalita' femminile, autore di
un ampio saggio di diritto familiare e matrimoniale, una vera e propria
summa di regole, la cui autorita' in materia oriento' i piu' importanti
giuristi almeno nei due secoli seguenti (10). E ancora altri come Anton
Matthaeus o il piu' moderno Renazzi sostennero con simili argomenti la
minore punibilita' femminile (11).
Il lavoro ottocentesco piu' significativo, se non altro per la sua ampiezza,
sull'imputabilita' penale delle donne e' il saggio sul sesso femminile del
medico Ernst Spangenberg, scritto negli anni venti e pubblicato in Italia in
una raccolta di scritti germanici del 1846 curata da Francesco Antonio Mori
(12). E' probabile che esso abbia esercitato una notevole influenza sulle
opinioni dei penalisti italiani, sia per il prestigio della raccolta che per
la sua larga circolazione.
Anche Spangenberg, dopo essersi interrogato sul paradosso di una "perpetua
tutela" delle donne nei "diritti civili" in contrasto con la loro
parificazione al maschio "quando si tratta di delitti e pene", affronta il
problema seguendo uno schema che sara' in seguito imitato da molti. Il suo
punto di partenza e' un'analisi dettagliata delle facolta' raziocinanti
della donna in rapporto alla sua sfera sessuale e l'idea che solo in base a
un'ipotesi "metafisica" si possa non vedere nessuna differenza "fra l'anima
virile e la muliebre" (13); sicche' gli sforzi che si vorrebbero fare in
direzione di un'educazione delle donne - e qui cita significativamente
Catherine Macaulay e Mary Wollstonecraft - sono illusori.
Entrambi i sessi, ammette Spangenberg, appartengono alla specie umana, e in
quanto esseri razionali sono certamente uguali fra loro. "Ma l'essere
razionale nel mondo dei sensi dipende ancora dal corpo, e da molte altre
cose, ed e' cosi' suscettivo di parecchie varieta' e disuguaglianze, che
sono prodotte o determinate da quelle circostanze. Il sesso, l'eta', la
salute influiscono sulla potenza dell'animo, quanto l'educazione, i costumi,
le consuetudini: e percio' tutte queste cose debbono porsi in bilancia per
determinare lo stato giuridico di ogni membro della citta'" (14).
E' quindi necessario, in primo luogo, occuparsi della conformazione del
corpo della donna, e poi delle sue attitudini intellettuali. Il corpo della
donna, osserva Spangenberg, e' molto diverso da quello dell'uomo: "basta a
provarlo anche uno sguardo fugace" (15). E le diversita' sono "altrettanti
contrapposti alla natura virile" (16): le ossa sono molto piu' rotonde,
bianche e molli, i muscoli molto piu' sottili, deboli e lenti, i loro
filamenti piu' flessibili, umidi e soffici. E ancora: "I nervi ed anche il
cervello sono in proporzione piu' piccoli: e quelli sono piu' molli, e i
loro capi molto piu' tenui dei virili" (17).
Tutto, insomma, indica una generale debolezza e delicatezza, e se si volesse
con una diversa educazione modificare questa delicatezza e "ingagliardire
l'espressione dei muscoli e modificare la forma delle membra, cio' sarebbe
un rivestirsi del potere della natura; perche' siffatte alterazioni violente
si convertirebbero in vere perturbazioni della natura muliebre" (18). Ma non
solo i muscoli sono piu' delicati. Nel corpo femminile esiste una
sensibilita' molto piu' acuta e i nervi sono piu' eccitabili. E questa
maggiore sensibilita' "viene accresciuta, e specialmente diretta dagli
organi che sono formati per lo scopo particolare della donna" (19). "La
potenza degli organi sessuali esercita una maggior signoria sul corpo della
donna. Tostoche' essi sono entrati in azione, e godono della loro propria
vitalita', traggono a se' in qualche modo la intiera organizzazione, la
dominano, e la modificano, e non di rado la disturbano, e la sconvolgono"
(20).
Gli organi sessuali femminili, sostiene Spangenberg, sono strettamente
connessi con il sistema nervoso e quindi esercitano la loro grande influenza
anche sulla "attivita' spirituale". E questa influenza, al di la' delle
difficolta' di accertarla in base ad uno studio di anatomia comparata sul
cervello, puo' essere stabilita "osservandone" le varie manifestazioni. Il
risultato di questa osservazione - argomenta circolarmente Spangenberg - e'
precisamente che c'e' una grande differenza tra la forza intellettuale
dell'uomo e quella della donna. Le donne, osserva ancora Spangenberg, sono
piu' sensibili a tutto cio' che e' esterno; ed hanno una "immaginativa" piu'
mobile che profonda, "piu' baleni di pensiero che pensieri" (21). Il loro
pensiero e' assai instabile e percio' esse non hanno mai fatto grandi
scoperte. Le donne cambiano idee continuamente. Operano per sentimento piu'
che per idee razionali. In esse le facolta' di conoscere e giudicare sono
piu' deboli. Giudicano secondo le apparenze del momento e non si curano
delle conseguenze. Sui loro giudizi influiscono molto di piu' gli esempi che
i principi. Mancano quindi di indipendenza perche' il giudizio degli altri
pesa enormemente sul loro. Ma se la facolta' di conoscere e giudicare e'
piu' debole che negli uomini, la facolta' "appetitiva" e' nelle donne molto
piu' elevata. Esse sono insomma guidate nell'azione dai sentimenti, anziche'
dalla conoscenza e dalla volonta' perche' "sentono realmente piu' che non
pensino" (22).
Di qui anche l'eccessivita' delle donne. Nell'animo femminile si agitano le
passioni piu' contraddittorie, e tutti i movimenti dell'animo dimostrano
sentimenti eccessivi. "Le loro virtu' toccano l'estremo, come i loro vizi:
una donna buona e' migliore di un uomo ottimo, una cattiva e' mille volte
piu' trista d'un pessimo" (23). La sincerita' per le donne e' un merito
maggiore che per gli uomini poiche' esse inclinano maggiormente alle
simulazioni all'astuzia, alla scaltrezza.
Infine Spangenberg dedica una lunga analisi alla mancanza del libero
arbitrio nelle donne. "la coscienza della legge non si trova mai nel sesso
muliebre al medesimo grado che nel sesso virile". E questo perche' esse, "a
fronte di un sentimento attuale, sogliono disprezzar tutto cio' che lor si
presenta come regola obbligatoria"; perche' "inoltre la grande vivacita' ed
instabilita' dei sentimenti muliebri consente di rado che l'impressione di
una legge penale duri nelle donne tanto lungamente, che esse ne serbino
memoria mentre sono agitate dalla tempesta dei movimenti dell'animo e delle
passioni; perche' infine esse "sono impedite il piu' delle volte di
pervenire a una distinta cognizione delle leggi" cui esse "obbediscono senza
comprenderne lo spirito" e "si permettono d'interpretare a capriccio". Si
puo' insomma ammettere la coscienza dell'illiceita' dell'azione per i soli
delitti naturali, ma non certo per i fatti "delittuosi per la sola ragione
del divieto positivo" (24). D'altro canto, se nelle donne non puo'
riconoscersi la coscienza della legge, neppure puo' rinvenirsi la "liberta'
del volere", infatti "Si puo' credere, che esista una piena liberta' di
volere in relazione all'imputabilita', allorche' le tre faculta' capitali
dell'animo umano, cioe' di conoscere, di giudicare e di appetire, stanno in
tal rispetto fra loro, che le prime due possano dirigere e moderare la
terza. Ma in quella stessa misura, che negli uomini, cio' non si verifica
nelle donne a motivo delle particolari proprieta' del loro corpo, delle
conseguenti attitudini limitate del loro spirito, e di altre circostanze di
educazione, di costumanze, e di relazioni civili" (25).
La conclusione e' quindi che "debba l'imputazione essere ordinariamente
minore nel sesso muliebre"; che in particolare si "esige una pena piu' mite
pei delitti d'infanticidio e di procurato aborto, quando sono stati causati
dalla tema di perdere l'onore del sesso; e che lo stesso vale per gli altri
delitti "nei quali grandemente influiscono gli organi sessuali e gli
appetiti che ne procedono, come l'adulterio, l'incesto e simili" che
parimenti "sono meno imputabili nella donna che nell'uomo" (26).
*
Note
1. Si veda, in questo fascicolo ["Democrazia e diritto", n. 2 1993],
l'analisi e la rassegna dei diversi contributi sul tema svolta da Tamar
Pitch.
2. A. Cavarero, "Per una teoria della differenza sessuale", in Diotima, Il
pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987; Ead.,
"L'ordine dell'uno non e' l'ordine del due", in Il genere della
rappresentanza, a cura di M. L. Boccia e I. Peretti, Editori Riuniti, Roma
1988, pp. 67-80. E' interessante rilevare che nella Magna Charta del 1216,
che contiene la prima enunciazione di diritti "universali", la donna viene
espressamente menzionata per escluderla dal diritto di denuncia e di accusa
(vedi, infra, la nota 87).
3. Scrive infatti Carmignani nel suo Elementi di diritto criminale (1808),
tr. it. dal latino di G. Dingli, Stab. Tip. P. Androsio, Napoli 1854, p. 56:
"Egli e' certo dietro le osservazioni dei fisiologi, che gli organi della
generazione hanno molta influenza su quelli che servono all'intelletto.
Nelle femmine la midolla spinale e' piu' debole e delicata che non lo e' nei
maschi. Quindi han quelle piu' deboli le forze dello spirito e piu' fermi i
mezzi di acquistare le idee fornite loro dalla natura. Cio' posto il sesso
femminile e' pure una giusta causa perche' il delitto venga all'agente meno
imputato". Un'analisi delle dottrine giuridiche dell'inferiorita' della
donna e' sviluppata da M. Manfredi e A. Mangano, Alle origini del diritto
femminile. Cultura giuridica e ideologie, Dedalo, Bari 1983. Di grande
interesse e' inoltre V. P. Babini, Il lato femminile della criminalita', in
V. P. Babini, F. Minuz e A. Tagliavini, La donna nelle scienze dell'uomo.
Immagini del femminile nella cultura scientifica italiana di fine secolo,
Angeli, Milano 1989.
4. Va ricordata - contro le soluzioni semplicistiche proposte dal
positivismo ottocentesco dell'enorme problema del dilemma tra determinismo e
libero arbitrio - la voce dissonante (tacitata dal suo internamento in
manicomio) di H. von Druskowitz, Sono possibili la responsabilita' e
l'imputabilita' senza supporre il libero arbitrio? (1887), tr. it. di M. G.
Mangione, in Una filosofa dal manicomio, Editori Riuniti, Roma 1993, pp.
5-32.
5. Si veda J. Bury, Storia dell'idea di progresso (1932), tr. it. di V. Di
Giuro, Feltrinelli, Milano 1984.
6. Le espressioni "fragilitas sexus", "infirmitas sexus", "sexus infirmus" e
"imbecillitas sexus" compaiono in taluni luoghi romanistici: C. 5, 3, 20, 1;
D. 22, 6, 9; D. 16, 1, 2, 3; D. 49, 14, 18. Ma esse ebbero anche fortuna
presso i padri della Chiesa, da S. Girolamo a S. Agostino, e poi nella
letteratura canonistica. Si veda, sul punto, la recensione di M. T. Guerra
Medici del libro di G. Minnucci sulla capacita' processuale della donna nel
pensiero canonistico, in "Studi senesi", CIII, I, 1991, pp. 170-174.
7. "Feminae ab omnibus officiis civilibus vel publicis remotae sunt et ideo
nec iudices esse possunt nec magistratum gerere nec postulare nec pro alio
intervenire nec procuratores existere" (D. 50, 17, 2). Sull'interdizione a
Roma delle donne dai "virilia officia", cfr. E. Cantarella, La vita delle
donne, in Storia di Roma, a cura di A. Momigliano e A. Schiavone, Einaudi,
Torino 1989, vol. IV, pp. 557-608. Per quanto riguarda l'avvocatura,
Cantarella ricorda che durante la repubblica vi furono casi sia pure
eccezionali nei quali le donne sostennero direttamente in giudizio le loro
ragioni, ma che sempre fu loro vietato di "postulare pro aliis".
8. Cfr. S. Solazzi, "Infirmitas aetatis" e "infirmitas sexus" (1930), in
Scritti di diritto romano, Jovene, Napoli 1960, vol. III, pp. 357-367.
9. Prospero Farinacci (1544-1618) scrive: "Decima causa minuendi penam erit
ea, quae sexus fragilitatem respicit: Regula enim est, mulieres non sic
graviter puniendas, quam mares, ac in poenis infligendis sexus rationem
habendam... Tiraquellus qui hanc conclusionem, et causam bene comprobat...
ea potissimum ratione ductus, quia in foemina minus est rationis quam in
viro... ergo minus puniri debet" (Praxis et theorica criminalis, II, I,
Quaestio 98, n. 1, Venezia 1604, p. 309).
10. Andre' Tiraqueau (1480-1558), italianizzato in Tiraquello, seguendo un
costume assai diffuso tra i giuristi invoca anche l'autorita' della sapienza
antica: "Nam divinus ille Plato dubitare videtur, utro in genere mulierem,
rationalium animalium, an Brutorum " (A. Tiraquello, De legibus
connubialibus et iure maritali, L 1, n. 69, Lione 1554).
11. Anche l'olandese Anton Matthaeus (1601-1654) afferma: "Aliquo lenius
agendum cum muliere propter infirmitatem tum corporis, tum animi, atque
consilii. Qua animi infirmitate fit ut quemadmodum facile labitur, ita etiam
facilius poenae cogitatio a peccando eam absterreat" (De criminibus (1644),
Anversa 1771, Tit. XVIII, cap. IV, 21). Filippo Maria Renazzi (1747-1808), a
sua volta, pone il sesso tra le varie cause intrinseche di attenuazione
della pena: "Aetatem sequitur sexus, qui non secus ac illa generatim habetur
pro intrinseca causa temperandi poenas. (Tiraquel. caus. IX) Feminae
siquidem hominum voluptati, et procreationi a natura destinatae, cum corpore
utantur molli, ac delicato, consilii maturitate indigent, animique vigore,
qui a corporis compage et robore vel maxime pendet. Itaque viris animo et
corpore longe imbecilliores non adeo, ut illi, nequiter agere, minorique
quodammodo dolo videntur delinquere. Propterea existimandum leges suum non
aeque ac in mares, in feminas quoque rigorem exercere. Aequum enim est sexus
infirmitatis misereri; ex quo fit ut mitius sit leniusque cum feminis
agendum" (Elementa juris criminalis (1773), Bologna 1826, pp. 119-120).
12. E. Spangenberg, Del sesso femminile, considerato relativamente al
diritto ed alla legislazione criminale, in Scritti germanici di diritto
criminale raccolti da F. A. Mori, Nanni, Livorno 1846. Nella raccolta sono
pubblicati, tra l'altro, saggi di C. J. A. Mittermaier e di Waechter
sull'infanticidio.
13. Ivi, p. 165.
14. Ivi, p. 166-167.
15. Ivi, p. 168.
16. Ibid.
17. Ibid.
18. Ivi, p. 169.
19. Ibid.
20. Ivi, pp. 169-170.
21. Ivi, pp. 171-172.
22. Ivi, p. 174.
23. Ivi, p. 176.
24. Ivi, pp. 178-179.
25. Ivi, p. 180
26. Ivi, pp. 180-181. "Lo stesso e' da dire", prosegue Spangenberg, "di quei
delitti, in cui ha luogo la seduzione altrui, ed ai quali serve di
fondamento una particolar propensione del sesso, come la vanita' e la mania
di piacere": "esempigrazia", precisa in nota, "il furto di gioielli e di
vesti, non per avidita' di guadagno, ma per desio d'ornamento".
(Parte prima - Segue)

5. RILETTURE. LIDIA MENAPACE, CHIARA INGRAO (A CURA DI): NE' INDIFESA NE' IN
DIVISA
Lidia Menapace, Chiara Ingrao (a cura di), Ne' indifesa ne' in divisa,
Gruppo della sinistra indipendente alla Regione Lazio, Roma 1988, pp. 244,
lire 20.000. Un utile libro che raccoglie gli atti di un convegno del marzo
1987, una sezione di documentazione e riflessione giuridica, un'ampia
raccolta di "percorsi, riflessioni, esperienze" di donne per la pace.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1016 dell'8 agosto 2005

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