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La nonviolenza e' in cammino. 1010
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1010
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 2 Aug 2005 00:13:43 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1010 del 2 agosto 2005 Sommario di questo numero: 1. Giulio Vittorangeli: Questa fragilita' interdipendente 2. Paul Ricoeur: L'identita' fragile. Rispetto dell'altro e identita' culturale 3. Enrico Peyretti: La sposa siriana. Un film 4. Riletture: Fatema Mernissi, Islam e democrazia 5. Riletture: Fatima Mernissi, La terrazza proibita 6. Riletture: Fatema Mernissi, L'harem e l'Occidente 7. Riletture: Fatema Mernissi, Karawan. Dal deserto al web 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. GIULIO VITTORANGELI: QUESTA FRAGILITA' INTERDIPENDENTE [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"] Delle volte occorre il semplice coraggio di riconoscere la grande limitatezza del nostro agire. Quante volte abbiamo scritto che la prima cosa, essenziale, e' quella di essere sempre e comunque a fianco delle vittime, e poi non ne ricordiamo neanche i nomi, perche' tutto allo stesso tempo e' cosi' crudele e veloce che non lascia neanche il tempo alla memoria di sedimentarsi. Orrore segue ad orrore, si fatica davvero anche semplicemente a tenerne il conto: quanto tempo e' davvero passato da Hiroshima e Nagasaki (luogo di tutti gli orrori del mondo, che in qualche maniera sembrava aver segnato la coscienza dell'umanita' con il rifiuto totale della guerra), ai drammi attuali, dove la guerra e' considerata il male minore? I nostri leader occidentali hanno pensato che possiamo tranquillamente ammazzare delle persone vere, in terre lontane geograficamente, senza che lo stesso capiti a noi, nelle nostre capitali, e soprattutto senza sofferenza fisica o morale da parte nostra; confidando nel cinismo non avremmo mai conosciuto il senso di colpa, ne' la sofferenza per la guerra. Davanti poi alla barbarie incontrollata scatenata, si e' messa in moto la discussione su una guerra di crociata tra islam e occidente secolarizzato, nata sulle ceneri degli eventi dell'11 settembre, creando una visione eurocentrica di un mondo diviso in due schieramenti contrapposti, vale a dire un Occidente, percepito come pacifico e civilizzato grazie ai valori dell'illuminismo e del cristianesimo, e un Oriente percepito come bellicoso, immaturo o irresponsabile a causa del suo radicalismo religioso e dei caratteri tribali ancora presenti all'interno delle sue societa'. Solo che non e' uno scontro fra civilta', ma tra ignoranze; lo scontro tra mondi che si misconoscono e comunicano male. * Intanto, in particolare nel nostro paese, la deriva isterica e forcaiola, sull'onda della paura alimentata dagli attentati, spinge verso nuove chiusure xenofobe, verso leggi tanto ottuse quanto inutili, verso incivili ideologie e pratiche che vedono nello straniero, specie se povero e in cerca di opportunita' di vita e di lavoro, un pericolo crescente. In questo clima soffocante, anche una semplice cosa come il ritiro delle nostre truppe dall'Iraq, oggi finalmente promessa da chi dovrebbe dopo le elezioni del 2006 andare al posto dell'attuale governo di centrodestra, ci sembra chissa' qualche grande conquista. Il punto e' che l'Occidente esporta un'idea e una pratica di democrazia ridotta al solo rito elettorale, e a un rito elettorale tutt'altro che trasparente, prima che a Baghdad, in casa nostra: dove fra ogni testa e ogni voto si frappone una montagna di opacita' fatta di potentati economici e manipolazione massmediatica, la frequentazione delle urne non contrasta la crisi verticale della rappresentanza e della partecipazione, la liberta' di voto non compensa la caduta della liberta' politica. E' questa la democrazia che "esportiamo" con le armi, che ha bisogno delle armi per essere esportata, e' questa la democrazia che trionfa, e del cui trionfo c'e' poco da gioire. All'orizzonte non c'e' il nazismo e non c'e' il fascismo; ma il rischio di un destino triste della democrazia si'. Questo sistema dell'orrore (che non e' solo quello inscindibile del rapporto guerra/terrorismo, ma anche quello di un sistema economico quotidiano che ci avvolge e ci fa piu' o meno complici consapevoli: continuare a consumare, affamare, sfruttare e inquinare come se nulla fosse) ci stritola; nonostante le tante buone nostre intenzioni. Per difendere questo insensato presente si uccide il futuro. * In un tempo in cui le parole sono sfigurate, usate come vuoti a perdere riempiti dei piu' diversi contenuti, sembra davvero che le ultime non scontate o banali, su tutto questo che stiamo vivendo, siano quelle scritte da Alex Langer nel lontano ottobre 1992 (uno ieri che e' drammaticamente oggi), dopo la tragica morte dell'ecologista tedesca Petra Kelly: "Forse e' troppo arduo essere individualmente dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si accumulano; troppo grande il carico di amore per l'umanita' e di amori che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra cio' che si proclama e cio' che si riesce a compiere". Davvero allora il tempo attuale, nella sua ferocia e disumanita', e' il tempo di una fragilita' senza scampo, che dovrebbe unificare l'umanita' dei cosiddetti primi della terra a quella dei cosiddetti ultimi. Forse la possibilita' della politica a venire passa, nella culla europea della politica moderna drammaticamente basata sulla forza, solo per la coscienza di questa fragilita' interdipendente. 2. MAESTRI. PAUL RICOEUR: L'IDENTITA' FRAGILE. RISPETTO DELL'ALTRO E IDENTITA' CULTURALE [Dalla rivista "Alternative" n. 5 del 2004 (disponibile nel sito www.alternativebo.org) riportiamo, nella traduzione e con alcune note di Domenico Jervolino, il testo di questa conferenza di Paul Ricoeur, da pochi mesi scomparso. Scrive Jervolino nella nota di presentazione del testo: "Questo inedito di Paul Ricoeur e' tratto da una conferenza tenuta a Praga in occasione del seminario della federazione internazionale di Acat, una organizzazione ecumenica che lotta contro la tortura nel mondo, svoltosi nella capitale ceca dal 5 all'8 ottobre 2000 sul tema 'Europa 2000, i diritti della persona in questione'. L'argomento della conferenza e' diventato ancora piu' attuale oggi, di fronte al tragico crescendo di violenza che ha caratterizzato i primi anni del terzo millennio e dopo l'universale indignazione suscitata da quelli che sono stati chiamati eufemisticamente 'abusi' nei confronti dei detenuti da parte delle forze di occupazione in Iraq. Siamo grati percio' all'Autore per avere autorizzato la pubblicazione di questo suo intervento, che ha il valore di un lucido appello alla responsabilita' e all'impegno nella lotta per il riconoscimento dell'umano in noi e negli altri". Paul Ricoeur, filosofo francese, nato nel 1913 e deceduto nel maggio 2005; amico di Mounier, collaboratore di "Esprit", docente universitario, uno dei pensatori piu' influenti del Novecento, persona buona. Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filsofiche rirpendiamo questa breve scheda: "Paul Ricoeur nasce a Valence (Drome) il 27 febbraio 1913. Compie i suoi studi di filosofia prima all'Universita' di Rennes, poi alla Sorbonne, dove nel 1935, passa l'agregation. Mobilitato nel 1939, viene fatto prigioniero e nel campo comincia a tradurre con Mikel Dufrenne Ideen I di Husserl. Dal 1945 al 1948 insegna al College Cevenol di Chambon-sur-Lignon, e successivamente Filosofia morale all'Universita' di Strasburgo, sulla cattedra che era stata di Jean Hyppolite, e dal 1956 Storia della filosofia alla Sorbona. Amico di Emmanuel Mounier, collabora alla rivista "Esprit". Dal 1966 al 1970 insegna nella nuova Universita' di Nanterre, di cui e' rettore tra il marzo 1969 e il marzo 1970, con il proposito di realizzare le riforme necessarie a fronteggiare la contestazione studentesca e, contemporaneamente, presso la Divinity School dell'Universita' di Chicago. Nel 1978 ha realizzato per conto dell'Unesco una grande inchiesta sulla filosofia nel mondo. Nel giugno 1985 ha ricevuto il premio "Hegel" a Stoccarda. Attualmente e' direttore del Centro di ricerche fenomenologiche ed ermeneutiche". Opere di Paul Ricoeur: segnaliamo i suoi libri Karl Jaspers et la philosophie de l'existence (con Mikel Dufrenne), Seuil; Gabriel Marcel et Karl Jaspers, Le temps present; Filosofia della volonta' I. Il volontario e l'involontario, Marietti; Storia e verita', Marco; Finitudine e colpa I. L'uomo fallibile, Il Mulino; Finitudine e colpa II. La simbolica del male, Il Mulino; Della interpretazione. Saggio su Freud, Jaca Book, poi Il Melangolo; Entretiens Paul Ricoeur - Gabriel Marcel, Aubier; Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book; La metafora viva, Jaca Book; Tempo e racconto I, Jaca Book; Tempo e racconto II. La configurazione nel racconto di finzione, Jaca Book; Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca Book; Dal testo all'azione. Saggi di ermeneutica II, Jaca Book; Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana; A l'ecole de la fenomenologie, Vrin; Se' come un altro, Jaca Book; Lectures 1. Autour du politique, Seuil; Lectures 2. La contree des philosophes, Seuil; Lectures 3. Aux frontieres de la philosophie, Seuil; Le juste, Esprit; Reflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Esprit; La critica e la convinzione (colloqui con Francois Azouvi e Marc de Launay), Jaca Book. Segnaliamo inoltre: Kierkegaard. La filosofia e l'"eccezione", Morcelliana; Tradizione o alternativa, Morcelliana, e l'antologia Persona, comunita' e istituzioni, Edizioni cultura della pace. Opere su Paul Ricoeur: segnaliamo particolarmente la recente monografia di Francesca Brezzi, Ricoeur. Interpretare la fede, Edizioni Messaggero Padova, 1999. Domenico Jervolino (per contatti: djervol at tin.it), nato a Sorrento nel 1946, discepolo di Pietro Piovani, studioso ed amico di Paul Ricoeur e Hans Georg Gadamer, due fra i maggiori filosofi del Novecento, insegna filosofia del linguaggio all'Universita' di Napoli Federico II. Fa parte degli organismi dirigenti dell'Associazione internazionale per la Filosofia della Liberazione (Afyl) e della International Gramsci Society (Igs). E' stato recentemente eletto membro della Consulta filosofica italiana (organismo rappresantivo della comunita' scientifica nel campo degli studi filosofici). Nell'ambito dell'impegno politico e nelle istituzioni e' stato consigliere regionale della Campania dal 1979 al 1987 e membro della presidenza del Consiglio regionale. E' stato anche nel corso degli anni tra i promotori del movimento dei Cristiani per il socialismo, dirigente delle Acli e della Cisl Universita', membro della direzione nazionale della Lega delle Autonomie Locali e della segreteria nazionale di Democrazia Proletaria di cui e' stato a lungo responsabile nazionale cultura e scuola. In Rifondazione Comunista e' attualmente membro del Comitato politico nazionale e responsabile nazionale Universita'. Assessore all'educazione del Comune di Napoli dal marzo 2000 al marzo 2001, e' attualmente rappresentante dell'Associazione dei Comuni italiani nel Comitato nazionale per l'Educazione degli adulti. E' autore, nel campo degli studi filosofici, dei volumi: Il cogito e l'ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur, Procaccini, Napoli 1984, Marietti, Genova 1993 (tradotto in inglese presso Kluwer nel 1990); Pierre Thevenaz e la filosofia senza assoluto, Athena, Napoli 1984; Logica del concreto ed ermeneutica della vita morale. Newman, Blondel, Piovani, Morano, Napoli 1994; Ricoeur. L'amore difficile, Studium, Roma 1995; Le parole della prassi. Saggi di ermeneutica, Citta' del sole, Napoli 1996 (in una collana dell'Istituto italiano per gli studi filosofici). Ha curato e introdotto l'antologia ricoeuriana Filosofia e linguaggio, Guerini, Milano 1994, e una scelta di scritti di Ricoeur sulla traduzione: La traduzione. Una scelta etica, Morcelliana, Brescia 2001. Ha curato, inoltre, i volumi: Filosofia e liberazione, Capone, Lecce 1992 (con G. Cantillo); e Fenomenologia e filosofia del linguaggio, Loffredo, Napoli 1996 (con R. Pititto); L'eredita' filosofica di Jan Patocka, Cuen, Napoli 2000. Ha partecipato ai principali volumi collettivi pubblicati su Ricoeur negli ultimi anni in Francia, Spagna, Inghilterra e Stati Uniti e continua, attualmente, i suoi studi, lavorando in particolare sull'opera di Jan Patocka e sugli sviluppi della fenomenologia di lingua francese nonche' sul raporto ermeneutica-traduzione. E' in preparazione una Introduzione al pensiero di Ricoeur presso le edizioni Ellipses di Parigi. Complessivamente i suoi saggi e articoli di filosofia sono circa ottanta in italiano o tradotti in sette lingue straniere. Nel campo della saggistica politica e' autore dei volumi: Questione cattolica e politica di classe, Rosenberg & Sellier, Torino 1969; Neoconservatorismo e sinistra alternativa, Athena, Napoli 1985; e di una vasta produzione pubblicistica. Collabora a numerose riviste italiane e straniere, tra cui "Concordia" di Aachen, "Actuel Marx" di Parigi, "Filosofia e teologia" e "Studium" di Roma, "Segni e comprensione" di Lecce; dirige la rivista "Alternative" di Roma. E' condirettore della rivista "Il tetto" di Napoli, di cui fa parte da circa trent'anni] Sono lieto che il nostro seminario della federazione internazionale di Acat abbia scelto come tema la questione dell'identita', abbinata a quella del riconoscimento dell'altro. Tale problematica, in effetti, ci pone di fronte a un grande imbarazzo, che si esprime nella forma interrogativa: chi siamo? Per cogliere tutta la gravita' del problema, noi siamo posti di colpo davanti al carattere presunto, pretestuoso, preteso delle rivendicazioni d'identita'. Questa presunzione si annida nelle risposte che cercano di mascherare l'ansia della questione. Alla domanda formulata con l'interrogativo: "chi?" - "Chi sono io?" - replichiamo in termini di: "che cosa?", con risposte del tipo: ecco cosa siamo, noi altri. Noi siamo cosi', cosi' e non altrimenti. La fragilita' dell'identita', di cui ci occuperemo fra un istante, si mostra nella fragilita' di queste risposte in termini di "che cosa?", che pretendono di fornire la ricetta di un'identita' proclamata e rivendicata. * I. Vorrei dedicare il primo gruppo delle mie considerazioni allo sdoppiamento della domanda, sul piano personale e su quello collettivo. La domanda "chi?" puo' essere posta alla prima persona singolare: io, me, o alla prima persona plurale: noi, noi altri. La legittimita' di tale partizione e' stata messa alla prova nella mia trattazione del problema della memoria, che giochera' un ruolo importante nella nostra discussione, attraverso i temi del racconto e della storia. Gia' sul piano della memoria, la questione del senso dell'identita' non e' facile, dato che, almeno a prima vista, la memoria puo' definire un'identita' non solo personale, ma interiore: ricordarsi, significa anzitutto ricordarsi di se'. Questa e' gia' la lezione di Sant'Agostino nelle Confessioni e poi, nell'epoca moderna, del filosofo inglese John Locke. Quest'ultimo nel Saggio sull'intelletto umano propone d'identificare gli uni agli altri tutti i termini della serie: identita', coscienza, memoria, se' (self). Per identita' egli intende il primato del medesimo su cio' che egli chiama diversita' e che noi chiamiamo alterita'; cio' in base al principio che una cosa e' identica a se stessa e non e' un'altra. Tale identita' rispetto a se', che vale per l'atomo come per la quercia, che resta la stessa cosa, passando dal seme all'albero, culmina col se' che si riconosce identico, nel momento della riflessione, in luoghi e tempi differenti. Ed e' la memoria che attesta la continuita' dell'esistenza e la permanenza del se'. Assunta nel suo senso radicale, questa serie di equazioni non lascia spazio a qualcosa come una memoria collettiva e di conseguenza nemmeno all'idea d'identita' applicata a gruppi, collettivita', comunita', nazioni. Tutt'al piu' si tratterebbe di un'analogia potenzialmente ingannevole. Ora, l'esperienza comune contraddice questo puritanesimo semantico. La memoria non e' solo rimemorazione personale, privata, ma e' anche commemorazione, vale a dire memoria condivisa. Lo vediamo nei nostri racconti, nelle nostre leggende, nelle nostre storie, i cui eroi sono i popoli almeno quanto lo sono gli individui; lo vediamo nelle nostre feste con le loro celebrazioni, i loro rituali. Non solo l'idea di memoria collettiva pare appropriata a un'esperienza diretta e immediata della memoria condivisa, ma ci si puo' anche legittimamente chiedere se la memoria personale, privata, non sia in buona parte un prodotto sociale: pensate al ruolo del linguaggio rispetto alla memoria nella sua fase dichiarativa. Un ricordo lo si dice nella lingua materna, la lingua di tutti; i nostri ricordi piu' antichi, quelli della nostra infanzia, ci rappresentano mescolati alla vita degli altri, nella famiglia, nella scuola, nella citta'; molto spesso e' insieme agli altri che evochiamo un passato condiviso; infine, l'esame di situazioni specifiche come quella della cura psicoanalitica ci mostra che la rimemorazione piu' privata non e' facile e chiede di essere aiutata, anzi permessa, autorizzata da un altro. In breve, la nostra memoria e' da sempre mescolata a quella degli altri. * Per concludere rapidamente questa discussione preliminare, vorrei dire che l'attribuzione della memoria a qualcuno e' un'operazione assai complessa che puo' essere in linea di principio effettuata a beneficio di tutte le persone grammaticali: io mi ricordo, lui/lei si ricorda, noi ci ricordiamo, essi si ricordano. Tale attribuzione molteplice della memoria sara' ormai la nostra guida nel prosieguo delle nostre analisi e autorizzera' un va e vieni incessante tra il livello della persona e quello della comunita'. Questo intreccio, come vedremo, e' persino tale che in certi casi l'identita' collettiva porra' in modo piu' vivo e inquietante il problema della sua giustificazione, se non addirittura della sua purificazione, della sua pacificazione, della sua guarigione, tant'e' vero che le nostre memorie collettive sono memorie ferite, malate, piu' ancora di quelle personali. Risolta per il momento la questione dell'eguale attribuzione, in linea di principio, della memoria e - attraverso la memoria - dell'identita' alle persone e alle comunita', possiamo affrontare la difficolta' principale, quella relativa alla fragilita' dell'identita'. Nel corso di questa seconda fase della nostra ricerca s'imporra' il confronto con l'identita' dell'altro, tanto a livello individuale che a quello collettivo. * II. Che cosa rende fragile l'identita'? Come prima causa di tale fragilita' occorre menzionare il suo rapporto difficile col tempo; difficolta' primaria che giustifica il ricorso alla memoria come componente temporale dell'identita', insieme con la valutazione del presente e con la proiezione del futuro. Questo rapporto col tempo e' fonte di difficolta' in ragione del carattere equivoco della nozione di "medesimezza", implicita in quella di "identita'". Che significa, infatti, restare lo stesso attraverso il tempo? Mi sono misurato altre volte con questo enigma, proponendo di distinguere due sensi di identita': essere lo "stesso" come idem, same, gleich ed essere lo "stesso" come ipse, self, Selbst. E mi e' parso che il mantenersi lo stesso nel tempo si fondi su un gioco complesso tra medesimezza e ipseita', se vogliamo osare questi termini inusuali; di tale gioco ambiguo, gli aspetti pratici e patici (relativi all'affettivita') sono piu' insidiosi di quelli concettuali, epistemici. Diro' che la tentazione identitaria, la "follia identitaria", come dice Jacques Le Goff consiste nel ripiegarsi dell'identita'-ipse sull'identita'-idem, o se preferite, nello scivolamento, nella deriva dalla duttilita' propria della capacita' di restare fedeli a se stessi, mantenendo una promessa, alla rigidita' inflessibile di un carattere, nel senso quasi tipografico del termine (1). Fermiamoci un momento a considerare questa prima causa di fragilita'. In virtu' di cio' che abbiamo detto prima sulla reciproca parziale sovrapposizione della memoria individuale e della memoria collettiva, tale gestione difficile del tempo riguarda entrambe le forme di memoria. * A livello individuale abbiamo imparato dalla psicoanalisi quanto e' difficile ricordare e affrontare il proprio passato. Il soggetto e' in preda a traumi, a ferite affettive; e la sua tendenza, osserva Freud in un saggio famoso intitolato Ricordare, ripetere e rielaborare (Erinnern, Wiederholen, Durcharbeiten), e' di cedere alla coazione a ripetere che Freud attribuisce alle resistenze della rimozione. Ne risulta che il soggetto ripete i suoi fantasmi anziche' elaborarli: cosa ancora piu' grave, li lascia passare all'atto in gesti che minacciano lui stesso e gli altri. L'analogia a livello della memoria collettiva e' evidente: le memorie dei popoli sono memorie ferite, ossessionate dal ricordo delle glorie e delle umiliazioni di un lontano passato. Ci si puo' anche stupire e inquietare del fatto che la memoria collettiva presenti una versione caricaturale di tali accessi di coazione a ripetere e di passaggio all'atto nella forma ossessiva di un passato che ritorna senza fine. E' necessario persino riconoscere che e' piu' difficile realizzare il lavoro della memoria a livello collettivo che a quello individuale e che in questo caso non hanno equivalenti le possibilita' offerte dalla terapia analitica. Quale sarebbe, infatti, a livello collettivo, il corrispondente del transfert? Cosa equivarrebbe al colloquio analitico? Chi farebbe da analista? Chi potrebbe dirigere il lavoro di rielaborazione, di working through? La questione diventa ancora piu' inquietante se si aggiunge all'idea di lavoro di memoria quella di lavoro di lutto. Quest'ultimo, dice un altro saggio di Freud, consiste nel trattamento emotivo della perdita dell'oggetto di amore e dunque anche di un oggetto d'odio. Il soggetto e' invitato a rompere uno a uno i legami che risultano dai suoi investimenti libidici sotto la dura costrizione del principio di realta', opposto al principio del piacere. E' questo il prezzo da pagare per un disinvestimento liberatore; altrimenti il soggetto e' spinto sulla china che dal lutto lo conduce alla melanconia, alla depressione, dove alla perdita dell'oggetto si aggiunge quella della stima di se', di quella Ichgefuehle di cui parla Freud. A tal proposito un'osservazione di questo saggio deve metterci in guardia: parlando dei soggetti melanconici, Freud dice che "i loro lamenti sono accuse" (ihre Klagen sind Anklagen). E' come se l'odio di se' si mutasse in odio per altri nella chimica funesta della melanconia. Da tale analisi risulta che il lavoro che la memoria compie su se stessa non e' disgiunto da un lavoro di lutto, che non si limita al rimpianto passivo, ma consiste in una elaborazione della perdita, spinta fino alla riconciliazione con l'oggetto perduto al termine della sua compiuta interiorizzazione. I paralleli a livello della memoria collettiva non mancano; la nozione di oggetto perduto trova un'applicazione immediata nelle perdite che investono tanto il potere che il territorio e le popolazioni, che costituiscono la sostanza di uno Stato. Le difficolta' di elaborare il lutto sono a questo livello piu' gravi che a livello individuale. Donde il carattere equivoco delle grandi celebrazioni funebri nella quali un popolo straziato si raduna. E la frase "ihre Klagen sind Anklagen" suona qui sinistra. Il fatto inquietante e' che la memoria delle ferite e' piu' lunga e tenace a livello collettivo che a quello individuale; gli odi sono millenari e inconsolabili. Donde l'impressione di eccesso che essi offrono: qui troppa memoria, la' troppa dimenticanza. La stessa memoria ripetitiva, la stessa memoria melanconica conduce, gli uni al passaggio all'atto che si manifesta in violenze che non restano solo simboliche, gli altri a rimuginare in modo doloroso sulle antiche ferite. E' a livello della memoria collettiva piu' ancora che a quello della memoria individuale che l'intersezione fra il lavoro di lutto e quello del ricordo assume tutto il suo senso. Trattandosi di ferite all'amor proprio nazionale, si puo' parlare a giusto titolo d'oggetto d'amore perduto. E' sempre con delle perdite che la memoria ferita e' costretta a confrontarsi. Cio' che essa non sa fare e' il lavoro che la prova della realta' le impone: l'abbandono degli investimenti mediante i quali la libido non cessa di essere connessa con l'oggetto perduto, finche' la perdita non sia stata definitivamente interiorizzata. Ma e' anche il luogo di sottolineare che tale sottomissione alla prova della realta', costituiva del vero lavoro di lutto, fa anche parte del lavoro del ricordo. Per quel che concerne la componente melanconica dei disturbi della memoria collettiva, ci si puo' preoccupare dell'assenza di parallelismo sul piano terapeutico. Tutt'al piu' si puo' fare appello alla pazienza nei confronti degli altri e di se stessi; il lavoro di lutto non richiede meno tempo del lavoro di memoria. * Menzionero' ora una seconda fonte di fragilita' dell'identita': il confronto con l'altro avvertito come una minaccia. E' un dato di fatto che l'altro, in quanto altro, viene percepito come un pericolo per la propria identita', per l'identita' nostra, collettiva, come per l'identita' mia, individuale. Possiamo stupircene, certo: dobbiamo ammettere, allora, che la nostra identita' e' fragile al punto da non poter sopportare, da non poter tollerare che altri abbiano dei modi diversi dai nostri di organizzare la propria vita, di comprendersi, d'iscrivere la loro propria identita' nella trama del vivere insieme? E' cosi'. Sono appunto le umiliazioni, le ferite reali o immaginarie alla stima di se', sotto i colpi dell'alterita' mal tollerata, che conducono dall'accoglienza al rigetto, all'esclusione, il rapporto che il se' intrattiene con l'altro. E' possibile spingere piu' a fondo l'analisi di tale reazione ostile nei confronti dell'altro? Possiamo forse trovare una radice biologica nelle difese immunitarie dell'organismo, come si vede nel rigetto dell'intruso nel caso dei trapianti; l'organismo difende violentemente la propria identita', con due eccezioni che sono qualcosa di piu' che delle eccezioni, il cancro e la gestazione dell'embrione. Riguardo a cio', l'Aids rappresenta un esempio sconvolgente dell'astuzia dell'intruso che negozia il superamento delle barriere immunitarie. Succede qui qualcosa alle frontiere della cellula e dell'organismo: vi si svolgono delle operazioni di riconoscimento e d'identificazione, regolate da codici precisi. * Tali difese identitarie assumono delle forme propriamente umane allorche' interviene il fenomeno del linguaggio. Nonostante i successi relativi della traduzione e degli scambi linguistici, le lingue non sono ospitali le une nei confronti delle altre. Accade a questo livello qualcosa di paragonabile alle difese immunitarie a livello biologico; il linguaggio costituisce appunto la mediazione essenziale tra la memoria e il racconto; le memorie di articolano in racconti: Hannah Arendt sostiene da qualche parte che il racconto dice il "chi" dell'azione. Ora il racconto contribuisce facilmente all'avvitarsi di una memoria su stessa; i miei ricordi non sono i vostri; casomai, escludono i vostri. Per complicare le cose, al sentimento di minaccia che proviene da un'alterita' mal tollerata, s'aggiunge la relazione d'invidia che ostacola in misura non minore il riconoscimento dell'altro; l'invidia, dice un dizionario, consiste in un sentimento di tristezza, d'irritazione e di odio contro chi possiede un bene che a noi manca. L'invidia rende intollerabile la felicita' degli altri. Alla difficolta' di condividere l'infelicita', s'aggiunge il rifiuto di condividere la felicita'. Occorrerebbe qui mostrare come al lato passivo dell'invidia come forma di tristezza s'aggiunga il lato attivo della rivalita' nel possesso; su tale desiderio di godere d'un vantaggio, d'un piacere eguale a quello d'un altro, Rene' Girard costruisce la sua teoria della mimesis e la sua interpretazione del fenomeno del capro espiatorio come esito della rivalita' mimetica e risultato della riconciliazione di tutti contro uno. * Questi fenomeni di difesa, di rigetto, d'invidia c'invitano a varcare la distanza che c'e' fra identita' individuale e identita' collettiva; il fenomeno di base e' quello del carattere minaccioso per l'integrita' del se' rappresentato dalla semplice esistenza d'un altro, diverso da me. Tale minaccia arriva ad assumere una dimensione smisurata a livello collettivo. Anche le collettivita' hanno un problema di difesa immunitaria, quasi biologica. E' appunto a questo livello di grande dimensione che si lasciano leggere fenomeni che non hanno affatto equivalenti, sul piano personale, se non per l'inversione del transfert dal piano collettivo a quello dell'identita' personale. Si tratta di fenomeni di manipolazione che si possono attribuire a un fattore inquietante e multiforme che si frappone fra la rivendicazione identitaria e le espressioni pubbliche della memoria. Questo fenomeno ha un legame stretto con l'ideologia, il cui meccanismo resta volentieri dissimulato; a differenza dell'utopia, con la quale l'ideologia suole essere accoppiata, esso rimane inconfessabile; si maschera trasformandosi in denuncia contro gli avversari nella competizione fra le ideologie; e' sempre l'altro che s'infogna nell'ideologia. Inoltre, questo fenomeno opera a molteplici livelli. Al livello piu' vicino all'azione, esso costituisce una strategia di cui non si puo' fare a meno, in quanto mediazione simbolica derivante da una "semiotica della cultura"; e' a questo titolo di fattore d'integrazione che l'ideologia puo' giocare il ruolo di guardiana dell'identita'. Ma tale funzione di salvaguardia non vale senza delle manovre di giustificazione in un sistema dato d'ordine o di potere, sia che si tratti delle forme di proprieta', che di quelle della famiglia, dell'autorita', dello Stato, della religione. Tutte le ideologie, in definitiva, ruotano attorno al potere. Di li' si passa facilmente ai fenomeni piu' appariscenti di distorsione della realta' di cui gli avversari amano accusarsi reciprocamente. Appare chiaro a quale livello gli ideologi possano intervenire nel processo d'autoidentificazione di una comunita' storica: a livello della funzione narrativa. L'ideologia della memoria e' resa possibile dalle risorse di variazione fornite dal lavoro di configurazione del racconto. Ogni racconto e' selettivo. Non si racconta tutto, ma soltanto i momenti salienti dell'azione che permettono la costruzione dell'intreccio, che concerne non soltanto gli avvenimenti raccontati, ma i protagonisti dell'azione, i personaggi. Ne risulta che si puo' sempre raccontare in altro modo. E' questa funzione selettiva del racconto ad offrire alla manipolazione l'occasione e i mezzi d'una strategia scaltra, che consiste nello stesso tempo tanto di una strategia dell'oblio quanto di una della rimemorazione. Da tali strategie provengono i tentativi di certi gruppi di pressione, siano essi al potere, all'opposizione o rifugiati nelle minoranze attive, per imporre una storia "autorizzata", una storia ufficiale, appresa e celebrata pubblicamente. Una memoria esercitata, in effetti, e' a livello istituzionale una memoria insegnata; la memorizzazione forzata si trova cosi' arruolata al servizio della rimemorazione delle peripezie della storia comune considerata come il complesso degli eventi fondatori dell'identita' comune. La chiusura del racconto e' posta cosi' al servizio della chiusura identitaria della comunita'. Storia insegnata, storia appresa, ma anche storia celebrata. Alla memorizzazione forzata s'aggiungono le commemorazioni decise per convenzione. Un patto insidioso si stabilisce cosi' tra rimemorazione, memorizzazione e commemorazione. Questa appropriazione violenta della storia non e' esclusiva dei regimi totalitari; essa e' appannaggio di tutti i fanatici della gloria. * Abbiamo detto abbastanza di questa seconda causa di fallibilita' della memoria e del suo sfruttamento ideologico. Una delle risposte possibili a queste manipolazioni e' da ricercare allo stesso livello in cui esse agiscono di preferenza. Quello del racconto. Si puo' sempre raccontare diversamente, come abbiamo appena detto. Ma appunto questa risorsa non e' soggetta solamente alla distorsione dei fatti, ma anche alla critica della manipolazione. Raccontare diversamente, confrontando versioni divergenti, come gli storici hanno imparato a fare sul piano della critica delle testimonianze, questi racconti diventati archivi e documenti. Confrontare i racconti, e' anzitutto lasciarsi raccontare dagli altri, e in particolare permettere agli altri di narrare i nostri racconti di fondazione, e cosi' accedere ad un modo diverso di costruire la trama degli avvenimenti che sono alla base delle nostre celebrazioni comunitarie o nazionali. Ci riferiamo qui ai correttivi che la storia puo' esercitare nei confronti della memoria. Oltre alla sua estensione nello spazio e nel tempo, la storia porta con se' il pungolo del confronto, grazie al quale siamo sollecitati a reinterpretare la nostra identita' in termini di differenza di fronte alle identita' opposte. Su questa strada, puo' essere invertita la tendenza iniziale ad avvertire il confronto con gli altri come una minaccia contro la propria identita', sia collettiva che individuale. "Consolidare la propria identita', senza rifiutare l'altro e senza maltrattarlo" recita il titolo della nostra sessione. Il racconto critico puo' farlo, al contrario dei racconti della "follia identitaria". * III. Per finire, a proposito dell'identita', vorrei richiamare un'ultima causa della sua fragilita': l'eredita' della violenza fondatrice. Quest'ultima considerazione ci riavvicina alle preoccupazioni principali della nostra Federazione internazionale di Acat: la tortura. Noi la inseriamo in un contesto piu' ampio, evocando cio' che ho appena chiamato "l'eredita' della violenza fondatrice". E' un fatto che non esiste alcuna comunita' storica che non sia nata da un rapporto, si puo' dire originario, con la guerra. Quelli che celebriamo a titolo di "avvenimenti fondatori", altro non sono - in ultima analisi - che atti violenti legittimati a cose fatte da uno Stato di diritto precario, e - al limite - dalla loro antichita', dalla loro vetusta'. Non casualmente, i fondatori della filosofia politica, Hobbes fra i primi, hanno collocato la paura della morte violenta alla base del bisogno di rassicurazione su cui si innestano le forme varie e divergenti del principio di sovranita'. Nel senso forte del termine, e' la sicurezza che gli individui si aspettano dallo Stato, quale che sia il modo in cui esso proceda nel fornire una risposta alla paura della morte violenta a livello istituzionale. Evocare questa paura, equivale a richiamare il posto dell'assassinio nella genesi della politica. Ci possiamo legittimamente chiedere se questa cicatrice sia stata mai cancellata anche negli Stati di diritto. I segni della violenza sono leggibili ovunque. Sul piano individuale, e' la persistenza dello spirito di vendetta nel cuore dello spirito di giustizia. Certamente, lo Stato ha disarmato i cittadini privandoli della possibilita' di farsi giustizia da soli; ma ha concentrato nelle proprie mani l'esercizio della violenza considerata legittima; ogni punizione, per quanto proporzionata al delitto e al crimine, comporta una sofferenza aggiuntiva. E tra le sanzioni, la pena di morte - all'inizio del Novecento considerata legittima in tutta l'Europa - continua ad essere praticata in molti paesi, pure in alcuni che per altri versi possono ritenersi democratici. Vale a dire che l'esercizio della morte violenta non e' stato sradicato dai nostri Stati di diritto. Si presenta qui una discordanza di tipo particolare, che distingue in modo radicale il piano del politico dal piano del privato nell'ordine delle relazioni esterne. Vale a dire che i comportamenti di ostilita' tra i popoli o i loro Stati appartengono a un ordine diverso da quello delle relazioni d'inimicizia fra i privati: queste ultime restano accessibili al compromesso, alla transazione. A livello degli Stati prevale la relazione amico-nemico che infuria laddove la sopravvivenza o l'integrita' della comunita' sono in gioco. E' noto in qual modo un pensatore politico come Carl Schmitt ha sviluppato ampiamente questa linea di pensiero. Qualunque cosa se ne pensi, il problema della guerra e del suo diritto crudele resta posto in tutta la sua radicalita'. Che dire, in particolare, della licenza di uccidere concessa nello stato di guerra? Ammazzare non solo e' permesso, ma e' comandato. E noi sappiamo bene che sotto la copertura di un preteso diritto di guerra la tortura e' stata ed e' tuttora praticata. Certo dei limiti a questo preteso diritto sono stati imposti dalla comunita' internazionale con la definizione dei crimini di guerra, per non parlare del genocidio e dei crimini contro l'umanita'. Ma questo diritto resta privo di sanzioni, resta affidato alla custodia della sola protesta morale. Noi dobbiamo sapere almeno perche' protestiamo e militiamo. Lo facciamo in nome dell'idea di dignita' di ogni essere umano, anche se colpevole; del suo diritto alla stima. Perche', dietro il farlo soffrire si nasconde l'umiliazione che vuol far si' che l'altro, perseguitato, perda il rispetto di se stesso, si disprezzi. Qui il mio discorso si congiunge con quello degli altri oratori e di tutti i partecipanti a questo seminario (2). * Note del traduttore [Domenico Jervolino] 1. Qui e' opportuna qualche parola di spiegazione per i lettori che non conoscono il pensiero dell'Autore: egli, nella sua opera Soi-meme comme un autre (1990) distingue i due sensi dell'identita': l'identita'-idem e' l'identita' sostanziale, che ha il suo grado piu' alto nella permanenza nel tempo e che conviene pienamente alla stabilita' delle cose. Le persone, invece, per certi aspetti sono partecipi di tale identita', ad esempio per gli elementi costanti del loro sostrato biologico e per i loro tratti caratteriali, ma hanno come specifico l'identita'-ipse, che si manifesta nella loro capacita' di agire, ad esempio mantenendo fede ad una promessa, pur cambiando da tanti punti di vista nel corso del tempo. L'identita' in questo senso e' l'attestazione di essere quella stessa persona che ha promesso un tempo e ora mantiene, la stessa persona che ha agito (e patito, perche' l'agire porta con se' per Ricoeur sempre anche un risvolto di passivita') in passato e che continua ad agire e patire: si tratta di una identita' personale, duttile e flessibile. Ora questa distinzione viene applicata anche all'identita' collettiva. La follia identitaria significa per una comunita' rifugiarsi nella rigidita' dell'identita' sostanziale. 2. La conclusione di questa conferenza del 2000 si presenta aperta: la critica al preteso diritto di guerra prelude alla ricerca di un fondamento diverso del legame sociale che verra' sviluppata nell'opera piu' recente del filosofo ormai novantenne: Parcours de la reconnaissance (2004), una tematica che abbiamo anticipata nella Nota introduttiva al n. 2 della nostra rivista ["Alternative"]. 3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: LA SPOSA SIRIANA. UN FILM [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recente edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario] Maledetti confini! Accidenti agli stati che tagliano a fette l'umanita' con barriere, fili spinati, muri e fossati, e grintosi ottusi soldati e impiegati. Tagliano anche popoli e famiglie e mettono cancelli di ferro e ostacoli di stupidi timbri anche tra i nuovi sposi, impediti di incontrarsi il giorno stesso della cerimonia. Il regista israeliano Eran Riklis (studi a Londra e New York) e la sceneggiatrice palestinese Suha Arraf non si arrabbiano cosi', ma trattano il problema intollerabile con ironia, in chiave di commedia, e riescono a far pensare lo spettatore. Ne viene un bel film di pace (piu' volte compare la bandiera iridata tra le molte nazionali) attraverso l'assurdo della non pace, perche' si vedono tagliare confini terrestri e confini interiori nelle persone e nelle culture. La storia di quel giorno di matrimonio e' ambientata nel Golan arido arioso e solare, diviso e reclamato tra Israele e Siria, ed e' parlata (con sottotitoli) in tutte le lingue che si accavallano nella regione. Non c'e' un rito, ne' religioso ne' sociale, salvo il pranzo, assente lo sposo oltre confine, e lo stesso pranzo e' disturbato da divisioni personali. E' la sposa, che pure ha paura e non e' felice per il matrimonio combinato a distanza, che taglia il nodo dei confini di ferro e di carte. L'avanti e indietro della volenterosa funzionaria internazionale, che passa e ripassa i muri politici e burocratici, non risolve cio' che risolve la risoluta violazione della legge separante, che la sposa sa fare, da sola. E' questo il vero rito di unita', che solennizza e forse da' solidita' ad un incerto matrimonio, scavalcando la troppa certezza dei confini. Ma anche le culture si autoconfinano: padri e mariti intransigenti faticano molto ad accettare il matrimonio straniero di un figlio e le scelte indipendenti della moglie e delle figlie. Eppure, quella sposa coraggiosa forse sta aiutando ciascuno a superare le proprie barriere. Se ne diventano capaci le persone, perche' non i popoli? 4. RILETTURE. FATEMA MERNISSI: ISLAM E DEMOCRAZIA Fatema Mernissi, Islam e democrazia. La paura della modernita', Giunti, Firenze 2002, pp. 222, euro 12. Questo notevole libro (edizione originale 1992, seconda edizione 2002) della grande intellettuale marocchina (nata a Fez nel 1940, sociologa e studiosa del Corano, cattedratica all'Universita' di Rabat, narratrice e saggista finissima, di giustamente immenso prestigio internazionale) e' a nostro avviso una delle piu' utili introduzioni alla conoscenza della riflessione politica democratica islamica e dell'impegno civile contro ogni terrorismo nei paesi e nelle culture arabe e islamiche. Ancora una volta lo raccomandiamo vivamente. 5. RILETTURE. FATIMA MERNISSI: LA TERRAZZA PROIBITA Fatima Mernissi, La terrazza proibita. Vita nell'harem, Giunti, Firenze 1996, 2001, pp. 236, euro 9,50. In questo libro scritto nel 1994 e gia' divenuto un classico, Fatema Mernissi rievoca le sue memorie d'infanzia con struggente tenerezza e acutissimo sguardo. Ogni volta che rileggiamo i libri della Mernissi, come di altre scrittrici arabe femministe e sovente musulmane, pensiamo che queste donne oggi, nella capacita' di ascoltare il cuore e sentire il mondo, nella viva lotta per l'affermazione dei diritti di tutte e tutti, contro ogni razzismo, contro ogni oppressione, contro ogni ignoranza e violenza che nega l'umana dignita', scrivono sovente la migliore letteratura che si pubblica (quando viene pubblicata) oggi sul pianeta. Fa parte del nostro fascismo - sia del sistema di potere degli apparati ideologici globali governati totalitariamente da maschi del nord opulento perche' vampiro e cieco perche' razzista; sia di noi fruitori delle merci dell'industria culturale ad esso apparato per mille vincoli asserviti - non accorgercene se non quando esercitiamo quella virtu' dell'attenzione cui ci richiamava la sapiente, l'enigmatica, la sublime Simone Weil. 6. RILETTURE. FATEMA MERNISSI: L'HAREM E L'OCCIDENTE Fatema Mernissi, L'harem e l'Occidente, Giunti, Firenze 2000, pp. 192, euro 12,50. Ci si perdoni l'ineleganza di riproporre quanto gia' avemmo a scriverne in occasione del nostro primo incontro con questo libro (apparso in edizione originale - in inglese - nel 2000 e tempestivamente tradotto e pubblicato in italiano dalla benemerita casa editrice fiorentina): "Un libro di straordinaria cultura e levita', scintillante di intelligenza e umorismo, che smaschera il maschilismo con un'efficacia strepitosa. Un libro politico come si dovrebbero scriverne: un libro con sguardo e con voce di donna. Lo raccomandiamo vivamente, come del resto tutte le opere di Fatema Mernissi che abbiamo letto". Ed anche le seguenti parole dal risvolto di copertina ci piace trascrivere qui ancora: "Fatema Mernissi e' nata a Fez, in Marocco, nel 1940: docente di sociologia presso l'Universita' di Rabat Mohammed V, studiosa del Corano e scrittrice, da molti anni e' impegnata in attivita' di ricerca e insegnamento in ambito internazionale, per sostenere una visione pluralistica della societa' islamica, fondata sull'umanesimo e sul femminismo e opposta alle concezioni e alle pratiche dell'estremismo integralista". 7. RILETTURE. FATEMA MERNISSI: KARAWAN. DAL DESERTO AL WEB Fatema Mernissi, Karawan. Dal deserto al web, Giunti, Firenze 2004, pp. 256, euro 12. Ci sia consentito anche per questo libro (la cui edizione originale in francese e' sempre del 2004) riprendere quanto ne scrivemmo a suo tempo: "Un bel libro della grande intellettuale marocchina che invita a un incontro col Marocco fuori dagli stereotipi, in un autentico riconoscersi e dialogare; sono pagine acute ed affascinanti, impreziosite da un gioco grafico e tipografico sorprendente e piacevolissimo". E dal risvolto di copertina riportavamo - e nuovamente trascriviamo - che esso "si fonda su anni di ricerche e di esplorazioni nella cultura islamica e nella realta' marocchina, per raccontarci un paese vivacissimo e per sostenere una comune speranza: che terrorismo, razzismo e neocolonialismo possano arretrare di fronte al dispiegarsi di un Islam umanista, nutrito di democrazia e diritto alla critica, che dialoghi con l'Occidente di giustizia sociale e pacifici commerci". 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1010 del 2 agosto 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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