La nonviolenza e' in cammino. 1010



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1010 del 2 agosto 2005

Sommario di questo numero:
1. Giulio Vittorangeli: Questa fragilita' interdipendente
2. Paul Ricoeur: L'identita' fragile. Rispetto dell'altro e identita'
culturale
3. Enrico Peyretti: La sposa siriana. Un film
4. Riletture: Fatema Mernissi, Islam e democrazia
5. Riletture: Fatima Mernissi, La terrazza proibita
6. Riletture: Fatema Mernissi, L'harem e l'Occidente
7. Riletture: Fatema Mernissi, Karawan. Dal deserto al web
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. GIULIO VITTORANGELI: QUESTA FRAGILITA' INTERDIPENDENTE
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Delle volte occorre il semplice coraggio di riconoscere la grande
limitatezza del nostro agire.
Quante volte abbiamo scritto che la prima cosa, essenziale, e' quella di
essere sempre e comunque a fianco delle vittime, e poi non ne ricordiamo
neanche i nomi, perche' tutto allo stesso tempo e' cosi' crudele e veloce
che non lascia neanche il tempo alla memoria di sedimentarsi.
Orrore segue ad orrore, si fatica davvero anche semplicemente a tenerne il
conto: quanto tempo e' davvero passato da Hiroshima e Nagasaki (luogo di
tutti gli orrori del mondo, che in qualche maniera sembrava aver segnato la
coscienza dell'umanita' con il rifiuto totale della guerra), ai drammi
attuali, dove la guerra e' considerata il male minore?
I nostri leader occidentali hanno pensato che possiamo tranquillamente
ammazzare delle persone vere, in terre lontane geograficamente, senza che lo
stesso capiti a noi, nelle nostre capitali, e soprattutto senza sofferenza
fisica o morale da parte nostra; confidando nel cinismo non avremmo mai
conosciuto il senso di colpa, ne' la sofferenza per la guerra.
Davanti poi alla barbarie incontrollata scatenata, si e' messa in moto la
discussione su una guerra di crociata tra islam e occidente secolarizzato,
nata sulle ceneri degli eventi dell'11 settembre, creando una visione
eurocentrica di un mondo diviso in due schieramenti contrapposti, vale a
dire un Occidente, percepito come pacifico e civilizzato grazie ai valori
dell'illuminismo e del cristianesimo, e un Oriente percepito come bellicoso,
immaturo o irresponsabile a causa del suo radicalismo religioso e dei
caratteri tribali ancora presenti all'interno delle sue societa'. Solo che
non e' uno scontro fra civilta', ma tra ignoranze; lo scontro tra mondi che
si misconoscono e comunicano male.
*
Intanto, in particolare nel nostro paese, la deriva isterica e forcaiola,
sull'onda della paura alimentata dagli attentati, spinge verso nuove
chiusure xenofobe, verso leggi tanto ottuse quanto inutili, verso incivili
ideologie e pratiche che vedono nello straniero, specie se povero e in cerca
di opportunita' di vita e di lavoro, un pericolo crescente.
In questo clima soffocante, anche una semplice cosa come il ritiro delle
nostre truppe dall'Iraq, oggi finalmente promessa da chi dovrebbe dopo le
elezioni del 2006 andare al posto dell'attuale governo di centrodestra, ci
sembra chissa' qualche grande conquista.
Il punto e' che l'Occidente esporta un'idea e una pratica di democrazia
ridotta al solo rito elettorale, e a un rito elettorale tutt'altro che
trasparente, prima che a Baghdad, in casa nostra: dove fra ogni testa e ogni
voto si frappone una montagna di opacita' fatta di potentati economici e
manipolazione massmediatica, la frequentazione delle urne non contrasta la
crisi verticale della rappresentanza e della partecipazione, la liberta' di
voto non compensa la caduta della liberta' politica. E' questa la democrazia
che "esportiamo" con le armi, che ha bisogno delle armi per essere
esportata, e' questa la democrazia che trionfa, e del cui trionfo c'e' poco
da gioire. All'orizzonte non c'e' il nazismo e non c'e' il fascismo; ma il
rischio di un destino triste della democrazia si'.
Questo sistema dell'orrore (che non e' solo quello inscindibile del rapporto
guerra/terrorismo, ma anche quello di un sistema economico quotidiano che ci
avvolge e ci fa piu' o meno complici consapevoli: continuare a consumare,
affamare, sfruttare e inquinare come se nulla fosse) ci stritola; nonostante
le tante buone nostre intenzioni.
Per difendere questo insensato presente si uccide il futuro.
*
In un tempo in cui le parole sono sfigurate, usate come vuoti a perdere
riempiti dei piu' diversi contenuti, sembra davvero che le ultime non
scontate o banali, su tutto questo che stiamo vivendo, siano quelle scritte
da Alex Langer nel lontano ottobre 1992 (uno ieri che e' drammaticamente
oggi), dopo la tragica morte dell'ecologista tedesca Petra Kelly: "Forse e'
troppo arduo essere individualmente dei portatori di speranza: troppe le
attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che
inevitabilmente si accumulano; troppo grande il carico di amore per
l'umanita' e di amori che si intrecciano e non si risolvono, troppa la
distanza tra cio' che si proclama e cio' che si riesce a compiere".
Davvero allora il tempo attuale, nella sua ferocia e disumanita', e' il
tempo di una fragilita' senza scampo, che dovrebbe unificare l'umanita' dei
cosiddetti primi della terra a quella dei cosiddetti ultimi.
Forse la possibilita' della politica a venire passa, nella culla europea
della politica moderna drammaticamente basata sulla forza, solo per la
coscienza di questa fragilita' interdipendente.

2. MAESTRI. PAUL RICOEUR: L'IDENTITA' FRAGILE. RISPETTO DELL'ALTRO E
IDENTITA' CULTURALE
[Dalla rivista "Alternative" n. 5 del 2004 (disponibile nel sito
www.alternativebo.org) riportiamo, nella traduzione e con alcune note di
Domenico Jervolino, il testo di questa conferenza di Paul Ricoeur, da pochi
mesi scomparso. Scrive Jervolino nella nota di presentazione del testo:
"Questo inedito di Paul Ricoeur e' tratto da una conferenza tenuta a Praga
in occasione del seminario della federazione internazionale di Acat, una
organizzazione ecumenica che lotta contro la tortura nel mondo, svoltosi
nella capitale ceca dal 5 all'8 ottobre 2000 sul tema 'Europa 2000, i
diritti della persona in questione'. L'argomento della conferenza e'
diventato ancora piu' attuale oggi, di fronte al tragico crescendo di
violenza che ha caratterizzato i primi anni del terzo millennio e dopo
l'universale indignazione suscitata da quelli che sono stati chiamati
eufemisticamente 'abusi' nei confronti dei detenuti da parte delle forze di
occupazione in Iraq. Siamo grati percio' all'Autore per avere autorizzato la
pubblicazione di questo suo intervento, che ha il valore di un lucido
appello alla responsabilita' e all'impegno nella lotta per il riconoscimento
dell'umano in noi e negli altri".
Paul Ricoeur, filosofo francese, nato nel 1913 e deceduto nel maggio 2005;
amico di Mounier, collaboratore di "Esprit", docente universitario, uno dei
pensatori piu' influenti del Novecento, persona buona. Dal sito
dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filsofiche rirpendiamo questa
breve scheda: "Paul Ricoeur nasce a Valence (Drome) il 27 febbraio 1913.
Compie i suoi studi di filosofia prima all'Universita' di Rennes, poi alla
Sorbonne, dove nel 1935, passa l'agregation. Mobilitato nel 1939, viene
fatto prigioniero e nel campo comincia a tradurre con Mikel Dufrenne Ideen I
di Husserl. Dal 1945 al 1948 insegna al College Cevenol di
Chambon-sur-Lignon, e successivamente Filosofia morale all'Universita' di
Strasburgo, sulla cattedra che era stata di Jean Hyppolite, e dal 1956
Storia della filosofia alla Sorbona. Amico di Emmanuel Mounier, collabora
alla rivista "Esprit". Dal 1966 al 1970 insegna nella nuova Universita' di
Nanterre, di cui e' rettore tra il marzo 1969 e il marzo 1970, con il
proposito di realizzare le riforme necessarie a fronteggiare la
contestazione studentesca e, contemporaneamente, presso la Divinity School
dell'Universita' di Chicago. Nel 1978 ha realizzato per conto dell'Unesco
una grande inchiesta sulla filosofia nel mondo. Nel giugno 1985 ha ricevuto
il premio "Hegel" a Stoccarda. Attualmente e' direttore del Centro di
ricerche fenomenologiche ed ermeneutiche". Opere di Paul Ricoeur: segnaliamo
i suoi libri Karl Jaspers et la philosophie de l'existence (con Mikel
Dufrenne), Seuil; Gabriel Marcel et Karl Jaspers, Le temps present;
Filosofia della volonta' I. Il volontario e l'involontario, Marietti; Storia
e verita', Marco; Finitudine e colpa I. L'uomo fallibile, Il Mulino;
Finitudine e colpa II. La simbolica del male, Il Mulino; Della
interpretazione. Saggio su Freud, Jaca Book, poi Il Melangolo; Entretiens
Paul Ricoeur - Gabriel Marcel, Aubier; Il conflitto delle interpretazioni,
Jaca Book; La metafora viva, Jaca Book; Tempo e racconto I, Jaca Book; Tempo
e racconto II. La configurazione nel racconto di finzione, Jaca Book; Tempo
e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca Book; Dal testo all'azione. Saggi
di ermeneutica II, Jaca Book; Il male. Una sfida alla filosofia e alla
teologia, Morcelliana; A l'ecole de la fenomenologie, Vrin; Se' come un
altro, Jaca Book; Lectures 1. Autour du politique, Seuil; Lectures 2. La
contree des philosophes, Seuil; Lectures 3. Aux frontieres de la
philosophie, Seuil; Le juste, Esprit; Reflexion faite. Autobiographie
intellectuelle, Esprit; La critica e la convinzione (colloqui con Francois
Azouvi e Marc de Launay), Jaca Book. Segnaliamo inoltre: Kierkegaard. La
filosofia e l'"eccezione", Morcelliana; Tradizione o alternativa,
Morcelliana, e l'antologia Persona, comunita' e istituzioni, Edizioni
cultura della pace. Opere su Paul Ricoeur: segnaliamo particolarmente la
recente monografia di Francesca Brezzi, Ricoeur. Interpretare la fede,
Edizioni Messaggero Padova, 1999.
Domenico Jervolino (per contatti: djervol at tin.it), nato a Sorrento nel 1946,
discepolo di Pietro Piovani, studioso ed amico di Paul Ricoeur e Hans Georg
Gadamer, due fra i maggiori filosofi del Novecento, insegna filosofia del
linguaggio all'Universita' di Napoli Federico II. Fa parte degli organismi
dirigenti dell'Associazione internazionale per la Filosofia della
Liberazione (Afyl) e della International Gramsci Society (Igs). E' stato
recentemente eletto membro della Consulta filosofica italiana (organismo
rappresantivo della comunita' scientifica nel campo degli studi filosofici).
Nell'ambito dell'impegno politico e nelle istituzioni e' stato consigliere
regionale della Campania dal 1979 al 1987 e membro della presidenza del
Consiglio regionale. E' stato anche nel corso degli anni tra i promotori del
movimento dei Cristiani per il socialismo, dirigente delle Acli e della Cisl
Universita', membro della direzione nazionale della Lega delle Autonomie
Locali e della segreteria nazionale di Democrazia Proletaria di cui e' stato
a lungo responsabile nazionale cultura e scuola. In Rifondazione Comunista
e' attualmente membro del Comitato politico nazionale e responsabile
nazionale Universita'. Assessore all'educazione del Comune di Napoli dal
marzo 2000 al marzo 2001, e' attualmente  rappresentante dell'Associazione
dei Comuni italiani nel Comitato nazionale per l'Educazione degli adulti. E'
autore, nel campo degli studi filosofici, dei volumi: Il cogito e
l'ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur, Procaccini,  Napoli
1984, Marietti, Genova 1993  (tradotto in inglese presso Kluwer nel 1990);
Pierre Thevenaz e la filosofia senza assoluto, Athena, Napoli 1984; Logica
del concreto ed ermeneutica della vita morale. Newman, Blondel, Piovani,
Morano, Napoli 1994; Ricoeur. L'amore difficile, Studium, Roma 1995; Le
parole della prassi. Saggi di ermeneutica, Citta' del sole, Napoli 1996 (in
una collana dell'Istituto italiano per gli studi filosofici). Ha curato e
introdotto l'antologia ricoeuriana Filosofia e linguaggio, Guerini, Milano
1994, e una scelta di scritti di Ricoeur sulla traduzione: La traduzione.
Una scelta etica, Morcelliana, Brescia 2001. Ha curato, inoltre, i volumi:
Filosofia e liberazione, Capone, Lecce 1992 (con G. Cantillo); e
Fenomenologia e filosofia del linguaggio, Loffredo, Napoli 1996 (con R.
Pititto); L'eredita' filosofica di Jan Patocka, Cuen, Napoli 2000. Ha
partecipato ai principali volumi collettivi pubblicati su Ricoeur negli
ultimi anni in Francia, Spagna, Inghilterra  e Stati Uniti e continua,
attualmente, i suoi studi, lavorando in particolare sull'opera di Jan
Patocka e sugli sviluppi della fenomenologia di lingua francese nonche' sul
raporto ermeneutica-traduzione. E' in preparazione una Introduzione al
pensiero di Ricoeur presso le edizioni Ellipses di Parigi. Complessivamente
i suoi saggi e articoli di filosofia sono circa ottanta in italiano o
tradotti in sette lingue straniere. Nel campo della saggistica politica e'
autore dei volumi: Questione cattolica e politica di classe, Rosenberg &
Sellier, Torino 1969; Neoconservatorismo e sinistra alternativa, Athena,
Napoli 1985; e di una vasta produzione pubblicistica. Collabora a numerose
riviste italiane e straniere, tra cui  "Concordia" di Aachen, "Actuel Marx"
di Parigi,  "Filosofia e teologia" e "Studium" di Roma, "Segni e
comprensione" di Lecce; dirige la  rivista "Alternative" di Roma. E'
condirettore della rivista "Il tetto" di Napoli, di cui fa parte da circa
trent'anni]

Sono lieto che il nostro seminario della federazione internazionale di Acat
abbia scelto come tema la questione dell'identita', abbinata a quella del
riconoscimento dell'altro.
Tale problematica, in effetti, ci pone di fronte a un grande imbarazzo, che
si esprime nella forma interrogativa: chi siamo? Per cogliere tutta la
gravita' del problema, noi siamo posti di colpo davanti al carattere
presunto, pretestuoso, preteso delle rivendicazioni d'identita'. Questa
presunzione si annida nelle risposte che cercano di mascherare l'ansia della
questione. Alla domanda formulata con l'interrogativo: "chi?" - "Chi sono
io?" - replichiamo in termini di: "che cosa?", con risposte del tipo: ecco
cosa siamo, noi altri. Noi siamo cosi', cosi' e non altrimenti. La
fragilita' dell'identita', di cui ci occuperemo fra un istante, si mostra
nella fragilita' di queste risposte in termini di "che cosa?", che
pretendono di fornire la ricetta di un'identita' proclamata e rivendicata.
*
I.
Vorrei dedicare il primo gruppo delle mie considerazioni allo sdoppiamento
della domanda, sul piano personale e su quello collettivo. La domanda "chi?"
puo' essere posta alla prima persona singolare: io, me, o alla prima persona
plurale: noi, noi altri. La legittimita' di tale partizione e' stata messa
alla prova nella mia trattazione del problema della memoria, che giochera'
un ruolo importante nella nostra discussione, attraverso i temi del racconto
e della storia.
Gia' sul piano della memoria, la questione del senso dell'identita' non e'
facile, dato che, almeno a prima vista, la memoria puo' definire
un'identita' non solo personale, ma interiore: ricordarsi, significa
anzitutto ricordarsi di se'. Questa e' gia' la lezione di Sant'Agostino
nelle Confessioni e poi, nell'epoca moderna, del filosofo inglese John
Locke. Quest'ultimo nel Saggio sull'intelletto umano propone d'identificare
gli uni agli altri tutti i termini della serie: identita', coscienza,
memoria, se' (self). Per identita' egli intende il primato del medesimo su
cio' che egli chiama diversita' e che noi chiamiamo alterita'; cio' in base
al principio che una cosa e' identica a se stessa e non e' un'altra. Tale
identita' rispetto a se', che vale per l'atomo come per la quercia, che
resta la stessa cosa, passando dal seme all'albero, culmina col se' che si
riconosce identico, nel momento della riflessione, in luoghi e tempi
differenti. Ed e' la memoria che attesta la continuita' dell'esistenza e la
permanenza del se'.
Assunta nel suo senso radicale, questa serie di equazioni non lascia spazio
a qualcosa come una memoria collettiva e di conseguenza nemmeno all'idea
d'identita' applicata a gruppi, collettivita', comunita', nazioni. Tutt'al
piu' si tratterebbe di un'analogia potenzialmente ingannevole. Ora,
l'esperienza comune contraddice questo puritanesimo semantico. La memoria
non e' solo rimemorazione personale, privata, ma e' anche commemorazione,
vale a dire memoria condivisa. Lo vediamo nei nostri racconti, nelle nostre
leggende, nelle nostre storie, i cui eroi sono i popoli almeno quanto lo
sono gli individui; lo vediamo nelle nostre feste con le loro celebrazioni,
i loro rituali.
Non solo l'idea di memoria collettiva pare appropriata a un'esperienza
diretta e immediata della memoria condivisa, ma ci si puo' anche
legittimamente chiedere se la memoria personale, privata, non sia in buona
parte un prodotto sociale: pensate al ruolo del linguaggio rispetto alla
memoria nella sua fase dichiarativa. Un ricordo lo si dice nella lingua
materna, la lingua di tutti; i nostri ricordi piu' antichi, quelli della
nostra infanzia, ci rappresentano mescolati alla vita degli altri, nella
famiglia, nella scuola, nella citta'; molto spesso e' insieme agli altri che
evochiamo un passato condiviso; infine, l'esame di situazioni specifiche
come quella della cura psicoanalitica ci mostra che la rimemorazione piu'
privata non e' facile e chiede di essere aiutata, anzi permessa, autorizzata
da un altro. In breve, la nostra memoria e' da sempre mescolata a quella
degli altri.
*
Per concludere rapidamente questa discussione preliminare, vorrei dire che
l'attribuzione della memoria a qualcuno e' un'operazione assai complessa che
puo' essere in linea di principio effettuata a beneficio di tutte le persone
grammaticali: io mi ricordo, lui/lei si ricorda, noi ci ricordiamo, essi si
ricordano. Tale attribuzione molteplice della memoria sara' ormai la nostra
guida nel prosieguo delle nostre analisi e autorizzera' un va e vieni
incessante tra il livello della persona e quello della comunita'. Questo
intreccio, come vedremo, e' persino tale che in certi casi l'identita'
collettiva porra' in modo piu' vivo e inquietante il problema della sua
giustificazione, se non addirittura della sua purificazione, della sua
pacificazione, della sua guarigione, tant'e' vero che le nostre memorie
collettive sono memorie ferite, malate, piu' ancora di quelle personali.
Risolta per il momento la questione dell'eguale attribuzione, in linea di
principio, della memoria e - attraverso la memoria - dell'identita' alle
persone e alle comunita', possiamo affrontare la difficolta' principale,
quella relativa alla fragilita' dell'identita'. Nel corso di questa seconda
fase della nostra ricerca s'imporra' il confronto con l'identita'
dell'altro, tanto a livello individuale che a quello collettivo.
*
II.
Che cosa rende fragile l'identita'?
Come prima causa di tale fragilita' occorre menzionare il suo rapporto
difficile col tempo; difficolta' primaria che giustifica il ricorso alla
memoria come componente temporale dell'identita', insieme con la valutazione
del presente e con la proiezione del futuro. Questo rapporto col tempo e'
fonte di difficolta' in ragione del carattere equivoco della nozione di
"medesimezza", implicita in quella di "identita'". Che significa, infatti,
restare lo stesso attraverso il tempo? Mi sono misurato altre volte con
questo enigma, proponendo di distinguere due sensi di identita': essere lo
"stesso" come idem, same, gleich ed essere lo "stesso" come ipse, self,
Selbst. E mi e' parso che il mantenersi lo stesso nel tempo si fondi su un
gioco complesso tra medesimezza e ipseita', se vogliamo osare questi termini
inusuali; di tale gioco ambiguo, gli aspetti pratici e patici (relativi
all'affettivita') sono piu' insidiosi di quelli concettuali, epistemici.
Diro' che la tentazione identitaria, la "follia identitaria", come dice
Jacques Le Goff consiste nel ripiegarsi dell'identita'-ipse
sull'identita'-idem, o se preferite, nello scivolamento, nella deriva dalla
duttilita' propria della capacita' di restare fedeli a se stessi, mantenendo
una promessa, alla rigidita' inflessibile di un carattere, nel senso quasi
tipografico del termine (1).
Fermiamoci un momento a considerare questa prima causa di fragilita'. In
virtu' di cio' che abbiamo detto prima sulla reciproca parziale
sovrapposizione della memoria individuale e della memoria collettiva, tale
gestione difficile del tempo riguarda entrambe le forme di memoria.
*
A livello individuale abbiamo imparato dalla psicoanalisi quanto e'
difficile ricordare e affrontare il proprio passato. Il soggetto e' in preda
a traumi, a ferite affettive; e la sua tendenza, osserva Freud in un saggio
famoso intitolato Ricordare, ripetere e rielaborare (Erinnern, Wiederholen,
Durcharbeiten), e' di cedere alla coazione a ripetere che Freud attribuisce
alle resistenze della rimozione. Ne risulta che il soggetto ripete i suoi
fantasmi anziche' elaborarli: cosa ancora piu' grave, li lascia passare
all'atto in gesti che minacciano lui stesso e gli altri.
L'analogia a livello della memoria collettiva e' evidente: le memorie dei
popoli sono memorie ferite, ossessionate dal ricordo delle glorie e delle
umiliazioni di un lontano passato. Ci si puo' anche stupire e inquietare del
fatto che la memoria collettiva presenti una versione caricaturale di tali
accessi di coazione a ripetere e di passaggio all'atto nella forma ossessiva
di un passato che ritorna senza fine. E' necessario persino riconoscere che
e' piu' difficile realizzare il lavoro della memoria a livello collettivo
che a quello individuale e che in questo caso non hanno equivalenti le
possibilita' offerte dalla terapia analitica. Quale sarebbe, infatti, a
livello collettivo, il corrispondente del transfert? Cosa equivarrebbe al
colloquio analitico? Chi farebbe da analista? Chi potrebbe dirigere il
lavoro di rielaborazione, di working through?
La questione diventa ancora piu' inquietante se si aggiunge all'idea di
lavoro di memoria quella di lavoro di lutto. Quest'ultimo, dice un altro
saggio di Freud, consiste nel trattamento emotivo della perdita dell'oggetto
di amore e dunque anche di un oggetto d'odio. Il soggetto e' invitato a
rompere uno a uno i legami che risultano dai suoi investimenti libidici
sotto la dura costrizione del principio di realta', opposto al principio del
piacere. E' questo il prezzo da pagare per un disinvestimento liberatore;
altrimenti il soggetto e' spinto sulla china che dal lutto lo conduce alla
melanconia, alla depressione, dove alla perdita dell'oggetto si aggiunge
quella della stima di se', di quella Ichgefuehle di cui parla Freud. A tal
proposito un'osservazione di questo saggio deve metterci in guardia:
parlando dei soggetti melanconici, Freud dice che "i loro lamenti sono
accuse" (ihre Klagen sind Anklagen). E' come se l'odio di se' si mutasse in
odio per altri nella chimica funesta della melanconia. Da tale analisi
risulta che il lavoro che la memoria compie su se stessa non e' disgiunto da
un lavoro di lutto, che non si limita al rimpianto passivo, ma consiste in
una elaborazione della perdita, spinta fino alla riconciliazione con
l'oggetto perduto al termine della sua compiuta interiorizzazione.
I paralleli a livello della memoria collettiva non mancano; la nozione di
oggetto perduto trova un'applicazione immediata nelle perdite che investono
tanto il potere che il territorio e le popolazioni, che costituiscono la
sostanza di uno Stato. Le difficolta' di elaborare il lutto sono a questo
livello piu' gravi che a livello individuale. Donde il carattere equivoco
delle grandi celebrazioni funebri nella quali un popolo straziato si raduna.
E la frase "ihre Klagen sind Anklagen" suona qui sinistra. Il fatto
inquietante e' che la memoria delle ferite e' piu' lunga e tenace a livello
collettivo che a quello individuale; gli odi sono millenari e inconsolabili.
Donde l'impressione di eccesso che essi offrono: qui troppa memoria, la'
troppa dimenticanza. La stessa memoria ripetitiva, la stessa memoria
melanconica conduce, gli uni al passaggio all'atto che si manifesta in
violenze che non restano solo simboliche, gli altri a rimuginare in modo
doloroso sulle antiche ferite.
E' a livello della memoria collettiva piu' ancora che a quello della memoria
individuale che l'intersezione fra il lavoro di lutto e quello del ricordo
assume tutto il suo senso. Trattandosi di ferite all'amor proprio nazionale,
si puo' parlare a giusto titolo d'oggetto d'amore perduto. E' sempre con
delle perdite che la memoria ferita e' costretta a confrontarsi. Cio' che
essa non sa fare e' il lavoro che la prova della realta' le impone:
l'abbandono degli investimenti mediante i quali la libido non cessa di
essere connessa con l'oggetto perduto, finche' la perdita non sia stata
definitivamente interiorizzata. Ma e' anche il luogo di sottolineare che
tale sottomissione alla prova della realta', costituiva del vero lavoro di
lutto, fa anche parte del lavoro del ricordo.
Per quel che concerne la componente melanconica dei disturbi della memoria
collettiva, ci si puo' preoccupare dell'assenza di parallelismo sul piano
terapeutico. Tutt'al piu' si puo' fare appello alla pazienza nei confronti
degli altri e di se stessi; il lavoro di lutto non richiede meno tempo del
lavoro di memoria.
*
Menzionero' ora una seconda fonte di fragilita' dell'identita': il confronto
con l'altro avvertito come una minaccia. E' un dato di fatto che l'altro, in
quanto altro, viene percepito come un pericolo per la propria identita', per
l'identita' nostra, collettiva, come per l'identita' mia, individuale.
Possiamo stupircene, certo: dobbiamo ammettere, allora, che la nostra
identita' e' fragile al punto da non poter sopportare, da non poter
tollerare che altri abbiano dei modi diversi dai nostri di organizzare la
propria vita, di comprendersi, d'iscrivere la loro propria identita' nella
trama del vivere insieme? E' cosi'. Sono appunto le umiliazioni, le ferite
reali o immaginarie alla stima di se', sotto i colpi dell'alterita' mal
tollerata, che conducono dall'accoglienza al rigetto, all'esclusione, il
rapporto che il se' intrattiene con l'altro.
E' possibile spingere piu' a fondo l'analisi di tale reazione ostile nei
confronti dell'altro? Possiamo forse trovare una radice biologica nelle
difese immunitarie dell'organismo, come si vede nel rigetto dell'intruso nel
caso dei trapianti; l'organismo difende violentemente la propria identita',
con due eccezioni che sono qualcosa di piu' che delle eccezioni, il cancro e
la gestazione dell'embrione. Riguardo a cio', l'Aids rappresenta un esempio
sconvolgente dell'astuzia dell'intruso che negozia il superamento delle
barriere immunitarie. Succede qui qualcosa alle frontiere della cellula e
dell'organismo: vi si svolgono delle operazioni di riconoscimento e
d'identificazione, regolate da codici precisi.
*
Tali difese identitarie assumono delle forme propriamente umane allorche'
interviene il fenomeno del linguaggio. Nonostante i successi relativi della
traduzione e degli scambi linguistici, le lingue non sono ospitali le une
nei confronti delle altre. Accade a questo livello qualcosa di paragonabile
alle difese immunitarie a livello biologico; il linguaggio costituisce
appunto la mediazione essenziale tra la memoria e il racconto; le memorie di
articolano in racconti: Hannah Arendt sostiene da qualche parte che il
racconto dice il "chi" dell'azione. Ora il racconto contribuisce facilmente
all'avvitarsi di una memoria su stessa; i miei ricordi non sono i vostri;
casomai, escludono i vostri.
Per complicare le cose, al sentimento di minaccia che proviene da
un'alterita' mal tollerata, s'aggiunge la relazione d'invidia che ostacola
in misura non minore il riconoscimento dell'altro; l'invidia, dice un
dizionario, consiste in un sentimento di tristezza, d'irritazione e di odio
contro chi possiede un bene che a noi manca. L'invidia rende intollerabile
la felicita' degli altri. Alla difficolta' di condividere l'infelicita',
s'aggiunge il rifiuto di condividere la felicita'. Occorrerebbe qui mostrare
come al lato passivo dell'invidia come forma di tristezza s'aggiunga il lato
attivo della rivalita' nel possesso; su tale desiderio di godere d'un
vantaggio, d'un piacere eguale a quello d'un altro, Rene' Girard costruisce
la sua teoria della mimesis e la sua interpretazione del fenomeno del capro
espiatorio come esito della rivalita' mimetica e risultato della
riconciliazione di tutti contro uno.
*
Questi fenomeni di difesa, di rigetto, d'invidia c'invitano a varcare la
distanza che c'e' fra identita' individuale e identita' collettiva; il
fenomeno di base e' quello del carattere minaccioso per l'integrita' del se'
rappresentato dalla semplice esistenza d'un altro, diverso da me. Tale
minaccia arriva ad assumere una dimensione smisurata a livello collettivo.
Anche le collettivita' hanno un problema di difesa immunitaria, quasi
biologica. E' appunto a questo livello di grande dimensione che si lasciano
leggere fenomeni che non hanno affatto equivalenti, sul piano personale, se
non per l'inversione del transfert dal piano collettivo a quello
dell'identita' personale. Si tratta di fenomeni di manipolazione che si
possono attribuire a un fattore inquietante e multiforme che si frappone fra
la rivendicazione identitaria e le espressioni pubbliche della memoria.
Questo fenomeno ha un legame stretto con l'ideologia, il cui meccanismo
resta volentieri dissimulato; a differenza dell'utopia, con la quale
l'ideologia suole essere accoppiata, esso rimane inconfessabile; si maschera
trasformandosi in denuncia contro gli avversari nella competizione fra le
ideologie; e' sempre l'altro che s'infogna nell'ideologia. Inoltre, questo
fenomeno opera a molteplici livelli. Al livello piu' vicino all'azione, esso
costituisce una strategia di cui non si puo' fare a meno, in quanto
mediazione simbolica derivante da una "semiotica della cultura"; e' a questo
titolo di fattore d'integrazione che l'ideologia puo' giocare il ruolo di
guardiana dell'identita'. Ma tale funzione di salvaguardia non vale senza
delle manovre di giustificazione in un sistema dato d'ordine o di potere,
sia che si tratti delle forme di proprieta', che di quelle della famiglia,
dell'autorita', dello Stato, della religione. Tutte le ideologie, in
definitiva, ruotano attorno al potere. Di li' si passa facilmente ai
fenomeni piu' appariscenti di distorsione della realta' di cui gli avversari
amano accusarsi reciprocamente.
Appare chiaro a quale livello gli ideologi possano intervenire nel processo
d'autoidentificazione di una comunita' storica: a livello della funzione
narrativa. L'ideologia della memoria e' resa possibile dalle risorse di
variazione fornite dal lavoro di configurazione del racconto. Ogni racconto
e' selettivo. Non si racconta tutto, ma soltanto i momenti salienti
dell'azione che permettono la costruzione dell'intreccio, che concerne non
soltanto gli avvenimenti raccontati, ma i protagonisti dell'azione, i
personaggi. Ne risulta che si puo' sempre raccontare in altro modo. E'
questa funzione selettiva del racconto ad offrire alla manipolazione
l'occasione e i mezzi d'una strategia scaltra, che consiste nello stesso
tempo tanto di una strategia dell'oblio quanto di una della rimemorazione.
Da tali strategie provengono i tentativi di certi gruppi di pressione, siano
essi al potere, all'opposizione o rifugiati nelle minoranze attive, per
imporre una storia "autorizzata", una storia ufficiale, appresa e celebrata
pubblicamente. Una memoria esercitata, in effetti, e' a livello
istituzionale una memoria insegnata; la memorizzazione forzata si trova
cosi' arruolata al servizio della rimemorazione delle peripezie della storia
comune considerata come il complesso degli eventi fondatori dell'identita'
comune. La chiusura del racconto e' posta cosi' al servizio della chiusura
identitaria della comunita'. Storia insegnata, storia appresa, ma anche
storia celebrata. Alla memorizzazione forzata s'aggiungono le commemorazioni
decise per convenzione. Un patto insidioso si stabilisce cosi' tra
rimemorazione, memorizzazione e commemorazione. Questa appropriazione
violenta della storia non e' esclusiva dei regimi totalitari; essa e'
appannaggio di tutti i fanatici della gloria.
*
Abbiamo detto abbastanza di questa seconda causa di fallibilita' della
memoria e del suo sfruttamento ideologico. Una delle risposte possibili a
queste manipolazioni e' da ricercare allo stesso livello in cui esse
agiscono di preferenza. Quello del racconto.
Si puo' sempre raccontare diversamente, come abbiamo appena detto. Ma
appunto questa risorsa non e' soggetta solamente alla distorsione dei fatti,
ma anche alla critica della manipolazione. Raccontare diversamente,
confrontando versioni divergenti, come gli storici hanno imparato a fare sul
piano della critica delle testimonianze, questi racconti diventati archivi e
documenti.
Confrontare i racconti, e' anzitutto lasciarsi raccontare dagli altri, e in
particolare permettere agli altri di narrare i nostri racconti di
fondazione, e cosi' accedere ad un modo diverso di costruire la trama degli
avvenimenti che sono alla base delle nostre celebrazioni comunitarie o
nazionali. Ci riferiamo qui ai correttivi che la storia puo' esercitare nei
confronti della memoria. Oltre alla sua estensione nello spazio e nel tempo,
la storia porta con se' il pungolo del confronto, grazie al quale siamo
sollecitati a reinterpretare la nostra identita' in termini di differenza di
fronte alle identita' opposte. Su questa strada, puo' essere invertita la
tendenza iniziale ad avvertire il confronto con gli altri come una minaccia
contro la propria identita', sia collettiva che individuale. "Consolidare la
propria identita', senza rifiutare l'altro e senza maltrattarlo" recita il
titolo della nostra sessione. Il racconto critico puo' farlo, al contrario
dei racconti della "follia identitaria".
*
III.
Per finire, a proposito dell'identita', vorrei richiamare un'ultima causa
della sua fragilita': l'eredita' della violenza fondatrice.
Quest'ultima considerazione ci riavvicina alle preoccupazioni principali
della nostra Federazione internazionale di Acat: la tortura. Noi la
inseriamo in un contesto piu' ampio, evocando cio' che ho appena chiamato
"l'eredita' della violenza fondatrice".
E' un fatto che non esiste alcuna comunita' storica che non sia nata da un
rapporto, si puo' dire originario, con la guerra. Quelli che celebriamo a
titolo di "avvenimenti fondatori", altro non sono - in ultima analisi - che
atti violenti legittimati a cose fatte da uno Stato di diritto precario, e -
al limite - dalla loro antichita', dalla loro vetusta'. Non casualmente, i
fondatori della filosofia politica, Hobbes fra i primi, hanno collocato la
paura della morte violenta alla base del bisogno di rassicurazione su cui si
innestano le forme varie e divergenti del principio di sovranita'. Nel senso
forte del termine, e' la sicurezza che gli individui si aspettano dallo
Stato, quale che sia il modo in cui esso proceda nel fornire una risposta
alla paura della morte violenta a livello istituzionale.
Evocare questa paura, equivale a richiamare il posto dell'assassinio nella
genesi della politica. Ci possiamo legittimamente chiedere se questa
cicatrice sia stata mai cancellata anche negli Stati di diritto. I segni
della violenza sono leggibili ovunque. Sul piano individuale, e' la
persistenza dello spirito di vendetta nel cuore dello spirito di giustizia.
Certamente, lo Stato ha disarmato i cittadini privandoli della possibilita'
di farsi giustizia da soli; ma ha concentrato nelle proprie mani l'esercizio
della violenza considerata legittima; ogni punizione, per quanto
proporzionata al delitto e al crimine, comporta una sofferenza aggiuntiva. E
tra le sanzioni, la pena di morte - all'inizio del Novecento considerata
legittima in tutta l'Europa - continua ad essere praticata in molti paesi,
pure in alcuni che per altri versi possono ritenersi democratici. Vale a
dire che l'esercizio della morte violenta non e' stato sradicato dai nostri
Stati di diritto.
Si presenta qui una discordanza di tipo particolare, che distingue in modo
radicale il piano del politico dal piano del privato nell'ordine delle
relazioni esterne. Vale a dire che i comportamenti di ostilita' tra i popoli
o i loro Stati appartengono a un ordine diverso da quello delle relazioni
d'inimicizia fra i privati: queste ultime restano accessibili al
compromesso, alla transazione. A livello degli Stati prevale la relazione
amico-nemico che infuria laddove la sopravvivenza o l'integrita' della
comunita' sono in gioco. E' noto in qual modo un pensatore politico come
Carl Schmitt ha sviluppato ampiamente questa linea di pensiero.
Qualunque cosa se ne pensi, il problema della guerra e del suo diritto
crudele resta posto in tutta la sua radicalita'. Che dire, in particolare,
della licenza di uccidere concessa nello stato di guerra? Ammazzare non solo
e' permesso, ma e' comandato. E noi sappiamo bene che sotto la copertura di
un preteso diritto di guerra la tortura e' stata ed e' tuttora praticata.
Certo dei limiti a questo preteso diritto sono stati imposti dalla comunita'
internazionale con la definizione dei crimini di guerra, per non parlare del
genocidio e dei crimini contro l'umanita'. Ma questo diritto resta privo di
sanzioni, resta affidato alla custodia della sola protesta morale.
Noi dobbiamo sapere almeno perche' protestiamo e militiamo. Lo facciamo in
nome dell'idea di dignita' di ogni essere umano, anche se colpevole; del suo
diritto alla stima. Perche', dietro il farlo soffrire si nasconde
l'umiliazione che vuol far si' che l'altro, perseguitato, perda il rispetto
di se stesso, si disprezzi.
Qui il mio discorso si congiunge con quello degli altri oratori e di tutti i
partecipanti a questo seminario (2).
*
Note del traduttore [Domenico Jervolino]
1. Qui e' opportuna qualche parola di spiegazione per i lettori che non
conoscono il pensiero dell'Autore: egli, nella sua opera Soi-meme comme un
autre (1990) distingue i due sensi dell'identita': l'identita'-idem e'
l'identita' sostanziale, che ha il suo grado piu' alto nella permanenza nel
tempo e che conviene pienamente alla stabilita' delle cose. Le persone,
invece, per certi aspetti sono partecipi di tale identita', ad esempio per
gli elementi costanti del loro sostrato biologico e per i loro tratti
caratteriali, ma hanno come specifico l'identita'-ipse, che si manifesta
nella loro capacita' di agire, ad esempio mantenendo fede ad una promessa,
pur cambiando da tanti punti di vista nel corso del tempo. L'identita' in
questo senso e' l'attestazione di essere quella stessa persona che ha
promesso un tempo e ora mantiene, la stessa persona che ha agito (e patito,
perche' l'agire porta con se' per Ricoeur sempre anche un risvolto di
passivita') in passato e che continua ad agire e patire: si tratta di una
identita' personale, duttile e flessibile. Ora questa distinzione viene
applicata anche all'identita' collettiva. La follia identitaria significa
per una comunita' rifugiarsi nella rigidita' dell'identita' sostanziale.
2. La conclusione di questa conferenza del 2000 si presenta aperta: la
critica al preteso diritto di guerra prelude alla ricerca di un fondamento
diverso del legame sociale che verra' sviluppata nell'opera piu' recente del
filosofo ormai novantenne: Parcours de la reconnaissance (2004), una
tematica che abbiamo anticipata nella Nota introduttiva al n. 2 della nostra
rivista ["Alternative"].

3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: LA SPOSA SIRIANA. UN FILM
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo
foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace
e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la
sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia
storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente
edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha
curato la traduzione italiana), e una recente edizione aggiornata e' nei nn.
791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti:
www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web
http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia
bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15
novembre 2003 di questo notiziario]

Maledetti confini! Accidenti agli stati che tagliano a fette l'umanita' con
barriere, fili spinati, muri e fossati, e grintosi ottusi soldati e
impiegati. Tagliano anche popoli e famiglie e mettono cancelli di ferro e
ostacoli di stupidi timbri anche tra i nuovi sposi, impediti di incontrarsi
il giorno stesso della cerimonia. Il regista israeliano Eran Riklis (studi a
Londra e New York) e la sceneggiatrice palestinese Suha Arraf non si
arrabbiano cosi', ma trattano il problema intollerabile con ironia, in
chiave di commedia, e riescono a far pensare lo spettatore. Ne viene un bel
film di pace (piu' volte compare la bandiera iridata tra le molte nazionali)
attraverso l'assurdo della non pace, perche' si vedono tagliare confini
terrestri e confini interiori nelle persone e nelle culture.
La storia di quel giorno di matrimonio e' ambientata nel Golan arido arioso
e solare, diviso e reclamato tra Israele e Siria, ed e' parlata (con
sottotitoli) in tutte le lingue che si accavallano nella regione. Non c'e'
un rito, ne' religioso ne' sociale, salvo il pranzo, assente lo sposo oltre
confine, e lo stesso pranzo e' disturbato da divisioni personali. E' la
sposa, che pure ha paura e non e' felice per il matrimonio combinato a
distanza, che taglia il nodo dei confini di ferro e di carte. L'avanti e
indietro della volenterosa funzionaria internazionale, che passa e ripassa i
muri politici e burocratici, non risolve cio' che risolve la risoluta
violazione della legge separante, che la sposa sa fare, da sola. E' questo
il vero rito di unita', che solennizza e forse da' solidita' ad un incerto
matrimonio, scavalcando la troppa certezza dei confini. Ma anche le culture
si autoconfinano: padri e mariti intransigenti faticano molto ad accettare
il matrimonio straniero di un figlio e le scelte indipendenti della moglie e
delle figlie. Eppure, quella sposa coraggiosa forse sta aiutando ciascuno a
superare le proprie barriere. Se ne diventano capaci le persone, perche' non
i popoli?

4. RILETTURE. FATEMA MERNISSI: ISLAM E DEMOCRAZIA
Fatema Mernissi, Islam e democrazia. La paura della modernita', Giunti,
Firenze 2002, pp. 222, euro 12. Questo notevole libro (edizione originale
1992, seconda edizione 2002) della grande intellettuale marocchina (nata a
Fez nel 1940, sociologa e studiosa del Corano, cattedratica all'Universita'
di Rabat, narratrice e saggista finissima, di giustamente immenso prestigio
internazionale) e' a nostro avviso una delle piu' utili introduzioni alla
conoscenza della riflessione politica democratica islamica e dell'impegno
civile contro ogni terrorismo nei paesi e nelle culture arabe e islamiche.
Ancora una volta lo raccomandiamo vivamente.

5. RILETTURE. FATIMA MERNISSI: LA TERRAZZA PROIBITA
Fatima Mernissi, La terrazza proibita. Vita nell'harem, Giunti, Firenze
1996, 2001, pp. 236, euro 9,50. In questo libro scritto nel 1994 e gia'
divenuto un classico, Fatema Mernissi rievoca le sue memorie d'infanzia con
struggente tenerezza e acutissimo sguardo. Ogni volta che rileggiamo i libri
della Mernissi, come di altre scrittrici arabe femministe e sovente
musulmane, pensiamo che queste donne oggi, nella capacita' di ascoltare il
cuore e sentire il mondo, nella viva lotta per l'affermazione dei diritti di
tutte e tutti, contro ogni razzismo, contro ogni oppressione, contro ogni
ignoranza e violenza che nega l'umana dignita', scrivono sovente la migliore
letteratura che si pubblica (quando viene pubblicata) oggi sul pianeta. Fa
parte del nostro fascismo - sia del sistema di potere degli apparati
ideologici globali governati totalitariamente da maschi del nord opulento
perche' vampiro e cieco perche' razzista; sia di noi fruitori delle merci
dell'industria culturale ad esso apparato per mille vincoli asserviti - non
accorgercene se non quando esercitiamo quella virtu' dell'attenzione cui ci
richiamava la sapiente, l'enigmatica, la sublime Simone Weil.

6. RILETTURE. FATEMA MERNISSI: L'HAREM E L'OCCIDENTE
Fatema Mernissi, L'harem e l'Occidente, Giunti, Firenze 2000, pp. 192, euro
12,50. Ci si perdoni l'ineleganza di riproporre quanto gia' avemmo a
scriverne in occasione del nostro primo incontro con questo libro (apparso
in edizione originale - in inglese - nel 2000 e tempestivamente tradotto e
pubblicato in italiano dalla benemerita casa editrice fiorentina): "Un libro
di straordinaria cultura e levita', scintillante di intelligenza e umorismo,
che smaschera il maschilismo con un'efficacia strepitosa. Un libro politico
come si dovrebbero scriverne: un libro con sguardo e con voce di donna. Lo
raccomandiamo vivamente, come del resto tutte le opere di Fatema Mernissi
che abbiamo letto". Ed anche le seguenti parole dal risvolto di copertina ci
piace trascrivere qui ancora: "Fatema Mernissi e' nata a Fez, in Marocco,
nel 1940: docente di sociologia presso l'Universita' di Rabat Mohammed V,
studiosa del Corano e scrittrice, da molti anni e' impegnata in attivita' di
ricerca e insegnamento in ambito internazionale, per sostenere una visione
pluralistica della societa' islamica, fondata sull'umanesimo e sul
femminismo e opposta alle concezioni e alle pratiche dell'estremismo
integralista".

7. RILETTURE. FATEMA MERNISSI: KARAWAN. DAL DESERTO AL WEB
Fatema Mernissi, Karawan. Dal deserto al web, Giunti, Firenze 2004, pp. 256,
euro 12. Ci sia consentito anche per questo libro (la cui edizione originale
in francese e' sempre del 2004) riprendere quanto ne scrivemmo a suo tempo:
"Un bel libro della grande intellettuale marocchina che invita a un incontro
col Marocco fuori dagli stereotipi, in un autentico riconoscersi e
dialogare; sono pagine acute ed affascinanti, impreziosite da un gioco
grafico e tipografico sorprendente e piacevolissimo". E dal risvolto di
copertina riportavamo - e nuovamente trascriviamo - che esso "si fonda su
anni di ricerche e di esplorazioni nella cultura islamica e nella realta'
marocchina, per raccontarci un paese vivacissimo e per sostenere una comune
speranza: che terrorismo, razzismo e neocolonialismo possano arretrare di
fronte al dispiegarsi di un Islam umanista, nutrito di democrazia e diritto
alla critica, che dialoghi con l'Occidente di giustizia sociale e pacifici
commerci".

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1010 del 2 agosto 2005

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