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La nonviolenza e' in cammino. 999
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 999
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 22 Jul 2005 00:15:30 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 999 del 22 luglio 2005 Sommario di questo numero: 1. Movimento Nonviolento: Appello alla citta' di Verona 2. Giampiero Landi: Il pensiero di Andrea Caffi 3. La "Carta" del Movimento Nonviolento 4. Per saperne di piu' 1. APPELLI. MOVIMENTO NONVIOLENTO: APPELLO ALLA CITTA' DI VERONA [Da Mao Valpiana, direttore di "Azione nonviolenta" ed animatore della "Casa della nonviolenza" di Verona, riceviamo e diffondiamo il seguente appello del Movimento Nonviolento (per contatti: e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org). Mao (Massimo) Valpiana (per contatti: mao at sis.it, e anche presso la redazione di "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org) e' una delle figure piu' belle e autorevoli della nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive ed opera come assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di intervento nel sociale"), e' membro del comitato di coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; nello scorso mese di giugno ha promosso il digiuno di solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana rapita in Afghanistan e poi liberata. Un suo profilo autobiografico, scritto con grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4 dicembre 2002 di questo notiziario] Quando ci sono aggressori ed aggrediti, la nonviolenza sta sempre dalla parte delle vittime. Dunque oggi la nostra solidarieta' totale ed incondizionata va a chi ha subito il pestaggio fascista. Al di la' delle motivazioni e dei fatti (sara' la magistratura a chiarirli) siamo con chi ha subito violenza, per portare conforto e ricercare la verita'. Alla violenza si deve reagire, per contrastarla e neutralizzarla. Ma l'unica resistenza efficace e' quella della nonviolenza. Solo la nonviolenza, chiara, limpida, cristallina, e' la risposta definitiva che puo' vincere sulla violenza. Se non c'e' condanna inequivocabile di ogni tipo di violenza, non si riuscira' mai ad eliminarla. La violenza va battuta a partire da se stessi. Per questo non condividiamo che nella convocazione della manifestazione antifascista di sabato 23 luglio sia dato spazio "ad ogni tipo di linguaggio antifascista": cosa significa? Il solo, vero, unico linguaggio antifascista e' quello della condanna senza appello della violenza, che e' l'humus nel quale il fascismo cresce, la legge del piu' forte. Qualche decennio fa alcuni slogan criminali come "uccidere un fascista non e' reato" portarono poi alla tragedia del rogo di Primavalle, e al macabro elenco di giovani compagni o camerati morti sul campo. Quella strada si e' rivelata un vicolo cieco. Una sconfitta per tutti. Oggi si deve imboccare la via della nonviolenza, che e' amore per la vita, la verita', rispetto di ogni persona. La societa' civile veronese non puo' accettare che questo gravissimo episodio si riduca ad uno scontro tra opposte fazioni. La citta' non puo' delegare la reazione solo ai giovani dei centri sociali; Verona si deve svegliare ed estirpare il cancro fascista che si porta dentro. Sia il sindaco a convocare una iniziativa pubblica, civile, democratica, contro il fascismo e le connivenze che lo alimentano. La nonviolenza richiede che anche oggi si stia dalla parte di Abele. Ma nessuno deve toccare Caino. I responsabili dell'aggressione devono essere assicurati alla giustizia, con tutte le garanzie di legge, ma nessuno deve pensare di vendicarsi o di farsi giustizia da solo. Nessuno deve seminare l'odio. Chi in questi anni non ha preso le distanze dalla violenza, chi non ha rifiutato le provocazioni, chi non ha condannato azioni teppistiche, chi ha coltivato rabbia e diffuso menzogne, chi ha praticato l'illegalita' e organizzato scontri con la polizia (chiamandoli autodifesa militante), oggi non ha le carte in regola per manifestare contro il fascismo. Il fascismo non ha paura della violenza, perche' in essa cresce. Il fascismo teme la civilta', la parola, la cultura, la democrazia, le idee, perche' non le sa contrastare. La storia e' stata riscattata da Gandhi e ha condannato Hitler. La nonviolenza e' antifascismo. L'antifascismo e' nonviolenza. 2. PROFILI. GIAMPIERO LANDI: IL PENSIERO DI ANDREA CAFFI [Dal sito www.nonluoghi.it riprendiamo il seguente saggio. Gianpiero Landi (per contatti: gplandi at racine.ra.it) e' un prestigioso studioso e valoroso militante libertario. Tra le opere di Giampiero Landi: (a cura di), Andrea Caffi, un socialista libertario, Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1996. Andrea Caffi, nato a Pietroburgo nel 1886 e deceduto a Parigi nel 1955, intellettuale e militante, una delle figure piu' limpide ed affascinanti (e ingiustamente dimenticate) dell'impegno e della riflessione socialista ed antitotalitaria europea del Novecento. Opere di Andrea Caffi: cfr. per un avvio il recente volumetto Critica della violenza, Edizioni e/o, Roma 1995. Opere su Andrea Caffi: Gino Bianco, Un socialista "irregolare": Andrea Caffi, Lerici, Cosenza 1977; Giampiero Landi (a cura di), Andrea Caffi, un socialista libertario, Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1996] Andrea Caffi e' sicuramente una delle figure piu' affascinanti, ma anche piu' ingiustamente trascurate e dimenticate, del socialismo italiano ed europeo del Novecento (1). Intellettuale raffinato e dotato di una stupefacente erudizione, militante politico d'avanguardia partecipe di tutti gli eventi politici e culturali della prima meta' del secolo, Caffi merita di essere riscoperto come un pensatore originale e di notevole spessore teorico in grado di fornire contributi di rilievo a una rifondazione libertaria del socialismo. Gli elementi di interesse e di attualita' del suo pensiero sono in effetti numerosi, e tali da giustificare un'attenzione e un'analisi approfondita da parte dei libertari sia di formazione anarchica che socialista. "Irregolare" del socialismo, Caffi si colloca in modo originale in un territorio di confine tra diverse ideologie e culture politiche. Affiora spontaneo il confronto con un'altra eminente figura di teorico del socialismo libertario, Francesco Saverio Merlino, il cui pensiero "eretico" e' per tanti aspetti complementare a quello di Caffi, anche per la matrice proudhoniana comune a entrambi (2). Come ha opportunamente rilevato Gino Bianco, vi sono alcuni temi costanti attorno a cui ruota tutta la produzione teorica di Caffi e che assicurano un elemento di continuita' nel suo pensiero e nei suoi scritti, che si presentano all'apparenza quanto mai disorganici e frammentari. Questi temi costanti sono da un lato "una certa idea del socialismo" (un socialismo critico rispetto a Marx e al marxismo, aggiungiamo noi, e come gia' si e' accennato di forte impronta proudhoniana), e dall'altro "la grande crisi in cui versa la societa' contemporanea", apertasi con la prima guerra mondiale e approfonditasi nei decenni seguenti col dilagare del totalitarismo in Europa e con la violenza di una seconda guerra mondiale, che di quella crisi avrebbero confermato la profondita' e la vastita' (3). Di grande acutezza sono, in effetti, le analisi di Caffi sulla crisi dei regimi democratici dopo il 1914 e sul totalitarismo. Caffi, precorrendo in parte Hannah Arendt, riesce a cogliere analogie tra il comunismo sovietico, il fascismo e il nazismo, senza mai perdere di vista le specificita' che contraddistinguono ciascuno di questi regimi politici. llluminanti sono in particolare le analisi sull'Unione Sovietica e sullo stalinismo, per le quali Caffi poteva avvalersi - a differenza di tanti altri osservatori occidentali - di una approfondita conoscenza diretta della Russia prima e dopo la rivoluzione. In un'epoca in cui molti intellettuali e politici di sinistra si lasciarono sedurre dal mito dell'Unione Sovietica, Caffi fu tra i pochi a vedere lucidamente - e ad avere il coraggio di affermare che "L'Urss del 1932 e' uno Stato, efficiente nell'esercizio dei suoi assoluti poteri come nessun'altra organizzazione statale nel mondo; un grandioso meccanismo per la coercizione e lo sfruttamento degli individui soggetti e per l'azione (finora piu' perturbatrice che "costruttiva") entro il sistema dei rapporti internazionali" (4). E aggiungeva: "La dittatura di Stalin... non e' un contrappeso ai regimi di reazione capitalistica che sopportiamo in molti paesi d'Europa e d'America; e' un elemento di questa costellazione; in essa e per essa si sostiene" (5). Infine non va dimenticato che Caffi, che aveva una solida e vasta cultura storica, letteraria e filosofica, ci ha lasciato anche pagine dense e penetranti - sulle quali forse non si e' ancora riflettuto abbastanza - su temi come la moderna cultura di massa, la violenza in politica, i rischi della burocratizzazione e della tecnica, la crescente complessita' dei meccanismi dell'apparato statale sempre piu' indipendente da ogni controllo popolare, l'importanza del mito e della mitologia nella vita e nella storia. Non e' un caso che a Parigi la "Quinzaine Litteraire" di Maurice Nadeau abbia definito Caffi "il Walter Benjamin italiano" (6). * Il concetto di societa' La concezione che Caffi ha del socialismo si lega strettamente a quella che ha di "societa'". Egli usa il termine in una duplice accezione. Da un lato riprende una tripartizione comunemente utilizzata dai pubblicisti e dagli storici russi per piu' di un secolo, e distingue tra "governo", "societa'" e "popolo". In questa visione la "societa'" appare separata e distinta sia dal "governo", formato da "principi, magistrati, sfruttatori, carnefici" (7), sia dal "popolo", inteso come la stragrande maggioranza della collettivita' "costretta non solo a lavorare per vivere, ma a vivere unicamente per lavorare". Il popolo, scrive Caffi citando Proudhon, non ha mai fatto altro che "pagare e pregare" (8). Su questo popolo, finche' esso non si sia ripreso degli spazi di vita e di liberta' e non si sia quindi avviato uno sviluppo individuale delle coscienze, Caffi non si fa illusioni. Egli sembra riporre le sue speranze piuttosto sulla "societa'" che e' formata da tutti coloro che hanno avuto la possibilita' di sottrarre almeno una parte della loro vita al lavoro, e che abbiano poi utilizzato questa opportunita' per riflettere, per pensare, per formarsi una propria individualita' autonoma e cosciente. In questo senso la societa' va intesa come "una sfera di esperienze intime e di rapporti con i simili dove si possono dimenticare ogni assillo di scopi economici e ogni costrizione connessa alla 'gerarchia' politico-sociale" (9). Detto in altri termini, la societa' e' "l'insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l'apparenza della liberta' nella scelta delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura: le pressioni non vi si esercitano che con mezzi 'morali', mentre i moventi utilitari sono o realmente subordinati, oppure mascherati dalla politesse, dal piacere che si ha a trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarieta' affettiva che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo. Intesa in questo senso, la 'societa'' esclude per principio ogni costrizione, e soprattutto ogni violenza" (10). La vita di societa' - scrive ancora Caffi - si realizza ad opera di un "ceto emancipato dalla necessita' di lavorare (e quindi dalla voglia di pregare) e, almeno fino a un certo punto, attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta anche a quelle della 'vita interiore' ed emancipato dall'ambizione di dominare" (11). Ma il concetto di societa' e' centrale nel pensiero di Caffi, e in altri momenti egli attribuisce al termine un significato diverso, assumendolo nella sua dimensione di "civilta'". In effetti, sembra in questo caso che Caffi si limiti e estendere a tutta la collettivita', o a gran parte di essa, quelle caratteristiche che gia' egli attribuiva alla "societa'" intesa nell'accezione piu' ristretta. Allorche' - per una serie di circostanze politiche, sociali, economiche -si da' la possibilita' di una formazione sociale spontanea, allora puo' affermarsi una "societa' senza Stato", caratterizzata dalla "douceur de vivre" e dal prevalere dei rapporti di amicizia (la "philia" di Aristotele) su ogni razionale criterio di amministrazione e di rendimento economico (12). Secondo Nicola Chiaromonte, "se c'era nella mente di Caffi un'idea centrale attorno alla quale tutte le altre si ordinavano naturalmente, questa era l'idea di socievolezza: la philia aristotelica, fondamento della vita associata" (13). Per Caffi l'esistenza umana "vera" e' quella vissuta "secondo verita' e giustizia". Non vanno dimenticate poi le osservazioni - spesso di grande finezza - che Caffi dedica al rapporto individuo e societa', che rappresenta uno dei punti focali della sua riflessione. * La critica alla civilta' di massa Un elemento che per certi versi si lega al precedente e' la feroce critica che Caffi rivolge alla moderna civilta' di massa, e al concetto stesso di massa. Si tratta di un aspetto di estrema attualita', ma per coglierne a pieno l'importanza anche sul piano storico e' opportuno ricordare che Caffi assume questa posizione in un'epoca in cui i partiti socialisti che si ispiravano al modello della socialdemocrazia tedesca, e in seguito i partiti comunisti nati dalle suggestioni dell'Ottobre bolscevico, facevano proprio delle "masse" il perno della loro azione politica, alle "masse" si rivolgevano con la loro propaganda, sul controllo delle "masse" basavano la propria forza e il proprio potere. Caffi non ha alcuna simpatia per l'uomo-massa prodotto dalla societa' contemporanea, anzi lo ritiene un pericolo che lascia intravedere sbocchi autoritari o totalitari per il genere umano. In ogni caso, l'uomo-massa e' incompatibile con la concezione del socialismo che ha Caffi. Nel saggio Il socialismo e la crisi mondiale, del 1949, egli scrive in proposito: "Il socialismo in quanto: 1) capacita' di concepire l'ambiente sociale alla luce di una 'critica' rigorosamente razionale esplicata dalla 'facolta' di giudizio' dell'individuo; 2) solidarieta' profonda fra individui che 'si sono compresi' non superficialmente fra loro e si sono sentiti legati da un modo press'a poco identico di intendere (ma anche di sentire, giudicare) la realta' circostante - non puo' assolutamente adattarsi a una 'organizzazione di masse'. La massa e' una forma di collegamento fra gli individui, in cui tutto il fondo di 'essenza' caratteristica o di 'esistenza' originale che costituisce 'la persona' (unica, irriducibile a misurazioni quantitative o norme meccaniche) viene eliminato, e gli uomini ridotti a semplici 'unita'' sostituibili di un certo numero efficiente. Al tipo di reciproci rapporti fra esseri umani che si esprime nella 'massa' si oppongono i modi piu' complessi d'unione, che (seguendo le indicazioni di Gurvitch a mio parere assai convincenti) si definiscono come 'comunita'' o - ad un grado di ancor maggiore intensita' - come 'comunione' fra persone pienamente coscienti e del loro 'io' e della loro integrazione in un 'noi' (noi altri). Ora, la propaganda (l'educazione, la conversione) socialista non a' stata feconda che quando distaccava l'uomo (convertito a tutto un modo nuovo di capire quanto 'succedeva intorno a lui') dalle meccaniche ingiunzioni della 'massa' (inerte o animata da ciechi furori), quando creava nuove comunioni di stretti circoli o comunita'" (14). In un altro scritto del 1952, Borghesia e ordine borghese, Caffi afferma: "E tuttavia qual e' la qualita' piu' evidente di tali masse? L'inerzia. La giunzione dinamica fra i formidabili mezzi di produzione e la collettivita' umana che sola puo' farli funzionare non s'e' prodotta: la 'massa' dei lavoratori sente istintivamente che, in quanto 'collettivita' massiccia', essa e' incapace di 'possedere' sia i mezzi materiali di produzione sia gl'ingranaggi complicatissimi di un'amministrazione economica. Sentendosi 'incapace', la massa subisce. Che fare? Accettare la rigidita' spietata di una burocrazia onnipotente? Sottoporsi a quella tecnocrazia che sembra essere nella direzione dello 'sviluppo storico'? Per un socialista, una volta rifiutata sia la tirannide tecnocratica nuda che quella ammantata di ideologia del comunismo sovietico, una strada, mi pare, rimane: quella che la massa riuscisse ad abolirsi in quanto massa... E il senso sarebbe che dalla massa bisogna pure che gl'individui finiscano per uscire; bisogna pure che in seno alla massa si formino delle comunita' autentiche, dei gruppi di 'eguali' capaci di pensare e di agire con piena intelligenza dei fini e dei mezzi. Utopia o no, io non vedo altra strada verso un'emancipazione reale" (15). Proprio l'attenzione per gli individui, per le coscienze individuali con i loro processi a volte anche lenti di maturazione e di crescita, porta Caffi a manifestare una radicata diffidenza nei confronti dei partiti organizzati e dei grandi apparati burocratici. La sua preferenza va piuttosto ai gruppi di affinita', i piccoli gruppi di amici di cui preconizza l'avvento nelle pagine conclusive del suo saggio Critica della violenza, pubblicato per la prima volta nel numero di gennaio 1946 della rivista "Politics" di New York, diretta da Dwight MacDonald: "Oggi, il moltiplicarsi di gruppi d'amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori avrebbe piu' importanza di qualsiasi macchina di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie ne' di ortodossie ideologiche; non fiderebbero sull'azione collettiva, ma piuttosto sull'iniziativa individuale e sulla solidarieta' che puo' esistere fra amici che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza" (16). Non e' difficile riconoscere in questo modello l'esempio di vita vissuta fornito, una decina di anni prima, dal gruppo dei 'novatori dissidenti', distaccatosi dal movimento di Giustizia e Liberta' alla fine del 1935 per dissensi politici, e che comprendeva - oltre a Caffi, suo ispiratore - anche Nicola Chiaromonte, Mario Levi e Renzo Giua (morto poi, quest'ultimo, durante la guerra civile in Spagna dove era accorso come volontario per combattere contro il fascismo) (17). * Critica della violenza Tra i temi trattati da Caffi nei suoi scritti, grande rilievo assume la critica della violenza, a cui ha dedicato il saggio appena citato, che resta uno dei suoi piu' belli e penetranti. La tesi di Caffi e' espressa con grande chiarezza fin dalle prime righe, dove afferma che un movimento "il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la liberta' e la pace, e quindi di abolire il salariato, la subordinazione della societa' agli apparati coercitivi dello Stato (o del Super-Stato), la separazione degli uomini in 'classi' come pure in nazioni straniere (e potenzialmente ostili) l'una all'altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili i mezzi della violenza organizzata, e cioe': a) l'insurrezione armata; b) la guerra civile; c) la guerra internazionale (sia pure contro Hitler, o... Stalin); d) un regime di dittatura e di terrore per 'consolidare' l'ordine nuovo" (18). Come ha scritto Nicola Chiaromonte, "in un'epoca in cui non solo legioni di intellettuali si son gloriati di essere affiliati al partito della violenza, ma si son trovati filosofi per introdurre la violenza nella natura stessa del pensiero, Andrea Caffi opponeva alla violenza in ogni sua forma un rifiuto radicale. Quale che ne sia il punto di partenza, si puo' ben dire che il suo discorso e' sempre diretto a opporre le ragioni dell'uomo all'urgenza delle forze che lo assillano, e talvolta lo sopraffanno" (19). Va rilevato che la "critica della violenza" di Caffi si differenzia dalla "nonviolenza assoluta", di matrice generalmente religiosa. Caffi non assolutizza il comandamento biblico "non uccidere", facendo discendere da questo il rifiuto della violenza sempre e comunque e in tutte le sue forme (come Tolstoj e, per citare un autorevole nonviolento italiano, Aldo Capitini). Caffi argomenta le sue tesi piuttosto con motivazioni di natura etica e pratica, che rinviano alla necessaria corrispondenza tra mezzi e fini. Per Caffi "ogni violenza e', per definizione, antisociale" (20). Il ricorso alla violenza per instaurare una societa' di liberi e di uguali e' inefficace e conduce anzi a risultati opposti a quelli che ci si proponeva. "E' possibile vincere la violenza con la violenza? La questione, in realta', ne nasconde due molto diverse. La prima e' d'ordine empirico: quale probabilita' c'e' che un'organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell'equipaggiamento, delle capacita' tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva e' l'altra: anche supponendo che si riesca a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato della societa' e della civilta'), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare la battaglia, e' seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia 'rivoluzionarie', in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volonta' di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l'impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera?" (21). Le concezioni di Caffi, espresse negli ultimi anni di vita nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, trovano le loro radici sia in un comprensibile e molto umano sentimento di disgusto e di orrore per la violenza in se', sia soprattutto nella convinzione che il ricorso ad essa sia inefficace e controproducente ai fini della creazione di una societa' libertaria ed egualitaria (22). Se questo era vero anche per il passato diventa a maggior ragione fondamentale dopo lo spaventoso salto di qualita' che i mezzi di distruzione di massa hanno raggiunto nel corso del nostro secolo e in particolare durante e dopo la seconda guerra mondiale (23). Scrive Caffi in proposito: "a) la violenza e' incompatibile con i valori di civilta' e d'umanita' socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propagazione e la fioritura; b) le risorse meccaniche e i sistemi d'organizzazione massiccia (eserciti e polizia, Ceka e Gestapo, campi di concentramento, regime russo nei paesi satelliti) che vengono attualmente impiegati nella lotta fra gruppi umani hanno raggiunto un tale grado d'atroce efficienza che la distruzione completa della societa' civile se non del genere umano e' diventata una possibilita' effettiva. Non e' affar nostro provocare l'Armageddon" (24). Se la condanna della violenza come strumento di una lotta politica socialista e libertaria e' netta e inequivocabile, non e' comunque da escludere - anche se la questione nel saggio citato non e' minimamente affrontata - che per Caffi possano esistere situazioni estreme in cui il ricorso alla violenza si renda necessario come legittima difesa sia individuale che collettiva. Proprio il fatto di avere fondato la sua opzione nonviolenta su considerazioni di natura etica e pratica senza assolutizzare rende possibile ipotizzare delle eccezioni, ossia delle situazioni eccezionali ed estreme nelle quali il ricorso alla violenza sia inevitabile se non altro per salvaguardare la propria vita e alcuni valori irrinunciabili. Non va dimenticata in proposito la partecipazione di Caffi alla Resistenza francese durante la seconda guerra mondiale che gli costo' tra l'altro l'arresto e le torture della Gestapo (25). Ma sembra di poter concludere che per Caffi, ammesso che appunto ci siano casi limite in cui l'uso della violenza si renda necessario, questo fatto rappresenti comunque la presa d'atto di una sconfitta, l'accettazione del terreno di scontro scelto dal nemico e a lui piu' congeniale. In ogni caso non e' attraverso la violenza che si puo' arrivare alla costruzione di una societa' di liberi e di uguali. Una conferma di cio' che si e' finora sostenuto si puo' rintracciare in un saggio di Caffi dal titolo "E' la guerra rivoluzionaria una contraddizione in termini?", scritto sempre nel 1946 e quindi coevo a Critica della violenza, di cui puo' rappresentare un'utile integrazione. Da un lato Caffi nega che fosse giusto, finche' esisteva ed era forte il nazismo, che i socialisti dovessero puntare al disfattismo e a una rivoluzione socialista (peraltro impossibile in Inghilterra durante la guerra). Dall'altro nega che possa esistere una "guerra rivoluzionaria", una guerra fatta dai socialisti, "se il socialismo ha da essere una vera liberazione dell'uomo". La situazione difficile e contraddittoria in cui si troverebbero i socialisti in caso di guerra e' delineata da Caffi in questi termini: "Potrebbe ben essere che la guerra, quali che siano i suoi motivi e i suoi scopi, sia essenzialmente un fatto inaccettabile dal punto di vista socialista. Nello stesso tempo, giacche' siamo uomini inevitabilmente legati ad un comune destino, non possiamo semplicemente trarci da parte e dire: Non e' affar nostro. Possiamo sottostare al nostro destino con dignita'; salvare la nostra anima, aiutare un piccolo gruppo di amici a salvare la loro. Ma questo sara' tutto" (26). * Stato e nazione La concezione che Caffi ha del socialismo, gia' e' stato sottolineato piu' volte, e' apertamente e dichiaratamente libertaria. Non e' un caso che nel 1964, nel presentare la prima raccolta di scritti di Caffi da lui curata apparsa col significativo titolo "Socialismo libertario", Gino Bianco abbia richiamato una citazione di Rodolfo Morandi che Caffi avrebbe sicuramente condiviso e che avrebbe potuto benissimo essere uscita dalla sua penna: "Il nuovo socialismo deve dichiararsi schiettamente libertario (senza punto impaurirsi della baldanza anarchica di quella qualifica). E' l'eredita' gravosa del lungo periodo di lotta legale, lo 'statalismo' che ha spezzato le reni cosi' alla seconda come alla terza internazionale, che e' da scrollarsi di dosso" (27). L'antistatalismo di Caffi e' riscontrabile in piu' punti dei suoi scritti. Va precisato in proposito che egli non arriva all'antistatalismo radicale e assoluto dell'anarchismo tradizionale. Caffi appare pessimista rispetto alla possibilita' di una completa abolizione dello Stato come istituzione politica necessaria per la vita sociale. Ciononostante egli si pronuncia in modo netto contro la forma-Stato cosi' come la conosciamo oggi, e il tipo di stato a cui mira, cosi' come viene delineato nei suoi scritti, appare molto vicino a quella "societa' organizzata", retta sull'"autogoverno popolare", in cui si riconosce gran parte del pensiero anarchico. Le concezioni di Caffi sullo Stato si trovano delineate soprattutto in "I socialisti, la guerra e la pace" (1941-1942), che rappresenta probabilmente l'opera piu' importante dal punto di vista politico che il rivoluzionario italo-russo ci abbia lasciato (28). Per Caffi, la direzione verso la quale ci si deve muovere e' quella dell'applicazione del principio federativo alla struttura e alla macchina amministrativa dello Stato, e del completo superamento dell'idea di sovranita' dello Stato-nazione. La struttura unitaria e tendenzialmente monistica dello Stato va modificata mediante una idonea azione costituente. Da un lato si deve sottrarre l'esclusiva della sovranita' allo Stato nazionale attraverso la creazione di una federazione europea, dall'altro occorre creare e rafforzare tutta una serie di enti autonomi (cooperative, sindacati, associazioni politiche, mutualistiche, assistenziali, culturali e di altro genere), esautorando lo Stato dalle sue tradizionali funzioni (29). Allo Stato va anche tolto il monopolio del diritto, passando dal diritto statale al diritto sociale. La societa' deve produrre al proprio interno il diritto per autogovernarsi. Caffi si richiama esplicitamente, in proposito, al "droit social" di Gurvitch che a sua volta affonda le sue radici nell'opera di Proudhon (30). La critica che Caffi rivolge al nazionalismo e al concetto di Stato-nazione e' radicale. Secondo Gino Bianco, negli anni Trenta "nell'area socialista degli emigres italiani solo Caffi e Silvio Trentin portano a fondo la critica dell'ideologia dello Stato-nazione" (31). Proprio il fatto di credere nello Stato-nazione, secondo Caffi, ha paralizzato l'azione di molti dirigenti e di molti partiti socialisti nel 1914 e negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Questo e' uno degli aspetti che differenziano maggiormente Caffi dalla socialdemocrazia dei suoi tempi. Scriveva in proposito che "l'obbiettivo essenziale di una politica socialista, oggi, non potrebbe essere che la lotta contro la 'macchina' dello Stato nazionale, che e' diventato l'agente principale, se non unico, dell'oppressione sociale" (32). Nel saggio "Semplici riflessioni sulla situazione europea", scritto nel 1935, analizzando le tensioni internazionali destinate a far precipitare in pochi anni il continente in un nuovo immane conflitto, egli arriva a sostenere che la responsabilita' della guerra che si affaccia all'orizzonte non e' del fascismo, bensi' della divisione dell'Europa in Stati sovrani: "Finche' vi sono Stati, il 'sacro egoismo' e' legge suprema, massima intelligenza, e - grazie al cielo - oggi non si puo' piu' illudersi di fare agire questi egoismi nel senso di un 'interesse generale'; sono chimere da abbandonare ai non innocenti trastulli della storiografia liberale. Quello che porta l'Europa alla guerra non e' il fascismo, ma l'assetto dell'Europa, divisa in Stati sovrani. Le spartizioni territoriali, i 'corridoi', le minoranze nazionali, la rovina economica creata dalle barriere doganali, non e' il fascismo che li ha inventati o creati. Sono questioni che si potevano poco a poco risolvere senza guerra? Cosa si e' fatto su questa via in diciassette anni?" (33). L'adesione a una politica di appoggio allo Stato - in nome dei "sacri interessi nazionali" - da parte dei partiti affiliati alla Seconda Internazionale fece di Caffi - a partire dal 1914 - un socialista totalmente estraneo all'organizzazione e ai metodi di lotta politica della socialdemocrazia, dalla quale lo separava peraltro la sua stessa concezione del socialismo. Nulla era in effetti piu' distante da Caffi del vecchio riformismo socialdemocratico, che faceva coincidere il socialismo con l'espansione del ruolo dello stato nell'ambito dell'economia e della societa'. Come ha scritto Gino Bianco, "nella ricerca delle origini dei mali presenti del movimento operaio, Caffi indicava non solo nella pratica bolscevica (di Lenin prima e in quella terroristica e poliziesca dello stalinismo poi) ma anche nel 'mito burocratico' nato dall'esperienza della socialdemocrazia tedesca, modello ideale di ogni 'moderno' partito politico, le cause della involuzione che ha colpito i partiti socialisti" (34). Indicative, in proposito, le affermazioni contenute nel saggio "Opinioni sulla rivoluzione russa", pubblicato da Caffi nel numero del marzo 1932 dei "Quaderni di Giustizia e Liberta'": "Ora il socialismo deriva il suo stesso nome, il suo pathos, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di neo-umanesimo proprio dal fatto che si e' eretto a difesa della 'societa'' contro gli inumani congegni dell'ordinamento statale ed ha perseguito la completa emancipazione della societa' - delle concrete comunita' di uomini vivi - dal coercitivo sistema, dove gli uomini non figurano che come 'numeri', 'soggetti', schede. E se il socialismo abbandona questo motivo dominante, non trovera' piu' argomenti, ne' morale sostegno per combattere la dittatura comunista" (35). * Socialismo e democrazia Di notevole interesse sono le concezioni di Caffi riguardo la democrazia e il rapporto che intercorre tra questa e il socialismo. Caffi distingue in modo netto tra la democrazia a cui aspira il movimento operaio e socialista e la democrazia realizzata storicamente dagli Stati, quella che oggi verrebbe definita la "democrazia reale". Egli nega con forza "l'idea che la minima solidarieta' di interessi, una pur transitoria comunanza di scopi possa esistere fra quel che noialtri intendiamo per 'democrazia' - autonomia del popolo - e il piu' 'democratico' degli Stati". Nel gia' citato saggio "Il socialismo e la crisi mondiale", Caffi contesta l'idea che gli Stati che si definiscono democratici siano in effetti tali: "Un acutissimo osservatore della realta' sociale moderna - Dickinson - gia' nel 1914 affermava che i regimi moderni, abusivamente qualificati come 'democratici', sono in realta' una combinazione di 'ochlocrazia' (sovranita' piu' apparente che reale di folle senza coesione) con la plutocrazia - regno effettivo delle grosse fortune" (36). Caffi non si limita a condividere il giudizio di Dickinson, ma va oltre mettendo in discussione l'identificazione tra democrazia e sovranita' popolare, a cui mostra di non credere: "Scartiamo nettamente l'assurda supposizione che 'democrazia' debba significare 'popolo governato dal popolo stesso'. Nessuna adunata di popolo (e neppure alcuna assemblea tampoco numerosa) ha potuto mai effettivamente governare (esercitando cioe' in concreto i 'poteri' esecutivo, legislativo, giudiziario ecc.) neppure in una minuscola citta' greca o in quei due cantoni rurali della Svizzera famosi come esempi di democrazia diretta. E se si ammette la delega della 'sovranita' popolare' sia di un uomo sia di un partito politico, i risultati tipici che offre sinora l'esperienza della storia sono da un lato il cesarismo plebiscitario, dall'altro quella vera (o 'nuova') democrazia che rende ora felici i polacchi i bulgari gli jugoslavi. La realta' della democrazia s'afferma non con la fiducia negli eletti ma con la possibilita' di manifestare efficacemente la propria sfiducia verso di loro, di controllarli ad ogni passo, di limitarli in funzioni strettamente definite. Anche la forza di un Parlamento si manifesta non nella nomina di un governo, ma nella facolta' di rovesciarlo, nel discutere e criticare le leggi (che non possono essere 'creazione collettiva' ma sempre sono testi elaborati da pochi competenti)... La sostanza dell'ordinamento democratico sta nella difesa dell'incolumita' personale d'ogni cittadino contro qualsiasi arbitrio o eccesso della 'potesta' coercitiva' e nel raggiungimento di un massimo d'uguaglianza nella facolta' riconosciuta ad ogni individuo di conoscere e verificare tutti gli atti dei pubblici poteri" (37). Caffi si sofferma sul ruolo di difesa della democrazia svolto storicamente dai partiti socialisti in Europa nei decenni tra fine Ottocento e inizio Novecento. Egli mette in risalto come all'interno di Stati che potevano dirsi democrazie "solo con moltissime riserve (per causa di tutti gli elementi autoritari che vi perpetuavano le gerarchie militari, burocratiche e soprattutto plutocratiche), persino in paesi semi-autocratici come la Germania, l'Austria-Ungheria e la Russia (dopo il 1905) non pochi soprusi venivano frenati per paura del chiasso che susciterebbero i socialisti" (38). L'azione di vigilanza e di pressione democratica era portata avanti dai socialisti non solo con le campagne elettorali, ma con la stampa, i sindacati, il ricorso a scioperi generali politici e altre forme di lotta e di agitazione. La pressione esercitata in tal modo guadagnava senza dubbio in efficacia "per il fatto che i socialisti si mantenevano fuori dall'ingranaggio governativo", si sottraevano alle omerta' e relative sanzioni cui e' soggetto il 'personale dirigente' dello Stato e davano al pubblico affidamento di incorruttibilita'. Ma, ben inteso, questa stessa circostanza per cui tutto l'apparecchio ingente di risorse materiali e organizzazioni amministrative rimaneva in mano dei nostri avversari, segnava i limiti della forza socialista" (39). In ogni caso, per Caffi, con lo scoppio della prima guerra mondiale tutto e' cambiato, e per i socialisti non e' piu' lecito farsi illusioni: "la 'democrazia' quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non puo' piu' essere considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo: in ogni caso, non si puo' avere nella sua 'evoluzione' la fiducia che poteva essere legittima nel 1889" (40). La situazione di profonda crisi in cui era caduto il socialismo a partire dal fatidico anno 1914 non sfuggiva a Caffi, che ne fece oggetto di attenta riflessione e di analisi impietosa. Negli ideali del socialismo egli continuo' peraltro a identificarsi per tutta la vita, indicando nel recupero dei suoi piu' autentici valori e nella capacita' di correggere gli errori del passato la via di una possibile e necessaria rinascita. Per chi ritiene che i valori del socialismo - la liberta', la giustizia sociale spinta fino a una tendenziale eguaglianza, la solidarieta', il primato dell'uomo sulle leggi del mercato - non possano e non debbano scomparire perche' l'alternativa sarebbe la barbarie, oggi piu' che mai risuonano attuali le parole scritte da Caffi nel 1949 nel gia' piu' volte citato saggio "Il socialismo e la crisi mondiale": "Se il socialismo oggigiorno non puo' essere altra cosa che un 'apparato' d'azione politica (con stinte o tarate coperture ideologiche) impegnato - assieme ad altri partiti - nel mesto compito di mantenere piu' l'apparenza che la sostanza di regimi 'democratici' in un'Europa sconquassata e imbarbarita, non vale proprio la pena di essere socialista piuttosto che radicale o liberale o magari democratico-cristiano; se invece intendiamo per socialismo la continuazione - con discesa nel popolo - delle grandiose ed audacissime speranze concepite nel Settecento, di attuare una completa emancipazione della ragione umana, sui principii della quale e' unicamente possibile fondare la pace, la fraternita', la felicita' per tutti, allora dobbiamo cominciare col riconoscere che tutti gli eventi dall'agosto 1914 in poi hanno calpestato, soffocato, deviato questo movimento e che... bisogna ricominciare da capo. Spietato, prima di tutto, deve essere l'esame di coscienza giacche' inavvedutezze e colpose facilonerie da parte nostra hanno contribuito certamente al cosi' catastrofico generale collasso" (41). * Note l. Sulla vita e il pensiero di Caffi si veda G. Bianco, Un socialista "irregolare": Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, con introduzione di A. Moravia, Cosenza, Lerici, 1977; N. Chiaromonte, Introduzione, in A. Caffi, Critica della violenza, a cura di N. Chiaromonte, Milano, Bompiani, 1966; C. Vallauri, Caffi Andrea, in Dizionario biografico degli italiani, voI. 16, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1973, pp. 264-267. 2. Su Merlino si veda la recente ed esaustiva biografia di G. Berti, Francesco Saverio Merlino. Dall'anarchismo socialista al socialismo liberale (1856-1930), Milano. Franco Angeli, 1993. Per una interpretazione parzialmente diversa dell'approdo teorico e politico del pensatore napoletano negli anni della sua maturita', mi permetto di segnalare anche il mio "Socialismo liberale o socialismo libertario", in "A. Rivista anarchica", n. 213, novembre 1994. 3. G. Bianco, Presentazione, in A. Caffi, Scritti politici, a cura di G. Bianco, Firenze, La Nuova Italia. 1970, p. VII. 4. A. Caffi, "Opinioni sulla rivoluzione russa", in Id., Scritti politici, cit., p. 98. 5. Ivi, p. 108. 6. Cfr. G. Bianco, Un socialista "irregolare", cit., p. 92. 7. A. Caffi, Individuo e societa', in Id., Critica della violenza, cit., p. 39. 8. Ivi, p. 35. 9. lvi, p. 48. 10. A. Caffi, Critica della violenza, in Id., Critica della violenza, cit., p. 86. 11. A. Caffi, Individuo e societa', cit., p. 43. 12. "Nel suo significato primordiale, la nozione di politica si ricollega alla citta' greca, dove lo Stato, la societa' e il popolo erano (pressappoco) una sola e medesima realta', e cioe' una permanenza di rapporti fra persone coscienti di esistere e le quali volevano esistere il meglio possibile nella sicurezza di un determinato ordine. Aristotele designa tali rapporti col termine di philia. C'e' chi pensa che sia un errore tradurre la parola con amicizia. E tuttavia, i Greci erano soliti pesar bene il senso preciso delle parole...". A. Caffi, Societa', 'elite' e politica, in Id., Critica della violenza, cit., p. 137. 13. N. Chiaromonte, Introduzione, in A. Caffi, Critica della violenza, cit., p. 5. 14. A. Caffi, Il socialismo e la crisi mondiale, in Id., Critica della violenza, cit. 15. A. Caffi, Borghesia e ordine borghese, in Id., Critica della violenza, cit., pp. 233-234. 16. A. Caffi, Critica della violenza, cit., pp. 103-104. 17. Cfr. A. Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 332-336; G. Bianco, Un socialista "irregolare". Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, cit., pp. 62-66; Id., Chiaromonte-Caffi. Lettere ed altro, in "Settanta", 3, 1972, pp. 38-46. Sull'influenza esercitata da Caffi su Rosselli nei primi anni Trenta, e piu' in generale sul contributo teorico del rivoluzionario italo-russo al dibattito in Giustizia e Liberta', si veda anche S. Fedele, "E verra' un'altra Italia; Politica e cultura nei "Quaderni di Giustizia e Liberta'", Milano, Franco Angeli, 1992. 18. A. Caffi, Critica della violenza, cit., p. 77. 19. N. Chiaromonte, Introduzione, in A. Caffi, Critica della violenza, cit., p. 25. 20. A. Caffi, Critica della violenza, cit., p. 81. 21. Ivi, pp. 83-84. 22. Non va dimenticato che in precedenza Caffi aveva preso parte come volontario alla prima guerra mondiale. Come ha rilevato opportunamente Gino Bianco, "la decisione di arruolarsi volontario nell'esercito francese, da parte di un socialista come lui, suscita meraviglia. A Nicola Chiaromonte che negli anni trenta gli pose bruscamente la domanda, Caffi spiego' candidamente che, 'in primo luogo non gli era stato possibile non desiderare la sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in secondo luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola scelta personale ammissibile gli era parsa quella di condividerne il destino'... Caffi insomma partecipo' dell'illusione secondo cui il progresso della democrazia socialista passava attraverso la distruzione degli Imperi centrali. C'era in lui, come in tanti altri, l'idea che gli 'Stati borghesi avrebbero attuato poi, a guerra vittoriosa finita, quelle riforme che erano cosi' dure da conquistare attraverso i movimenti popolari', e la speranza che le nazionalita' oppresse avrebbero potuto acquistare la loro indipendenza solo con la sconfitta degli imperi austro-ungarico e germanico. Ma la ragione probabilmente piu' profonda del suo interventismo fu il sentimento che a catastrofe avvenuta non si potesse starsene in disparte, quando tanti amici morivano nei campi di battaglia". G. Bianco, Un socialista "irregolare", cit., pp. 2 1-22. 23. Secondo Gino Bianco "negli anni trenta Caffi non aveva rinunciato a considerare utili o possibili i mezzi della violenza organizzata ('finche' le rivoluzioni, simili in tutto alle guerre, sono l'unico mezzo per portare rimedio - o solo un giusto compenso - alle molto piu' turpi, prolungate, silenziose atrocita' che ingenera quotidianamente l'ineguaglianza sociale')". E' solo dopo l'esperienza della seconda guerra mondiale, "del mondo concentrazionario, degli armamenti nucleari e dell'era della 'violenza totale'", che Caffi "oppone un rifiuto radicale anche alla violenza rivoluzionaria, sia nella forma dell'insurrezione armata e della guerra internazionale che del 'regime di dittatura e terrore per consolidare l'ordine nuovo'", ivi, p. 97. In effetti, e' lecito pensare che l'esperienza della seconda guerra mondiale abbia solo accentuato un rifiuto della violenza che in Caffi era gia' presente, anche se fino a quel momento non si era espresso con altrettanta radicalita'. E' questo un tema che meriterebbe un approfondimento, ma ogni ricerca in proposito si scontra con la scarsita' della documentazione fino a questo momento disponibile. Mi sembra comunque significativa la testimonianza di Antonio Banfi, che di Caffi fu intimo amico a partire dagli anni giovanili degli studi universitari condotti da entrambi in Germania: "Qualche mese dopo nell'atrio dell'Universita' berlinese; il vento di marzo premeva alle vetrate. Guardavamo il quadro delle lezioni, io e Confucio Cotti... E ci si fece vicino l'altro con la sua chioma fulva e l'occhio ardente di sole, Andrea Caffi, cavaliere errante delle guerre e delle rivoluzioni. Veniva dalle prigioni russe donde l'aveva tratto un discorso di Filippo Turati alla Camera, e ne rideva come rideva piu' tardi al cannoneggiamento delle Argonne, alla fucileria del Sabotino, ch'egli aveva affrontato col fucile a tracolla disposto a morire non ad uccidere". A. Banfi, Tre maestri, in "L'Illustrazione italiana", 3 novembre 1946. p. 284. 24. A. Caffi, Critica della violenza, cit., p. 92. 25. "A Tolosa partecipa all'attivita' dei gruppi della resistenza e tuttavia confessa di non riuscire a condividere le loro speranze di 'rigenerazione', giacche' la sua e' anche una crisi di credenze, aggravata dal sentimento di 'non essere partecipe di qualche cosa di definitivo. Tutto quello che sta accadendo adesso - aggiunge - non si puo' paragonare a niente di quello che pensavamo noi, non si puo' inserire nelle concezioni intellettuali e morali della nostra generazione. L'unica cosa solida e' il mondo dell'amicizia, un'amicizia attiva come quella che anche a me ha dato la salvezza'. Arrestato dalla milizia di Darmand verso la fine del 1944, conobbe gli orrori della tortura e degli interrogatori brutali. Riusci' tuttavia a salvarsi per la 'testimonianza', a lui favorevole, fornita da un giovane collaborazionista corso che aveva conosciuto tra i clochards e gli 'irregolari' di Tolosa". G. Bianco, Un socialista "irregolare", cit., p. 85. Le notizie fornite da Bianco, per quanto importanti, non consentono di chiarire tutti i dubbi. Sarebbe interessante sapere se Caffi a Tolosa ha preso parte a episodi di lotta armata, oppure se il suo impegno si e' manifestato esclusivamente nelle forme della resistenza nonviolenta. 26. A. Caffi, E' la guerra rivoluzionaria una contraddizione in termini?, in Id., Scritti politici, cit., p. 319. La critica della violenza di Caffi, tutta interna al pensiero socialista, presenta notevole lucidita' e coerenza. Caffi, che tra l'altro negli anni successivi alla seconda guerra mondiale collaboro' dalla Francia ad alcune iniziative di Aldo Capitini, ha esercitato un'influenza diretta e significativa su esponenti di rilievo del movimento nonviolento. Tra i primi a richiamare l'attenzione sull'importanza del pensiero nonviolento di Caffi e' stato Lamberto Borghi, che nel suo volume Educazione e autorita' nell'italia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1951, ne ha tracciato un'efficace sintesi. In epoca a noi piu' vicina si e' richiamato esplicitamente a Caffi anche Giuliano Pontara, nel suo saggio "Violenza e terrorismo. il problema della definizione e della giustificazione", in Dimensioni del terrorismo politico, a cura di L. Bonanate, Milano, Franco Angeli, 1979, p. 65. 27. G. Bianco, introduzione, in A. Caffi, Socialismo libertario. Milano, Azione Comune, 1964, pp. 11-12. La citazione di Morandi prosegue peraltro con un richiamo a Marx che sembra riportare su un piano di maggiore ortodossia la "scandalosa" affermazione precedente del leader socialista: "E' tutta la critica marxista dello stato e della burocrazia, che e' da riprendere e portare a nuovi sviluppi". R. Morandi, Ricostruzione socialista, il socialismo integrale di Otto Bauer, ora in Id., La democrazia del socialismo. 1923-1937, Torino, Einaudi, 1961, p. 184. 28. Scritto sotto forma di Tesi per il dibattito interno fra i militanti socialisti italiani dell'emigrazione antifascista, in un momento in cui i socialisti dispersi in vari paesi cercavano di definire il loro atteggiamento di fronte alla guerra, specie dopo l'ingresso dell'Urss fra i belligeranti. Il documento di Caffi si contrappone alla Tesi di Nenni e Saragat (totalmente favorevole alla politica degli Alleati) e a quella di Modigliani (che si richiamava al tradizionale pacifismo "zimmerwaldiano"). In opposizione alla politica "frontista" di Nenni e Saragat, orientati in quel momento verso l'alleanza strategica coi comunisti, ma critica anche rispetto al pacifismo intransigente di Modigliani, che per quanto moralmente nobile rischiava di essere sterile sul piano politico, la Tesi di Caffi (scritta in collaborazione con Giuseppe Faravelli, Enrico Bertoluzzi e Emilio Zannerini della Federazione Socialista del Sud-Ovest della Francia), proponeva un'adesione condizionata alla lotta contro le potenze fasciste, cercando di salvaguardare l'autonomia del movimento socialista per il presente e soprattutto per il futuro. Cfr. A. Landuyt, "Un tentativo di rinnovamento del socialismo italiano: Silone e il Centro estero di Zurigo", in L'emigrazione socialista nella lotta contro il fascismo (1926-1939), Firenze, Sansoni, 1982. Sull'importanza delle cosiddette "Tesi di Tolosa" ha richiamato di recente l'attenzione Stefano Merli, che nel suo volume I socialisti, la guerra, la nuova Europa. Dalla Spagna alla Resistenza 1936-1942, ha riprodotto integralmente i documenti originali, corredati dai materiali preparatori e da una scelta significativa del successivo dibattito. Secondo Merli, la tesi "I socialisti, la guerra e la pace", a lungo attribuita al solo Caffi, sarebbe stata in realta' scritta da Faravelli in collaborazione con Bertoluzzi e Zannerini, lasciando poi a Caffi - che aveva partecipato alla discussione collettiva - la redazione finale. Si veda anche, in merito, A. Panaccione, I socialisti italiani e la seconda guerra mondiale, in "Giano", n. 19, gennaio-aprile 1995. 29. Cfr. A. Caffi, i socialisti, la guerra, la pace, in Id., Scritti politici, cit., specialmente pp. 303-304. 30. Cfr. in proposito O. Gurvitch, L'idee de droit social, Paris, Librairie du Recueil Sirey, 1932. Sull'influenza di Gurvitch su Caffi, ma anche su Rosselli e altri esponenti di Giustizia e Liberta', si veda C. Malandrino, Socialismo e Liberta'. Autonomie, Federalismo, Europa da Rosselli a Silone, Milano, Franco Angeli, 1990. 31. G. Bianco, Un socialista "irregolare": Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, cit., p. 67. Di Silvia Trentin si veda, in particolare, la raccolta di scritti Federalismo e liberta'. Scritti teorici 1935-1943, Venezia, Marsilio, 1987. 32. A. Caffi, Critica della violenza, cit., p. 101. 33. A. Caffi, Semplici riflessioni sulla situazione europea, in Id.. Scritti politici, cit., pp. 193-194. Interessante, nello stesso saggio, anche il richiamo alla necessita' di una "politica estera" autonoma da parte del movimento operaio e socialista: "Credo che, oltre la politica interna rivoluzionaria, vi sia un'azione internazionale da svolgere, metodica e non fatta di pura propaganda" (ivi, p. 195). 34. G. Bianco, Presentazione, in A. Caffi, Scritti politici, cit., pp. XI-XII. 35. A. Caffi, Opinioni sulla rivoluzione russa, cit., p. 101. 36. A. Caffi, Il socialismo e la crisi mondiale, cit., p. 381. 37. Ivi, pp. 388-389. 38. lvi, p. 389. 39, ibidem. 40. A. Caffi, Critica della violenza, cit., p. 101. 41. A. Caffi, Il socialismo e la crisi mondiale, cit., p. 373. 3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alim ento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 4. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 999 del 22 luglio 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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