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Nonviolenza. Femminile plurale. 19
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 19
- From: nbawac at tin.it
- Date: Thu, 7 Jul 2005 13:50:21 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 19 del 7 luglio 2005 In questo numero: 1. La guerra a Londra 2. Giovanna Providenti: Alice Hamilton 3. Intervista a Yolande Mukagasana: le ferite del silenzio (parte seconda e conclusiva) 4. Gianni Sofri: Una madre cinese 5. Riletture: Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi 6. Riletture: Germaine Greer, L'eunuco femmina 7. Riletture: Kate Millett, La politica del sesso 8. Riletture: Juliet Mitchell, Psicoanalisi e femminismo 9. Riletture: Sheila Rowbotham, Donne, resistenza e rivoluzione 1. EDITORIALE. LA GUERRA A LONDRA Quanto sangue dovra' ancora scorrere per capire che una e' l'umanita', che la guerra, in qualunque sua forma, e' nemica dell'umanita' intera, che solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'? Quanto sangue dovra' scorrere ancora per togliere agli assassini vestiti di stracci, o in divisa o in doppiopetto la scellerata illusione che sia possibile uccidere in una parte del mondo senza che l'onda d'urto raggiunga anche noi, tutti, ovunque? Le bombe di Londra sono le stesse di Falluja, le stesse della Nato sulla Serbia, le stesse di Hitler su Coventry, le stesse di Hiroshima e Nagasaki, le stesse dei terroristi suicidi in Israele o in Iraq, le stesse del Vietnam, della Cecenia, di Madrid, le stesse di piazza Fontana e dell'Italicus, le stesse di tutte le dittature, di tutti i terrorismi, di tutti gli eserciti, di tutti i massacri. Non uccidere, dice il primo comandamento su cui si fonda l'intera civilta' umana. Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. 2. MEMORIA. GIOVANNA PROVIDENTI: ALICE HAMILTON [Da "Noi donne" del giugno 2005 (disponibile anche nel sito www.noidonne.org) riprendiamo il seguente articolo. Giovanna Providenti (per contatti: providen at uniroma3.it) e' ricercatrice presso l'Universita' Roma Tre, si occupa di nonviolenza, studi sulla pace e di genere, con particolare attenzione alla prospettiva pedagogica. Ha due figli. Partecipa al Circolo Bateson di Roma. Scrive per la rivista "Noi donne". Ha curato il volume Spostando mattoni a mani nude. Per pensare le differenze, Franco Angeli, Milano 2003, e pubblicato numerosi saggi su rivista e in volume, tra cui: Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza in Jane Addams, in "Rassegna di Teologia", n. 45, dicembre 2004; Imparare ad amare la madre leggendo romanzi. Riflessioni sul femminile nella formazione, in M. Durst (a cura di), Identita' femminili in formazione. Generazioni e genealogie delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005; L'educazione come progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Attualita' di Maria Montessori, Franco Angeli, Milano 2004. Scrive anche racconti e ha in cantiere un libro dal titolo Donne per, sulle figure di Jane Addams, Mirra Alfassa e Maria Montessori Alice Hamilton (1969-1970), medico, scienziata, ambientalista, riformatrice sociale, pacifista, una delle figure della nonviolenza femminile e plurale in cammino su cui per troppo tempo e' stata calata la cortina del silenzio] Alice Hamilton, la prima donna laureata ad Harvard in medicina e primo medico del lavoro statunitense, impegnata per decenni nella ricerca sui rischi delle sostanze chimiche usate nelle industrie, per tutta la vita non ha mai esitato a rimboccarsi le maniche per salvare vite umane e per combattere contro le ingiustizie. Nel suo piu' di un secolo di vita (1869-1970), la Hamilton e' stata pioniera e protagonista del suo tempo, attivandosi per comprendere scientificamente, e informare appropriatamente, riguardo le conseguenze sulla salute causate dalla crescente industrializzazione: sia per via dei cambiamenti intervenuti nello stile di vita di uomini e donne, sia a causa dei "veleni" industriali. Sempre in primo piano nelle moltissime denunce di intossicazioni da lavoro e malattie industriali, derivate dalle sue indagini sul campo, attraverso tutta l'America, in qualita' di "investigatore speciale" per il Federal Bureau of Labor, negli anni tra il 1907 e il 1945, Alice Hamilton ha avuto anche il merito di "scoprire" tali malattie e averle studiate a fondo, non soltanto in laboratorio, ma soprattutto in mezzo a operai e operaie. E si e' inoltre attivamente impegnata per la istituzione di leggi che prevedessero un indennizzo da parte degli imprenditori in caso di avvelenamento industriale di lavoratori o terzi. Per chi ne ha visto il film, tratto da una storia vera e interpretato da Julia Roberts, Hamilton potrebbe essere considerata una illustre antenata morale di Erin Brockovich, una avvocata proletaria, che, con grande determinazione, si fa paladina dei diritti di un migliaio di persone, tra lavoratori e abitanti della zona, gravemente ammalatisi per via dell'inquinamento idrico provocato da una industria. E' usando le leggi, istituite grazie all'impegno politico e scientifico di Hamilton e altri/e come lei, che Brockovich riesce a vincere la causa, facendo risarcire gli avvelenati... Alice Hamilton, che non era avvocato ma medico, non e' certo diventata ricca grazie al suo lavoro, a cui pure ha dedicato tutta la sua lunghissima vita, scegliendo solo negli ultimi anni di ritirarsi in meditazione, in una cittadina vicino Boston. Ha pero' ottenuto l'attenzione privilegiata dell'Fbi, che, sospettandola di antiamericanismo per via delle sue idee in difesa dei diritti umani e contro le guerre, ha continuato a vigilarla: anche da molto vecchia, quando, negli anni Sessanta, continuava a rendersi "sospetta" scendendo in piazza contro la guerra nel Vietnam. * Non erano ne' denaro ne' fama cio' a cui piu' aspirava Alice, fin da giovane, quando, nonostante le difficolta' in quanto donna, ha persistito a conseguire la laurea in medicina e le molte specializzazioni, acconsentendo a sedersi in un angolo distante dai suoi colleghi maschi, per non rischiare di mettere a rischio il decoro dell'universita'. Terminati gli studi alla University of Michigan Medical School, si reca in Germania insieme alla sorella Edith (nota come scrittrice e studiosa della classicita'), dove prosegue la sua formazione scientifica e la sua conoscenza della chimica, che le sarebbe stata molto utile per comprendere la dannosita' "di sostanze quali il piombo, il mercurio, l'acido nitrico, il solfuro di carbonio, l'ossido di carbonio, gli esplosivi, i coloranti di anilina, il benzene e tante altre sostanze chimiche con nomi complicati che direbbero ben poco alla maggior parte dei lettori, ma il cui studio si rivelo' molto interessante sia per la varieta' delle loro utilizzazioni sia per gli effetti che queste producevano sulla salute dei lavoratori che le utilizzavono" (A. Hamilton, Nelle fabbriche dei veleni, p. 4). Rientrata in America lavora per circa sette anni in un laboratorio di batteriologia, che lascia nel 1910 per assumere la direzione di un'indagine nelle "fabbriche dei veleni" su incarico di una commissione istituita dallo Stato dell'Illlinois. A Chicago, "Professor of Pathology" al Women's Medical College della Northwestern University, ha l'occasione di ascoltare un discorso della riformista sociale Jane Addams, che la entusiasma. Per questo decide di legarsi a lei e alla sua comunita', andando a vivere, dal 1897 al 1919, a Hull-House, il Social Settlement fondato nel 1889 da Addams. Con lei, e le altre residenti e collaboratrici, Alice Hamilton partecipa alle numerose campagne in difesa dei diritti dei lavoratori e per l'istituzione di servizi pubblici - di tipo sanitario, igienico, sociale, formativo - confacenti alle sempre crescenti esigenze della popolazione povera, e per lo piu' immigrata, dei sobborghi industriali. L'impegno della Hamilton si svolge, dunque, contemporaneamente, in politica, nella ricerca sia medica che statistica (per valutare l'incidenza di determinate malattie industriali), e nella professione di medico vera e propria: senza separazione tra i tre piani, strettamente legati tra loro da un unico apostolato di donna impegnata con tutta se stessa in cio' che sa fare e in cui crede. * Durante gli anni della prima guerra mondiale Alice Hamilton partecipa attivamente a un'iniziativa contro la guerra, svolta da un gruppo di suffragiste pacifiste europee (tra cui Aletta Jacobs, Emmeline Pethick-Lawrence e Rosika Schwimmer) e americane (tra cui i due futuri premi Nobel per la pace Addams e Emily Green Balch). Si tratta dell'International Peace Congress, svoltosi nell'aprile 1915 a L'Aja (citta' simbolo). Al Congresso vengono poste le basi della Lega femminile per la pace e la liberta', e viene organizzata una "missione di pace": una delegazione di donne si reca dai ministri europei per proporre la costituzione di una commissione di esperti internazionali, con lo scopo di fare cessare immediatamente il conflitto non per armistizio ma per mutuo accordo, e senza vincitori ne' vinti. La proposta era stata compiutamente stilata, dalla pacifista Julia Grace Wales, in un documento, dal titolo International Plan for Continuous Mediation without Armistice. In esso leggiamo: "I membri della commissione hanno funzione scientifica, ma non diplomatica; non devono rappresentare i loro governi... ma esplorare le questioni concernenti il presente conflitto, ed alla luce di questo studio fare proposte ai paesi belligeranti nello spirito dell'internazionalismo costruttivo. Se il primo sforzo fallisse, essi dovranno ancora consultarsi e deliberare, rivedere le loro iniziali proposte ed offrirne delle nuove, tornando indietro ancora ed ancora, se necessario, nella immutabile persuasione che alla fine potra' essere trovata una qualche proposta, con basi concrete e attuabili per giungere a tangibili negoziati di pace" (Women at the Hague, p. 137). Hamilton, che ha fatto parte della delegazione, e' stata coautrice del libro Women at The Hague. The International Peace Congress of 1915, in cui vengono raccolti i documenti e viene raccontata l'esperienza del Congresso, la partecipazione e la solidarieta' tra donne anche appartenenti a stati in guerra tra loro, ed il lavoro della delegazione dai ministri europei. In particolare, Hamilton racconta "la parte non ufficiale, le persone incontrate informalmente e le impressioni acquisite mentre attraversavamo i vari paesi" (p. 51), dandoci uno spaccato degli anni della prima guerra mondiale inusuale rispetto ad altra letteratura storica del periodo. Attraversando i paesi in cui si stava svolgendo il conflitto europeo piu' sanguinoso che la storia avesse fino allora conosciuto, e in un momento storico particolarmente difficile per le donne, sembra sorprendente il modo in cui Alice Hamilton e compagne siano riuscite a fare cultura di pace. Assumendosi il ruolo e l'autorita' di rappresentanti politiche, hanno avuto il coraggio di organizzare manifestazioni pubbliche nei vari paesi in guerra e di andare a interloquire con uomini di stato che non si sono rifiutati di aprire loro le porte: "quando le nostre insolite rappresentanti bussavano alle porte dei Cancellieri d'Europa, non ve ne fu nessuna che non venisse aperta" (p. 98). * Una bibliografia essenziale Alice Hamilton, Nelle fabbriche dei veleni: la prima donna medico di frontiera che ha dato un impulso alla prevenzione nei luoghi di lavoro all'inizio del Novecento negli Stati Uniti, Edit. coop, Roma 2002; Ead., Exploring the dangerous trades: The autobiography of Alice Hamilton, Little Brown & Co., Boston, 1943; Alice Hamilton, Jane Addams, Emily Green Balch, Women at The Hague. The International Peace Congress of 1915, Macmillan, 1915, rist. HB, New York, 2003; Barbara Sicherman, Alice Hamilton: A Life in Letters, Comonwealth Fund Book, Harvard University Press, Cambridge and London, 1984. 3. MEMORIA. INTERVISTA A YOLANDE MUKAGASANA: LE FERITE DEL SILENZIO (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dal sito www.alexanderlanger.org riportamo la seguente intervista a Yolande Mukagasana apparsa sulla rivista "Una citta'" (per contatti: piazza Dante 21, 47100 Forli', tel. 054321422, fax 054330421, e-mail: segreteria at unacitta.it), n. 116 dell'ottobre 2003. Per una informazione essenziale su Yolande Mukagasana cfr. il n. 18 di "Nonviolenza. Femminile plurale" (in cui compare anche la prima parte dell'intervista che segue)] - "Una citta'": La popolazione ruandese e' consapevole di quello che e' avvenuto? - Yolande Mukagasana: In parte si' e in parte no. Ci sono criminali che si sentono sinceramente mortificati per quanto e' avvenuto, ed altri che vorrebbero che si voltasse velocemente pagina e si dimenticasse tutto. Ci sono anche intellettuali ruandesi che, dall'esterno, rifugiatisi in altri paesi africani, continuano a fomentare l'odio etnico e a spronare alla guerra civile. Ma la popolazione ruandese e' ormai satura di guerra e di sofferenze, tutti vogliono la pace. Ci sono infine le pressioni che giungono dall'Occidente. La parola "riconciliazione", ad esempio, e' venuta da fuori, non l'abbiamo creata noi ruandesi. La Chiesa cattolica ha addirittura cercato di strumentalizzare la giustizia gacaca nelle sue cerimonie religiose. Durante la messa, per esempio, i preti, facendo leva sulle emozioni, si limitavano a proclamare il pentimento collettivo e un generale "vogliamoci tutti bene". Ma questo certo non puo' bastare di fronte a una realta' tanto tragica e complessa. * - "Una citta'": Lei e', grazie ai suoi libri, alle sue inchieste e alle conferenze pubbliche, uno dei principali testimoni del genocidio. Ci sono anche dei tentativi negazionisti? - Yolande Mukagasana: Ci sono dei ruandesi revisionisti che hanno scritto e scrivono dei libri in cui tentano di dimostrare che non si e' trattato di genocidio, ma di un massacro interetnico. Questi ruandesi revisionisti pero' non vivono in Rwanda e sono sostenuti da alcuni storici occidentali che curano le loro pubblicazioni. Questi, pur ammettendo che sono stati uccisi un milione di tutsi, sostengono che dopo il genocidio sarebbero stati uccisi tre milioni di hutu. E' apparso anche un memoriale, per questi tre milioni di hutu. La tesi di fondo e' la seguente: gli hutu hanno massacrato i tutsi che a loro volta hanno massacrato gli hutu, quindi siamo pari. E' veramente incredibile! Per compiere questa operazione revisionista poi ci si appoggia agli hutu implicati ad alto livello nella pianificazione del genocidio, i quali, per sfuggire alla giustizia, oggi vivono in esilio in alcuni paesi africani o europei. * - "Una citta'": Nel 1998, insieme a Jacqueline Mukansonera, ha ricevuto il premio Alexander Langer. Quanto ha influito questo riconoscimento morale nella prosecuzione della sua opera di testimonianza? - Yolande Mukagasana: A livello morale e' stato un riconoscimento estremamente importante. La mia testimonianza ha assunto da quel momento un valore universale; ha cioe' significato che io potevo testimoniare; ne avevo il diritto. Mi sono sentita rassicurata e quindi riconosciuta, in quanto testimone ed essere umano. Il cammino che avevo intrapreso era quello giusto. In quel periodo, tra l'altro, avevo con me degli orfani del genocidio e non sapevo dove e come sistemarli. Il premio Langer mi ha dato coraggio e, allo stesso tempo, mi ha permesso di costruire un tetto, un rifugio in cui sistemare questi orfani, che altrimenti non avrebbero proprio saputo dove andare a vivere. Inoltre, il premio mi ha dato una certa credibilita', soprattutto nei confronti dei carnefici. I carnefici, in Europa, erano molto forti e il fatto di aver ricevuto il premio li ha indeboliti e intimoriti. Da allora non hanno piu' osato attaccarmi a viso aperto. Prima continuavano a denigrarmi, dicendo che ero una pazza e una bugiarda. Insomma mi sono sentita piu' sicura e ho avuto piu' fiducia in me stessa e in quello che stavo facendo. Avevo infatti cominciato a dubitare un po' sul mio operato. Mi dicevo: "Hanno ucciso i miei figli, questo e' vero, ma non sto forse esagerando? Fino a che punto e' giusto testimoniare?". Il paradosso di un genocidio e' che a volte la vittima arriva addirittura a dubitare di se stessa. * - "Una citta'": Un sopravvissuto, vittima di un genocidio, puo' addirittura avere dei dubbi su quanto ha visto e patito? - Yolande Mukagasana: Non si possono avere dei dubbi su cio' che si e' visto. Il fatto e' che a volte ci si chiede come e' stato possibile e da li' e' facile passare a una sorta di incredulita': e' davvero successo? Non ho forse sognato? L'uomo e' davvero capace di fare tutto questo? Da parte loro i genocidari giocano sugli interrogativi psicologici dell'essere umano e, a piu' riprese, hanno tentato di mettermi in crisi, cercando di frantumare la mia personalita', proprio con l'obiettivo di farmi tacere, perche' li tradivo. Io in effetti li sentivo piu' forti di me e avevo paura di non riuscire a sopravvivere e a continuare il mio lavoro di testimonianza. Mi sono chiesta allora quale fosse il percorso migliore da seguire. Ecco, quando ho ricevuto il premio, ho capito di aver imboccato la strada giusta. * - "Una citta'": La lotta per la memoria e' dunque irta di insidie e di difficolta'... - Yolande Mukagasana: Sicuramente, perche' c'e' chi pensa che la memoria sia una sorta di rivincita e che quindi sia negativa, pericolosa. Io penso invece ad una memoria positiva, che dia un'identita' ad un milione di morti. Un milione di morti, che una volta avevano un nome, e che adesso sono solo delle cifre. I miei figli oggi, per l'Onu, sono solo delle statistiche, delle cifre. Dov'e' la loro identita'? Bisogna quindi gridare a voce alta che tutti questi morti hanno avuto un'identita' come esseri umani, e questa identita' e' stata cancellata da altri uomini. Uomini come loro in carne ed ossa. Io penso a una memoria per gli uomini, e non per vendicarmi. Anche perche', quanto odio sarebbe necessario per colmare il vuoto e il male che abbiamo patito? E' un'operazione umanamente impossibile. E' molto meglio non autodistruggersi ed evitare di distruggere quel poco che rimane. Bisogna attivarsi per costruire una memoria in grado di aiutare le generazioni future a non rivivere mai piu' cio' che noi abbiamo vissuto. Una memoria capace anche di venire incontro ai figli dei carnefici per evitare che nel futuro continuino ad autocolpevolizzarsi. E' di vitale importanza costruire il futuro sulla base di una memoria solida e inequivocabile, altrimenti c'e' il rischio che certe tragedie possano riprodursi. * - "Una citta'": Oltre alla sua attivita' di testimone-scrittrice, lei si reca spesso in Rwanda. Quali sono i suoi progetti per la ricostruzione del suo paese? - Yolande Mukagasana: Innanzitutto, insieme ad altri, ho creato in Belgio una Fondazione per la Memoria del genocidio e la Ricostruzione del Rwanda, riuscendo ad aprire una sede anche in Rwanda, con la collaborazione di alcuni orfani e sopravvissuti. La nostra associazione in Belgio cerca di trovare fondi per aiutare quella in Rwanda. La sede ruandese ha il compito di aiutare le piccole associazioni di orfani e di sopravvissuti, che sono sorte in questi anni in Rwanda. E' grazie a loro che noi possiamo essere informati su cio' che avviene quotidianamente in Rwanda. Io mi reco nel mio paese ogni tre mesi, ma non e' sufficiente; solo vivendoci si riesce a capire cosa succede. Grazie alla nostra associazione, noi possiamo cosi' seguire tutti i nostri progetti. Quando sono in Rwanda, visito tutte le associazioni, vecchie e nuove, e mi rendo conto che spesso, a causa della poverta', e' difficile sviluppare i nostri progetti. Il cibo resta un bisogno primario da garantire. Di fronte a queste tremende difficolta' quotidiane, cerco di trovare delle soluzioni immediate. Siamo riusciti ad evitare che alcuni adolescenti si prostituissero o si drogassero, a far si' che potessero riprendere gli studi. Ovviamente non disponiamo di mezzi finanziari tali da poter far fronte a tutte le situazioni. Inoltre, quando sono in Rwanda, vivo con "i miei bambini", cioe' tutti quelli che ho adottato dopo il genocidio. * - "Una citta'": Quando ha avuto l'idea di recarsi nelle prigioni per intervistare i colpevoli? - Yolande Mukagasana: L'idea e' nata subito dopo la pubblicazione del mio primo libro La morte non mi ha voluta, nel 1998, ma e' solo alla fine del 1999 che ho potuto attuare questo mio progetto. A volte, quando penso a cio' che ho fatto, e cioe' intervistare i carnefici, mi chiedo se sono davvero normale. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere, neanche gli ebrei dopo la Shoah, e quindi la mia idea mi sembrava un po' bizzarra e anormale. Mi chiedevo anche se sarei stata all'altezza, ma il desiderio era troppo forte. Ricordo che al momento di varcare la soglia della prigione dove erano detenuti gli assassini, sono stata assalita dalla paura. Temevo che mi avrebbero uccisa, perche' li vedevo ancora con un machete sanguinante in mano. La paura e' andata pian piano scemando, soprattutto quando ho incontrato un ragazzino assassino. Di fronte ad Evariste mi sono resa conto che non sarebbe mai stato in grado di uccidermi, perche', anche se durante il genocidio ci sono stati ragazzini capaci di uccidere degli adulti, questo e' avvenuto perche' erano stati inquadrati e costretti dal potere a farlo. Adesso, quel potere che incitava all'omicidio non c'e' piu'. Di fronte a questo ragazzino che aveva un padre hutu e una madre tutsi, mi sono anche resa conto di cosa significhi essere una madre. Mi sono detta che, nel caso avessi anch'io sposato un hutu, anche i miei figli sarebbero potuti diventare degli assassini. Ho iniziato andando ogni giorno in prigione a visitare i detenuti, affinche' si abituassero alla mia presenza. Le interviste sono state lunghe e difficili. All'inizio, dopo essermi presentata, erano un po' diffidenti e reticenti nei miei confronti. Io comunque non ero andata per giudicarli, ma per cercare di cogliere gli aspetti umani del genocidio. Il mio obiettivo era, sin dall'inizio, quello di instaurare un dialogo aperto, in cui si potesse spiegarsi reciprocamente, a partire dai propri sentimenti, e capire in che modo si potesse ricominciare a vivere insieme. Se in principio nessuno voleva parlare con me, in seguito si sono totalmente aperti. * - "Una citta'": Come valuta questa esperienza di dialogo e confronto con i carnefici? - Yolande Mukagasana: E' stata uníesperienza estremamente positiva, perche' mi ha insegnato come gli stessi carnefici possano essere feriti e colpiti per gli atti che hanno commesso. Non avrei mai pensato che anche i carnefici potessero soffrire per le loro colpe. In un certo senso la loro sofferenza e' piu' grave, perche' e' senza fine. Bisogna tuttavia fare i debiti distinguo: ci sono alcuni che sono consapevoli dei loro crimini, e questi sono sinceramente pentiti di cio' che hanno fatto; altri che cercano di rimuovere, tentando di fabbricarsi una pseudo-verita'; ce ne sono infine altri che mentono spudoratamente e che, se potessero, ricomincerebbero. Con me nessuno poteva fare lo gnorri o mentire perche', prima di incontrarli, avevo consultato tutti i procedimenti a loro carico. Ho scelto quindi di incontrare sia i rei confessi che coloro che erano stati visti sulle colline mentre uccidevano e si erano messi in mostra per la loro crudelta'. Tra questi c'erano anche persone che conoscevo, tra cui colui che aveva scoperto e preso i miei figli, e anche Valerie, la giornalista della radio Rtlm. E' ovvio che da questo dialogo rimarranno sempre fuori tutti gli assassini che sono ancora in liberta'. Questi parleranno solo se verranno denunciati. * - "Una citta'": Lei ha intervistato anche i sopravvissuti. Cosa e' emerso dai loro racconti? - Yolande Mukagasana: Intervistandoli, mi sono resa conto fino a che punto soffrissero in silenzio. Ho condiviso le loro miserie perche' ho trascorso intere giornate insieme a loro. Ho sentito dentro di me il loro trauma. Alcuni continuavano a rinviare il momento della testimonianza perche' non si sentivano bene. Il loro sforzo era di sfuggire al proprio passato. I sopravvissuti sono delle persone traumatizzate. Ho dovuto attendere a lungo prima che si decidessero a parlare. I sopravvissuti, pur sentendo il bisogno di aprirsi e dar libero corso ai propri sentimenti, molto spesso non ci riescono e rimangono muti. La loro sofferenza e' inaudita e hanno il timore di non essere capiti. Sono delle persone letteralmente disperate. Molti di loro poi oggi vivono in condizione di estrema poverta', poiche' durante il genocidio, oltre a perdere i loro cari, sono stati spogliati di tutto. Nessuno e' in grado di risarcire i danni subiti dai sopravvissuti: ne' i colpevoli, ne' lo Stato ruandese, che non ha sufficienti risorse per assisterli e aiutarli a risollevarsi. Dopo il genocidio molti sopravvissuti sono morti a causa delle privazioni o delle malattie. Quello che non sono riusciti a fare gli assassini l'hanno fatto la poverta' e la miseria provocate dal genocidio e dalla guerra. Ancora oggi, purtroppo, non si intravede all'orizzonte la possibilita' che almeno le condizioni materiali dei sopravvissuti migliorino. Io, in questo senso, mi considero una privilegiata tra i sopravvissuti. Forse e' per questo che trovo la forza di parlare. (Parte seconda - Fine) 4. PROFILI. GIANNI SOFRI: UNA MADRE CINESE [Dal sito della Fondazione Alexander Langer Stiftung (www.alexanderlanger.org) riprendiamo questa "laudatio" tenuta da Gianni Sofri in occasione dell'attribuzione del Premio Langer a Ding Zilin e Jiang Peikun, intervento poi pubblicato nella rivista "Una citta'" n. 79 del luglio-agosto-settembre 1999. Gianni Sofri, prestigioso docente universitario di storia contemporanea e di storia dei paesi afroasiatici, e' anche uno dei maggiori conoscitori della figura e dell'opera di Gandhi. Opere di Gianni Sofri: Il modo di produzione asiatico, Einaudi, Torino 1973; con Pier Cesare Bori, Gandhi e Tolstoj, Il Mulino, Bologna 1985; Gandhi in Italia, Il Mulino, Bologna 1988; Gandhi e l'India, Giunti, Firenze 1995. Per una informazione essenziale su Ding Zilin e Jiang Peikun cfr. il testo che abbiamo riproposto nel n. 18 di "Nonviolenza. Femminile plurale"] La sera del 3 giugno 1989 un giovane studente universitario, Jiang Jelian, usci' di casa e fu uno dei primi ad essere ucciso in quella che passera' alla storia come "la notte del massacro di Tiananmen". Da allora la madre, Ding Zilin, dedica la sua vita a mettere insieme l'elenco dei caduti e quello dei mutilati, le loro storie, per ristabilire la verita' su un massacro tuttora negato dal regime cinese. L'importanza della lotta di tanti coraggiosi dissidenti, anche per sfatare l'idea, diffusa in Occidente, di un'Asia refrattaria culturalmente alla democrazia. Non credo di svelare indebitamente segreti di bottega, se comincio con un rapido accenno al lavoro che anch'io ho svolto insieme agli amici della giuria del premio Langer, presieduta da Peter Kammerer. Ci siamo trovati di fronte ancora una volta, come gia' le due precedenti, alla complessita', alla difficolta', persino al disagio, da un certo punto di vista, del trovarsi a essere in qualche modo gestori dell'eredita' di una persona come Alex, di una persona talmente complessa, talmente ricca di problematiche, di campi d'azione, di luoghi, di settori in cui la sua attivita' si e' svolta, che ci siamo sentiti piu' volte a rischio, nel senso del privilegiare troppo un settore rispetto ad altri. Per esempio, quest'anno tutti noi siamo usciti da queste nostre riunioni convinti che occorra in futuro dare maggiore attenzione alle problematiche di tipo ambientale-ecologico. Di questo siamo assolutamente convinti, e credo lo si possa dire in pubblico, non conservarlo soltanto nell'intimo delle nostre convinzioni. Detto questo, la cosa che e' successa quest'anno, e' stata una cosa un po' strana, e cioe' che e' emerso davanti a noi un personaggio come Ding Zilin. Meglio, sono emersi due personaggi (non vorrei che ci si facesse l'idea che c'e' un principe consorte, a ruoli rovesciati), due grandi personaggi come Ding Zilin e Jiang Peikun. Sono emersi, e si sono presentati alla nostra attenzione, abbastanza occasionalmente all'inizio, perche' poi, stranamente, in coincidenza (casuale, per carita') con il nostro premio sono diventati molto noti, hanno avuto fotografie su copertine di illustri riviste internazionali, interviste di ogni tipo. Pero' non erano cosi' noti quando noi abbiamo cominciato l'istruttoria del nostro premio. Io stesso avevo solo letto qualcosa di e su Ding Zilin in un libro molto bello di Marie Holzman e di Noel Mamere, Chine. On ne baillone pas la lumiere, cioe' "non si puo' imbavagliare la luce". Devo a una mia carissima e competente amica di avermi poi raccontato piu' cose, e permesso di allargare le mie conoscenze. Quindi io diro' ora pochissime cose su Ding Zilin e sulle motivazioni del premio, e faro' qualche considerazione sul problema del dissenso in Cina. Di seguito i nostri amici Xiao Qiang e Marie Holzman parleranno piu' diffusamente di entrambi questi problemi, di Ding Zilin e del dissenso in Cina. * Immagino che qui dentro alcuni sappiano gia' piu' di me su Ding Zilin perche' hanno letto qualcosa, per esempio il bellissimo articolo di Ilaria Maria Sala nel "Diario" di qualche settimana fa. Ma per coloro che non si trovano in questa situazione, diro' adesso molto brevemente chi sono queste persone a cui abbiamo dato il premio. Dunque, Ding Zilin e' una signora cinese, di Pechino; una signora, credo, di poco sotto i sessant'anni, Era assistente di filosofia all'Universita'; anche suo marito Jiang Peikun e' professore di filosofia. Avevano un figlio di 17 anni, Jiang Jelian. Questo figlio di 17 anni e' uscito di casa la sera del 3 giugno 1989 ed e' stato tra i primi ad essere ucciso, in quella che poi e' passata alla storia come "la notte del massacro della Tiananmen". Quindi e' stata una delle prime vittime della Tiananmen. Era il loro unico figlio. Pochi giorni dopo, Ding Zilin, con l'aiuto di suo marito, poi con quello - crescente - di altre persone, che hanno collaborato con lei, si e' dedicata a una attivita' lenta, difficile, molto faticosa - ora diro' anche perche' - di ricostruzione di vicende personali del massacro. Cerco di chiarire: il massacro della Tiananmen, malgrado tutto quello che se ne sa, che i media diffusero in presa diretta in tutto il mondo (molti di noi hanno anche visto, di recente, un bellissimo documentario televisivo di "Arte'" su tutta la storia dell'89 cinese), ufficialmente non c'e' mai stato, nel senso che il governo di Pechino lo ha negato, e continua a farlo. C'e' stato un momento, tre anni fa, in occasione di un viaggio di Jiang Zemin negli Stati Uniti, in cui pareva, per usare una terminologia cinese, che i leader di Pechino fossero pronti a "rivedere i verdetti". Ma e' stato solo un momento: non se ne e' fatto piu' niente. Quindi ancora oggi si sostiene da parte del governo che, a parte qualche scontro tra teppisti e militari, con alcuni morti (in prevalenza militari!), si e' trattato di poca cosa. Insomma, ripeto, il massacro viene negato. Gli opuscoli che io ho qui nelle mie mani contengono i primi risultati del lavoro di Ding Zilin, che e' stato invece quello di ristabilire la verita', ricostruendo vicende di singoli individui. Fino ad ora, Ding Zilin e' riuscita a ricostruire le vicende di 155 morti, uccisi nella notte del massacro o nei giorni immediatamente successivi. Il massacro non ha riguardato solo Pechino. Secondo le organizzazioni per i diritti umani ci sono stati morti in tante altre grandi citta' cinesi, e soprattutto i morti sono stati varie centinaia di sicuro, forse migliaia; e altre migliaia i feriti. Coloro che ancora portano nella loro carne, in quanto invalidi permanenti, mutilati, ecc. i segni di quella notte, o di quelle notti, sono tantissimi, sono migliaia. Pero', ripeto, ufficialmente non ci sono. La difficolta' di fronte alla quale si e' trovata Ding Zilin e' stata, intanto, rappresentata da rischi personali: per esempio, lei ha perso il suo posto di insegnante; per esempio ancora, lei era iscritta al Partito e invece la tessera le e' stata negata da un certo punto in poi con il pretesto (molto diffuso nei partiti comunisti, in tutta la loro storia dalla Terza Internazionale in poi) che non aveva rinnovato in tempo, quando era scaduta, la sua iscrizione. Di piu', siccome e' un personaggio dotato di grande prestigio personale e molto rispettato, non e' stata mai messa in prigione, a differenza della grande maggioranza dei dissidenti. E tuttavia basta che arrivi a Pechino un'alta personalita' straniera, per esempio statunitense, ma non solo, perche' - come altri dissidenti - lei e suo marito vengano immediatamente messi agli arresti domiciliari, in modo che sia loro impossibile incontrarla. Vengono poi periodicamente accusati delle cose piu' incredibili, per esempio di maneggiare troppi soldi rispetto al loro stipendio, perche' loro adesso raccolgono anche dei soldi che poi distribuiscono agli invalidi, alle famiglie delle vittime bisognose, alle famiglie che hanno perso l'unico congiunto che percepiva uno stipendio. Allora, sotto questa accusa di carattere amministrativo-finanziario, loro vengono periodicamente messi agli arresti domiciliari. La ragione per cui abbiamo qui un caro amico cinese che ritirera' il premio a loro nome, e non abbiamo con noi loro stessi in carne ed ossa, e' duplice: da un lato e' perche' in questo momento - e gia' da un lungo periodo - sono per l'appunto agli arresti domiciliari; secondariamente, perche' in ogni caso difficilmente avrebbero accettato di prendere un aereo per venire in Europa, essendo praticamente sicuri che non li avrebbero fatti ritornare. Un'altra difficolta' che vorrei sottoporre alla vostra attenzione e' questa: di fronte a un massacro eseguito dal potere, ma negato, e' difficile che io riesca a trovare una persona che sia disposta a parlare con me e a dirmi: "Si', io ho perso mio figlio quella notte, all'ora tale, nel luogo tale; ho saputo che un carro armato gli e' passato sopra; ho saputo che gli hanno sparato alle spalle ecc.". Ding e Jiang hanno dovuto quindi superare molte paure, molte difficolta' di questo tipo. In questo senso, io ho parlato di lei come di una "sacerdotessa della memoria" nella bozza delle motivazioni che avevo scritto. So che l'espressione non era piaciuta a Peter, e percio' avevo chiesto a Edi Rabini - ma vedo che non lo ha fatto - di sostituirla con "una Antigone": vedo in lei, cioe', piu' che una militante politica, un'Antigone. Nel senso che Ding intende appunto togliere dall'oblio tutte queste persone che sono morte, rendere loro un omaggio postumo, dare alla loro morte almeno un senso, ribellarsi contro il fatto che migliaia di famiglie non hanno avuto nemmeno la possibilita' di elaborare il lutto per i loro cari. Naturalmente, pur non essendo una militante dei diritti umani nel senso piu' preciso del termine, pero', attraverso quest'opera, attraverso l'organizzazione dei familiari, grazie ai contatti che ha successivamente instaurato, Ding Zilin ha finito per affermarsi, e qui vorrei usare proprio le parole del nostro amico Xiao in un'intervista, come "l'attivista per i diritti umani piu' attiva e rispettata in Cina per il lavoro implacabile e coraggioso che ha svolto negli ultimi dieci anni in circostanze estremamente difficili e ostili". Ecco, io non vorrei insistere ulteriormente a parlarvi di Ding Zilin o a leggervi suoi brani, molto belli. Ne leggerete alcune citazioni che abbiamo messo nelle motivazioni: "Ho scavalcato montagne di cadaveri, ho galleggiato sulle lacrime delle famiglie delle vittime...". Quello che mi interessava sottolineare e' che il premio Langer 1999 - mi limito qui a leggere le ultime righe delle motivazioni - "vuol rendere omaggio innanzitutto al rispetto della vita, un valore del quale Ding Zilin e Jiang Peikun si sono fatti testimoni coraggiosi e infaticabili, ma anche alla lotta per la democrazia, le liberta' civili e politiche, i diritti umani, in un contesto difficile come quello rappresentato, non tanto dalle culture asiatiche, quanto dai regimi politici che governano quella parte del mondo cosi' vasta e importante". * Se ho ancora qualche minuto, vorrei accennare qualche cosa di piu' su questo problema delle liberta', dei diritti umani. Voi ricorderete che quando c'era l'Unione Sovietica, c'era un grandissimo interesse per i suoi dissidenti: personaggi come Sakharov, Soljenitsyn, Zinoviev avevano una grandissima popolarita in Occidente. Questa popolarita' era duplice, nel senso che da un lato c'era un reale interesse verso di loro da parte di persone amanti della liberta', della democrazia, e quindi molto sensibili a tutto cio' che si potrebbe raccogliere in una rubrica sotto la voce "oppressione delle liberta', persecuzione delle liberta' individuali". Pero' c'era anche un qualcosa di politicamente utilitario - non entro nel merito, mi limito a constatare - che faceva si' che ci fosse strumentalmente, cioe' dal punto di vista del contribuire alla messa in crisi dell'impero sovietico, una grandissima attenzione nei confronti di questi dissidenti. Questa attenzione non si e' mai verificata per un dissidente cinese, se si vuole con una piccola eccezione, che e' quella costituita da un grande personaggio che si chiama Wei Jingsheng, che ormai credo la maggior parte di noi conosce. Il quale pero', per meritarsi questa fama relativamente maggiore rispetto a ogni altro protagonista del dissenso cinese, ha dovuto stare in carcere 18 anni (con un intervallo di sei mesi, in cui era stato liberato perche' Pechino in quel momento sperava di avere le Olimpiadi - poi non le ha avute e l'hanno rimesso in prigione con un'altra condanna nel giro di pochi minuti), soltanto per quelli che Amnesty chiama "reati d'opinione". E oltretutto scrivendo, come poi si e' saputo (ma non lo si e' saputo mentre era in carcere), delle stupende lettere, che sono pubblicate sia in inglese che in francese, in cui non con protervia, perche' lui tutto e' tranne un protervo, pero' con un incredibile coraggio da oppositore solitario e indomito, si rivolgeva ai piu' alti dirigenti del partito, a personaggi potentissimi come Deng Xiaoping, per dirgli: "Caro compagno, tu sei veramente in errore, stai sbagliando tutto su questo, su quello e quest'altro". Loro gli rispondevano tenendolo dentro, torturandolo, perseguitandolo, tenendolo in isolamento per lunghissimi periodi... Ecco: e' dovuto succedere qualcosa di cosi' orrendo, perche' un personaggio della dissidenza cinese diventasse noto anche al di fuori della Cina (e comunque mai quanto i Sakharov, i Soljenitsyn ecc.). * Non solo, negli ultimi anni, come un pochino accennava anche Peter prima, il dibattito si e' allargato. In molti paesi asiatici, riprendendo e facendo proprie in qualche modo anche alcune tesi nate in Occidente, soprattutto fra antropologi (tesi anche importanti e interessanti sul problema del rapporto tra individuo e collettivo nelle culture orientali), e' venuta avanti l'idea di una non-universalita' dei diritti umani, e soprattutto di una loro non-validita' per il mondo asiatico. (Attenzione, mi accorgo di essere caduto anch'io nel trabocchetto delle "culture orientali" e del "mondo asiatico". Noi parliamo sempre di Asia, Oriente, ecc. senza tener presente che non esiste l'Asia, non esiste un Oriente; che gli stessi termini geografici che noi usiamo, del tipo "Vicino Oriente" o "Estremo Oriente", sono termini nostri, che rapportano sempre a noi popolazioni e culture diverse. Si e' "estremo-orientali" rispetto a noi, ma un giapponese non direbbe mai di se stesso "sono un estremo-orientale"! E comunque, esistono tanti orienti, tante Asie, tante culture asiatiche. L'Europa ha una comunanza decisamente maggiore rispetto all'Asia, se non altro per diversita' di dimensioni. E tuttavia, noi stessi ci sentiamo diversi dagli spagnoli o dagli scozzesi. Tutt'al piu', in un luogo come quello in cui ci troviamo oggi, possiamo sentirci bilinguemente italo-tedeschi...). Ma torniamo a noi. In Asia, negli ultimi decenni, e' emerso un discorso che gli studiosi definiscono variamente come "asiatismo", discorso sui valori asiatici, ecc., che ha i suoi leader nei dirigenti cinesi innanzitutto, ma anche, per esempio, in personaggi come il primo ministro malese Mahathir e in altri dirigenti dell'Asia sudorientale. Nei fatti, questi personaggi usano l'idea di una "alterita'" delle culture asiatiche per giustificare regimi dittatoriali e in alcuni casi, come in Birmania-Myanmar, le peggiori violazioni dei diritti umani. Un discorso serio su questi temi sarebbe troppo lungo e complesso per poterlo io anche solo avviare qui: pero' vorrei fare almeno una osservazione. Quando noi diciamo che bisogna rispettare le altre culture facciamo un'affermazione ovvia. Ma se spingiamo questa affermazione fino alle sue estreme conseguenze possiamo arrivare ad assurdita' come il giustificare, per esempio, la peggiore oppressione della donna, semplicemente perche' inserita in un "diverso" contesto culturale. Se malinteso, il "rispetto delle altre culture" porta ad astenersi dal giudizio, a rinunciare a se stessi e ai propri valori (spesso si tratta dell'ultima versione di un senso di colpa post-coloniale, dell'ultimo vestito del "buon selvaggio", dell'ultima versione di un terzomondismo sentimentale). Che questo sia sbagliato, a me pare certo, in particolare laddove comporta l'accettazione della violenza, specie di quella fisica. Ma cio' che a me interessa soprattutto sottolineare e' che spessissimo sono gli stessi rappresentanti di altre culture a rifiutare questo concetto di alterita'. Cosi', per esempio, uno dei grandi protagonisti dell'Asia contemporanea, e cioe' la leader democratica e nonviolenta della Birmania, Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, nel 1994 ha scritto non a caso un articolo intitolato: "La cultura della democrazia e dei diritti umani e' universale". Aung San Suu Kyi non e' un'intellettuale eurocentrica: e' birmana, e' asiatica. A sua volta, Fang Lizhi, il fisico cinese esule dall'89, ha scritto che "se il movimento di Tiananmen ha provato qualcosa e' che il popolo cinese vuole la stessa liberta' di chiunque altro. I cinesi non hanno un sistema di valori diverso dal resto del mondo". In Corea, il vecchio dissidente, poi capo dell'opposizione di sinistra e poi ancora, per qualche tempo, del governo, e cioe' Kim Dae Jung, rifiuta decisamente il mito dei valori antidemocratici dell'Asia. Perfino dal mondo musulmano emergono molte voci in favore della democrazia e dei diritti umani. C'e' un libro tradotto anche in italiano, che io consiglio molto, di due scrittori egiziani che si firmano con lo pseudonimo di Mahmoud Hussein: s'intitola Versante sud della liberta', e contiene una protesta molto vibrata contro quegli intellettuali del Terzo mondo, ma anche o piu' ancora occidentali, di destra e di sinistra, che vedono nella democrazia e nei diritti umani e civili per i paesi dell'Asia e dell'Africa un lusso, o che condannano quei popoli - noi condanniamo quei popoli - a una sorta di immutabile vocazione a dittature, autoritarismi, violenze e assenza di liberta'. Gia' nella prima parte del libro ci si interroga con queste parole: "La democrazia inventata in Occidente e' forse un suo privilegio esclusivo? Le altre societa' sono forse per natura inadatte alla liberta'?". Va da se' che la risposta, sia in questo libro, come in tante altre prese di posizione di asiatici e di africani, e' negativa. Dico questo perche' negli ultimi tempi, prendendo a pretesto la complessita' di queste problematiche, il rispetto delle culture tende a trasformarsi in rispetto di governi antidemocratici. E questo mi pare grave e preoccupante. * Ancora due cose brevemente, questa volta sull'Italia. In Italia ci sono vari modi di far passare sotto silenzio o negare (c'e' una sorta di negazionismo anche su questo) il dissenso in Cina e in generale nei paesi asiatici. Ma in Cina soprattutto. Una volta, un diplomatico italiano - peraltro molto intelligente - con cui avevo avuto occasione di parlare di questi temi, mi racconto' un aneddoto riferito a Andreotti. Pare che Andreotti, allora ministro degli esteri, una volta abbia spiegato che esiste un solo modo di trattare con i cinesi, ed e' di "parlare all'orecchio". Voleva dire: mai chiedere delle cose in maniera esplicita, minacciare, mettere sullo stesso piano diritti umani e rapporti commerciali, perche' per l'appunto la Cina e' molto importante, e lo sappiamo, da un punto di vista commerciale, geostrategico, geopolitico ecc. Si possono ottenere dei risultati solo parlando all'orecchio. Se c'e' qualcosa da chiedere, alla prima occasione lo si fa, pero' insomma senza che lo si sappia in giro; un po' come quando Darwin fece una conferenza svelando per la prima volta che noi discendiamo dalle scimmie, e una signora uscendo, un po' stravolta, disse al marito: "Speriamo che non lo si sappia in giro". Andreotti avrebbe aggiunto, secondo quanto mi venne riferito: "Lei non sa quanti vescovi siamo riusciti a tirar fuori di galera!". Sembrerebbe dunque che il metodo funzioni con i vescovi. Verrebbe pero' fatto di osservare che in Cina ci sono ancora non pochi vescovi in galera, e che comunque i vescovi sono un gruppo relativamente piccolo, mentre la repressione politica riguarda numeri assai piu' elevati. Una seconda osservazione mi e' suggerita da una lettura fatta invece soltanto ieri sera. Nel penultimo numero di "Limes" c'e' un articolo di un autorevole collaboratore sulla regione autonoma cinese dello Xinjiang, che in maniera meno nota che non per il Tibet, e' pero' anch'essa una regione in cui ci sono conflitti etnico-cultural-religiosi molto forti, perche' e' un'altra di quelle regioni che sono state assoggettate dai cinesi e fatte oggetto di una sinizzazione molto violenta. Regione, peraltro, di grande importanza strategica, per risorse minerarie e industriali, perche' confina con il territorio dell'ex Urss, perche' e' molto vasta e poi anche perche' i cinesi ci fanno brillare le loro atomiche, fanno la' i loro esperimenti nucleari. Perche' vi cito questa cosa? Perche' a un certo punto mentre leggevo questo articolo ho fatto un salto: "Nessuno in Occidente parla dello Xinjiang. In generale le minoranze etniche della Cina vengono trascurate perche' in Occidente c'e' solo una grande attenzione per i dissidenti cinesi che sono quattro gatti". Testuale. Cioe' questo tale sosteneva che i dissidenti sono "quattro gatti" e poi andava avanti e diceva ancora: i dissidenti cinesi non solo sono quattro gatti, ma non hanno mai rinnegato il comunismo e cioe' non hanno mai fatto una critica completa di cio' che li ha massacrati. Tende anche a dire, l'autorevole collaboratore, che sulla Tiananmen massacro non c'e' stato, e' tutta una cosa pubblicitaria... E infine aggiunge: e nessuno di loro - i dissidenti - ha mai preso posizione a favore di queste popolazioni, per intenderci tibetani, abitanti dello Xinjiang, della Mongolia interna, ecc. che sono perseguitate dal governo centrale. Ora questa cosa e' vergognosa. Che su una rivista come "Limes", la rivista dell'establishment geopolitico italiano, possa uscire un articolo che dice cose di questo genere e' assolutamente indecoroso. Perche', se non altro, la piu' bella, la piu' straordinaria delle lettere coraggiosissime che dal fondo di una prigione Wei Jingsheng scriveva a Deng Xiaoping, nell'ottobre del 1992, e' una lettera di dieci pagine sul Tibet. Nella quale questo poveretto che stava in prigione, che non aveva libri, che aveva soltanto la sua memoria, ma che non era ne' uno storico ne' un intellettuale, era pero' in grado di spiegare a Deng Xiaoping tutti gli errori che stava facendo nella gestione della questione Tibet. E di spiegargli, per esempio, una cosa che tutti gli intellettuali del regime invece cercavano di occultare, e cioe' che i rapporti storici, tradizionali tra Tibet e Cina erano dei rapporti "fluidi", non erano dei rapporti di sovranita' e di dominio insomma. Erano dei rapporti tra due pari, in cui in alcuni momenti prevaleva l'uno e in altri l'altro. Quello che voglio dire e' che, contrariamente a quello che ho visto scritto in questo paludato articolo, esiste un rapporto tra tutti coloro che si battono per il problema delle liberta', della democrazia e dei diritti umani in Cina e coloro che si battono per il riconoscimento di maggiori diritti in regioni che hanno subito e che subiscono una oppressione da parte dei cinesi Han, come appunto il Tibet, lo Xinjiang ecc. A volte, insomma, quando si parla di questi temi (in buona sostanza, quando si parla delle liberta' per chi ne e' privo, di qualsiasi parte del mondo si tratti), non ci si scontra solo con vari tipi di opportunismo, versioni serie o caricaturali di Realpolitik, interessi economici, preoccupazioni militari, ecc., ma anche con una desolante disinformazione. Disinformazione e negazionismo vanno sempre a braccetto. E questa e' stata, ed e', un'altra buona ragione per rendere omaggio alla coraggiosa impresa di Ding Zilin e di suo marito Jiang Peikun. E per premiarli. Grazie. 5. RILETTURE. SHULAMITH FIRESTONE: LA DIALETTICA DEI SESSI Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi, Guaraldi, Firenze-Rimini 1971, 1976, pp. 250. Un libro la cui riproposizione nella riflessione odierna ci sembrerebbe assai opportuna. 6. RILETTURE. GERMAINE GREER: L'EUNUCO FEMMINA Germaine Greer, L'eunuco femmina, Bompiani, Milano 1972, 1979, pp. XXIV + 380. Un libro la cui riproposizione nella riflessione odierna ci sembrerebbe assai opportuna. 7. RILETTURE. KATE MILLETT: LA POLITICA DEL SESSO Kate Millett, La politica del sesso, Rizzoli, Milano 1971, pp. 544. Un libro la cui riproposizione nella riflessione odierna ci sembrerebbe assai opportuna. 8. RILETTURE. JULIET MITCHELL: PSICOANALISI E FEMMINISMO Juliet Mitchell, Psicoanalisi e femminismo, Einaudi, Torino 1976, pp. XVIII + 524. Un libro la cui riproposizione nella riflessione odierna ci sembrerebbe assai opportuna. 9. RILETTURE. SHEILA ROWBOTHAM: DONNE, RESISTENZA E RIVOLUZIONE Sheila Rowbotham, Donne, resistenza e rivoluzione, Einaudi, Torino 1976, 1977, pp. VIII + 336. Un libro la cui riproposizione nella riflessione odierna ci sembrerebbe assai opportuna. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 19 del 7 luglio 2005
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