La nonviolenza e' in cammino. 979



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 979 del 2 luglio 2005

Sommario di questo numero:
1. Martin Luther King: Io ho un sogno
2. Benedetta Mincarini e Alberto Ostini intervistano Khalida Messaoudi
3. Farid Adly: Un anno dopo
4. Alessandro De Giorgi presenta "Da rifugiati a cittadini" di Aihwa Ong
5. Con "Qualevita", la lezione di Alexander Langer
6. Riletture: Juergen Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica
7. Riletture: Hermann Hesse, Se la guerra continua
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. MAESTRI. MARTIN LUTHER KING: IO HO UN SOGNO
[Ringraziamo Fulvio Cesare Manara (per contatti: philosophe0 at tin.it) per
averci messo a disposizione l'antologia di scritti e discorsi di Martin
Luther King da lui curata, Memoria di un volto: Martin Luther King,
Dipartimento per l'educazione alla nonviolenza delle Acli di Bergamo,
Bergamo 2002, che reca traduzioni di discorsi e scritti del grande maestro
della nonviolenza. Il testo seguente e' quello dell'indimenticabile discorso
tenuto alla marcia a Washington per l'occupazione e la liberta', Washington,
28 agosto 1963; la traduzione (di Tania Gargiulo) e' ripresa da Martin
Luther King, "I have a dream", Mondadori, Milano 2000, 2001, pp. 226-230.
Cosi' Martin Luther King descrisse la circostanza: "Cominciai a parlare
leggendo il mio discorso, e fino a un certo punto continuai a leggere. Quel
giorno sentivo nell'uditorio una rispondenza straordinaria, e tutt'a un
tratto mi venne in mente questa cosa. Nel giugno precedente, dopo essermi
unito a un tranquillo raduno di migliaia di persone nelle strade del centro
di Detroit, nel Michigan, avevo tenuto un discorso nella Cobo Hall, in cui
mi ero servito dell'espressione 'io ho un sogno'. L'avevo gia' usata piu'
volte nel passato, e semplicemente mi venne fatto di usarla anche a
Washington. Non so perche': prima di pronunciare il discorso non ci avevo
pensato affatto. Dissi la frase, e da quel momento in poi lasciai del tutto
da parte il manoscritto e non lo ripresi piu'".
Martin Luther King, nato ad Atlanta in Georgia nel 1929, laureatosi
all'Universita' di Boston nel 1954 con una tesi sul teologo Paul Tillich, lo
stesso anno si stabilisce, come pastore battista, a Montgomery nell'Alabama.
Dal 1955 (il primo dicembre accade la vicenda di Rosa Parks) guida la lotta
nonviolenta contro la discriminazione razziale, intervenendo in varie parti
degli Usa. Premio Nobel per la pace nel 1964, piu' volte oggetto di
attentati e repressione, muore assassinato nel 1968. Opere di Martin Luther
King: tra i testi piu' noti: La forza di amare, Sei, Torino 1967, 1994
(edizione italiana curata da Ernesto Balducci); Lettera dal carcere di
Birmingham - Pellegrinaggio alla nonviolenza, Movimento Nonviolento, Verona
1993; L'"altro" Martin Luther King, Claudiana, Torino 1993 (antologia a cura
di Paolo Naso); "I have a dream", Mondadori, Milano 2001; cfr. anche: Marcia
verso la liberta', Ando', Palermo 1968; Lettera dal carcere, La Locusta,
Vicenza 1968; Il fronte della coscienza, Sei, Torino 1968; Perche' non
possiamo aspettare, Ando', Palermo 1970; Dove stiamo andando, verso il caos
o la comunita'?, Sei, Torino 1970. Presso la University of California Press,
e' in via di pubblicazione l'intera raccolta degli scritti di Martin Luther
King, a cura di Clayborne Carson (che lavora alla Stanford University). Sono
usciti sinora cinque volumi (di quattordici previsti): 1. Called to Serve
(January 1929 - June 1951); 2. Rediscovering Precious Values (July 1951 -
November 1955); 3. Birth of a New Age (December 1955 - December 1956); 4.
Symbol of the Movement (January 1957 - December 1958); 5. Threshold of a New
Decade (January 1959 - December 1960); ulteriori informazioni nel sito:
www.stanford.edu/group/King/ Opere su Martin Luther King: Arnulf Zitelmann,
Non mi piegherete. Vita di Martin Luther King, Feltrinelli, Milano 1996;
Sandra Cavallucci, Martin Luther King, Mondadori, Milano 2004. Esistono
altri testi in italiano (ad esempio Hubert Gerbeau, Martin Luther King,
Cittadella, Assisi 1973), ma quelli a nostra conoscenza sono perlopiu' di
non particolare valore: sarebbe invece assai necessario uno studio critico
approfondito della figura, della riflessione e dell'azione di Martin Luther
King (anche contestualizzandole e confrontandole con altre contemporanee
personalita', riflessioni ed esperienze di resistenza antirazzista in
America). Una introduzione sintetica e' in "Azione nonviolenta" dell'aprile
1998 (alle pp. 3-9), con una buona bibliografia essenziale]

Oggi sono felice di essere con voi in quella che nella storia sara'
ricordata come la piu' grande manifestazione per la liberta' nella storia
del nostro paese.
Un secolo fa, un grande americano, che oggi getta su di noi la sua ombra
simbolica, firmo' il Proclama dell'emancipazione. Si trattava di una legge
epocale, che accese un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri,
marchiati dal fuoco di una bruciante ingiustizia. Il proclama giunse come
un'aurora di gioia, che metteva fine alla lunga notte della loro cattivita'.
Ma oggi, e sono passati cento anni, i neri non sono ancora liberi. Sono
passati cento anni, e la vita dei neri e' ancora paralizzata dalle pastoie
della segregazione e dalle catene della discriminazione. Sono passati cento
anni, e i neri vivono in un'isola solitaria di poverta', in mezzo a un
immenso oceano di benessere materiale. Sono passati cento anni, e i neri
ancora languiscono negli angoli della societa' americana, si ritrovano esuli
nella propria terra.
Quindi oggi siamo venuti qui per tratteggiare a tinte forti una situazione
vergognosa. In un certo senso, siamo venuti nella capitale del nostro paese
per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica
hanno scritto le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione
d'indipendenza, hanno firmato un "paghero'" di cui ciascun americano era
destinato a ereditare la titolarita'. Il "paghero'" conteneva la promessa
che a tutti gli uomini, si', ai neri come ai bianchi, sarebbero stati
garantiti questi diritti inalienabili: "vita, liberta' e ricerca della
felicita'".
Oggi appare evidente che per quanto riguarda i cittadini americani di
colore, l'America ha mancato di onorare il suo impegno debitorio. Invece di
adempiere a questo sacro dovere, l'America ha dato al popolo nero un assegno
a vuoto, un assegno che e' tornato indietro, con la scritta "copertura
insufficiente". Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia
sia in fallimento. Ci rifiutiamo di credere che nei grandi caveau di
opportunita' di questo paese non vi siano fondi sufficienti. E quindi siamo
venuti a incassarlo, questo assegno, l'assegno che offre, a chi le richiede,
la ricchezza della liberta' e la garanzia della giustizia.
Siamo venuti in questo luogo consacrato anche per ricordare all'America
l'infuocata urgenza dell'oggi. Quest'ora non e' fatta per abbandonarsi al
lusso di prendersela calma o di assumere la droga tranquillante del
gradualismo. Adesso ' il momento di tradurre in realta' le promesse della
democrazia. Adesso e' il momento di risollevarci dalla valle buia e desolata
della segregazione fino al sentiero soleggiato della giustizia razziale.
Adesso e' il momento di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili
dell'ingiustizia razziale per collocarla sulla roccia compatta della
fraternita'. Adesso e' il momento di tradurre la giustizia in una realta'
per tutti i figli di Dio.
Se la nazione non cogliesse l'urgenza del presente, le conseguenze sarebbero
funeste. L'afosa estate della legittima insoddisfazione dei negri non
finira' finche' non saremo entrati nel frizzante autunno della liberta' e
dell'uguaglianza. Il 1963 non e' una fine, e' un principio. Se la nazione
tornera' all'ordinaria amministrazione come se niente fosse accaduto, chi
sperava che i neri avessero solo bisogno di sfogarsi un po' e poi se ne
sarebbero rimasti tranquilli rischia di avere una brutta sorpresa.
In America non ci sara' ne' riposo ne' pace finche' i neri non vedranno
garantiti i loro diritti di cittadinanza. I turbini della rivolta
continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finche' non
spuntera' il giorno luminoso della giustizia.
*
Ma c'e' qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa,
alle porte del palazzo della giustizia: durante il processo che ci portera'
a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti.
Non cerchiamo di placare la sete di liberta' bevendo alla coppa del rancore
e dell'odio. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di
dignita' e disciplina. Non dobbiamo permettere che la nostra protesta
creativa degeneri in violenza fisica. Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo
innalzarci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s'incontra con la
forza dell'anima.
Il nuovo e meraviglioso clima di combattivita' di cui oggi e' impregnata
l'intera comunita' nera non deve indurci a diffidare di tutti i bianchi,
perche' molti nostri fratelli bianchi, come attesta oggi la loro presenza
qui, hanno capito che il loro destino e' legato al nostro. Hanno capito che
la loro liberta' si lega con un nodo inestricabile alla nostra. Non possiamo
camminare da soli. E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci con un
giuramento: di proseguire sempre avanti. Non possiamo voltarci indietro.
C'e' chi domanda ai seguaci dei diritti civili: "Quando sarete
soddisfatti?". Non potremo mai  essere soddisfatti, finche' i neri
continueranno a subire gli indescrivibili orrori della brutalita'
poliziesca. Non potremo mai  essere soddisfatti, finche' non riusciremo a
trovare alloggio nei motel delle autostrade e negli alberghi delle citta',
per dare riposo al nostro corpo affaticato dal viaggio. Non potremo mai
essere soddisfatti, finche' tutta la facolta' di movimento dei neri restera'
limitata alla possibilita' di trasferirsi da un piccolo ghetto a uno piu'
grande. Non potremo mai essere soddisfatti, finche' i nostri figli
continueranno a essere spogliati dell'identita' e derubati della dignita'
dai cartelli su cui sta scritto "Riservato ai bianchi". Non potremo mai
essere soddisfatti, finche' i neri del Mississippi non potranno votare e i
neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare. No, no, non
siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finche' la giustizia non
scorrera' come l'acqua, e la rettitudine come un fiume in piena.
Io non dimentico che alcuni fra voi sono venuti qui dopo grandi prove e
tribolazioni. Alcuni di voi hanno lasciato da poco anguste celle di
prigione. Alcuni di voi sono venuti da zone dove ricercando la liberta' sono
stati colpiti dalle tempeste della persecuzione e travolti dai venti della
brutalita' poliziesca. Siete i reduci della sofferenza creativa. Continuate
il vostro lavoro, nella fede che la sofferenza immeritata ha per frutto la
redenzione.
Tornate nel Mississippi, tornate nell'Alabama, tornate nella Carolina del
Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana, tornate alle baraccopoli e ai
ghetti delle nostre citta' del Nord, sapendo che in qualche modo questa
situazione puo' cambiare e cambiera'.
*
Non indugiamo nella valle della disperazione. Oggi, amici miei, vi dico:
anche se dobbiamo affrontare le difficolta' di oggi e di domani, io continuo
ad avere un sogno. E un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.
Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgera' e vivra' il significato
vero del suo credo: noi riteniamo queste verita' evidenti di per se', che
tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli
ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme
alla tavola della fraternita'.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce
il caldo afoso dell'ingiustizia, il caldo afoso dell'oppressione, si
trasformera' in un'oasi di liberta' e di giustizia.
Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in
cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l'essenza della
loro personalita'.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno, laggiu' nell'Alabama, dove i razzisti sono piu'
che mai accaniti, dove il governatore non parla d'altro che di potere di
compromesso interlocutorio e di nullification delle leggi federali, un
giorno, proprio la' nell'Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno
prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e
sorelle.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sara' innalzata, ogni monte e ogni
collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi
tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sara' rivelata, e
tutte le creature la vedranno insieme.
Questa e' la nostra speranza. Questa e' la fede che portero' con me
tornan­do nel Sud. Con questa fede potremo cavare dalla montagna della
disperazione una pietra di speranza.
Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordanze della nostra
nazione in una bellissima sinfonia di fraternita'.
Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme,
andare in prigione insieme, schierarci insieme per la liberta', sapendo che
un giorno saremo liberi.
Quel giorno verra', quel giorno verra' quando tutti i figli di Dio potranno
cantare con un significato nuovo: "Patria mia, e' di te, dolce terra di
liberta', e' di te che io canto. Terra dove sono morti i miei padri, terra
dell'orgoglio dei Pellegrini, da ogni vetta riecheggi liberta'". E se
l'America vuol essere una grande nazione, bisogna che questo diventi vero.
E dunque, che la liberta' riecheggi dalle straordinarie colline del New
Hampshire.
Che la liberta' riecheggi dalle possenti montagne di New York.
Che la liberta' riecheggi dagli elevati Allegheny della Pennsylvania.
Che la liberta' riecheggi dalle innevate Montagne Rocciose del Colorado.
Che la liberta' riecheggi dai pendii sinuosi della California.
Ma non soltanto.
Che la liberta' riecheggi dalla Stone Mountain della Georgia.
Che la liberta' riecheggi dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Che la liberta' riecheggi da ogni collina e da ogni formicaio del
Mississippi, da ogni vetta, che riecheggi la liberta'.
E quando questo avverra', quando faremo riecheggiare la liberta', quando la
lasceremo riecheggiare da ogni villaggio e da ogni paese, da ogni stato e da
ogni citta', saremo riusciti ad avvicinare quel giorno in cui tutti i figli
di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno
prendersi per mano e cantare le parole dell'antico inno: "Liberi finalmente,
liberi finalmente. Grazie a Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".

2. TESTIMONIANZE. BENEDETTA MINCARINI E ALBERTO OSTINI INTERVISTANO KHALIDA
MESSAOUDI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 agosto 2004.
Benedetta Mincarini e' redattrice internet, studiosa di letterature e
culture comparate.
Alberto Ostini e' apprezzato sceneggiatore di fumetti, saggista, docente
universitario. Tra le opere saggistiche di Alberto Ostini: (con Giovanni
Garbellini), Eroi di inchiostro, Euresis Edizioni, 1996; Dylan Dog. Indocili
sentimenti, arcane paure, Euresis Edizioni, 1998.
Khalida Messaoudi, protagonista del movimento delle donne e per la
democrazia in Algeria, condannata a morte dal terrorismo islamista e
costretta a vivere nel suo paese in semiclandestinita'; per il suo impegno
nel 1997 ha ricevuto il premio internazionale "Alexander Langer";
parlamentare e ministra della cultura. Opere di Khalida Messaoudi: (con
Elisabeth Shemla), Una donna in piedi, Mondadori, Milano 1996; Con gli occhi
della parola, Edizioni Lavoro, Roma]

Khalida Toumi Messaoudi e' una donna che viene dall'Algeria. E' cresciuta in
un paese che aveva conosciuto da poco l'indipendenza dalla Francia,
respirando l'aria elettrizzante dei primi anni della decolonizzazione, ma ha
conosciuto anche il clima stagnante seguito alla crisi e all'implosione dei
movimenti di liberazione nazionale. Come molte donne della sua generazione
ha partecipato da sempre alla vita pubblica algerina. Laureata alla Scuola
Normale Superiore di Algeri, e' stata tra i fondatori, nel 1985, della Lega
algerina per i diritti umani in polemica con il regime del Fronte nazionale
di liberazione, sicuramente modernizzatore della societa', ma poco attento
ai temi delle liberta' civili e di parola. La vittoria del "Fronte islamico
di salvezza" (Fis) nelle elezioni del 1991 terremota pero' la societa'
algerina e Khalida Messaoudi prende piu' volte posizione contro il tentativo
di "islamizzare" l'Algeria. Per i suoi interventi, sara' condannata a morte
dai fondamentalisti e subira' due attentati. Con l'elezione di Abdelaziz
Bouteflika a presidente della repubblica, l'Algeria sta conoscendo un
periodo difficile. Dopo quasi un decennio di guerra civile, il paese sembra
a un punto di svolta, dove le istanze di una democrazia reale sembrano avere
molto ascolto nel personale politico uscito vittorioso dalle ultime tornate
elettorali. E non e' un caso che Khalida Toumi Messaoudi sia stata chiamata
a dirigere il ministero della cultura. La sua attivita' politica si e'
comunque alternata con l'attivita' saggistica caratterizzata da un punto di
vista particolare, quello di una donna che denuncia la convergenza
dell'integralismo e dei "modernizzatori" nel relegare in una posizione di
subalternita' le donne.
Recentemente Khalida Messaoudi e' stata in Italia per ricevere a Gemona del
Friuli il "XV Gamajun International Award", nell'ambito dei lavori del
Laboratorio Internazionale della comunicazione, dedicato quest'anno alla
figura della donna.
In occasione del suo incontro con oltre cento giovani studiosi provenienti
da trentasei diverse nazioni che partecipano ogni anno al Laboratorio, nato
dall'intesa tra la Cattolica di Milano e l'Universita' di Udine, l'abbiamo
incontrata.
*
- Benedetta Mincarini e Alberto Ostini: Lei ha vissuto i momenti piu' bui
della recente storia algerina. Possiamo ripercorre brevemente con lei questi
anni?
- Khalida Messaoudi: Alla fine degli anni Ottanta, il partito piu' forte era
quello integralista islamico, esattamente come il partito nazionalsocialista
in Germania negli anni Trenta. Nel 1991 ci sono state le elezione, che sono
state infatti vinte dal "Fronte Islamico di Salvezza". Ma il Fis che ha
vinto le elezioni nel '91 faceva parte di quella galassia "islamista" che
riceveva denaro dalla Cia e che era addestrata militarmente dagli americani
in Sudan, Libano, Afghanistan. In Dollari per il terrore il giornalista
Richard Labeviere ha seguito le tracce del denaro che arrivava da paesi
ricchi per finanziare il terrorismo fondamentalista. Ha scoperto che i conti
bancari a cui attingevano i gruppi fondamentalisti si trovavano in paesi
come Svizzera, Inghilterra, Stati Uniti, Arabia Saudita, non certo in paesi
come l'Algeria. In quell'epoca, il problema principale per la della Cia non
era Bin Laden - che era lui stesso nel libro paga del servizio segreto
statunitense - ma l'Unione Sovietica e gli interessi petroliferi nella zona
dell'Asia Centrale.
Con la vittoria del Fis - una vittoria "democratica" come quella del partito
nazionalsocialista in Germania - i movimenti democratici e femministi,
proprio sulla scorta dell'esperienza storica hitleriana, si sono chiesti
"che fare?". Rispettare la democrazia formale e accettare che un partito
fascista prendesse il potere, pur sapendo che cosa avrebbe fatto visto che
il suo programma era chiarissimo?
Il Fis aveva detto: siamo pronti a ripulire l'Algeria da tre milioni di
persone "impure", vale a dire donne, poeti, intellettuali... Il nostro
problema era dunque: lasciar fare questi nazisti algerini, oppure non
rispettare la democrazia formale e scioccare il mondo occidentale per
fermare il massacro? Abbiamo scelto la seconda soluzione.
Abbiamo fatto quindi la scelta di arrestare un processo di fascistizzazione
teocratica per mettere al suo posto una democrazia nella cui Costituzione ci
siano dei paletti. Una Costituzione in cui e' si' prevista una grande
liberta', ma che proibisce di svolgere una campagna elettorale minacciando
le liberta fondamentali e i diritti dell'uomo.
*
- Benedetta Mincarini e Alberto Ostini: Quali sono i pilastri su cui poggia
il "nuovo corso" algerino?
- Khalida Messaoudi: La democrazia si regge innanzitutto sulla riforma del
sistema giudiziario e di quello educativo, perche' la scuola e' il luogo
dell'integrazione repubblicana. E' la scuola che prepara i cittadini alla
democrazia e non alla dittatura. Inoltre la democrazia algerina, grazie alla
revisione della legge elettorale, impedisce di fare brogli. E' un processo
contraddittorio e le resistenza a una democratizzazione della societa'
algerina e' molto forte. E tuttavia mi sembra un processo difficile da
arrestare. Faccio un esempio: mercoledi' 18 agosto, dopo sette ore
discussione, il governo ha promosso un progetto che rappresentera' una vera
rivoluzione per le donne algerine. Si tratta della revisione del "Codice di
famiglia", che per vent'anni ha confinato la donna in un ruolo di "minore a
vita", completamente sottomessa al volere maschile. D'ora in poi la parita'
fra i sessi e' stabilita per legge. Il matrimonio diventa infatti un
contratto paritario. Le donne potranno sposarsi liberamente al
raggiungimento del diciannovesimo anno di eta', facendo prevalere le proprie
ragioni, dalla propria volonta' di continuare gli studi a quella di
lavorare, fino al rifiuto della poligamia. In caso di divorzio, poi, la
tutela dei figli potra' essere affidata alla madre e il padre dovra'
provvedere al loro mantenimento. Per le donne algerine questa riforma
rappresenta una svolta impensabile solo fino a qualche anno fa. Ma non
dimentichiamo che ci sono voluti vent'anni di mobilitazione per giungere a
questo risultato.
*
- Benedetta Mincarini e Alberto Ostini: Durante questi vent'anni lei e'
stata costretta a vivere a lungo in stato di semiclandestinita' a causa
della condanna a morte pronunciata contro di lei dai fondamentalisti
islamici, sfuggendo anche a due attentati. Non ha mai pensato di abbandonare
l'Algeria?
- Khalida Messaoudi: No. Ho due fratelli che vivono all'estero. Entrambi,
dopo le minacce di morte da parte dei fondamentalisti, mi ripetevano i loro
inviti a raggiungerli. Ma per me era impossibile abbandonare Algeri.
Naturalmente avevo paura di essere uccisa. Ma, come dicevo ai miei fratelli,
preferivo il sentimento della paura a quello della vergogna: la vergogna che
avrei visto negli occhi di mia madre e delle compagne che erano con me.
Posso capire che un artista o un intellettuale parta, ma sono cresciuta
ascoltando e parlando con le donne che hanno combattuto per la liberazione
dell'Algeria dal colonialismo, quelle donne che Gillo Pontecorvo ritrae
splendidamente ne La battaglia di Algeri. No, non ho mai pensato di lasciare
il mio paese. La storia moderna degli algerini e' la storia di una
colonizzazione e della liberazione dalla colonizzazione. Per me rimanere e'
stata una scelta etica, di continuita' con quella storia di liberazione
dalla colonizzazione.
*
- Benedetta Mincarini e Alberto Ostini: Un colonialismo che assume oggi
forme diverse, ma certo non e' scomparso. Pensiamo all'Iraq, ma non solo...
- Khalida Messaoudi: Io, da algerina, non posso nemmeno lontanamente
accettare che L'Iraq venga colonizzato, cosi' come non posso sopportare che
i palestinesi vengano trattati cosi' come sono trattati oggi. Non perche'
sono arabi come me, no. Ma perche' io non posso piu' accettare alcuna forma
di colonizzazione. Cio' che sta avvenendo in Iraq e' un tentativo di
colonizzazione tra i piu' scandalosi che si siano mai visti e che avviene
con una grande parte di responsabilita' della comunita' internazionale. Ma
il popolo iracheno si liberera'. Oggi, domani, dopodomani, tra vent'anni...
ma succedera'. Il mio popolo e' stato colonizzato per centotrentadue anni,
ma alla fine si e' liberato. I francesi erano convinti che sarebbero rimasti
per l'eternita'. Bene, se ne sono andati. Sara' lo stesso per l'Iraq.
*
- Benedetta Mincarini e Alberto Ostini: Quello dei rapporti tra Islam e
terrorismo e' un terreno delicato e cruciale. Lei, musulmana e insieme nel
mirino degli integralisti islamici, come vive quella che appare come una
semplicistica sovrapposizione?
- Khalida Messaoudi: Durante gli incontri di questi giorni ho spesso detto
ai giovani che partecipano al laboratorio di venire ad Algeri a conoscere i
giovani algerini, che parlano come loro, che ricavano le loro informazioni
attraverso internet, che ascoltano piu' o meno la stessa musica. I giovani
musulmani hanno gli stessi sogni dei giovani di tutto il mondo: di essere
informati, di viaggiare, di incontrarsi. Di vivere una vita felice.
Naturalmente c'e' una differenza: sono musulmani, di religione e di cultura.
Vorrei pero' precisare che il fondamentalismo non e' esclusivamente
musulmano: c'e' quello cristiano, ebraico, indu'. Per quanto riguarda
l'Algeria e il mondo arabo bisogna pero' parlare di integralismo islamista e
non islamico.
La differenza e' sostanziale: un musulmano e' una persona come me e voi,
solo di cultura e religione islamica. Viceversa, un militante
fondamentalista e' un militante politico. Ripeto: ne' culturale, ne'
religioso, bensi' politico con una strategia e degli obiettivi
esclusivamente politici, uno che utilizza l'Islam come una giustificazione
per un progetto politico. Faccio un esempio: un fondamentalista dice che e'
proibita la convivenza tra uomo e donna. Ma qual e' la vera ragione politica
di cio'? Un integralista certo non dice questo perche' e' piu' musulmano di
me. Affatto. Lo afferma perche' sa che il meticciato e' la via della
diversita', dell'alterita'. E cosa sono la diversita' e l'alterita'? Sono le
compagne fedeli della democrazia. Senza differenza non c'e' democrazia. E i
militanti integralisti sono antidemocratici, uccidono alla base la
democrazia eliminando tutte le differenze: quella di colore, di
nazionalita', di religione. Mascherano questo progetto politico
antidemocratico con la scusa dei pericoli della promiscuita' sessuale. Ma la
religione musulmana non dice affatto questo: non c'e' niente di piu'
tollerante della religione musulmana. Il profeta Maometto ha donato il
messaggio che veniva da Dio a una donna, a sua moglie Khadigia. La prima
persona scelta per raccontare i versetti che cadevano su di lui non e' stata
presa tra i suoi amici maschi o i suoi parenti maschi. La scelta e' caduta
su sua moglie. Ed e' stata un'altra donna, non un maschio, a custodire il
Corano. Il profeta a non ha mai avuto alcun problema con le donne, sono i
fondamentalisti politici che ne hanno.
In conclusione: l'Islam e' una religione, una cultura. Affermare che l'Islam
e il terrorismo sono uguali, e' come affermare che la colonizzazione e il
cristianesimo sono la stessa cosa, che il massacro dei bambini a Baghdad e
la religione cristiana sono la stessa cosa. Noi sappiamo che c'e' una
differenza tra la religione e le strategie di gruppi di potere che
utilizzano la religione a fini politici.
Quando Hitler ha sterminato sei milioni di ebrei si e' forse detto che il
cristianesimo era responsabile? Erano Hitler e il nazismo i responsabili,
non la religione cristiana. Se Al Qaeda fa degli attentati a New York, la
responsabilita' non e' dell'Islam ma di un movimento politico il cui leader
e' stato formato dalla Cia.

3. RIFLESSIONE. FARID ADLY: UN ANNO DOPO
[Ringraziamo Farid Adly (per contatti: anbamed at katamail.com) per averci
messo a disposizione la seguente sintesi del suo intervento al convegno
sulla situazione irachena svoltosi il 29 giugno a Catania (convegno cui
hanno preso parte come relatori, oltre a Farid Adly, anche Adel Jabbar,
sociologo, dell'Universita' di Venezia, e Luciano Garonzi, storico,
dell'Universita' di Catania). Farid Adly, autorevole giornalista (apprezzato
collaboratore del "Corriere della sera", "Il manifesto", Radio popolare di
Milano, ed altre notissime testate) e prestigioso militante per i diritti
umani, e' direttore dell'agenzia-stampa "Anbamed. Notizie dal Mediterraneo";
ai primi di aprile nel centro siciliano in cui vive e lavora ha subito una
grave intimidazione mafiosa: e' stato minacciato di morte per impedirgli di
svolgere il suo lavoro di inchiesta, documentazione e denuncia, con
particolar riferimento alla sua concreta azione in difesa dell'ambiente,
della legalita', dei diritti di tutti]

Il 28 giugno 2004, un anno fa, c'e' stato il passaggio di "sovranita'" al
governo provvisorio iracheno. Un anno dopo, di sovranita' per gli iracheni
non si vede neanche l'ombra. Tutto lo decidono gli americani. Nei minimi
particolari.
La questione delle trattative svelate dal giornale britannico "Sunday Times"
dimostra in pieno il fallimento dell'occupazione dell'Iraq. Il quotidiano
londinese ha citato particolari molto precisi: la villa, il numero e le date
degli incontri, il numero dei partecipanti e le loro qualifiche. Un giornale
arabo sempre di Londra, "Al Hayat", ha rivelato le condizioni poste dai
guerriglieri: ritiro degli americani e delle truppe loro alleate dalle
citta'; concentrazione in basi militari di retroguardia; arrivo di truppe
Onu; un nuovo governo provvisorio con la partecipazione di tutte le
espressioni politiche irachene ed elezioni organizzate dall'Onu entro un
anno.
Rumsfeld prima e Blair poi hanno ammesso la trattativa. Nei giorni passati,
prima delle rivelazioni della stampa, i discorsi vertevano su altri
argomenti, di propaganda patriottica, adesso non piu': "La guerriglia
durera' dodici anni, ma da soli non vinceremo mai" (Rumsfeld), "In Iraq
almeno due anni per avere sicurezza e stabilita'" (Jaafari); Blair dice
adesso che tutti gli iracheni, compreso i sunniti quindi, devono partecipare
alla costruzione del futuro Iraq: "Dobbiamo inserire questi gruppi di
ribelli nel processo di pace", ha detto. Il "Wall Street Journal", un
quotidiano con l'elmetto, adesso parla di un'ondata di panico scoppiata
nell'opinione pubblica americana e si chiede perche' un'opinione pubblica
che ha appoggiato la guerra e rieletto Bush ora cominci a essere sempre piu'
pessimista sul come se ne possa uscire (in Italia, governo e opinion maker
preferiscono voltare la faccia dall'altra parte).
E' un'ammissione che le trattative ci sono state e che continueranno. Fanno
parte della strategia anglo-americana. Ma e' una strategia di uscita o di
fuga? Il quotidiano "Al Quds Al Arabi" di Londra non ha dubbi: e' la
seconda. Fuga. Rumsfeld diceva che tutti gli armati in Iraq erano
terroristi, nemici della democrazia. Adesso non piu'. Adesso dice
nell'intervista in diretta televisiva "facilitiamo di quando in quando
questo tipo di incontri... la prima cosa da fare e' dividere gli avversari,
impedire che finiscano col mettersi insieme". Il generale John Abi Zaid, che
era stato il comandante in capo in Iraq, ha cercato ci correggerlo: "Non
sono sicuro che definirei questi contatti come un dialogo tra responsabili
americani e insorti; direi piuttosto che i responsabili americani cercano
gli interlocutori giusti con cui parlare in seno alla comunita' sunnita", ha
detto.
Finalmente si ammette un concetto alto della politica e delle relazioni
internazionali: parlare e' meglio che spararsi addosso. Senza i sunniti non
c'e' governo iracheno che possa reggere. Ma perche' non l'hanno fatto prima?
Prima ancora del 20 marzo 2003? Era indispensabile tutto quel sangue
iracheno e americano e di tanta altra gente innocente?
E' meglio tardi che mai: adesso il capo del Pentagono distingue tra
resistenti e terroristi. Quando lo facevamo noi giornalisti di sinistra e
pacifisti venivamo derisi dalla stampa dei benpensanti pieni di certezze,
adesso dimostratesi infondate.
Ma perche' questo "ravvedimento" adesso? No, non hanno scoperto le ragioni
del pacifismo. Tutt'altro. E' soltanto la constatazione del fallimento e la
ricerca di aggirarlo per calmare quel panico dell'opinione pubblica
americana descritto dal "Wall Stret Journal".
*
In che cosa consiste questo fallimento americano in Iraq?
Malgrado lo sforzo bellico profuso (costa 5 miliardi di dollari al mese) la
resistenza e' ancora forte e colpisce dappertutto, a Baghdad come altrove.
La stessa "zona verde" non e' salva dagli attacchi. Tutti i giorni ci sono
perdite umane tra gli iracheni e tra gli americani. Anche a Fallouja e nelle
zone distrutte dalle operazioni militari americane mirate (Ramadi, Haditha,
Al Qaim...) non hanno domato la resistenza.
La Casa Bianca ha invaso l'Iraq per controllare le fonti di energia nel
Golfo: petrolio e gas, e garantire il loro costante flusso verso le economie
industrializzate ad un prezzo basso. E' avvenuto il contrario: adesso il
prezzo e' di 61 dolari al barile, il doppio delle quotazioni del marzo 2003
quando e' iniziata l'invasione. Le forniture di petrolio iracheno sono
minime a causa degli attacchi della resistenza irachena contro gli
oleodotti.
Le spese di guerra americane finora sono state di 250 miliardi di dollari.
Secondo uno studio dell'Universita' di York, nei prossimi 5 anni
raggiungera' un totale di 1.250 miliardi di dollari e i prezzi petroliferi
toccheranno i 100 dollari al barile;
Le perdite umane sono in crescita: quasi 100.000 iracheni e 1.700 americani;
Dal marzo 2003 nella regione medio-orientale si e' assistito alla creazione,
non soltanto in Iraq, delle migliori condizioni per lo sviluppo
dell'estremismo fondamentalista bombarolo ed assassino: Arabia Saudita,
Kuwait, Marocco, Tunisia, Siria, Yemen ed Egitto hanno visto una crescita
delle cellule legate ad Al qaida. In questo modo si e' creata maggiore
destabilizzazione della regione e non sono stati favoriti i moderati come
bofonchiava l'amministrazione Bush e non solo essa.
La politica aggressiva degli Stati Uniti nella regione, espressa con il
pugno duro contro Iran, Siria e Libano, ha dato effetti contrari: in Iran ha
vinto con il voto popolare il candidato piu' oltranzista, il giovane
massimalista Ahmadi-Nejad contro l'esperto e pragmatico Rafsanjani.
La regione rischia una corsa al nucleare ed una nuova avventura militare
israeliana, unica potenza nucleare della regione, contro le centrali
nucleari civili iraniane (come avvenne nel 1981 contro la centrale irachena
di Tammouz). In tal caso, le truppe Usa in Iraq si troveranno ad essere il
bersaglio della rabbia dei sunniti e degli sciiti, finalmente uniti contro
gli aggressori. Una tale eventualita' portera' ad una fuga delle truppe Usa
dall'Iraq, come avvenne in Vietnam. E dopo gli orfani di Saddam, assisteremo
alla nascita degli orfani di Rumsfeld.
*
Perche' siamo arrivati a questo punto nell'opinione pubblica americana? Sono
caduti tutti i pretesti per l'inizio della guerra ed anche le spiegazioni a
posteriori avanzate per deviare il dibattito sul ritiro: non sono state
trovate le armi di distruzione di massa ed e' stato dimostrato che Bush e
Blair hanno raccontato un sacco di bugie; non e' stato dimostrato nessun
legame tra il regime sanguinario di Saddam Hussein e Al Qaeda (sarebbe
interessante sapere a quali conclusioni arrivera' l'inchiesta giudiziaria
sul caso Abu Omar rapito in segreto dalla Cia a Milano); non e' stata
portata la democrazia e la sicurezza nel paese, e non sono stati difesi i
diritti umani (Abu Ghraib e le rivelazioni su Guantanamo).
Il prestigio dell'America e la sua immagine, per tutto questo, sono cadute
in basso in tutto il mondo.
Una parte degli osservatori di cose americane sostiene che la mossa del
Pentagono e' soltanto una manovra diversiva: fanno finta di trattare per
colpire meglio. Non credo che sia cosi'. Sono in difficolta' e la loro
macchina fa acqua da tutte le parti.
E' un fallimento strategico e non basteranno a colmarlo le manovre tattiche.
Basti pensare al prolungato silenzio del governo italiano sulla vicenda di
Abu Omar, il rifugiato egiziano di Milano. Una delle ipotesi e' che doveva
servire per dimostrare, con le sue ammissioni, l'esistenza di un legame tra
il regime di Saddam e il terrorismo quaedista. C'e' chi avanza l'ipotesi che
il governo italiano abbia dato il suo benestare e per questo non puo'
parlare, nel timore che le sue smentite vengano smentite da oltre
l'Atlantico.
Ecco perche' e' necessario che riprenda con vigore la nostra azione per il
ritiro delle truppe straniere dall'Iraq. Si dovrebbe lavorare, gia' da oggi,
ad una grande mobilitazione di massa per il terzo anniversario
dell'invasione il 20 marzo 2006.

4. LIBRI. ALESSANDRO DE GIORGI PRESENTA "DA RIFUGIATI A CITTADINI" DI AIHWA
ONG
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 giugno 2005.
Alessandro De Giorgi (Saarbruecken, Germania, 1974), criminologo, svolge
attivita' di ricerca presso l'Universita' di Keele (Inghilterra) e
l'Universita' di Padova; ha svolto attivita' di ricerca presso l'Universita'
del Saarland (Germania) e presso l'Universita' di Berna (Svizzera);
collabora alle riviste "Dei delitti e delle pene" e "DeriveApprodi". Opere
di Alessandro De Giorgi: Zero Tolleranza. Strategie e pratiche della
societa' di controllo, Deriveapprodi, 2000; Il governo dell'eccedenza.
Postfordismo e controllo della moltitudine, Ombre corte, 2002.
Aihwa Ong, docente di antropologia all'Universita' di Berkeley in
California, e' una delle piu' autorevoli studiose contemporanee della
globalizzazione]

"Dalle osservazioni che ho presentato appare evidente come io consideri
possibile trasformare gli uomini in macchine repubblicane. E questo e'
necessario, se intendiamo che essi svolgano correttamente il proprio ruolo
nella grande macchina di governo dello Stato". Cosi' scriveva nel 1798 il
riformatore Benjamin Rush, uno dei padri fondatori del repubblicanesimo
americano, in uno scritto intitolato Sul modello di educazione appropriato
alla Repubblica (contenuto in The Selected Writings of Benjamin Rush, a cura
di Dagobert D. Runes, New York 1947). Nelle parole del filantropo quacchero
e' possibile individuare le coordinate "antropologiche" che fanno da sfondo
al processo storico di definizione della cittadinanza americana e dei suoi
confini. Presupposto, ma anche fine ultimo dell'attivita' di governo, deve
essere la costruzione di individui razionali, capaci di liberta', autonomia
e autocontrollo: in sintesi, di soggetti abili alla democrazia liberale. Ma
nell'esperienza storica americana i criteri di attribuzione di questa
"capacita' democratica" hanno configurato un potente dispositivo idoneo a
posizionare i diversi gruppi che andavano componendo il mosaico sociale
degli Stati Uniti - dai nativi agli afroamericani, dagli immigrati europei
ed extraeuropei ai rifugiati asiatici - lungo un continuum razziale i cui
poli sono costituiti rispettivamente da una whiteness la cui abilita' alla
democrazia e' data per definizione, e da una blackness sulla quale al
contrario grava una presunzione storica di incapacita'. E tuttavia,
soprattutto se si osserva la complessa trama migratoria che ha interessato
storicamente gli Stati Uniti, verrebbe da dire che da una parte non e'
neccessario essere neri per essere considerati blacks - cioe' socialmente
immeritevoli e sostanzialmente inadatti alla democrazia - e dall'altra non
e' sufficiente essere bianchi per poter accedere automaticamente alla
condizione di whites - cioe' di soggetti capaci di funzionare come macchine
repubblicane.
Da questa constatazione sembra partire Aihwa Ong nel fondamentale saggio Da
Rifugiati a cittadini. Pratiche di governo della nuova America (Raffaello
Cortina Editore, pp. 369, euro 29,80), per esempio quando afferma che
"mentre dopo un certo periodo di tempo gruppi immigrati come gli irlandesi e
gli ebrei poterono essere assimilati e diventare bianchi e borghesi, i
gruppi provenienti da paesi extraeuropei continuarono a vivere storicamente
al di fuori o, al limite, in qualche zona di confine tra l'estremita' bianca
e quella nera del continuum razziale".
*
La medicina dei rifugiati
L'antropologa malesiana-americana (autrice nota per Flexible Citizenship.
The Cultural Logics of Transnationality, Durham 1999) ci propone una
preziosa etnografia dell'esperienza diasporica dei cambogiani che tra la
fine degli anni '70 e i primi anni '80 sfuggirono alla guerra e alle
persecuzioni del regime di Pol Pot, trovando rifugio negli Stati Uniti.
Inseguendone i ricordi, i racconti e le testimonianze, Ong ricostruisce la
complessa traiettoria esistenziale dei rifugiati cambogiani residenti nella
Baia di San Francisco: dalla fuga attraverso la giungla ai campi-profughi
sul confine thailandese, dal primo approdo nella "patria della liberta' e
del benessere" al problematico incontro con le pratiche americane di
"governo dei rifugiati".
Ma il lavoro di Ong si spinge molto al di la' di una pura descrizione di
storie umane segnate da traumi, fratture, discriminazioni e spaesamenti:
l'ambizioso obiettivo teorico e politico di questo saggio consiste infatti
nella ricostruzione dei "processi quotidiani di produzione e autoproduzione
del se'" che avvolgono le esperienze dei rifugiati sul suolo statunitense,
laddove essi diventano oggetto di discorsi, istituzioni e pratiche il cui
scopo e' la trasformazione di coloro che "non appartengono" in soggetti
disciplinati e razionali, capaci di liberta' e disposti ad interiorizzare i
valori fondanti del self americano. Le pratiche di governo rivolte ai
rifugiati - dalla bio-medicina all'assistenza sociale, dai gruppi di
self-help per le donne ai consultori familiari, senza peraltro escludere la
chiesa e il mercato del lavoro - configurano secondo Ong un vero e proprio
apparato governamentale, un intreccio di tecnologie sociali dirette a
fissare l'ambiguo statuto morale del rifugiato entro le coordinate
univocamente virtuose dell'American Way of Life.
Questo processo di trasformazione del se', nella misura in cui ambisce a
porre i rifugiati nella condizione di "imparare ad appartenere", comporta
inevitabilmente l'attivazione di pratiche di disciplinamento e regolazione
delle differenze che nel loro insieme delineano una complessa strategia di
"pulizia culturale": prima di poter accedere allo spazio pubblico americano,
infatti, i profughi cambogiani devono essere "liberati" da quei retaggi
culturali e religiosi che ne sanciscono la provvisoria estraneita' al
tessuto sociale americano e quindi l'inadeguatezza a funzionare come
cittadini.
In questo modo si consolida, per esempio, una "medicina dei rifugiati" che
individua patologie del corpo e della mente specificamente riconducibili ai
traumi subiti dai profughi - Ong cita le Sudden Unexpected Nocturnal Deaths
(morti improvvise durante le ore notturne) probabilmente dovute
all'esposizione alle sostanze defolianti utilizzate nell'area indocinese
durante la guerra - ma che si pone soprattutto l'obbiettivo di trasformare i
profughi in pazienti moderni, capaci di pronunciare razionalmente le proprie
sofferenze e di porre in essere la quotidiana "cura del se'" che garantisce
la riproduzione di "corpi sani pronti per l'America". E nell'interazione tra
medici e pazienti, gli effetti di disciplinamento si moltiplicano e si
amplificano sino a comprendere, per esempio, gli odori che "cosi' come i
virus e le malattie associate ai rifugiati, venivano considerati dagli
operatori sanitari come qualcosa di potenzialmente pericoloso - ma
invisibile - che i rifugiati portavano con se' e che poteva inavvertitamente
contaminare con un nuovo odore il modo in cui gli americani percepivano i
propri luoghi"; o persino la memoria delle sofferenze patite - come Ong
evidenzia nell'analizzare i trattamenti psichiatrici volti a "disciplinare
il dolore" dei profughi attraverso una selezione dei ricordi "appropriati" e
"inappropriati", delle cose "da ricordare" e di quelle "da dimenticare".
Ma una razionalita' analoga - e un identico effetto di disciplinamento - e'
riscontrabile, secondo Ong, anche in altri ambiti di intervento sulla
condizione dei rifugiati, il cui denominatore comune consiste in ogni caso
nell'obiettivo di trasformarli in soggetti liberi e capaci di autonomia.
L'autrice osserva allora le pratiche di self-help promosse da operatrici
sociali californiane il cui "amore per i rifugiati" le indurrebbe a
privilegiare un approccio quasi "pastorale" nei confronti delle donne
cambogiane: qui l'obiettivo sembra essere quello di "salvare le donne da
contesti familiari violenti e insegnare loro a rivendicare il proprio
diritto alla liberta' individuale" - un atteggiamento che l'autrice non
esita a definire nei termini di una "dominazione umanitaria". O ancora i
servizi per i minori, il cui mandato principale e' quello di "liberare" i
genitori cambogiani dai tradizionali retaggi patriarcali e autoritari per
poi istruirli a una educazione dei figli improntata al dialogo, alla
comunicazione e alla pedagogia liberal formulata da Benjamin Spock nel 1946.
La descrizione di queste politiche di organizzazione delle differenze non
occupa che un versante della ricerca di Ong: l'analisi dei diversi ambiti di
"produzione di soggettivita'" proposta dall'antropologa interroga in misura
altrettanto significativa le tensioni e gli scarti determinati dalle
pratiche soggettive attraverso le quali i rifugiati negoziano e
reinterpretano attivamente la propria posizione all'interno della societa'
americana e il loro rapporto con le istituzioni di welfare. Secondo Ong,
infatti "gli effetti delle tecnologie di governo... possono essere
rifiutati, modificati o trasformati dagli individui, che non sempre
finiscono per pensare, agire o cambiare esattamente nei modi previsti dai
piani e dai progetti delle autorita'".
Qui si delinea allora una zona di indeterminatezza in cui l'esperienza
soggettiva dei rifugiati tende a sfuggire alla presa dell'apparato
governamentale. L'etnografia di Ong ci racconta per esempio che le donne
cambogiane oppongono ostinati silenzi allo sguardo indagatore dei dottori,
la cui "medicina parlata" prevede che il corpo malato offra un'esauriente
narrazione di se', della propria storia e dei propri mali. Oppure scopriamo
che le stesse donne realizzano una consapevole appropriazione delle pratiche
pastorali e salvifiche dispensate nei centri di self-help, utilizzandole
strumentalmente per modificare i rapporti di potere all'interno delle
famiglie, ma senza consegnarsi interamente agli effetti disciplinanti da
queste implicati.
*
Nelle file dell'underclass
Sebbene la valorizzazione delle pratiche soggettive attraverso le quali i
rifugiati riescono a sottrarre parzialmente la propria condizione alla presa
normalizzante degli schemi governamentali costituisca senz'altro il filo
conduttore dell'importante saggio di Ong, va detto pero' che l'autrice si
tiene opportunamente a distanza da qualsiasi facile celebrazione delle loro
esperienze - elemento che traspare soprattutto nell'ultima parte del libro,
dedicata al mercato del lavoro. Le profonde trasformazioni economiche degli
ultimi trent'anni hanno infatti drasticamente ridisegnato lo scenario
produttivo degli Stati Uniti, consolidando geografie razziali e di classe
che collocano invariabilmente alcuni gruppi di popolazione - certamente i
latinos e gli afroamericani, ma anche una parte consistente degli immigrati
asiatici - ai margini della scena economica americana dove ingrossano le
file di quella che, con un termine alquanto ambiguo, e' stata definita
underclass. Amplificando le stratificazioni di classe all'interno delle
stesse comunita' asiatiche, la crescente segmentazione del mercato del
lavoro contribuisce in maniera determinante a frantumare ogni possibilita'
di una narrazione collettiva fondata sull'appartenenza razziale: il
linguaggio dell'oppressione come fatto storico, nota Ong, sembra lasciare
sempre piu' spazio a un vocabolario della "vittimizzazione" come vicenda
individuale.
E' questo, forse, il principale effetto disciplinante implicato dai processi
di stratificazione e gerarchizzazione del lavoro. La globalizzazione
economica dilata paradossalmente le frontiere della cittadinanza americana
proiettandole tanto all'esterno quanto all'interno del territorio nazionale,
e moltiplicando i posizionamenti che vincolano i rifugiati cambogiani (ma
piu' in generale la forza lavoro marginalizzata) all'asse
whiteness/blackness: se alcuni di loro hanno accesso a una rapida mobilita'
sociale, molti restano invece imbrigliati nelle maglie razzializzate della
poverta' urbana.
In questo senso, Ong ci invita ad abbandonare l'immagine statica della
cittadinanza quale complesso di diritti consolidati cui sia possibile
accedere mediante un processo di "integrazione" che presuppone la
normalizzazione delle differenze. A fronte di una progressiva frantumazione
della cittadinanza (cui gli stessi movimenti migratori hanno peraltro
contribuito in modo significativo), inevitabilmente gli effetti di
inclusione e di esclusione si complicano e si intrecciano: ma allora -
questo l'importante monito di Ong - l'orizzonte di una possibile resistenza
alle strategie governamentali di disciplinamento delle differenze non puo'
che delinearsi a partire dai "concatenamenti di bisogni umani" che le
pratiche soggettive dei migranti e dei rifugiati esprimono.

5. RIVISTE. CON "QUALEVITA", LA LEZIONE DI ALEXANDER LANGER
Abbonarsi a "Qualevita" e' un modo per sostenere la nonviolenza. Ponendosi
all'ascolto della lezione di Alexander Langer.
*
"Io credo che il messaggio di fondo della riconciliazione con la natura che
noi oggi dobbiamo proporci e possiamo proporre, senza tema di essere
smentiti, e' sostanzialmente uno, cioe' quello della vita piu' semplice"
(Alexander Langer, dall'intervento al convegno giovanile di Assisi, Natale
1994, ora in AA. VV., Una vita piu' semplice. Biografia e parole di
Alexander Langer, Terre di mezzo - Altreconomia, Milano 2005, p. 90).
*
"Qualevita" e' il bel bimestrale di riflessione e informazione nonviolenta
che insieme ad "Azione nonviolenta", "Mosaico di pace", "Quaderni
satyagraha" e poche altre riviste e' una delle voci piu' qualificate della
nonviolenza nel nostro paese. Ma e' anche una casa editrice che pubblica
libri appassionanti e utilissimi, e che ogni anno mette a disposizione con
l'agenda-diario "Giorni nonviolenti" uno degli strumenti di lavoro migliori
di cui disponiamo.
Abbonarsi a "Qualevita", regalare a una persona amica un abbonamento a
"Qualevita", e' un'azione buona e feconda.
Per informazioni e contatti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030
Torre dei Nolfi (Aq), tel. 3495843946, o anche 0864460006, o ancora
086446448; e-mail: sudest at iol.it o anche qualevita3 at tele2.it; sito:
www.peacelink.it/users/qualevita
Per abbonamenti alla rivista bimestrale "Qualevita": abbonamento annuo: euro
13, da versare sul ccp 10750677, intestato a "Qualevita", via Michelangelo
2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), specificando nella causale "abbonamento a
'Qualevita'".

6. RILETTURE. JUERGEN HABERMAS: STORIA E CRITICA DELL'OPINIONE PUBBLICA
Juergen Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica, Laterza,
Roma-Bari  1971, 2005, pp. XLVIII + 316, euro 8,50. Un'opportuna riedizione
di un libro ormai classico.

7. RILETTURE. HERMANN HESSE: SE LA GUERRA CONTINUA
Hermann Hesse, Se la guerra continua, Guanda, Parma 1994, pp. 104, lire
16.000. Una raccolta di prose e poesie scritte durante la prima guerra
mondiale, contro tutte le guerre.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 979 del 2 luglio 2005

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