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La nonviolenza e' in cammino. 963
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 963
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 16 Jun 2005 00:20:19 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 963 del 16 giugno 2005 Sommario di questo numero: 1. Adrienne Rich: A termini umani 2. Luisa Morgantini: Una lettera al presidente palestinese contro la pena di morte 3. Angela Giuffrida: A chi giova reificare le donne? 4. Claudio Riolo: Diritto di cronaca, diritto di critica e liberta' di ricerca tra interesse pubblico e tutela della persona 5. Benedetto Vecchi presenta "Sicuri da morire" di Arjun Appadurai 6. Con "Qualevita", la lezione di Tonino Bello 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. MAESTRE. ADRIENNE RICH: A TERMINI UMANI [Da Adrienne Rich, Nato di donna, Garzanti, Milano 1977, 2000, p. 402. Adrienne Rich e' una grandissima poetessa e saggista femminista americana, di straordinaria intensita' e profondita'. Tra le sue opere: Nato di donna, Garzanti, Milano 1977, 2000; Esplorando il relitto, Savelli, Roma 1979; Segreti silenzi bugie, La tartaruga, Milano 1982] Eppure sono proprio questa cultura e queste istituzioni politiche che ci hanno escluse da esse, trasformandosi nella sterile cultura della quantificazione, dell'astrazione, della volonta' di potere che in questo secolo e' giunta all'apice della sua capacita' distruttiva. E' proprio questa cultura, questa politica dell'astrazione che le donne oggi vorrebbero modificare, riportare a termini umani. 2. APPELLI. LUISA MORGANTINI: UNA LETTERA AL PRESIDENTE PALESTINESE CONTRO LA PENA DI MORTE [Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int) per averci inviato copia di questa sua lettera a Mohammed Abbas, presidente palestinese. Luisa Morgantini, parlamentare europea e presidente della delegazione del Parlamento Europeo al Consiglio legislativo palestinese, fa parte delle Donne in nero e dell'Associazione per la pace; il seguente profilo di Luisa Morgantini abbiamo ripreso dal sito www.luisamorgantini.net: "Luisa Morgantini e' nata a Villadossola (No) il 5 novembre 1940. Dal 1960 al 1966 ha lavorato presso l'istituto Nazionale di Assistenza a Bologna occupandosi di servizi sociali e previdenziali. Dal 1967 al 1968 ha frequentato in Inghilterra il Ruskin College di Oxford dove ha studiato sociologia, relazioni industriali ed economia. Dal 1969 al 1971 ha lavorato presso la societa' Umanitaria di Milano nel settore dell'educazione degli adulti. Dal 1970 e fino al 1999 ha fatto la sindacalista nei metalmeccanici nel sindacato unitario della Flm. Eletta nella segreteria di Milano - prima donna nella storia del sindacato metalmeccanico - ha seguito la formazione sindacale e la contrattazione per il settore delle telecomunicazioni, impiegati e tecnici. Dal 1986 e' stata responsabile del dipartimento relazioni internazionali del sindacato metalmeccanico Flm - Fim Cisl, ha rappresentato il sindacato italiano nell'esecutivo della Federazione europea dei metalmeccanici (Fem) e nel Consiglio della Federazione sindacale mondiale dei metalmeccanici (Fism). Dal novembre del 1980 al settembre del 1981, in seguito al terremoto in Irpinia, in rappresentanza del sindacato, ha vissuto a Teora contribuendo alla ricostruzione del tessuto sociale. Ha fondato con un gruppo di donne di Teora una cooperativa di produzione, "La meta' del cielo", che e' tuttora esistente. Dal 1979 ha seguito molti progetti di solidarieta' e cooperazione non governativa con vari paesi, tra cui Nicaragua, Brasile, Sud Africa, Mozambico, Eritrea, Palestina, Afghanistan, Algeria, Peru'. Si e' misurata in luoghi di conflitto entro e oltre i confini, praticando in ogni luogo anche la specificita' dell' essere donna, nel riconoscimento dei diritti di ciascun essere umano: nelle rivendicazioni sindacali, con le donne contro la mafia, contro l'apartheid in Sud Africa, con uomini e donne palestinesi e israeliane per il diritto dei palestinesi ad un loro stato in coesistenza con lo stato israeliano, con il popolo kurdo, nella ex Yugoslavia, contro la guerra e i bombardamenti della Nato, per i diritti degli albanesi del Kosovo all'autonomia, per la cura e l'accoglienza a tutte le vittime della guerra. Attiva nel campo dei diritti umani, si e' battuta per il loro rispetto in Cina, Vietnam e Siria, e per l'abolizione della pena di morte. Dal 1982 si occupa di questioni riguardanti il Medio Oriente ed in modo specifico del conflitto Palestina-Israele. Dal 1988 ha contribuito alla ricostruzione di relazioni e networks tra pacifisti israeliani e palestinesi. In particolare con associazioni di donne israeliane e palestinesi e dei paesi del bacino del Mediterraneo (ex Yugoslavia, Albania, Algeria, Marocco, Tunisia). Nel dicembre 1995 ha ricevuto il Premio per la pace dalle Donne per la pace e dalle Donne in nero israeliane. Attiva nel movimento per la pace e la nonviolenza e' stata portavoce dell'Associazione per la pace. E' tra le fondatrici delle Donne in nero italiane e delle rete internazionale di Donne contro la guerra. Attualmente e' deputata al Parlamento Europeo... In Italia continua la sua opera assieme alle Donne in nero e all'Associazione per la pace". Opere di Luisa Morgantini: Oltre la danza macabra, Nutrimenti, Roma 2004] Caro presidente della popolazione dei territori occupati della Palestina, signor presidente dell'Autorita' Nazionale Palestinese, no, non puo' essere che la pena di morte, una cultura di vendetta, possa fare parte dello Stato palestinese; e non e' davvero possibile che per ripristinare ordine e legalita' si ripristini la pena di morte. Mi dispiace, mi dispiace davvero molto, confesso di essere quasi annichilita al sapere che domenica mattina, 12 giugno 2005, l'Autorita' Nazionale Palestinese ha fatto giustiziare nella prigione centrale di Gaza (al Saraya), senza nessun tipo di preavviso, quattro uomini condannati per omicidio e per altri crimini tra il 1995 e il 2000. E' stata la prima esecuzione attuata dal 7 agosto del 2000. Anche allora ero rimasta sgomenta e avevo protestato con il presidente Arafat, con il ministro degli esteri Nabil Shaat. Ne avevo parlato con Arafat in un nostro incontro a Ramallah, si era alterato, ma poi Nabil Shaat mi telefono' per confermarmi che l'Autorita' Nazionale Palestinese introduceva una moratoria alla pena di morte, e che con il tempo la legislazione sarebbe cambiata. Potevo forse dubitare - mi disse - che nel nuovo stato palestinese la pena di morte non sarebbe stata abolita? No, non ne dubitavo, ma ora ho tanta paura. Intanto perche' lo stato palestinese ancora non c'e', e di questo la responsabilita' la porta quasi interamente la comunita' internazionale che usa due pesi e due misure e non impone ad Israele di riprendere i negoziati, di cessare l'espansione degli insediamenti nella Cisgiordania e la costruzione del muro, e di liberare le migliaia e migliaia di detenuti palestinesi. Ma paura perche' in nome dell'ordine si commettono crimini, e sinceramente, caro presidente, non me lo aspettavo da te; che sei diventato presidente del popolo palestinese presentandoti al voto con una scelta precisa: no alla lotta militare e agli attentati kamikaze. L'Intifadah, la rivolta del popolo palestinese per la liberta' e l'indipendenza, hai detto varie volte, anche prima di essere eletto, deve essere popolare e nonviolenta. Alcuni mi hanno detto che usare l'autorita' dello Stato ed eseguire la pena di morte era l'unico modo per impedire che fossero le famiglie che avevano subito il torto a vendicarsi. Caro presidente, conosco le difficolta', conosco le vendette dei clan familiari quando un torto e' fatto ad uno dei loro membri. Io stessa ho assistito a Khan Yunis a tentativi di riconciliazione dopo che per litigi di potere, o attentati alla proprieta', dei morti erano rimasti sul terreno. Capisco anche quanto sia difficile, dopo una situazione di piu' di 38 anni di occupazione militare, cercare di affermare un autorita' che non puo' essere solo espressione di nuovi diritti ma anche di nuovi doveri. Ma voglio levare la mia voce insieme a quella delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani, per dire no: caro presidente lei avrebbe dovuto firmare la sospensione della pena di morte e dichiarare di adoperarsi perche' un' altra cultura si affermi in Palestina. Ci troviamo in un momento cruciale per il raggiungimento di una soluzione all'occupazione militare dei territori palestinesi. La popolazione palestinese ha bisogno di democrazia, giustizia e pace. La pena di morte forma parte di una cultura della vendetta che va sconfitta. So bene che paesi come gli Stati Uniti, chiamati "la piu' grande democrazia", hanno in vigore la pena di morte, ma io sono nata in una paese che dopo la Resistenza e la seconda guerra mondiale l'ha abolita. Dalla Palestina arriva il bisogno di liberta', e la liberta' non porta con se' la pena capitale. No, i palestinesi non si meritano questo. Caro presidente, ripensaci, ed impegnati ad abolire la pena di morte, vedrai sarai un presidente amato e non temuto, fa molta differenza. Intanto io rinnovo il mio impegno, che, ne sono consapevole, e' ben poca cosa rispetto alla grandezza e alla tragedia della Palestina occupata, per contribuire a ristabilire il diritto internazionale, per premere sulla comunita' internazionale perche' finalmente possano coesistere nella sicurezza reciproca due popoli e due Stati con Gerusalemme capitale condivisa. Lunga vita, presidente. Un abbraccio Luisa Morgantini 3. RIFLESSIONE. ANGELA GIUFFRIDA: A CHI GIOVA REIFICARE LE DONNE? [Ringraziamo Angela Giuffrida (per contatti: frida43 at inwind.it) per questo intervento. Angela Giuffrida e' docente di filosofia ed acuta saggista; tra le sue pubblicazioni: Il corpo pensa, Prospettiva edizioni, Roma 2002] Se la riduzione di persone a cose e' un crimine contro l'umanita', a quale "superiore" etica si ispira la legge 40 che riduce le donne a cose prive di diritti, a quale "coscienza" si appellano i politici per sostenerla? Davvero si pensa che la reificazione delle madri umane possa giovare a qualcuno? Di certo non giova alle donne che, avendo la responsabilita' di protrarre la vita, ma non godendo nelle societa' paterne del simmetrico potere per sostenerla, hanno la necessita' di recuperare a pieno titolo la qualita' di soggetto. Quali che siano le proprie convinzioni religiose o politiche, a nessuna conviene sostenere la propria retrocessione a cosa. Il motivo per cui le donne non riescono ad affermarsi compiutamente come soggetti neanche nei paesi occidentali, dove godono di una maggiore liberta', e' che vengono sempre e comunque ridotte ad oggetti sessuali e macchine per fare figli; per poter contare davvero e' percio' necessario recuperare la soggettivita' prima di tutto in campo sessuale e riproduttivo. A molte manca, pero', la consapevolezza che negare alle donne l'autodeterminazione in questo campo significa sostenere tout court la loro reificazione, svuotando di significato ogni richiesta di contare in altri campi della vita associata. Nella diatriba sul sostegno o meno alla legge 40, e' capitato spesso di sentire affermare con convinzione che non si puo' equiparare una persona gia' formata a chi ancora non lo e'; e' mancata pero' l'asserzione chiara e decisa che la donna non solo e' persona gia' fatta ma, permettendo all'embrione di esserci e di avere un futuro, e' il soggetto a cui la specie deve la sua esistenza. L'oscuramento di questa elementare verita' e' reso possibile dalla resistenza delle donne a rivendicare apertamente la propria centralita'. L'indecisione a riconoscersi e quindi a porsi come soggetto centrale della specie, incoraggia i tentativi maschili di reificazione, culminati da ultimo con l'attribuzione della personalita' giuridica all'embrione, anacronistica riproposizione della teoria dell'homunculus, opportunamente riveduta e corretta. Alla stessa titubanza si deve, secondo me, la mancata mobilitazione delle donne, come ai tempi della legge sull'aborto. Molte non hanno percepito quanto alta fosse la posta in gioco perche' l'articolo che fa assurgere l'embrione a soggetto di diritto, confuso tra gli altri, non e' stato adeguatamente evidenziato. La retrocessione delle donne a cose senza diritti, sanzionata dalla legge 40 non e' una iattura solo per le donne, lo e' anche per gli uomini, perche' il disprezzo della donna si traduce inevitabilmente in un irragionevole disprezzo per la vita. Non e' un caso che le societa' androcratiche sono centrate sulla distruzione e la morte. La sconfitta delle donne si traduce in una sconfitta per la specie tutta anche perche' la reiterazione e la conseguente amplificazione dei meccanismi di pensiero che non permettono una piena visualizzazione del reale, producendo problemi inesistenti e rendendo impossibile trovare soluzioni, stanno cacciando l'umanita' in un vicolo cieco. La specie farebbe certo un bel salto di qualita' se si trasferissero le energie dalle inutili disquisizioni sull'improbabile attribuzione di una personalita' filosofico-giuridica all'embrione alla ricerca di un razionale superamento degli squilibri esistenti sul pianeta, se invece di difendere astrattamente la vita, che e' un mero concetto, si evitasse di fare scempio di viventi nelle guerre, se invece di perorare i diritti dell'embrione si evitasse di negarli alle madri umane, ai bambini gia' nati e agli stessi uomini, come avviene in sistemi sociali incivili e disumani. 4. RIFLESSIONE. CLAUDIO RIOLO: DIRITTO DI CRONACA, DIRITTO DI CRITICA E LIBERTA' DI RICERCA TRA INTERESSE PUBBLICO E TUTELA DELLA PERSONA [Ringraziamo Claudio Riolo (per contatti: clriolo at tin.it) per averci messo a disposizione la sua relazione introduttiva al convegno su "liberta' di critica e di ricerca" svoltosi a Palermo nel dicembre 2003, i cui atti sono ora nel volume da lui curato: Liberta' di informazione, di critica e di ricerca nella transizione italiana, La Zisa, Palermo 2004. Claudio Riolo, nato ad Agrigento nel 1951, autorevole militante e dirigente politico ed acuto studioso, gia' direttore del Cepes (Centro studi di politica economica in Sicilia), insegna Scienza politica all'Universita' di Palermo; collabora a vari periodici. Tra le opere di Claudio Riolo: L'identita' debole, La Zisa, Palermo 1989; Istituzioni e politica: il consociativismo siciliano nella vicenda del Pci e del Pds (1993); Chi decide a Palermo? Il processo decisionale per il risanamento della costa orientale (1994); Politiche di industrializzazione e gruppi di pressione negli anni cinquanta (1995); (a cura di) Dossier sulle riforme istituzionali in Italia (1998); (a cura di), Liberta' di informazione, di critica e di ricerca nella transizione italiana, La Zisa, Palermo 2004. Il volume e' reperibile a Roma presso la libreria Paesi Nuovi (piazza Montecitorio); puo' essere ordinato presso Bardi Editore, via Piave 7, 00187 Roma; tel. 064817656, fax: 0648912574, e-mail: bardied at tin.it] 1. Il titolo della mia relazione, che ha il compito di introdurre i lavori della prima parte del seminario, sintetizza la complessita' della problematica in discussione. Di questa complessita' non mi sembra che vi sia sufficiente consapevolezza, ne' tra coloro che si stanno occupando in Parlamento delle modifiche legislative in materia di diffamazione ne' a livello di opinione pubblica. Tendenzialmente, infatti, l'attenzione si concentra sul tema, certamente fondamentale, della liberta' d'informazione, e quindi sui diritti e sui doveri dei giornalisti, ma si trascurano altre questioni non meno importanti. Allora, il principale obiettivo di questo seminario e' proprio quello di rappresentare la complessita' della posta in gioco, nella misura in cui i tre diritti garantiti dalla nostra Costituzione sono convergenti, talora intrecciati, ma non coincidenti e quindi chiamano in causa soggetti diversi. Come e' noto l'articolo 21 della Costituzione garantisce il diritto di tutti i cittadini a manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, naturalmente nei limiti posti dalla tutela di altri diritti tra cui quello alla riservatezza e all'onorabilita' della persona. Ma quando parliamo di diritto di cronaca ci riferiamo in particolare - anche se non esclusivamente, data ormai l'ampia diffusione degli strumenti e delle reti informatiche - ai giornalisti. E gia' il problema non e' di semplice definizione, giacche' il cronista non si limita a riferire notizie ma le interpreta e le commenta, per cui tale attivita' non e' mai del tutto neutrale, in quanto i fatti riferiti sono sempre, in una certa misura, frutto dell'elaborazione soggettiva del giornalista. Ecco perche' il diritto di cronaca, secondo la giurisprudenza consolidata dalla Corte di cassazione, deve essere sostenuto da tre elementi: a) la verita' dei fatti narrati, cioe' la corrispondenza tra quanto e' oggettivamente narrato e il fatto realmente accaduto; b) la pertinenza, cioe' l'esistenza di una stretta correlazione tra la notizia riportata e l'interesse pubblico alla sua conoscenza; c) la continenza formale, cioe' la correttezza delle espressioni usate. Il diritto di critica, sebbene talvolta la cronaca e la critica possano essere svolte insieme, non si identifica con il diritto di cronaca e non chiama in causa soltanto il mondo dell'informazione, ma pone problemi piu' complessi e coinvolge il diritto di ogni cittadino alla libera espressione del pensiero, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi campo a cominciare da quello politico. Non a caso, al riguardo, si e' andato consolidando nel corso degli ultimi anni un orientamento giurisprudenziale della Cassazione che assegna all'esercizio del diritto di critica politica limiti piu' ampi. La correttezza dell'informazione e', infatti, presupposto necessario all'esercizio del diritto di critica, ma l'espressione di giudizi e opinioni personali non puo' che basarsi su una interpretazione soggettiva della realta'. Se dunque, come recitano alcune recenti sentenze della Cassazione (Sez. III civ., 25.7.00, n. 9746; Sez.V pen., 7.2.01, n. 31037), sussiste l'interesse dell'opinione pubblica alla conoscenza non solo del fatto oggetto di critica ma della stessa interpretazione del fatto, e se la rappresentazione di quel fatto come probabile o possibile sia ragionevole e derivi dalla concatenazione logica di fatti gia' accertati e correttamente riferiti, allora l'interesse collettivo all'esercizio della critica politica puo' prevalere per la maggiore rilevanza del suo oggetto sulla tutela della reputazione individuale. In tal caso la legittimita' della critica politica, sia pur aspra, sferzante o ironica, si fonda sulla consapevolezza che chi ricopre cariche pubbliche o ruoli rappresentativi ha una responsabilita' aggiuntiva rispetto agli altri cittadini nella misura in cui coinvolge la credibilita' delle istituzioni. Questo aspetto del diritto di critica ha ulteriori implicazioni, che pero' vorremmo consapevolmente lasciare sullo sfondo di questo seminario perche' obiettivamente meriterebbero una trattazione e un approfondimento specifici, e cioe' i problemi della responsabilita' politica e della distinzione tra responsabilita' politica e responsabilita' penale. E', infatti, evidente che vi sono dei comportamenti degli uomini politici, che pur non avendo rilevanza penale sono comunque suscettibili di stigmatizzazione e di sanzione sul piano politico. Ma e' proprio sulla base di questa distinzione - su cui si era espressa quasi all'unanimita', ma purtroppo senza esiti pratici, la Commissione parlamentare antimafia nel 1993 - che si potrebbe spezzare il circolo vizioso creatosi nell'ultimo decennio tra politica e magistratura, giacche' si eviterebbe di rimandare ogni giudizio politico all'esito delle decisioni penali. Se, infatti, l'autorita' politica si assumesse autonomamente le proprie responsabilita' non ci sarebbe alcuna delega di fatto ai giudici, che potrebbero cosi' lavorare con maggiore serenita' e indipendenza. Ma, ai fini del ragionamento che qui ci interessa, e' del tutto evidente che il concetto di "responsabilita' politica" presuppone la massima liberta' di cronaca e di critica, giacche' se i comportamenti degli uomini politici non sono conoscibili o criticabili non si puo' esercitare quello che e' un fonda mentale diritto democratico e cioe' il controllo esercitato dai cittadini sui governanti. Ed e' significativo che le motivazioni della sentenza della Cassazione gia' citata (Sez. V pen., n.31037 del 7.2.01, in Guida al diritto, 2001, fasc. 39, 97, n. Amato) colleghino la problematica del diritto di critica non solo all'articolo 21 ma anche all'articolo 49 della Costituzione, che prevede il diritto dei cittadini di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Infatti il metodo democratico implica, oltre al diritto di voto e di associazione, anche il diritto all'informazione e il diritto di critica intese come forme basilari di partecipazione politica e di controllo democratico. D'altra parte, converge nella stessa direzione anche una precedente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (8.7.86, in Foro it. 1987, IV, 49; e in Riv. dir. internaz., 1987, 702), che ammonisce sul rischio concreto che la paura di sanzioni penali o di altro tipo possa dissuadere la stampa dall'esercitare liberamente il proprio diritto di critica politica, considerato come uno dei fondamenti essenziali di una societa' democratica. La liberta' di ricerca, infine, e' garantita dall'articolo 33 della Costituzione, che stabilisce che l'arte e la scienza sono libere e libero ne e' l'insegnamento. Cio' implica, per un verso, che non possano esistere un'arte e una scienza di Stato, e, per un altro verso, che l'artista, lo scienziato e l'insegnante godano della massima liberta' di espressione. Quindi l'autonomia della ricerca - tema a cui e' dedicata la seconda parte del nostro seminario - chiama in causa gli studiosi, che dovrebbero essere tutelati da ogni costrizione o condizionamento da parte dei pubblici poteri, e dovrebbero essere garantiti nella possibilita' di esporre liberamente le idee, le teorie, le ipotesi e i risultati delle loro ricerche. Ma, com'e' noto, accade sempre piu' spesso che storici, sociologi e politologi, soprattutto quando studiano fenomeni contemporanei come la mafia o la corruzione o altri aspetti piu' o meno occulti e delicati del potere, siano esposti al rischio di essere trascinati in tribunale. * 2. Se questa e' l'importanza e la complessita' della posta in gioco, non sembra, pero', che le modifiche legislative in materia di diffamazione, approvate alla Camera nell'ottobre 2004 a larghissima maggioranza (con sei voti contrari e venti astenuti) e attualmente in discussione al Senato, ne tengano sufficientemente conto. Le novita' principali previste dal testo di legge sono: a) l'eliminazione della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa; b) l'inasprimento delle pene pecuniarie; c) l'introduzione della pena accessoria dell'interdizione temporanea dalla professione di giornalista nel caso di recidiva; d) la pubblicazione della rettifica (senza commento), anche per la stampa non periodica, come causa di non punibilita' in sede penale (solo se richiesta dalla parte offesa); e) l'imposizione di un limite massimo per il risarcimento equitativo del danno non patrimoniale (solo se non si tratta di recidiva); f) la riduzione dei tempi di prescrizione per l'azione civile; g) l'applicazione delle norme sulla stampa anche ai siti Internet. La riforma legislativa, quindi, cerca di misurarsi con i problemi relativi all'esercizio del diritto di cronaca, ma appare inadeguata ad affrontare, se non in via del tutto secondaria, le questioni che riguardano la liberta' di critica e di ricerca. Si tratta, a mio parere, di un approccio parziale e riduttivo rispetto alla complessita' e all'importanza nevralgica per un sistema democratico della materia in discussione. Non si sfugge all'impressione che interessi contingenti e veti incrociati abbiano inciso, in modo trasversale, sui parlamentari di entrambi gli schieramenti politici, rendendo impossibile, almeno per il momento, una riforma coerente e di ampio respiro. Sembra, in effetti, che il lungo e travagliato iter legislativo, arenatosi di fronte alla difficolta' di realizzare una sintesi di alto livello, sia provvisoriamente approdato ad un risultato minimale, che, per certi versi, appare piu' arretrato rispetto ai progetti originariamente presentati dai parlamentari dei diversi schieramenti politici. Ad esempio si sono perse per strada numerose proposte qualificanti: a) l'allargamento delle cause di non punibilita' (rettifica spontanea o richiesta, citazione di fonti attendibili, ricorso ad un giuri' d'onore) e l'estensione dei loro effetti di elisione anche al risarcimento del danno; b) la possibilita' per il presunto diffamatore di provare, a propria discolpa, la verita' di quanto pubblicato (attualmente il ricorso all'exceptio veritatis e' rimessa alla discrezionalita' del solo querelante); c) l'introduzione di condizioni di procedibilita' (la richiesta della rettifica e il ricorso al giuri' d'onore) sia per la querela che per l'azione civile; d) l'abrogazione delle ipotesi di diffamazione aggravata per offese arrecate ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario; e) la tutela delle fonti e del segreto professionale dei giornalisti. E va notato che le prime due proposte erano contenute sia nei progetti di legge della maggioranza che in quelli dell'opposizione, il che rende incomprensibile il motivo per cui siano state, poi, abbandonate. D'altra parte, le proposte approvate dalla Camera, piu' che raggiungere l'agognato equilibrio tra liberta' di espressione e tutela della persona, sembrano rispondere ad una logica contraddittoria, che oscilla tra le due alternative senza riuscire a trovare una terza via e, quindi, una sintesi piu' avanzata. Per un verso si abolisce la pena detentiva e si cerca di calmierare il mercato delle richieste di risarcimenti miliardari, ma per un altro verso si inaspriscono le pene pecuniarie e, soprattutto, si affida al giudice la possibilita' di comminare sanzioni disciplinari in sostituzione dell'Ordine dei giornalisti; cosi' come si prevede che la pubblicazione della rettifica escluda le sanzioni penali ma, contraddittoriamente, non quelle civili. Insomma, il rischio di questa riforma e' che con una mano tolga cio' che concede con l'altra, senza modificare nella sostanza l'attuale stato delle cose. * 3. Ma, paradossalmente, e' proprio l'attuale stato delle cose che le motivazioni delle diverse proposte di legge, presentate alla Camera tra il 2001 e il 2003, intendevano cambiare. Nel corso degli anni Novanta, infatti, si e' verificato un fatto nuovo in materia di diffamazione a mezzo stampa, e cioe' un crescente ricorso ad azioni civilistiche risarcitorie in sostituzione della tradizionale querela penale. Secondo l'opinione dei presentatori di alcuni progetti di legge vi sarebbero stati due fattori scatenanti: un indirizzo favorevole della Cassazione, nel 1984, sulla possibilita' di adire il giudice civile senza passare prima da quello penale, e una modifica apportata nel 1999 al codice penale (art.18, legge 24/11/99, n.468), che rendeva inappellabili le sentenze relative ai reati puniti con la sola pena pecuniaria (modifica successivamente abrogata dalla legge 26/3/2001, n.128). Cio' avrebbe comportato una vera e propria valanga di richieste di risarcimento, per un ammontare complessivo - secondo un'indagine svolta dall'Ordine dei giornalisti nel 2001 - di almeno 3.500 miliardi. Ma indipendentemente dai fattori scatenanti - su cui possono esservi opinioni diverse - e' certo che, a fronte di una minore efficacia delle querele penali per diffamazione, il procedimento civile e' molto piu' vantaggioso: il risarcimento danni puo' essere chiesto a distanza di cinque anni dai fatti (mentre per sporgere querela non si possono superare i novanta giorni); il presunto diffamatore puo' essere condannato anche se ha scritto la verita' ed anche se non sussiste volonta' diffamatoria; e' possibile ottenere risarcimenti molto elevati per "danno morale" anche quando non si riesca a dimostrare l'esistenza di un effettivo "danno patrimoniale"; la condanna, infine, e' immediatamente esecutiva, senza dover attendere l'espletazione di tutti i gradi del giudizio. Questa nuova tendenza ha prodotto, nel corso dell'ultimo decennio, un'evidente squilibrio a scapito della liberta' di stampa, e di cio' sembra esserci piena consapevolezza nelle motivazioni originarie di quasi tutti i progetti di riforma in materia di diffamazione. Come si spiega, allora, che le proposte presentate dai diversi gruppi parlamentari, impoverendosi e contraddicendo parzialmente le intenzioni iniziali, abbiano poi dato vita ad un testo di legge che, invece di ristabilire un giusto equilibrio tra interesse pubblico alla liberta' di stampa e tutela della reputazione, rischia di assecondare le tendenze in atto? Io credo che, per capire le ragioni di un iter legislativo cosi' contraddittorio e di un esito (almeno per il momento) cosi' deludente, sia necessario risalire non solo ai fattori tecnico-giuridici che hanno reso possibile l'offensiva civilistica che minaccia la liberta' di stampa, ma soprattutto al contesto politico-istituzionale in cui tutto cio' e' maturato. Mi riferisco alle vicende di "tangentopoli" e di "mafiopoli" ed al conseguente ed inedito conflitto tra poteri che caratterizza l'Italia in questa lunga fase di transizione politica. E' pur vero che la tendenza a trasferire il conflitto politico in sede giudiziaria non e' un'anomalia italiana, ma va inquadrata in un fenomeno piu' generale di "giudizializzazione della politica" che riguarda tutte le democrazie contemporanee. Ma e' altrettanto vero che almeno due aspetti di questo fenomeno si sono manifestati in modo particolarmente accentuato in Italia: da una parte, il controllo di legalita' esercitato dai giudici nei confronti delle classi dirigenti con le inchieste sulla corruzione e sui rapporti tra mafia, politica e affari; e, dall'altra, la crescente domanda di giustizia rivolta alla magistratura da parte dei cittadini, anche come conseguenza della crisi di fiducia nei confronti dei partiti e delle istituzioni rappresentative che svolgevano tradizionalmente una funzione di mediazione del conflitto sociale. Senza entrare, qui, nel merito di un tema che ci porterebbe troppo lontano dal filo del nostro ragionamento, mi limito a constatare la spirale viziosa che si e' innescata, ormai, da circa un decennio nel nostro Paese: numerosi esponenti politici della prima o della seconda repubblica, coinvolti a torto o ragione in procedimenti penali per mafia o corruzione, per un verso accusano pubblicamente una parte della magistratura di politicizzazione o, addirittura, di tramare per rovesciare gli equilibri politici del Paese, e per un altro verso, ritenendosi diffamati da informazioni e analisi critiche riguardanti il loro operato, cercano di rivalersi in sede giudiziaria, soprattutto civile, contro chi esercita, per professione o per impegno civico e politico, i diritti di cronaca, di critica e di ricerca. A loro volta, i magistrati reagiscono ai toni aggressivi e delegittimanti di una campagna mediatica senza precedenti, cercando anch'essi di rivalersi con lo strumento delle richieste di risarcimento contro i politici e i giornalisti che li attaccano. Questa spirale viziosa, che ha certamente contribuito in modo significativo all'inflazione delle azioni civilistiche e al loro effetto inibitorio nei confronti della liberta' di stampa, ha ulteriormente complicato la posta in gioco e ha reso piu' difficile la realizzazione di una riforma di ampio respiro, libera dai condizionamenti contingenti di un quadro politico-istituzionale cosi' conflittuale. * 4. Temo, dunque, che il testo di legge approvato dalla Camera, se diventasse definitivo cosi' com'e', non riuscirebbe a rompere questa spirale ne' ad invertire l'attuale tendenza alla monetizzazione del danno morale. Infatti l'introduzione di un tetto di 30.000 euro (comunque superabile in caso di recidiva) per il risarcimento equitativo del danno non patrimoniale e la riduzione ad un anno del termine della prescrizione non modificano sostanzialmente i vantaggi del ricorso all'azione civile, che continua a rappresentare, per le ragioni suddette, un terreno assai scivoloso per la difesa della liberta' di stampa. D'altra parte, il fatto che la pubblicazione della rettifica sia causa di esclusione delle sanzioni penali ma non di quelle civili (che puo' solo attenuare) rappresenta un'ulteriore incentivo alla scorciatoia civilistica. La monetizzazione del danno morale non solo si presta, come si e' detto, ad un uso strumentale delle richieste di risarcimento a scopo intimidatorio o speculativo, ma pone soprattutto il problema dell'inadeguatezza intrinseca del risarcimento monetario rispetto a un danno di natura non patrimoniale, che in quanto tale non puo' essere efficacemente risarcito su un piano economico. Quando il bene effettivamente leso e' la reputazione personale, se ne ottiene certamente una piu' efficace riparazione con una rettifica pubblica che non con un indennizzo in danaro, dato che i due beni non sono qualitativamente equivalenti. Le caratteristiche stesse del processo civile, che si svolge, per lo piu', attraverso uno scambio silenzioso di incartamenti tra le parti, non ne favoriscono la visibilita' sul piano dell'opinione pubblica e lo rendono piu' simile ad una sorta di rivalsa privata che non ad uno strumento di riabilitazione della reputazione ingiustamente danneggiata da atti o scritti diffamatori. Inoltre, i discutibili criteri "equitativi" elaborati dalla giurisprudenza per quantificare l'entita' del danno non patrimoniale pongono una rilevante questione di equita' sociale, nella misura in cui tengono conto esclusivamente del soggetto leso ma non del soggetto sanzionato, con la conseguenza di produrre effetti punitivi molto diversi se applicati a soggetti diseguali. Da questo punto di vista l'introduzione di un limite massimo per il risarcimento rappresenta un fatto positivo, nella misura in cui pone un argine alla discrezionalita' del giudice, ma nello stesso tempo continua a produrre effetti discriminatori. E' del tutto evidente, ad esempio, che se una condanna a 30.000 euro e' irrilevante per un grande editore, per un importante giornale o canale televisivo, e' pero' in grado di far chiudere un piccolo editore, un giornaletto di quartiere o una radio locale; ed e' certo che se scalfisce appena il reddito di un ricco imprenditore, di un anchorman televisivo o di un parlamentare (che, comunque, e' ben protetto dall'immunita'), ha invece effetti ben piu' pesanti su un giornalista che non abbia alle spalle nessuna copertura, su uno studioso o su un normale cittadino. Vi sono, dunque, molte valide ragioni per ritenere che le modifiche legislative in corso dovrebbero disincentivare, con ben maggiore efficacia di quanto non facciano, la tendenza alla monetizzazione del danno morale, e che, comunque, quando cio' fosse inevitabile, dovrebbero almeno prevedere una progressivita' della sanzione massima, una sorta di tetto mobile da stabilire in proporzione al reddito del soggetto sanzionato. * 5. Credo, in conclusione, che se si vuole davvero trovare un punto di equilibrio tra diritto di cronaca, di critica, di ricerca e tutela della reputazione personale bisogna percorrere una terza via, che punti soprattutto ad incentivare le possibili misure alternative sia all'azione penale che all'azione civile. E' certamente giusto e tardivo eliminare le pene detentive - invero quasi mai applicate - per i reati di diffamazione a mezzo stampa, ma la monetizzazione del danno morale non rappresenta un'alternativa convincente. La via da seguire era gia' parzialmente indicata in alcune proposte contenute nei disegni di legge della maggioranza e/o dell'opposizione, che sono state poi, inspiegabilmente, lasciate cadere: in particolare quelle che prevedevano l'introduzione di condizioni di procedibilita' e di diverse cause di non punibilita' (rettifica, giuri' d'onore, citazione delle fonti, exceptio veritatis) e l'estensione dei loro effetti di elisione anche al risarcimento del danno. Di tutto cio', nel testo approvato dalla Camera, e' rimasta soltanto la pubblicazione della rettifica (solo su richiesta della parte offesa) come causa di esclusione delle sanzioni penali ma non di quelle civili, che viene prevista anche per la stampa non periodica. Ma cio' non risolve il problema posto dall'esercizio dei distinti diritti di cronaca, di critica e di ricerca. E' infatti evidente che la rettifica e' doverosa ed efficacemente riparatoria soltanto in caso di notizie false o inesatte; ma appare contraddittoria o inefficace quando ci troviamo di fronte - e' il caso tipico della critica politica o delle analisi socio-politologiche e storiografiche - ad una legittima interpretazione soggettiva di fatti veri o ad un plausibile ragionamento ipotetico, derivante dalla concatenazione logica di fatti gia' accertati e rigorosamente riferiti. In questi casi, piuttosto, si potrebbe prevedere un vero e proprio "diritto di replica", garantendo a chi si ritenesse diffamato analoghi spazi e visibilita' sui media per rispondere alle accuse, alle critiche o alle interpretazioni non gradite. Se, insomma, si riuscisse a trasferire buona parte del contenzioso in materia di diffamazione a mezzo stampa in sede extragiudiziale, si potrebbe tutelare piu' efficacemente la reputazione personale senza mettere a repentaglio la liberta' d'informazione, di critica e di ricerca. Ma per determinare una svolta significativa in tale direzione occorrerebbe, oltre ad una riforma legislativa di maggior respiro, piu' coerente e coraggiosa di quella in corso, anche un mutamento di cultura politica per riportare il confronto delle idee, per quanto duro e aspro sia, sul terreno che gli e' proprio. A ben vedere ci troviamo spesso, oggi in Italia, di fronte ad un paradosso: gli attori politici che accusano la magistratura d'invadere campi che non le competono sono, curiosamente, gli stessi che reagiscono alle critiche rivolgendosi ai tribunali, delegando cioe' ai giudici il compito di dirimere la conflittualita' politica. Cosi' il capo del governo chiede un risarcimento plurimiliardario al capo del principale partito d'opposizione che lo ha definito "burattinaio"; ma non sono da meno quei parlamentari dell'opposizione che querelano il presidente del consiglio che ha parlato di "politici ladri" riferendosi genericamente ai politici di professione. Naturalmente, nei casi suddetti, essendo i contendenti al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica, nonche' coperti dall'immunita' parlamentare, prevalgono gli aspetti strumentali e propagandistici; ma quando questa prassi dilaga dal centro alla periferia, e vengono colpiti numerosi giornalisti, studiosi e semplici cittadini, il rischio e' che ne risulti inibito l'esercizio diffuso di alcuni fondamentali diritti democratici garantiti dalla Costituzione. Una buona riforma legislativa e' necessaria per disincentivare i comportamenti viziosi e incentivare quelli virtuosi, ma se gli attori del gioco politico non acquisiscono una comune percezione dei limiti entro cui puo' svolgersi il conflitto democratico, sara' difficile invertire la tendenza in atto. 5. LIBRI. BENEDETTO VECCHI PRESENTA "SICURI DA MORIRE" DI ARJUN APPADURAI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 giugno 2005. Benedetto Vecchi e' redattore delle pagine culturali del quotidiano "Il manifesto"; nel 2003 ha pubblicato per Laterza una Intervista sull'identita' a Zygmunt Bauman. Arjun Appadurai, antropologo di origine indiana, docente negli Stai Uniti, sodale di Edward Said, militante nella nuova sinistra, e' acuto studioso della globalizzazione] Paura e sicurezza, un binomio da sempre presente nella filosofia e nelle scienze sociali moderne al punto che si potrebbe riscriverne la storia partendo da quando fu evocata la figura biblica del Leviatano per contrapporla al suo "oppositore" Beemoth, il mostro sinonimo di caos, arbitrio e assenza di "leggi certe", come scrisse negli anni '30 il marxista Franz Neumann per spiegare il successo del nazismo nella Germania umiliata dal trattato di Versailles. E' noto che lo stato hobbesiano e' una costruzione crudele anche per garantire la sicurezza dei sudditi di fronte al generalizzato sentimento di paura e di vulnerabilita' individuale che accompagnava le sanguinose guerre civili seicentesche. Allo stesso tempo, accelerando pero' l'orologio della storia e portando le lancette nel Novecento, anche il welfare state fondava la sua legittimazione come risposta alla paura e all'insicurezza seguite alla spaventosa inflazione degli anni Venti in Europa, al giovedi' nero di Wall Street nel 1929 e alla conseguente guerra mondiale. In altri termini lo stato moderno, monopolizzando la decisione politica, ha ridotto la gestione della paura e della sicurezza a pratica amministrativa. Non e' dunque un caso che la crisi del welfare state abbia fatto diventare nuovamente centrale, nelle scienze sociali piu' che nella filosofia, il binomio paura e sicurezza. E se Zygmunt Bauman considera la "solitudine del cittadino globale" causata dalla dismissione dello stato sociale foriera di terror panico, il suo collega d'oltreoceano Richard Sennett individua nella vulnerabilita' individuale il tarlo per quella corrosione del carattere che caratterizza il capitalismo postfordista. Di ben altro tenore e' invece la riflessione che l'antropologo "postcoloniale" Arjun Appadurai ha consegnato nel recente volume Sicuri da morire (Meltemi, pp. 189, euro 17). * Indiano di nascita, Appadurai ha respirato sin dalla nascita quel fascinoso eppure contraddittorio melting-pot formatosi dall'incontro della cultura anglosassone con quella indiana, che ha mirabilmente sintetizzato nella Modernita' in polvere (Meltemi), in particolar modo quando svolge l'analisi sul ruolo svolto dal cricket nell'India coloniale. Un gioco certamente imposto dagli occupanti, ma da questi considerato una orgogliosa manifestazione "anticoloniale" nei confronti dell'impero inglese, visto che gli indiani risultavano essere molto piu' bravi dei loro "nemici" della Union Jack. Appadurai ha poi lasciato l'India per approdare negli Stati Uniti, dove ha stabilito un forte sodalizio intellettuale con Edward Said, militando nella nuova sinistra statunitense fino a diventare, alla fine degli anni Ottanta, un attento investigatore della nascente globalizzazione che trova nella proliferazione delle cosiddette "identita' culturali" la sua spinta innovativa nei consumi, ma anche un fattore di precaria stabilita' politica, perche' corrode dall'interno le istituzioni preposte alla sua riproduzione sociale. * Ma questo Sicuri da morire non si pone l'obiettivo di indagare la "natura" della globalizzazione, ma i sentimenti di paura, di insicurezza, di ostilita' che essa ha prodotto, al punto che in uno dei testi che compongono il volume Appadurai giunge ad affermare che l'attacco alle Twin Towers ha inferto alla globalizzazione se non un colpo letale qualcosa che gli somiglia moltissimo. Il suo punto di partenza e' il moltiplicarsi delle guerre etniche in Africa e la crescita, tanto negli Stati Uniti che in Europa che in Asia, di un nazionalismo populista fondato su identita' etniche o confessionali "predatrici". La sua analisi cerca la propria genealogia negli studi sulla personalita' autoritaria della scuola di Francoforte, nello studio di Benedict Anderson sulla fondazione degli stati come rappresentazione politica di "comunita' immaginate" e sul rapporto tra cultura e imperialismo, come recita il titolo di un testo di Edward Said, il sodale compagno di strada che ritorna continuamente nelle pagine di questo libro. Ma cio' che distingue il mondo del dopo crollo del Muro di Berlino e' il complesso rapporto tra maggioranze e minoranze all'interno di una stessa nazione: la minoranza diventa, infatti, la metafora del tradimento delle elite locali perche' incapaci di mantenere le loro promesse di essere garanti della sovranita' nazionale a causa della "distruzione creatrice" che caratterizza, come condizione permanente, la globalizzazione. La paura e la sicurezza diventano allora le armi contundenti da utilizzare contro un supposto nemico interno o esterno, fino a perpetrare veri e propri genocidi o piu' asetticamente "pulizie etniche" per ripristinare la sovranita' perduta. Le guerre che si sono avvolte su se stesse come una crudele giostra sono state dunque guerre della nazione e dentro la nazione condotte per ripristinare la "purezza perduta" a causa della globalizzazione economica. Il nazionalismo populista su basi etniche pone cosi' politicamente nuovi confini per difendere una astratta comunitq' dal pericolo rappresentato dall'"altro", in particolare quando la supposta "minoranza" ha una prossimita' spaziale con le maggioranze. A ragione Appadurai parla di questo tipo di nazionalismo come espressione di un sistema-mondo "vertebrato" che confligge con quello "cellulare" e reticolare della globalizzazione. Ma e' tuttavia un conflitto che non si pone l'obiettivo di costruire un'alternativa al mondo cellulare della globalizzazione, come invece afferma l'autore. Semmai vuol garantire la continuita' stessa dello stato-nazione, ridotto pero' a "custode armato" di quella globalizzazione che a parole vuol contrastare: le sue fonti di legittimazione sono infatte da ricercare all'esterno (le imprese transnazionali e gli organismi internazionali) e solo successivamente "interne", cioe' in quella comunita' "liberata" opportunamente dalle impurita' delle minoranze La difesa della sovranita' nazionale e' dunque il feticcio da brandire nel patteggiamento sulle migliori condizioni per entrare nella grande giostra dell'economia mondiale. Lo stato-nazione del ventunesimo secolo e le elite globali possono dunque rappresentarsi come nodi di una rete globale che, assieme ad altri "attori economici-politici", esercitano la sovranita' su scala mondiale, con buona pace di chi, nella sinistra orfana del quarto stato e nella destra politica, continua a presentare lo stato-nazione come uno degli ultimi argini al dilagare della globalizzazione economica. La paura e la sicurezza diventano cosi' una pratica amministrativa da gestire su piu' livelli anche se spogliata da ogni pretesa universalistica: con operazioni di polizia internazionale volti a garantire il successo di interventi umanitari, con la riaffermazione su scala locale di un'esangue etica del lavoro, come attestano i progetti di workfare state, o con la guerra come strumento di governo politico delle relazioni internazionali. * Sicuri da morire conduce si' il lettore in quella terra di nessuno dove il conflitto tra Beemoth e Leviatano assume le caratteristiche dell'"economicidio" e del genocidio, ma per ricordare che il confronto tra le due figure bibliche rappresentanti il caos e l'ordine sono, di volta in volta, intercambiabili per definire il governo delle "passioni umane". Illuminanti sono a questo proposito le pagine dedicate alle "politiche del corpo" condotte dai "nuovi" nazionalisti, tanto in Africa (il conflitto tra Tutsi e Hutu) che negli Usa, dove il corpo e' ricondotto alle, cattive, astrazioni della classificazione secondo linee del colore, preferenze nei consumi, stili di vita, preferenze sessuali. Ma tra Beemoth e il Leviatano c'e' comunque una via di fuga. Per Appadurai e' l'esercizio della critica: piu' realisticamente va invece cercata nell'esercizio dell'esodo o nella pratica della defezione che caratterizza i "movimeti anti-sistema", cioe' in quella modalita' dell'agire politico che, partendo dalla critica ai rapporti sociali di produzione, non preveda il ripristino del monopolio della decisione politica cara allo stato-nazione. 6. RIVISTE. CON "QUALEVITA", LA LEZIONE DI TONINO BELLO Abbonarsi a "Qualevita" e' un modo per sostenere la nonviolenza. Ponendosi all'ascolto della lezione di Tonino Bello. * "Pace e' vivere radicalmente il 'faccia a faccia' con l'altro. Non il teschio a teschio" (Antonio Bello, Sui sentieri di Isaia, La meridiana, Molfetta (Ba) 1989, 1999, p. 109). * "Qualevita" e' il bel bimestrale di riflessione e informazione nonviolenta che insieme ad "Azione nonviolenta", "Mosaico di pace", "Quaderni satyagraha" e poche altre riviste e' una delle voci piu' qualificate della nonviolenza nel nostro paese. Ma e' anche una casa editrice che pubblica libri appassionanti e utilissimi, e che ogni anno mette a disposizione con l'agenza-diario "Giorni nonviolenti" uno degli strumenti di lavoro migliori di cui disponiamo. Abbonarsi a "Qualevita", regalare a una persona amica un abbonamento a "Qualevita", e' un'azione buona e feconda. Per informazioni e contatti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. 3495843946, o anche 0864460006, o ancora 086446448; e-mail: sudest at iol.it o anche qualevita3 at tele2.it; sito: www.peacelink.it/users/qualevita Per abbonamenti alla rivista bimestrale "Qualevita": abbonamento annuo: euro 13, da versare sul ccp 10750677, intestato a "Qualevita", via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), specificando nella causale "abbonamento a 'Qualevita'". 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 963 del 16 giugno 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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