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La nonviolenza e' in cammino. 945
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 945
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 30 May 2005 01:14:40 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 945 del 30 maggio 2005 Sommario di questo numero: 1. Una fiaccolata per Clementina 2. Manuela Dviri: Un dialogo in un carcere tra donne ancora vive 3. Enrico Peyretti: Al presidente della Repubblica, per il 2 giugno 4. A Firenze il 7 giugno 5. Vandana Shiva: La grande pattumiera del mondo 6. Chiara Veltri intervista Homi K. Bhabha 7. Con "Qualevita", la lezione di Leandro Rossi 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. INIZIATIVE. UNA FIACCOLATA PER CLEMENTINA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 maggio 2005 riprendiamo ampi stralci del seguente appello. Clementina Cantoni, volontaria dell'associazione umanitaria "Care international", impegnata in Afghanistan nella solidarieta' con le donne, e' stata rapita alcuni giorni fa] Una persona stupenda, oltre che nostra amica, e' stata privata della liberta', della sicurezza, degli amici, degli affetti familiari e di ogni altra cosa che abbia valore nell'esistenza umana... Clementina era impegnata in Afghanistan, ormai da tre anni... Lo faceva con grande coscienza e generosita', e con tutta la carica di umana simpatia che il suo cuore riusciva a preservare dalla durezza delle condizioni in cui si trovava a operare, resistendo alla tensione ambientale fortissima di un paese in uno stato di guerra non dichiarata, e al peso delle tragedie umane in cui era quotidianamente coinvolta. Il suo rapimento e' inaccettabile, per il popolo afghano, per quegli operatori internazionali che spendono la propria esistenza lavorando a fianco di questo e altri popoli colpiti dalla guerra, per chiunque si opponga nel mondo alle logiche della guerra, anche quando non viene definita tale e soprattutto per i familiari e gli amici di Clementina e per lei stessa, che unisce idealmente queste categorie di persone e che non merita di patire ulteriori sofferenze. Per l'immediata liberazione di Clementina, la societa' civile, i movimenti, le associazioni, gli studenti si mobilitano lunedi' in una fiaccolata di solidarieta... con interventi della comunita' afghana di Bologna e di amici di Clementina... Comitato di solidarieta' per Clementina Cantoni 2. TESTIMONIANZE. MANUELA DVIRI: UN DIALOGO IN UN CARCERE TRA DONNE ANCORA VIVE [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo questo articolo di Manuela Dviri apparso sul "Corriere della sera" del 23 maggio 2005, che riferisce di una sua visita del 17 gennaio 2005 ad una prigione israeliana in cui sono detenute donne palestinesi coinvolte in attentati suicidi. Manuela Dviri Vitali Norsa, nata a Padova nel 1949, dopo il matrimonio si e' trasferita in Israele dedicandosi all'insegnamento; giornalista e scrittrice, e' impegnata nel movimento pacifista israeliano; "Dal giorno della morte in territorio libanese del figlio ventenne, Jonathan, durante il servizio di leva, Manuela Dviri e' diventata una importante esponente del movimento pacifista israeliano e tra i sostenitori del dialogo e la collaborazione tra la societa' israeliana e palestinese. Giornalista e scrittrice... e' stata tra le esponenti del gruppo delle 'quattro madri' per il ritiro delle truppe israeliane dalla striscia di sicurezza libanese, poi avvenuto nel 2000. Pubblica su vari giornali israeliani e sul 'Corriere della Sera'" ("Il manifesto"). Opere di Manuela Dviri: La guerra negli occhi, Avagliano Editore, Cava de' Tirreni 2003; Vita nella terra di latte e miele, Ponte alle grazie, Milano 2004] "Doveva essere ben profondo quel pozzo... giu' giu' giu'... il centro della terra non dovrebbe essere tanto lontano... e se attraversassi tutta la terra? arriverei dalla parte opposta..." (da Lewis Carroll, Alice nel Paese delle meraviglie) Una mattina di meta' gennaio, era appena tornato il sole, mi sono trovata catapultata al centro della terra, nel mondo alla rovescia, dalla parte opposta, nel "sancta sanctorum", la prigione israeliana che custodisce le "suicide", le donne martiri palestinesi, le "kamikaze" vive. Sono qui, e vive, perche' hanno cambiato idea all'ultimo momento o sono state arrestate o non ci sono riuscite. Vivono da allora a poca distanza delle piu' belle ville israeliane, nel cuore della zona piu' fertile d'Israele, lo Sharon, nell'omonima prigione. Sono custodite dentro una sorta di labirinto, dietro sette, forse otto tra porte di ferro e cancelli, al di la' di lunghi corridoi a cui pochi hanno il permesso di accedere, e ai quali si arriva scendendo e risalendo scale e controscale. A ogni porta che si chiudeva, quella mattina di meta' gennaio, a ogni giro di serratura, l'interprete che avevo accanto si girava verso di me con occhi sempre piu' spaventati. B. la guardia non armata ("da noi non usa portare armi"), una giovane donna bionda dall'aria tranquilla, descrive cosi' le sue "ragazze": "Sono trenta, tra i 17 e i trent'anni, sposate e nubili, con figli e senza. Le loro sono storie da mille e una notte. Alcune di loro hanno riscattato in questo modo un padre/fratello/marito/amante collaborazionista, altre sono sfuggite cosi' alla morte per delitto d'onore, per altre ancora, psicologicamente fragili, e' stato un bel modo di suicidarsi diventando, contemporaneamente, eroine della patria. Quasi tutte provengono da famiglie di livello socio-economico basso. Per me pero' sono solo normali ragazze, non voglio sapere che cosa hanno fatto, ne' giudicarle o tanto meno odiarle, perche' non riuscirei piu' a prendermi cura di loro". - Manuela: Come sono organizzate? - B.: Molto bene, con tanto di elezioni democratiche (durante le quali ci furono feroci risse, raccontarono allora i giornali - ndr -); hanno persino scelto due capigruppo che fanno anche da portavoci, una per Hamas e la Jihad, una per Al Fatah e i martiri di Al Aqsa (i due gruppi non vanno molto d'accordo). Le due cape scelgono anche chi - e se, quando e come - verra' intervistata, e io non assistero' all'intervista. Lei puo' chiedere e scrivere tutto quello che vuole. Adesso esco, ma solo per cinque minuti, per portare uno dei loro bambini dal pediatra. Questa e' la cucina dove si fanno da mangiare, questa e' la lavatrice, potete fotografare ovunque tranne che nelle celle per una questione di privacy... se ha bisogno di me, mi chiami pure. Non ne ho avuto bisogno. Per convincerle mi ero portata due "Vanity Fair" con copertine maschili (le donne senza velo, pensavo, non sarebbero state particolarmente gradite). Richard Gere e' stato subito riconosciuto (Mentana, mi dispiace, no) e gli incontri sono stati autorizzati molto rapidamente. Gere e' poi sparito misteriosamente in una delle celle, da cui non e' piu' riapparso. Con le intervistate - che, di due che erano in programma, sono diventate, cinque ore dopo, otto - mi sono incontrata nella saletta del direttore, senza alcuna guardia visibile, e poi fuori, nel cortile interno accanto alle celle. L'atmosfera era tranquilla, senza drammi. A casa, la sera, sono crollata. E queste sono alcune delle loro storie. * Gruppo A: Hamas-Jihad Ayat Allah (miracolo di Dio) Kamil, di Kabatya, 20 anni; Baid Yaam, Campo profughi "Ballata", 26 anni; Haula Hashash, 19 anni, di Nablus; e Raida Jadana. - Ayat: Sono nata a Kabatya, ma ho vissuto tutta la mia infanzia in Arabia Saudita. La vita in Saudia era magnifica per una donna, li' si' che si vive nello spirito dell'Islam, li' si' che la donna viene trattata come la piu' preziosa delle pietre. Poi, dopo un anno in Giordania, sono tornata in Palestina, con i miei otto fratelli e sorelle. - Manuela: Come sei diventata martire? - Ayat: Per la mia religione. Sono molto religiosa. - Manuela: Ma il Corano non parla di donne shaid (martiri). - Ayat: Per la guerra santa (Jihad) non c'e' differenza tra uomini e donne. - Manuela: Secondo il Corano il martire maschio verra' accolto in paradiso da settantadue splendide vergine, e la martire femmina? - Ayat: La martire femmina sara' la responsabile, la direttrice, l'ufficiale delle settantadue vergini, la piu' bella delle belle. - Manuela: E come e quando ti e' venuta l'idea di immolarti per la patria e diventare la capo-vergine? - Ayat: Ho chiesto a Dio misericordioso di aiutarmi, e lui mi ha mandato l'idea di fare ufficiale richiesta alla persona giusta (che nel mio caso e' stata una ragazza come me), la mia richiesta e' stata accettata e mi sono arruolata. - Manuela: E quindi, se ci fossi riuscita, avresti potuto uccidermi... - Ayat: Avrei preferito uccidere soldati, non civili, non mi sarei mai fatta esplodere apposta tra malati, in un asilo o in un gruppo di anziani. - Manuela: Ma io non sono malata ne' vecchia ne' bambina, e poi quando esplode la bomba non guarda tanto per il sottile, avresti potuto uccidermi facilmente... - Ayat: Pazienza. Vuol dire che era il tuo destino, o quello del fotografo o dell'interprete che sono con te, dipende... io non posso cambiare il destino. - Manuela: Come molti altri, israeliani e palestinesi, sono anni che lavoro per un futuro migliore, anche vostro. Io faccio il possibile per aiutarvi, per aiutarti, mi uccideresti ugualmente? - Ayat: Il destino e' destino, non guarda a quello che fai o sei... Qui s'intromette la sua amica Yaam, fazzoletto nero, occhi di fuoco: "Anche l'esercito israeliano non distingue tra uomini e donne, vecchi e bambini, noi non abbiamo un esercito organizzato, non ho nulla contro di te personalmente, ma la guerra e' cosi', e ogni palestinese, uomo o donna, e' un soldato". - Manuela: Avete sogni per il futuro? E che sogni? - Ayat: Che il mondo diventi islamico, un mondo in cui vivremo tutti in pace gioia e armonia, tra esseri umani, animali, fiori, piante e pietre. L'Islam portera' la pace persino tra i vegetali e gli animali, l'erba e i sassi... E tu potrai rimanere ebrea, quello che vuoi, non importa, ma in un mondo islamico. - Manuela: E come passano, nel frattempo, aspettando il perfetto mondo islamico, le vostre giornate? - Yaam: Ci alziamo alle cinque e preghiamo cinque volte al giorno: la preghiera della mattina, di mezza-mattina, di mezzogiorno, di meta' pomeriggio e sera. Tra una preghiera e l'altra leggiamo versetti del Corano; e poi abbiamo i nostri digiuni, non tutti importanti come il Ramadam, ma pur sempre digiuni. Oggi, per esempio, siamo a digiuno, che tra l'altro fa anche molto molto bene alla salute. Nel tempo libero studiamo ebraico e anche russo da una ragazza russa che si e' convertita all'Islam. - Ayat: L'importante e' fare sempre qualcosa, non stare senza far nulla, essere sempre attive. - Manuela: E' proprio quello che mi preoccupa. Sono contenta di avervi incontrate qui e non per la strada. Le due sorridono: "E' il destino". - Manuela: E non riesco proprio ad accettare che con quel viso angelico e quegli occhi innocenti siate capaci di esplodere in mille pezzi e uccidermi... - Yaam: Se ti avessi incontrata per la strada e ti avessi vista ferita o bisognosa di aiuto ti avrei aiutata. Anche con le guardie, qui, siamo in ottimi rapporti, ma fuori e' un'altra storia, e' un campo di battaglia. Nulla di personale, ripeto. E la risposta e' la conversione all'Islam. - Manuela: C'e' chi crede la stessa cosa della Bibbia, del Vangelo, di Buddha... - Ayat: Si sbagliano. - Haula: "Sono figlia del mio popolo e, fino a quando ci sgozzerete, noi dovremo reagire. Questo e' il nostro paese, non il vostro, e' tutta li' la differenza" dichiara. - Raida (l'unica con il capo scoperto): Io in verita' non ho fatto niente. E se avessi saputo come andava a finire non avrei fatto neanche quel niente che ho fatto. E adesso mi sono pentita. No, non e' la prigione che mi ha cambiata. Sono cambiata io, da sola. E poi ho tanto nostalgia della mia mamma. Sono la piu' giovane della mia famiglia e malgrado abbia 22 anni adoro dormire raggomitolata nel suo grembo. Mi manca tanto. Quando mi hanno arrestata ero proprio nel suo letto, accanto a lei... non vedo l'ora di tornarci, di tornare a dormire la' nel lettone con lei. Prima, io facevo l'estetista, e a dir la verita' ho anche orrore del sangue. Qualcosa di grosso deve aver pur fatto anche lei per essere qui, mi dicevo poco convinta, mentre mi avviavo verso il secondo gruppo, quello delle meno religiose, le Fattah. * Gruppo B: Al Fatah, Martiri Al Aqsa Kahira Saadi e Chamor Teoraia. Nel cortile del secondo gruppo mi aspettava Kahira Saadi, una delle celebrita locali. Kahira, velo grigio, occhi tristissimi, ha ventisette anni ed e' gia' madre di quattro figli. E' la responsabile di un attentato in cui sono morte quattro persone e ne sono rimaste ferite ottanta. Tra i morti, Zipi Shemesh, incinta di cinque mesi, e suo marito Gad. Erano andati a fare una seduta di ultrasound, e avevano lasciato a casa, con la baby sitter, le loro due bambine: Shoval, sette anni, e Shahar, tre. I visi delle due bellissime bimbe bionde, cosi' piccole e cosi' disperate, li ho ritrovati in un'antica pagina d'archivio in internet. Kahira e' stata condannata a tre ergastoli e altri ottant'anni. - Manuela: Kahira, dimmi la verita, i morti non ti perseguitano la notte? - Kahira: No, e poi l'attentatore si sarebbe fatto esplodere anche senza di me, io fisicamente non ho ucciso nessuno. - Manuela: Quanti anni hanno i tuoi figli? - Kahira: Sei, otto, undici e dodici anni. - Manuela: E con chi vivono adesso? - Kahira: Con mia suocera, anche mio marito e' in prigione. - Manuela: Non sei pentita di aver rovinato, oltre alla tua, la loro vita? - Kahira: "L'ho fatto per difenderli. Non sono pentita, siamo in guerra. Pero', forse non lo rifarei. E' stato un impulso" mi ha risposto Kahira con aria truce. "Perche mi odi?" le ho chiesto in quel momento, spaventata da quegli occhi e da quello sguardo. - Kahira: Ma io non ti odio . Ma tu, invece, tu mi odi? - Manuela: No. Neanch'io. - Kahira: Eppure dovresti... perche'? - Manuela: Credo che la vera ragione di quello che hai fatto sia diversa da quella ufficiale. - Kahira: E hai ragione, anche se le ragioni non te le diro'. - Manuela: E poi penso che tu stia pagando abbondantemente. Chi viene qui a trovarti? - Kahira: Per i primi due anni non e' venuto nessuno, adesso stanno cominciando a venire i miei figli. - Manuela: Hai avuto il coraggio di dirgli che da qui non uscirai mai? - Kahira: No, e confido che Dio in qualche modo risolva il mio problema; io, ripeto, non ho ucciso fisicamente nessuno, quel giorno. - Manuela: Che cosa hai fatto? - Kahira: Ho aiutato l' attentatore ad entrare a Gerusalemme, gli ho dato dei fiori da tenere in mano. - Manuela: Quando? - Kahira: Non mi ricordo la data esatta, mi ricordo solo che era il giorno della festa della mamma, per quello gli avevo preparato i fiori. - Manuela: Allora era febbraio, era lamed b'shvat, secondo il calendario ebraico. - Kahira: Come fai a ricordartelo cosi' bene? - Manuela: Perche' mio figlio e' stato ucciso di lamed b'shvat, il giorno della festa della mamma. L'ho vista impallidire, quasi barcollare. - Manuela: "No, non sei stata tu, era il 1998", ho aggiunto, "e mio figlio era soldato, era in Libano; il tuo attentato e' stato nel 2002. Di certo, pero', abbiamo un anniversario in comune". Khaira mi ha guardato con uno sguardo che non riusciro' mai a descrivere e non ha aggiunto una parola. Anche il linguaggio umano ha i suoi limiti. * Chamor Theoraia L'ultima intervista, alla giovane donna che nella mia memoria e' rimasta impressa come "la suorina" per la sua aria dimessa e il suo modo di portare il fazzoletto come il velo delle suore di una volta (tutta una questione di moda, mi ha spiegato lei), e' stata per me anche la piu' difficile. Credo che mi abbia colpito e spaventato soprattutto il contrasto tra il suo viso da bambina, tutto un sorriso, con le fossette e le guance paffute, e le sue convinzioni, totali, estreme, crudeli. Mentre la intervistavo, Khaira, in piedi, accanto a lei, ascoltava e ogni tanto mostrava segnali di disapprovazione. Poi di tanto in tanto si allontanava per tornare con un bambino in braccio, un'amica, un'altra "martire" o aspirante martire da intervistare. Chamor Theoraia, crede con assoluta convinzione che tutti gli ebrei israeliani debbano tornare ai Paesi da cui sono arrivati. "Tu in Italia, tu in Germania, tu in Marocco!" punta il dito su di me (Italia), sul fotografo (Germania) e sull'interprete (Marocco). - Manuela: E che fare di chi viene dall'Iran, dalla Siria, dal Libano, dalla Libia, Paesi che di certo non accetterebbero noi ebrei indietro? "Quelli che vadano in America! Anzi, meglio che ci andiate tutti, in America" risponde senza alcun dubbio. Poi aggiunge che lei non crede in alcuna probabilita' di accordo tra i due popoli, che gli ebrei sono tutti traditori, che va bene fare la pace, ma perche' a sue spese? E che riprendersi la terra rubata dai sionisti e' molto piu' importante della vita dei suddetti o della sua stessa. E che, purtroppo, l'hanno presa prima che potesse esplodere, pero'... Poco importa che avessi letto la sua storia vera, quella per la quale era stata processata (niente di particolarmente patriottico, si era data al martirio per una storia di amore contrastato dalla famiglia e poi all'ultimo momento, quando era gia' pronta, vestita con la cintura esplosiva con l'aggiunta di 35 chili di chiodi, ha cambiato idea ed e' stata arrestata), a quel punto non ce l'ho fatta piu'. * Ho spiegato alle ragazze che mi attendevano per chiacchierare (compresa la madre del bambino appena tornata dal pediatra) che ero stanca e che "sara' per la prossima volta". Alcune mi sono sembrate persino deluse. Poi ho promesso di spedire l'intervista a una delle martiri e mi sono segnata con cura il suo numero di cellulare al campo profughi (tra pochi mesi sara' libera). Il mio non gliel'ho dato; non mi sembrava il caso, viste le circostanze. Sono ottimista, ma non pazza. Fuori, mai ho tanto goduto l'improvvisa pioggia come quel giorno, e piu' tardi, a casa, il mio letto dove ho dormito, quella notte di meta' gennaio, per ben 14 ore di fila, senza un sogno. 3. LETTERE. ENRICO PEYRETTI: AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, PER IL 2 GIUGNO [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci inviato copia di questa sua lettera aperta inviata alcuni giorni fa al capo dello stato, che riprende una bozza redatta da Antonella Sperone (per contatti: anto at lillinet.org) e diffusa nella mailing list del gruppo di lavoro tematico su "nonviolenza e conflitti" della Rete Lilliput. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recente edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario] Signor Presidente della Repubblica, da qualche anno, come per Suo volere, e' stata ripristinata la celebrazione militare della festa della Repubblica e della Costituzione. Ne' il grande giorno del 2 giugno 1946, ne' l'immagine migliore della nostra Patria, hanno un carattere militare. Allora, perche' questa distorsione, se non per concessione atavica a poteri particolari e parziali? Sono circa venti anni o piu' che, ogni volta che il 2 giugno vede la parata militare, scrivo queste semplici verita' ai successivi presidenti della Repubblica, forse - non vorrei pensarlo - impossibilitati a recepirle da qualche pressione sulla loro autonomia e sul loro senso civile. Anche volendo ammettere - ma non e' cosi' - che i mezzi militari siano sempre necessari, dobbiamo riconoscere che non sono la piu' civile, la piu' umana, la piu' avanzata espressione del nostro popolo. La mia lettera di quest'anno ricalca un testo preparato da associazioni impegnate a costruire la civilta' pacifica e giusta del nostro Paese. * Quello che ci chiediamo e' questo: se, come recita l'art. 1 della Costituzione, l'Italia e' una Repubblica fondata sul lavoro, perche' le celebrazioni previste e finora realizzate mirano a mettere in evidenza la sola professione militare, che la gente sempre piu' sente distante dalla propria realta' quotidiana e dalle proprie migliori aspirazioni? E cio' specialmente oggi, in presenza tragica delle piu' ingiustificabili di tutte le guerre, in cui e' stato coinvolto vergognosamente e immoralmente, contro la volonta' popolare, anche il nostro Paese. Se la Repubblica siamo noi, perche' non offrire ai cittadini la possibilita' di essere protagonisti - e non spettatori - della loro festa onorando i loro mestieri, le loro professionalita', invece di metterne in evidenza solo alcune, le piu' roboanti e costose e sgradevoli? Signor Presidente, far coincidere la festa della Repubblica con una parata militare e' per noi, cittadine e cittadini che lavorano in continuita' quotidiana in associazioni impegnate sui terreni della cultura di pace, della nonviolenza, dell'economia di giustizia, limitante e persino offensivo. Pensiamo che non sia giusto celebrare una parte per il tutto, perche' il tutto (la Repubblica) e' molto piu' vasta, piu' variegata, piu' viva. Ci scusi, presidente, ma noi non ci sentiamo minimamente rappresentati nel modo con cui viene celebrata la ricorrenza. Questo sentire e' della maggioranza della cittadinanza con la quale ogni giorno lavoriamo e parliamo. Se poi, caro Presidente, si dovesse proprio decidere di festeggiare una parte per il tutto, perche' non scegliere un'altra parte della nostra Repubblica? L'Italia e' una terra generosa, gli italiani sono un popolo volenteroso e generoso, come testimoniano le 26.400 organizzazioni di volontariato con circa 950.000 unita' di volontari/e, la maggioranza dei quali - il 58% - vi opera assiduamente fornendo il proprio apporto con continuita', in modo sicuramente non meno eroico - e noi pensiamo anzi di piu' - dei militari molto pagati nelle spedizioni dette di pace. I volontari della solidarieta', dell'informazione e della pace, rimasti vittime di sequestri - come in questo momento ancora Clementina Cantoni in Afghanistan - e di morte nelle terre offese dalla guerra, al servizio della giustizia per quei popoli martoriati, sono l'avanguardia civile e bella e umile del nostro popolo, degna del massimo onore nella piu' grande festa nazionale, quale e' il 2 giugno. Perche' nella festa della Repubblica, del popolo italiano, non scegliamo di celebrare questo aspetto, perche' non far coincidere la Repubblica con i cittadini, con la parte migliore dei cittadini, quella solidale e cooperativistica, quella generosa che offre e si dona? Ci sentiremmo molto meglio rappresentati e non andrebbe neppure trascurato il potere educativo di una simile azione rispetto alle nuove generazioni, cosi' disperatamente alla ricerca di significato nella vita e di modelli validi, che tanto ci mancano in questa societa' e che finiscono per essere vergognosamente sostituiti da quelli televisivi, gli unici proposti continuamente. Signor Presidente, lei ha la possibilita' di spezzare questa perversa catena: ci dia, simbolicamente, la possibilita' di essere presenti (celebrando i nostri lavori, tutti) e metta in luce la parte migliore della Repubblica: l'impegno solidale dei suoi cittadini. Lo dica, nel migliore dei modi che Lei sapra' trovare, come tante volte sta facendo, nel Suo discorso e messaggio ufficiale del 2 giugno. Noi attendiamo da Lei con fiducia questo segnale di civilta'. Porgiamo a Lei, alla Sua famiglia, a tutto cio' che Le sta a cuore, i migliori auguri per il 2 giugno, festa di nascita della nostra Repubblica e della nostra esemplare Costituzione. 4. INCONTRI. A FIRENZE IL 7 GIUGNO [Ringraziamo Alberto L'Abate (per contatti: labate at unifi.it) per averci trasmesso notizia di questo incontro. Alberto L'Abate e' nato a Brindisi nel 1931, docente universitario, promotore del corso di laurea in "Operazioni di pace, gestione e mediazione dei conflitti" dell'Universita' di Firenze, amico di Aldo Capitini, e' impegnato nel Movimento Nonviolento, nella Peace Research, nell'attivita' di addestramento alla nonviolenza, nelle attivita' della diplomazia non ufficiale per prevenire i conflitti; ha collaborato alle iniziative di Danilo Dolci e preso parte a numerose iniziative nonviolente; come ricercatore e programmatore socio-sanitario e' stato anche un esperto dell'Onu, del Consiglio d'Europa e dell'Organizzazione Mondiale della Sanita'; ha promosso e condotto l'esperienza dell'ambasciata di pace a Pristina, ed e' impegnato nella "Campagna Kossovo per la nonviolenza e la riconciliazione". E' portavoce dei "Berretti Bianchi". Tra le opere di Alberto L'Abate: segnaliamo almeno Addestramento alla nonviolenza, Satyagraha, Torino 1985; Consenso, conflitto e mutamento sociale, Angeli, Milano 1990; Prevenire la guerra nel Kossovo, La Meridiana, Molfetta 1997; Kossovo: una guerra annunciata, La Meridiana, Molfetta 1999; Giovani e pace, Pangea, Torino 2001] Martedi' 7 giugno a Firenze, con inizio alle ore 17, presso l'aula magna del rettorato, in piazza San Marco 4, al piano primo, Alberto L'Abate, curatore dell'edizione italiana del testo di John Friedmann, "Empowerment. Verso il potere di tutti", ne presenta i temi e le proposte per una politica per lo sviluppo alternativo dialogando con Cristina Bevilacqua, assessore alla partecipazione democratica del Comune di Firenze; Augusto Cacopardo, antropologo, Universita' di Firenze; Alessandro Margaglio, presidente della Commissione Cultura Quartiere I; Giancarlo Paba, urbanista, Universita' di Firenze; Alessandro Santoro, della Comunita' di base delle Piagge; Piero Tani, economista, direttore del Forum per i problemi della guerra e della pace. Presiede il colloquio Giovanna Ceccatelli Gurrieri, presidente del corso di laurea in Operazioni di pace, gestione e mediazione dei conflitti. Segreteria organizzativa: dottoressa Silvana Grippi, tel. 0552757743. 5. RIFLESSIONE. VANDANA SHIVA: LA GRANDE PATTUMIERA DEL MONDO [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "L'Unita'" il 6 dicembre 2004. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003] L'India e' stata letteralmente inondata di granate e razzi inesplosi ed esplosi provenienti dall'Iraq e dall'Afghanistan e destinati al riciclaggio come rottami metallici nel momento stesso in cui la sua industria del ferro e dell'acciaio viene distrutta dalle politiche di liberalizzazione e privatizzazione dei commerci. Quanto e' accaduto nel settore del ferro e dell'acciaio sta accadendo anche nel settore dell'agricoltura. Il governo sta rapidamente attuando politiche volte a liberalizzare il commercio agricolo e che stanno uccidendo i nostri agricoltori e distruggendo la nostra agricoltura. Oltre 25.000 contadini si sono tolti la vita quando si sono trovati preda dei debiti a seguito del lievitare dei costi di produzione e del crollo dei prezzi dei prodotti agricoli. E nel momento stesso in cui le granate vengono importate come rottami metallici mentre l'industria del ferro e dell'acciaio viene deliberatamente distrutta, gli organismi geneticamente modificati (Ogm) - l'equivalente in agricoltura delle granate inesplose - vengono introdotti malgrado il loro costo elevato per i contadini e gli alti rischi per l'ambiente. Nei due anni in cui e' stata piantata la prima coltura geneticamente modificata, il cotone Bt [cotone geneticamente modificato con il bacillus thuringiensis - ndt], la resa e' stata inferiore alla norma. Non di meno il governo - il Partito del Congresso al pari del Bharatiya Janata Party prima di lui - ripete il ritornello falso dei raccolti elevati e del fatto che gli Ogm sono necessari per risolvere il problema della fame. Sono appena tornata da un viaggio nell'Uttaranchal, in zone nelle quali si conservano i semi e si pratica l'agricoltura organica. Aziende agricole a input zero producono oltre tre tonnellate di riso greggio o oltre cinque tonnellate di amaranto, di dagussa e di caiano o oltre 15 tonnellate di frutta - guaiavi, banane, aranci, limette, pompelmi, manghi - per acro. Al contrario, per quanto riguarda il cotone Bt, a fronte di un raccolto promesso di una tonnellata e mezzo, la resa e' stata di appena 200 chilogrammi. E i contadini invece di vedere incrementato il loro reddito di 220 dollari per acro hanno subito perdite per 130 dollari l'acro. Al cospetto del crescente numero di suicidi tra i contadini indebitati e del fallimento sempre piu' marcato delle colture a causa di semi non sperimentati, inadatti e non necessari venduti dalle multinazionali il cui solo obiettivo e' quello di metterci in una situazione di dipendenza per quanto riguarda le sementi, il governo - qualunque governo responsabile - dovrebbe porre fine alla vendita di semi geneticamente modificati. Gli Ogm sono un modo sicuro per distruggere la nostra sovranita' e democrazia in materia di semi. Invece delle migliaia di colture di cui ci nutriamo, la nostra agricoltura verra' ridotta ai soli quattro raccolti geneticamente modificati attualmente commercializzati su scala significativa: soia, mais, cotone e canola. Invece delle caratteristiche di resistenza alla siccita', di resistenza alle inondazioni, di resistenza alla salinita', invece dell'aroma e del gusto, invece delle caratteristiche nutrizionali e sanitarie per le quali i nostri contadini hanno selezionato centinaia di migliaia di varieta', gli Ogm hanno solamente due caratteristiche: resistenza agli erbicidi e presenza delle tossine Bt. Entrambe le caratteristiche incrementano i livelli di tossine nei nostri alimenti e nell'agricoltura. Entrambe non sono sostenibili in quanto invece di controllare le erbacce e gli insetti nocivi, creano "super erbacce" e "super insetti nocivi". Invece di 600 milioni di donne indiane che tenendo i semi nelle loro mani li risparmiano e li selezionano con cura e intelligenza, una multinazionale, la Monsanto, diventa "proprietaria" dei nostri semi, spesso tramite la bio-pirateria - come nel caso del brevetto EP 445929 su una varieta' di frumento indiana concesso dall'Ufficio Europeo Brevetti ma revocato lo scorso ottobre come era gia' accaduto in precedenti casi di bio-pirateria con il neem e il basmati - impoverendo contadini gia' poveri che si vedono costretti a pagare i diritti per i semi o minacciando di multarli per furto di proprieta' intellettuale dopo che la Monsanto ha diffuso i suoi geni tossici mediante impollinazione - come e' accaduto a Percy Schemiser, un agricoltore canadese citato in giudizio dalla Monsanto per violazione di brevetto quando il suo campo e' stato contaminato con la canola della Monsanto "pronta al raccolto" che ha rovinato la purezza della sua coltivazione. La dittatura dei semi e l'imperialismo genetico sono stati respinti dalla maggior parte dei Paesi. In appena quattro Paesi si trova il 94% di tutti i semi geneticamente modificati piantati. 6. RIFLESSIONE. CHIARA VELTRI INTERVISTA HOMI K. BHABHA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 aprile 2005. Chiara Veltri, giornalista culturale, scrive per testate quotidiane ed on line. Su Homi K. Bhabha riproduciamo la seguente scheda apparsa sullo stesso giornale: "Un teorico degli ibridi culturali nella postmodernita'. Homi K. Bhabha, nato a Bombay nel 1949 da famiglia Parsi, ha conseguito la laurea nella sua citta' natale prima di trasferirsi in Inghilterra, dove ha ottenuto il master e il dottorato all'Universita' di Oxford. Dopo avere insegnato, fra gli altri, negli atenei di Londra, Princeton, Chicago, e' attualmente professore di letteratura inglese e americana e direttore del dipartimento di studi storici e letterari presso la Harvard University. E' autore della raccolta di saggi The Location of Culture (London, Routledge, 1994) nei quali vengono articolate la teoria dell'ambivalenza inscritta nel rapporto colonizzatore-colonizzato e l'idea che la produzione culturale nello scenario post-coloniale si situi in uno spazio ibrido, liminale, in-between, di continua negoziazione del concetto di identita'. Ha inoltre curato il volume collettaneo Nation and Narration (New York and London, Routledge, 1990). Entrambi i volumi sono pubblicati in Italia da Meltemi con i titoli I luoghi della cultura (2001) e Nazione e narrazione (1997) per la traduzione di Antonio Perri. 'Quando diventiamo un popolo? Quando smettiamo di esserlo?...E che c'entrano queste enormi questioni con i nostri rapporti con ciascun altro e con tutti gli altri insieme?' - si chiede Bhabha contribuendo a scuotere dai cliche' quel che concorre a definire l'identita' singola e collettiva. A marzo del 2005, in occasione della riedizione per la Grove Press di The Wretched of the Earth (I dannati della terra, edito in Italia da Comunita') di Frantz Fanon, Bhabha ha pubblicato un saggio sull'intellettuale martinicano sulla 'Chronicle Review' (e' possibile leggerlo sul sito http://chronicle.com), intitolato Is Frantz Fanon Still Relevant?. Insieme al direttore di 'Critical Inquiry' W. J. T. Mitchell, Bhabha ha poi curato la raccolta di saggi Edward Said: Continuing the Conversation (University of Chicago Press Journals), uscita lo scorso aprile. E' di prossima pubblicazione negli Usa per la Harvard University Press il suo nuovo libro, intitolato A Global Measure"] "Si stanno rapidamente affermando nuovi schieramenti, trasversali a confini, tipologie, nazioni e caratteri di fondo; e sono questi schieramenti che oggi sfidano e minacciano la nozione, fondamentalmente statica, di identita'". Cosi' scriveva nel 1993 Edward Said, lo studioso palestinese scomparso due anni fa, che, forse meglio di ogni altro, ha indagato e, anzi, dissezionato, gli stereotipi occidentali sulle culture altre, in Cultura e imperialismo. E proprio intorno a queste nuove "comunita' transnazionali" si e' sviluppata la riflessione dello studioso indiano Homi K. Bhabha, che per molti versi puo' essere considerato come uno dei maggiori eredi di Said nell'ambito degli studi post-coloniali della visione dell'alterita' e dei rapporti tra Oriente e Occidente. Abbiamo incontrato Bhabha in occasione della recente Fiera del libro di Torino dove lo studioso e' intervenuto alla rassegna "Lingua madre" e dove - a dispetto dell'etichetta di "critico-criptico" guadagnata grazie alla sua scrittura di non sempre agevole decifrazione - e' stato accolto da una platea numerosa e attenta, alla quale ha ricordato che "la globalizzazione comincia a casa propria, e si misura sul trattamento riservato in tutto il mondo alle minoranze". * - Chiara Veltri: Di recente in molti paesi europei, dalla Germania all'Olanda, dall'Austria alla Gran Bretagna, si e' assistito a un progressivo inasprimento delle misure legislative contro l'immigrazione. Molti di questi provvedimenti, gia' avviati o in corso di discussione, impongono a chi voglia entrare nel paese la conoscenza della lingua nazionale. Qual e' la sua opinione a questo proposito? - Homi K. Bhabha: La lingua e' un punto critico dei conflitti e degli squilibri legati al potere. Questo e' dovuto al fatto che la lingua da un lato si trova al di fuori del parlante, perche' fa parte della comunita', della cultura, della nazione. D'altra parte, ogni parlante attivo pensa che tutto il suo corpo, la sua anima, la sua identita' siano rappresentati nella lingua. La lingua, dunque, e' insieme dentro e fuori di noi, il che produce una tensione interessante. Quando ci viene chiesto di parlare in un modo o in un altro, sentiamo che la nostra identita' viene plasmata. In questo senso la lingua e' sempre stata un misuratore molto sensibile dei sentimenti e delle opinioni delle persone in quanto individui e in quanto cittadini. Questo aspetto in realta' riguarda la fenomenologia della lingua, la lingua come fenomeno culturale, sociale, psicologico. Tutto questo forse puo' sembrare astratto, filosofico, ma porta poi a conseguenze, e a questioni, molto pratiche. E' giusto che gli immigrati debbano superare un esame di conoscenza linguistica, come si propone di questi tempi in Olanda? O che un ministro possa provocatoriamente invocare un "cricket test" a uso e consumo degli immigrati, come e' accaduto in Inghilterra durante gli anni del governo Thatcher? Il conservatore Norman Tebbit disse allora che se la squadra di cricket indiana o pakistana avesse giocato in Inghilterra e gli immigrati del subcontinente avessero applaudito queste squadre contro la squadra inglese, allora a questi immigrati sarebbe stata negata la cittadinanza, perche' non si identificavano con gli inglesi. Purtroppo molto spesso l'idea che si debba superare una prova, imparare una lingua, prima di essere considerati cittadini di un paese viene percepita come un'ingiustizia, perche' sembra che si voglia denudare una persona della propria lingua e della propria cultura. Non accettare un'altra lingua nel proprio universo linguistico e culturale, e negare a questa lingua la possibilita' di trasformare la propria viene considerato provinciale, limitato, gretto. Senza contare che di fronte a questi problemi, l'atteggiamento e' necessariamente molto cauto anche per ragioni che riguardano i diritti umani. I rifugiati, coloro che emigrano per ragioni politiche o economiche, gli esiliati, arrivano come esseri umani in difficolta', non perche' sono in grado di parlare una data lingua. L'idea, infine, che il biglietto d'ingresso per un paese sia la conoscenza della lingua nazionale puzza di una sorta di patriottismo mal riposto. Per tutti questi motivi ritengo si tratti di una questione problematica. Detto questo, credo che in realta' sia importante che le persone che arrivano in un dato paese non perdano la loro abilita' linguistica e le loro pratiche culturali, ma che invece aggiungano a esse la lingua di quel paese perche' altrimenti, visto come funzionano le politiche multiculturali nella maggior parte dei paesi occidentali, le persone che non hanno il potere di comunicare nella lingua nazionale spesso perdono il potere di rappresentarsi, e allora o diventano cittadini emarginati, parziali, esclusi dalla vita culturale, o vengono ghettizzati, accantonati e ci si dimentica di loro. Per queste ragioni ritengo sia molto importante che se una persona decide di vivere in un paese sia un cittadino pienamente e attivamente partecipe della sfera pubblica, e perche' cio' sia possibile deve impararne la lingua: il che non deve implicare la perdita della propria lingua madre; certo, pero', che da bilingue, da parlante di due, tre o piu' lingue sara' piu' facile che possa modificare la cultura del paese in cui e' ospite. * - Chiara Veltri: Ritiene che negli Stati Uniti, il paese dove lei vive e lavora ormai da anni, l'atteggiamento nei confronti dell'immigrazione sia diverso da quello europeo? - Homi K. Bhabha: In Inghilterra, in Europa e' facile vedere coppie miste di immigrati di seconda, terza generazione che passeggiano tranquilli per strada, molto piu' che negli Stati Uniti, dove esiste una classe di afroamericani molto benestante e istruita, ma dove una cultura "cross-over", di ibridazione, e' molto meno presente. L'unico esempio di cultura "cross-over" in America e' il rap, l'hip-hop, che naturalmente e' un fenomeno internazionale della cultura giovanile ed e' indipendente dal colore della pelle. Mi colpisce il fatto che in Inghilterra, che e' il paese che conosco meglio da questo punto di vista, il riconoscimento delle differenze linguistiche e' quasi esclusivamente una questione di classe. Un nero, un afro-caraibico, se ha frequentato le scuole giuste e ha ricevuto una buona istruzione, perde le tracce, quando parla inglese, di qualsiasi altra lingua al di fuori della parlata britannica standard. Negli Usa non e' cosi', e credo che dipenda dal fatto che la cultura wasp non ha mai davvero fatto i conti con la sua storia, con un passato relativamente recente - un secolo, un secolo e mezzo - in cui la societa' americana era schiavista. Tutta la storia delle minoranze e dei gruppi etnici negli Stati Uniti e' una storia di persone che tendono a rimanere nel proprio gruppo d'origine: in molte citta' ci sono quartieri che vengono chiamati con il nome del gruppo etnico che vi abita, come Greek Town a Detroit e a Chicago, Corea Town a Los Angeles. E' molto diverso da quanto avviene in Europa: negli Usa le persone tendono molto di piu' a rimanere attaccate alle proprie tradizioni linguistiche, mentre in Europa chi riceve un'istruzione adeguata riesce ad amalgamarsi. Esiste poi, secondo me, un'altra ragione, relativa al fatto che negli Stati Uniti il senso della sfera pubblica e' meno forte che in Europa grazie alla lunga tradizione del Welfare State. * - Chiara Veltri: Nel suo saggio "Interrogare l'identita'", contenuto nei Luoghi della cultura, lei ha scritto che l'imposizione della lingua imperiale sui popoli colonizzati e' stata la condizione culturale del movimento dell'impero, della sua logo-mozione. Esemplare il caso dell'India, paese in cui si parlano centinaia tra lingue e dialetti, cui si e' aggiunto l'inglese, controversa eredita' del dominio coloniale britannico. In che modo l'uso unificante della lingua inglese in India agisce ancora oggi? - Homi K. Bhabha: Esiste un'opinione diffusa, sposata anche da Salman Rushdie, secondo la quale la lingua inglese, nonostante sia stata imposta agli indiani, nel corso del tempo si e' radicata nel paese e oggi e' la lingua in cui molti indiani, che parlano lingue diverse e vivono in regioni diverse, comunicano. Credo che questo sia giusto. E' sorprendente la frequenza con cui in un piccolo villaggio indiano delle regioni piu' interne ci si capisce senza alcuna difficolta' proprio parlando inglese. Certo, non si tratta dell'"inglese della regina", forse non e' grammaticalmente corretto e sicuramente e' incerto, ma e' piu' che sufficiente per comunicare. E vorrei aggiungere che questa capacita', piu' o meno sviluppata, di utilizzare l'inglese, ha creato in India una grande curiosita' verso il resto del mondo, perche' quando parli inglese, anche un inglese esitante, senti un'altra cultura dentro di te. Lo si vede dappertutto: nei piccoli centri, nelle botteghe del te', quando la gente ti chiede notizie circa il luogo dal quale provieni. In genere, in India c'e' una grande sensibilita', un grande interesse nei confronti delle differenze. In alcuni casi, certo, vengono percepite come un'imposizione. A volte coloro che non parlano bene inglese non ottengono il lavoro per il quale sono qualificati, e curiosamente sono gli indiani stessi a creare delle discriminazioni, favorendo chi e' piu' istruito e parla bene inglese. Cio' nonostante, la presenza di questa lingua di comunicazione ha spalancato un universo immenso per gli indiani, unito a un enorme desiderio di conoscenza. La questione tuttavia si fa piu' complessa in ambito letterario, perche' l'egemonia globale dell'inglese mette in ombra, oscura, nasconde le grandi opere letterarie create nelle altre lingue indiane. E molti autori che scrivono in hindi, in telegu, in malayalam, in marathi non ricevono l'attenzione, le opportunita' e la scena pubblica che meriterebbero. Credo allora che si debba giudicare la persistenza dell'inglese in India come una benedizione a meta': per molti aspetti e' un dato positivo, ma al tempo stesso il fatto che svaluti, anche se non intenzionalmente, le altre letterature, impedendo loro di accedere all'attenzione mondiale, rappresenta una sconfitta per tutti. * - Chiara Veltri: Una delle idee centrali della sua produzione teorica e' quella dell'ibridazione, dell'eterogeneita' polifonica della "lingua madre" e della cultura dell'occidente post-imperiale. In che modo la presenza di comunita' della diaspora in occidente ha reso tutto questo piu' evidente? - Homi K. Bhabha: Quando nel posto in cui vivi vengono ad abitare persone di altre culture, che hanno storie diverse, soprattutto se appartengono a quelli che un tempo erano i popoli colonizzati da questi paesi, allora sei costretto a pensare, o ripensare la tua storia, la tua cultura. Credo che questo sia l'effetto piu' importante della diaspora nei paesi ex colonizzatori, come la Francia o l'Inghilterra. E cio' non accade solo perche' queste persone ti puntano contro un dito accusatore, ricordando lo sfruttamento, le discriminazioni, i maltrattamenti perpetrati durante l'epoca coloniale. Il punto non e' costituito da queste accuse, anche se si tratta di un fenomeno comprensibile, giusto e persino positivo, soprattutto se le critiche vengono rivolte in modo costruttivo. Quello che secondo me e' davvero importante, a proposito della presenza nelle societa' occidentali di popolazioni "straniere", e' il fatto che le potenze imperialistiche si trovano a dover riconoscere come moltissime idee che a loro parere sono "semplicemente" occidentali - francesi o inglesi o comunque nazionali -, si siano formate in realta' a partire dalle relazioni tra oriente e occidente. Non e' facile, per esempio, rendersi conto di quanto la lingua inglese sia piena di varianti di parole che risalgono all'impero. Eppure, per prendere un caso letterario, Kim di Rudyard Kipling, considerato l'esempio classico di una certa concezione imperiale agli inizi del ventesimo secolo, e' un romanzo scritto in un inglese orientalizzato. Forse non si tratta davvero di Indian English, ma e' comunque una lingua che risente fortemente degli influssi dell'India. Il che non lo rende meno interessante, al contrario. Trovo che sia stimolante conoscere il motivo per cui piu' di cento anni fa le persone deviavano dalle norme della lingua inglese scritta per orientalizzarsi, in modo che un'altra cultura, spesso una cultura aliena, fosse sempre visibile all'orizzonte della loro scrittura. E questa e' solo una illustrazione pratica di un ambito molto piu' vasto. Moltissime idee inglesi, europee si sono formate nel cosiddetto terzo mondo. 7. RIVISTE. CON "QUALEVITA", LA LEZIONE DI LEANDRO ROSSI Abbonarsi a "Qualevita" e' un modo per sostenere la nonviolenza. Ricordando la lezione di Leandro Rossi. * "Quando non sai cosa e' giusto fare, non avanzare soluzioni ideologiche; ma domanda sinceramente alla tua coscienza e rispondi con il tuo buon cuore" (da Leandro Rossi, Pace e nonviolenza, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi (Aq) s. d., p. 203). * "Qualevita" e' il bel bimestrale di riflessione e informazione nonviolenta che insieme ad "Azione nonviolenta", "Mosaico di pace", "Quaderni satyagraha" e poche altre riviste e' una delle voci piu' qualificate della nonviolenza nel nostro paese. Ma e' anche una casa editrice che pubblica libri appassionanti e utilissimi, e che ogni anno mette a disposizione con l'agenza-diario "Giorni nonviolenti" uno degli strumenti di lavoro migliori di cui disponiamo. Abbonarsi a "Qualevita", regalare a una persona amica un abbonamento a "Qualevita", e' un'azione buona e feconda. Per informazioni e contatti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. 3495843946, o anche 0864460006, o ancora 086446448; e-mail: sudest at iol.it o anche qualevita3 at tele2.it; sito: www.peacelink.it/users/qualevita Per abbonamenti alla rivista bimestrale "Qualevita": abbonamento annuo: euro 13, da versare sul ccp 10750677, intestato a "Qualevita", via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), specificando nella causale "abbonamento a 'Qualevita'". 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 945 del 30 maggio 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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