La domenica della nonviolenza. 23



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 23 del 29 maggio 2005

In questo numero:
Enrico Peyretti commenta "Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo
Capitini" di Federica Curzi

LIBRI. ENRICO PEYRETTI COMMENTA "VIVERE LA NONVIOLENZA. LA FILOSOFIA DI ALDO
CAPITINI" DI FEDERICA CURZI
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci
messo a disposizione questo testo nato come relazione per il ciclo di
conferenze "...Ma la divisa di un altro colore. Dialoghi su nonviolenza e
differenza di genere", svoltosi a Macerata il 15-17 marzo 2005; testo il cui
bel titolo originale e' il seguente: "La nonviolenza e' sapienza. Note e
risonanze nella lettura del libro di Federica Curzi, Vivere la nonviolenza.
La filosofia di Aldo Capitini".
Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno
dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di
nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere",
Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998;
La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe
Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine
(Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale
ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte
nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in
appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus,
Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e
una recente edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario;
vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org,
www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di
Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario.
Federica Curzi ha conseguito la laurea il filosofia nel 2002 presso
l'universita' di Macerata, dove attualmente svolge un dottorato di ricerca;
e' autrice di diversi articoli pubblicati dalla rivista on line
www.peacereporter.net, di cui e' collaboratrice. Opere di Federica Curzi:
Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella, Assisi
2004.
Aldo Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato,
docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la
nonviolenza e la pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu' grande
pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini:
la miglior antologia degli scritti e' (a cura di Giovanni Cacioppo e vari
collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che
contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche' integrale -
ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell'epoca -
bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente e' stato ripubblicato
il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano 1989; una
raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea
d'ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L'ancora del Mediterraneo,
Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996;
segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri,
Edizioni Associate, Roma 1991; e la recentissima antologia degli scritti Le
ragioni della nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004. Presso la redazione di
"Azione nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito:
www.nonviolenti.org) sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi
ed opuscoli di Capitini non piu' reperibili in libreria (tra cui i
fondamentali Elementi di un'esperienza religiosa, 1937, e Il potere di
tutti, 1969). Negli anni '90 e' iniziata la pubblicazione di una edizione di
opere scelte: sono fin qui apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza,
Protagon, Perugia 1992, e un volume di Scritti filosofici e religiosi,
Perugia 1994, seconda edizione ampliata, Fondazione centro studi Aldo
Capitini, Perugia 1998. Opere su Aldo Capitini: oltre alle introduzioni alle
singole sezioni del sopra citato Il messaggio di Aldo Capitini, tra le
pubblicazioni recenti si veda almeno: Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci,
Torino 1988; Clara Cutini (a cura di), Uno schedato politico: Aldo Capitini,
Editoriale Umbra, Perugia 1988; Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni
cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La
pedagogia del nuovo di Aldo Capitini. Tra religione ed etica laica, Clueb,
Bologna 1991; Fondazione "Centro studi Aldo Capitini", Elementi
dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova Italia, Scandicci (Fi)
1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia
intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998,
2003; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume monografico
de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante, La realta'
liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia
1999; Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001; Federica
Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella,
Assisi 2004; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo d'Orsi,
Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; per una
bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro Polito
citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel sito
dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: www.aldocapitini.it,
altri materiali nel sito www.cosinrete.it; una assai utile mostra e un
altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere richiesti scrivendo a
Luciano Capitini: capitps at libero.it, o anche a Lanfranco Mencaroni:
l.mencaroni at libero.it, o anche al Movimento Nonviolento: tel. 0458009803,
e-mail: azionenonviolenta at sis.it]

1. Nel titolo di questo libro (Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La
filosofia di Aldo Capitini, Cittadella editrice, Assisi 2004, pp. 201, euro
16), prima ancora che la parola nonviolenza vedo risaltare altre due parole:
vivere, filosofia. Sono indicative del circolo prassi-teoria-prassi,
opzione-pensiero-opzione. Si legge in qualche parte del Talmud: "Lo studio
ha il primato perche' conduce alla pratica". Allora, chi ha il primato?
Bellissima domanda, perche' impedisce un primato, giacche' lo distribuisce
equamente. Non si sa da dove comincia la vita: dall'agire, certamente; e
anche dal pensare in quale modo si debba agire. L'agire nutre il pensiero, e
il pensiero guida l'agire. Sono due fratelli, che camminano tenendosi per
mano.
*
2. La nonviolenza e' una forza per attraversare il dolore del mondo (p. 9).
Non e' un ottimismo facile, ignaro del male; non e' rassegnazione
astensionista. E' indignazione, dolore, amarezza per la tanta violenza, che
fa cercare altrove dalla violenza l'origine, il senso, la direzione. "Come
puo' la coscienza umana non rivoltarsi al ricordo di tutte queste violenze e
di tutte le persone il cui volto attraverso il corso dei secoli e' stato
sfigurato dal ferro e dal fuoco? E'  lo scandalo di questa violenza
esercitata da uomini su altri uomini che mette in movimento il pensiero
filosofico; e' la certezza che questo male non-deve-essere, che provoca la
riflessione. Noi vogliamo sostenere che la rivolta del pensiero, davanti
alla violenza che fa soffrire gli uomini, e' l'atto fondatore della
filosofia. Noi vogliamo affermare che il rifiuto di ogni legittimazione di
questa violenza fonda il principio di nonviolenza". Cosi' scrive Jean-Marie
Muller (1).
Egli chiede: "Come puo' la coscienza umana non rivoltarsi?". Ma puo' anche
non rivoltarsi. C'e' questo problema. Non solo: puo' farsi complice, serva e
autrice di violenza. Questo accade. Ma e' coscienza vigile o coscienza
smarrita? Coscienza (sapere di se'; conoscere se stessi) e pensiero non si
limitano a osservare e registrare, ma valutano, scelgono, agiscono.
Richiedono un criterio.
In effetti, la violenza si fa ripudiare, se vigiliamo, perche' e' negazione
della realta', offesa di cip' che e' e che vive. E' contro di noi, se e'
contro qualcuno e qualcosa. Ripudiarla e' cercare altro, scoprire e
difendere un bene negato. La violenza ci fa scattare (azione-pensiero) in
difesa delle cose e delle vite offese. Difendendo le cose, difendiamo la
nostra ragion d'essere, e viceversa. Ripudiando la violenza, scopriamo la
nostra ragion d'essere.
*
3. Ascoltiamo parole alte. Capitini: "Quando il mare rende sulla spiaggia /
il cadavere di un fanciullo / tutti si sentono madre" (citato a p. 10).
Mencio, l'antico sapiente: "Tutti gli uomini hanno un animo sensibile
all'altrui sofferenza... La ragione per cui affermo che tutti gli uomini
hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza e' la seguente: supponi che
vi siano delle persone che all'improvviso vedono un bimbo mentre sta per
cadere in un pozzo. Ebbene, tutte proveranno in cuor loro un senso di
apprensione e di sgomento, di partecipazione e di compassione. Questa
reazione non dipende certo dall'esigenza di mantenere buoni rapporti con i
genitori del bambino, ne' dal desiderio di essere elogiati da vicini ed
amici, e neppure perche' disturbino le grida del bambino. Da tutto questo si
puo' arguire che non sono uomini quanti sono privi di un animo sensibile ai
sentimenti della partecipazione e della compassione, della vergogna e
dell'indignazione, della deferenza e dell'acquiescenza, e del senso di cio'
che e' giusto e di cio' che non e' giusto" (2).
"Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza" perche'
"il sentimento dell'umanita', ren zhi xin,  si esprime nel bu ren, 'non
sopportare le sofferenze altrui'" (3). Ecco, il principio della nonviolenza
e' in questo scatto di in/tolleranza, che, contrariamente al senso solito,
non e' contro l'altro diverso, ma a favore dell'altro offeso o bisognoso,
nell'incapacita' di rassegnarsi all'esistenza dell'offesa.
*
4. Quale sguardo e lettura dell'essere umano porta al ripudio della
violenza? La religione della compresenza, la filosofia dell'alterita'.
Religione della compresenza. Ho sempre presente una parola di Aulo Gellio,
nelle Noctes Atticae: "Religiosus esse nefas, religentes oportet" (poiche'
non e' inglese, oggi obbligatorio, lo traduco: e' nefasto essere religiosi;
bisogna essere colleganti). La religione cattiva e' quella che lega. La
religione buona e' quella che collega, unisce senza assorbire, fonda
relazioni nel visibile e nell'invisibile. La relazione e' costitutiva della
persona: ferita o distrutta la relazione, e' ferita o distrutta la persona.
Tutto cio' che salva, che cura, che arricchisce la relazione, salva, cura,
apre, arricchisce la persona. Vista cosi', vissuta cosi', la persona ripudia
la violenza che ferisce o distrugge la relazione.
Filosofia dell'alterita'. La nostra esistenza interpretata essenzialmente
come relazione con l'altro (il Tu-Tutti), fondata su una relazione
originaria. Cosi' Federica Curzi spiega il pensiero di Capitini e lo
confronta con alcune filosofie relazionali del Novecento (Buber, Levinas,
Marcel), e gli puo' dare il nome di  "metafisica dell'amore". Se il nostro
essere e' essere-con-l'altro, allora la violenza con cui colpiamo l'altro
colpisce il senso stesso del nostro essere, percio' va ripudiata, per poter
vivere, non solo sopravvivere. Sopravvive anche chi vive sopra la vita
dell'altro, dominato o soppresso, ma non vive davvero se si riduce a vivere
senza giusta relazione con l'altro.
*
5. Della nonviolenza di puo' parlare in tanti modi: la teoria, i maestri, i
testimoni, le esperienze, la storia, gli itinerari. In questo periodo io amo
vederla soprattutto come un itinerario. Qui lo espongo in forma sintetica,
abbreviata.
Dunque, la nonviolenza e':
1) ahimsa, lotta alla propria violenza, conversione personale dalla durezza
alla mitezza;
2) indipendenza, liberta' dall'idolo (4) della violenza;
3)  satyagraha, lotta alla violenza di altri e dei sistemi, con una forza
che non fa violenza;
4) testimonianza, confidenza in forze cosi' profonde e reali della verita'
umana e del bene, che non sono veramente sconfitte da nessuna sconfitta, ma
testimoniano in ogni caso una possibilita' migliore. La nonviolenza e' un
impegno e una lotta libera dall'ossessione e dall'ideologia della vittoria
(5). La quale e' consustanziale all'ideologia della violenza, perche' dovere
e volere vincere ad ogni costo trascina a fare violenza.
Questo far conto sulla efficacia della nonviolenza, che sempre testimonia la
pace, anche quando e' sconfitta (ma ha pure i suoi successi, e piu' di
quanti sono comunemente noti (6)), non e' "fondamentalismo pacifista", non
e' "esaltazione a basso costo del martirio", ne' "l'esporsi
masochisticamente al danno della guerra" da parte di "esaltatori del
martirio" (7).
Il significato originario di martire e' testimone. Testimone e' colui che
porta notizia di un fatto finora ignoto. La lotta per una maggiore giustizia
coi soli mezzi giusti introduce la visione di un obiettivo e di un metodo
che, anche se non si stabiliscono oggi nella realta' effettiva, si
annunciano davanti ad essa come possibili, desiderabili, necessari, validi.
La u-topia e' il non-ancora-reale. Persino quando il lottatore nonviolento
e' ucciso, egli resta nel tempo piu' presente e operante di chi lo elimina:
Gesu' e' piu' presente e operante di Pilato e di Caifa, Martin Luther King
e' oggi piu' attivo del suo assassino, Gandhi guida ancora un movimento
mondiale mentre il fanatico che lo uccise e' immobile e dimenticato. Non si
tratta certamente di autosacrificarsi per avere successo, ma di avere
fiducia nel successo perche' il sacrificio nel testimoniare cio' che e'
giusto e' una forza. Si tratta della forza - il satyagraha gandhiano - che
viene dallo stare attaccati alla verita', senza ingannare l'avversario, una
forza data dal sapere che la via della giustizia come mezzo per la
giustizia, la pace come via alla pace, puo' venire ostruita temporaneamente,
ma non cancellata. La giustizia, anche quando e' colpita, testimonia il
permanente valore della giustizia. Come la scintilla sprizza dalla pietra
sotto lo scalpello, cosi' il diritto risalta sotto l'offesa, non e'
cancellato ma evidenziato. Il diritto della persona e' inviolabile perche'
non deve essere violato, ma anche perche' non puo' essere distrutto. E'
immortale, invulnerabile. In ogni essere umano c'e' "una parte imprendibile"
(8). L'opera della pace e della giustizia, percio', rimane intatta, ed e'
affidata alla sapienza del tempo: "Uno semina, un altro miete" (9), ma il
seme non e' mai perduto.
Questi quattro passaggi possono essere detti in altre poche parole:
1) a-himsa: la violenza patita, trasmessa, epidemica, viene qui interrotta,
assorbita e spenta in me. Proprio perche' "mi fa male" (crea male, aggiunge
male) e' da escludere dai miei atti. Non aggiungero' violenza, non "faro'"
soffrire. Non conta per quale motivo, non conta se chi faccio soffrire e'
colpevole o innocente: conta soltanto che cosi' c'e' piu' dolore e male nel
mondo. Etty Hillesum, su questo, ha detto parole luminose.
2) In-dipendenza; non-rassegnazione al male; resistenza e non resa.
3) lotta; e' l'effetto del punto 2.
4) "martirio" come testimonianza: e' la decisione radicale; ha un effetto
certo, grazie alla "forza della verita'", inoffensiva, liberante.
Come, secondo l'universale "regola d'oro", si tratta di non fare (cio' che
dispiace all'altro) e di fare all'altro (cio' che vorremmo fosse fatto a
noi), cosi' nella nonviolenza si tratta di non fare (violenza) e di fare
(giustizia coi soli mezzi giusti).
*
6. Ma torno allo stimolante libro di Federica Curzi, per fissare per me cio'
che ne ho colto e cio' che mi suggerisce ancora.
Nel primo capitolo Curzi descrive l'itinerario, le fonti, che conducono
Capitini all'originalita' del suo pensiero: ogni essere non si riduce a
parte di un Tutto, ma ogni esistenza e' finitezza e insieme ulteriorita'.
Capitini chiama questa realta' presenza: un finito e una eccedenza; una
possibilita' da liberare.
*
7. Nel secondo capitolo (L'esperienza della relazione come prassi d'amore)
si entra nella filosofia della compresenza: l'origine dell'essere e' un
darsi, un amore che si da'; la realta' si costituisce e si articola come
maieutica della moltiplicazione (far nascere se stessi e gli altri, per
tutti); la realta' e' "realta' di tutti"; la si conosce e la si impara
imparando l'alterita' dell'altro, di tutti gli altri.
Il primum e' l'esperienza dell'altro (p. 99). Viene in mente l'anagramma
riferito da Luigi Pintor sulla domanda di Pilato: "Quid est veritas? Est vir
qui adest" (Che cos'e' la verita'? E' l'uomo che hai di fronte) (10).
Annoto a p. 71: il principio e' inteso non tanto come fondamento o causa,
quanto come moto (p. 10), atto iniziale che apre l'esperienza del limite
alla possibilita' di liberazione. Parafrasando il libro biblico (11), si
puo' dire con Capitini: principio della sapienza e' la tensione alla
liberazione del finito, possibilita' intimamente contenuta  nel limite
(dolore, violenza) del finito.
Si conosce, ci si apre (che e' nascere, rinascere) alla realta', procedendo
per aggiunta (dialettica dell'aggiunta, non della sintesi; p. 87), ci si
apre ad ogni Tu: "La mia nascita e' quando dico un tu" (p. 88, che cita
Colloquio corale, p. 13). Riconoscendo l'altro come un Tu, interiorizzo la
sua esistenza, che diventa presenza (p. 99), e cio' per tutti, dunque
compresenza. Per questo, aggiungo io, dare del tu e' molto piu' rispettoso e
onorifico che dare del lei (non dico il voi, pluralis majestatis), col quale
ci si rivolge all'altro in terza persona, come laterale, distante, non
presente, quasi che scartarlo sia maggiore rispetto.
Dall'Uno-Tutto delle filosofie totalizzanti Capitini passa all'Uno-Tutti (p.
90), attraverso il Tu-Tutti, il Tu riconosciuto in tutti gli esseri, che
valgono come presenze, non oggetti. Allora, se ogni Tu e' presenza e
vicinanza, ne seguono nonmenzogna e nonuccisione (pp. 100-104), quindi la
nonviolenza, che e' anzitutto rispetto e cura materna.
Riconoscere e' piu' che lasciar essere (non violare), e' far esistere, fare
presenti, accogliere come presenti; e' un accettare ma anche un creare.
Roger Garaudy, scrivendo da qualche parte su Marx, diceva: "Noi siamo creati
creatori". Il creare di Dio e' renderci creatori, crea liberta' e
liberazione, una dipendenza libera e attiva. Ogni incontro con l'altro, ogni
essere incontrati dall'altro, e' un simile creare ed essere creati, e' un
essere toccati e modificati, percio' un dipendere che nulla ci toglie e
molto ci da', ci chiede, ci attiva.
L'amore che fa essere e' amore materno, aggiunta di vita: maternita' di Dio
e maternita' dell'amore che riconosce e cura. Amare e' fare come Dio, Dio e'
nell'atto di amare.
La nonviolenza e' all'origine (unita'-amore) del reale, non e' un rimedio al
reale come male (p. 115). E' la radice (cfr Gandhi: "antica come le
montagne") del reale e dell'umano, da liberare. La nonviolenza e' il
principio essenziale, il logos, la natura buona dell'essere (p. 116). Se
l'origine, il cuore di verita' dell'essere, non fosse bene, il male non
sarebbe urto e scandalo (male), ma normale. Ma poiche' noi di fatto ne
soffriamo, se l'essere fosse male, noi saremmo il puro bene, perche' al male
ci opponiamo. Il male grida reclamando e chiamando il bene. Essendo male,
dimostra che c'e' il bene, almeno come criterio per poter dire che il male
e' male.
Ho creduto di poter dire: c'e' piu' bene che male (12), sulla scorta, tra
altri, di Gandhi: "La storia comunemente conosciuta e' la registrazione
delle guerre del mondo... Se nel mondo fosse avvenuto soltanto questo
l'umanita' avrebbe cessato di esistere da lungo tempo... Il fatto che vi
sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non e' fondato
sulla forza delle armi, ma sulla forza della verita' o dell'amore" (13).
*
8. Ma qui ci si imbatte nel problema del male. La nostra Autrice scrive che:
"Il male non ha una chiara spiegazione all'interno della filosofia
capitiniana" (p. 117); "Il dolore del mondo viene attraversato senza essere
razionalizzato" (p. 9); in Capitini "non e' presente una chiara teoria del
male" (p. 158). Per Capitini la presenza del male rivela "l'impossibilita'
di accettare che l'evidenza con cui esso si manifesta costituisca un
principio della realta'" (p. 158).
Chiediamo: ma e' proprio impossibile questo accettare il male come principio
della realta'? L'ideologia della violenza accetta come principio e senso
della realta' polemos, il conflitto eliminatorio, il mors tua vita mea, male
tuo bene mio, perdita tua guadagno mio (dell'economia competitiva e
possessiva), percio' la necessita' del male e del farne uso.
Capitini, nella "fretta teoretica" di "abbracciare i tutti attraverso il
principio dell'amore lascia aperto l'abisso insondato del male" (p. 118). Il
suo pensiero culmina nell'esito etico-metafisico facendo "un salto rispetto
all'analisi del male" (ivi). Se cosi' il male "non trova alcuna ragione che
lo giustifichi", d'altra parte "l'assenza di una interpretazione specifica
della violenza e del male rischia di presentare la filosofia della
nonviolenza come un ottimismo che da' per scontata la vittoria del bene sul
male, ... la quale risulta contraddetta dall'evidenza, fornita dalla storia,
di una permanenza della potenza distruttrice della violenza" (p. 119).
Non si capisce, continua Curzi, come Capitini possa rivalutare nella
compresenza anche l'attivita' del malvagio, definita essa pure "cooperante"
(p. 119, citando Bertin), e ricondotta dall'amore-perdono originario
all'interno dell'incremento della compresenza (p. 120). L'azione cattiva
"non ha alcuna collocazione all'interno della filosofia capitiniana",
semplicemente e' attestata (p. 119).
Percio' sorge la domanda non piccola: "Se la compresenza e' lo statuto
intimo della realta', perche' la storia non ne segue lo sviluppo?". Se c'e'
la continua assurda esperienza della violenza, "come puo' la nonviolenza
essere la logica interna all'essere? Capitini non si pone queste domande",
ma il suo sguardo e' teso consapevolmente ad abbracciare gia' una realta'
liberata (p. 122). Quindi profetizza, non analizza.
Pero' non e' un utopista, ma un profeta attivo, come chiarisce bene Bobbio:
"Mentre l'utopista disegna una stupenda struttura di societa' ideale ma ne
rinvia l'attuazione a tempi migliori, il profeta comincia subito, qui e ora"
(14). E Bobbio cita qui quelle righe tanto espressive dell'atteggiamento di
Capitini davanti alle ambiguita', ai limiti, ai ritardi del tempo: "Io non
dico: fra poco o molto tempo avremo una societa' perfettamente
nonviolenta... A me importa fondamentalmente l'impiego di questa mia
modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla
bilancia intima della storia il peso della mia persuasione" (15).
*
9. Il terribile interrogativo del male non blocca Capitini, non lo incanta.
Ma possiamo chiederci: forse perche' non lo guarda abbastanza? Poiche' il
male e' constatato ma non pensabile, poiche' non trova posto sensato,
proprio per questo fa reagire a respingerlo ponendo il suo contrario, il
bene, l'unita'-amore. Se il male e' assurdo, senza ragione, anti-ragione,
allora la ragione reagisce, si orienta, decide, muove l'intimo verso cio'
che e' diverso dal male.
Sarebbe bella la vita senza la morte: come reagire alla morte? La vita senza
morte comincia col non-uccidere (16). Davanti al male c'e' il primato della
ragion pratica: un pensare-altrimenti che costituisce gia' una "conversione
della realta'" (p. 124), attraverso la conversione pratica di chi agisce
nell'"incontro con l'alterita'" (ivi). L'altro e' il nuovo a cui darsi, la
continua aggiunta, che non si arresta nella contabilita' del male e dei suoi
danni, ma sempre da' e aggiunge e apre, e cosi' chi si apre puo' venire
persuaso da questo agire che, oltre il pesante ingombro del male, della
violenza, c'e' una sorgente continua di nativita' (aggiunta) di bene: in
cio' che incontra e scopre nell'altro, e nel suo stesso agire aperto.
La risposta di Capitini al male starebbe dunque:
1) nel constatare come verita' della vita l'amore-darsi; illuminato e
persuaso da questa verita' piu' profonda del fatto del male, Capitini non ha
bisogno di soffermarsi sul tormentoso interrogativo riguardo al male: meglio
agire, porre, aggiungere;
2) nel porre attivamente amore-bene (con l'azione etica) dove c'e' il male,
confidando nella forza sostitutiva, innovativa, creativa, del bene.
Questo atteggiamento ha un presupposto necessario: il discernimento
qualitativo tra bene e male, e la conseguente opzione. Chi vede solo lo
scontro di forze e valuta solo cio' che prevale (ideologia della vittoria;
"pre-valere" dei fatti sui valori), senza discernere bene e male, costui
"non ha occhi per vedere e orecchi per intendere". Ma allora, se qualcuno e'
fuori da quel presupposto discernimento, chiedo di nuovo, la realta' e'
ancora "di tutti"? Oppure, come lo e'?
*
10. Capitini pero' dovrebbe porsi anche il problema non solo del male che
scandalizza e offende, il male degli atti cattivi, ma del male che paralizza
e trattiene anche l'animo buono e l'azione buona, il male che e' in noi e
inficia proprio il discernimento e l'azione: "Non capisco quello che faccio:
non eseguo cio' che voglio, ma faccio quello che odio" (Paolo ai Romani 7,
15). Forse per reagire al pessimismo antropologico della pedagogia religiosa
(cattolica e protestante), che vede l'uomo tutto corrotto e incapace, per
esaltare la grazia di Dio; o forse per il candore dei puri di cuore come
lui, Capitini non pare osservare il male interiore all'uomo. Invece, la
nonviolenza, la filosofia e politica dell'amore, non puo' non fare i conti,
pur nello stesso atteggiamento moralmente dinamico e attivo, lungi da
fatalismi e rassegnazioni, con questa dimensione piu' profonda del male.
Ma il pensiero di Capitini sull'abisso del male e sull'amore che lo ricolma,
non e' superficiale e sbrigativo. Egli scrive: "Il vero amore continua
dall'alto di una croce" (17).  "La nonviolenza fa bene a non promettere
nulla del mondo, tranne la croce" (18). Strani, questi cenni in Capitini,
forte critico della religione sacrificale. Ma egli ha imparato, anche
personalmente, dalla sofferenza, quella della malattia e debolezza
personale, quella della poverta', quella dell'emarginazione e solitudine
sociale. La croce e' sofferenza attiva d'amore perche' e' affrontamento del
male. Gesu', non sottraendosi, innocente, al sacrificio impostogli dal
potere religioso e politico, condanna con la massima forza e sancisce la
fine della giustificabilita' di ogni sacrificio sacralizzato (cfr Rene'
Girard). Cosi' la sofferenza ha valore (Gandhi), non in quanto male, ma in
quanto opposizione forte al male, col coraggio di pagare il prezzo della
lotta.
Il dolore-male, infatti, ha due volti:
1) inflitto, come violenza, offende, ferisce, puo' abbattere, e' forza di
morte, sottrae e tende ad annullare; e' l'opposto dell'aggiunta creativa;
2) patito con forza (non subito), e' resistenza, lotta, che umanizza e
dilata l'interiorita' di chi soffre, e' "arma umana" (Gandhi) che puo'
vincere/con-vincere il violento che infligge sofferenza, del quale puo'
toccare il cuore, e intanto nobilita, sottrae al disprezzo e avvia ad una
speranza piu' forte della morte ogni vittima che il potere si e' illuso di
distruggere e cancellare.
Il male del primo tipo e' il male-violenza, che abbassa il mondo. Chi
infligge male per colpire e punire il male, non esce dal male, non toglie
male, ma aggiunge male.
Il male del secondo tipo e' il dolore-resistenza, che afferma la vita-darsi
sulla morte-togliere, percio' redime il mondo. Lo redime per magnanimita',
che significa avere un'anima piu' grande, essere un bene e una bellezza che
abbraccia il male, come il mollusco si difende dal corpo estraneo penetrato
nella conchiglia formandovi attorno la bellezza imperitura della perla.
Il problema non e' tanto la presenza del male, la sua profondita' ed
estensione, ma la nostra possibilita' e capacita' di opporgli il bene.
*
11. Il terzo capitolo (La metafisica dell'amore) suggerisce alcuni altri
appunti e riflessioni.
Alle pp. 136 e 137, Curzi vede in Capitini una nuova comprensione del divino
"con la necessita' di porre un rapporto religioso tra Dio e mondo, che abbia
origine dall'esperienza dell'amore". Va bene l'esperienza dell'amore. Ma...
e l'esperienza del male? E quando questa e' l'esperienza preponderante, tale
da oscurare il bene? Puo' sorgere una reazione di bene. Ma puo' aversi anche
la ripetizione del male, in un orizzonte di solo male. Capitini non resta
"perplesso" (come Bobbio), sospeso, o disperato, ma si lascia "persuadere"
ad agire per colmare il vuoto del male.
"L'essenza di Dio e' il suo darsi nell'atto originario d'amore che comprende
ogni essere all'interno della realta' in quanto compresenza irriducibile
alla morte" (p. 137). Quindi, l'origine dell'amore e' un sorgere dal nulla,
e dunque sempre risorgere, essersi liberato dal nulla, anche come destino.
Come origine positiva dal nulla, come un porsi sopra il nulla, l'amore non
e' solo "forte come la morte" (Cantico dei cantici 8, 6) ma e' piu' forte
della morte. Ma... di nuovo: che accade per coloro la cui esperienza non e'
di amore, ma di morte che opprime la vita? Forse una risposta di Capitini
potrebbe essere ancora questa: non potendo cambiare queste esperienze  di
vita, tutto cio' che possiamo fare, e non e' poco, e' immettere atti di
amore nella compresenza di tutte le vite, e questi toccheranno in qualche
lontano modo chi finora non ne ha fatto esperienza.
"In ogni vita si rinnova l'atto creativo in cui Dio riconosce - amandole -
tutte le creature, in un atto che le comprende e le salva da qui
all'eternita'" (p. 138). Percio', nella compresenza, ogni creatura e'
immortale. "La costituzione della realta' come eccedenza del valore
sull'essere [eccedenza data da Dio nel suo "darsi" a ciascuno] scongiura la
possibilita' del nulla, dando valore di presenza eterna a tutto cio' che
esiste" (p. 140, vedi anche 142, 144, 145, 146).
Leggiamo di due amori, o due facce della realta'-amore:
1) Dio che si da' ad ogni vita e ogni essere, costituendolo come valore
sopra il fatto;
2) nell'amore verso ogni prossimo si ha esperienza di Dio, non onnipotente e
trascendente ma in quanto "infinita iniziativa di amore fra tutti" (p. 139).
Dio non e' tutto trascendente ne' tutto immanente; la terza via e' il
ripensamento della trascendenza attraverso l'immanenza. L'infinito di Dio
costituisce il valore del finito, in esso si presenta, non vi si esaurisce,
ma lo apre all'infinito: ulteriorita' nel finito, del finito (p. 140).
*
12. Da qui, dall'amore che da' valore, viene il tema del nascere (pp. 141,
143, 145, 147). Nasciamo e rinasciamo perche' siamo amati; amando facciamo
nascere; c'e' natalita' e non solo mortalita' dell'essere umano; chi non e'
amato non nasce; chi non ama non fa nascere e resta nella mortalita' senza
nascita. Viene alla mente Giovanni apostolo: "Noi sappiamo di essere passati
dalla morte alla vita perche' amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella
morte" (1 Giovanni 3, 14).
Dio, che si da' come unita'-amore di tutti (p. 142), configura una realta'
basata sulla relazione (abbiamo gia' ascoltato Aulo Gellio: "... religentes
oportet"), una con-realta', che non giudica e non esclude. Percio' primato
della teologia pratica, teologia etica, della relazione altruistica sulla
teologia speculativa.
"Dio e' amando" (p. 142, al fondo). Cosi' anche noi: amo ergo sum. Come
camminare e' squilibrarsi in avanti, cosi' esistere e' darsi, amare. Se
qualcuno non amasse, neppure un poco, il suo tentativo di esistere finirebbe
nel nulla statico, da cui non sarebbe uscito, e cio' non per una condanna
divina, ma per l'inconsistenza di quell'esistere. Ma allora, come per il
male, cosi' Capitini dovrebbe far posto nel pensiero all'ipotesi possibile
dell'esistenza fallita, non salva, invece di abbracciare tutto, anche
l'eventuale malvagio pervicace, in un amore originale senza giudizio, si',
ma a rischio di essere anche senza la drammatica liberta' umana di fallire.
Forse il suo sorvolare su di cio' puo' dipendere dalla sua sana reazione al
pesante, ribadito in quegli anni, dogma cattolico dell'inferno.
Amare e' dare di piu', e dare per sempre (p. 144). E' eccedenza rispetto
alla parita', alla giustizia ("Se la vostra giustizia non sorpassera' quella
degli scribi e farisei, non entrerete nel Regno dei cieli", Matteo 5, 20).
E' eccedenza e tensione che preme sul limite della temporalita', per
superare la morte.
L'esperienza dell'ulteriorita' di valore, presente in ogni altro, e' per
Capitini un'evidenza esistenziale; l'evento dell'incontro quotidiano (suo
testo semplice e luminoso a p. 144) e' un atto di "amore religioso
moltiplicabile per tutti" (Curzi). Cioe': l'altro e' di piu'. Incontrando
l'altro, persino se avverso a me, ricevo un di piu', un'aggiunta, sono amato
e creato, arricchito, indipendentemente dalla sua volonta', e
indipendentemente da quanto e' chiara la mia consapevolezza. Ricevo un di
piu', rispetto a cio' che sono, e mi e' chiesto il di piu' dell'amore, che
non ricambia soltanto, ma aggiunge.
*
13. Si ripresenta (a p. 145) l'esperienza del male, incontrato
nell'incontrare il nemico, il malvagio, il peccatore; provoca dolore,
sdegno, compassione; e' un appello a sentirci responsabili per l'altro,
specialmente per chi e' stato soggetto o oggetto del male. Nel testo qui
citato, Capitini chiama "dimezzati" quelli che Nietzsche chiama
"malriusciti": per Nietzsche sono da buttare, per Capitini da promuovere, da
far nascere.
Ma affinche' l'altro, il di piu', sia realmente incontrato e ricevuto,
occorre accoglierlo, fargli uno spazio in noi, ridurre qualcosa di noi, non
avere un se' completo, pieno ("pieni di se'"), restringersi e tacersi,
sapersi bisognosi, per poter contenere il dono che ci accrescera' e
arricchira' (p. 146).
Alle pp. 158, 159 ritorna il tema del "principio": l'ideologia della
violenza, ben presente, accetta la violenza come principio; interrompere la
catena che risponde al male col male, e' porre la nonviolenza come
principio.
Riconoscere che l'amore per l'altro e' il primo movimento e il senso
dell'essere nel mondo, e' traccia di una presenza ulteriore al mero essere,
"che conduce a individuare come origine un fondamento vivo dell'esistenza"
(p. 166), cioe' a credere in colui che chiamiamo Dio. Si', ma noi cominciamo
come essere-amati (passivo), non come amore per l'altro. Questa precisazione
semmai rafforza l'argomento, mostrando che un amore ci precede, all'origine,
ed e' un amore che ama l'altro, e l'altro siamo originariamente noi, in
quanto amati. Ma chi non fa l'esperienza di essere-amato? Non potra' mai
amare? Ne' avvertire la natura dell'origine, la "metafisica dell'amore"?
Illustrando, a p. 168, tra le filosofie dell'alterita' del Novecento, il
pensiero di Martin Buber, Federica Curzi registra la sua "ontologia delllo
zwischen (tra)", per la quale il "tra" della relazione ontologica fonda
l'essere di tutti gli elementi del reale. Forse si puo' aggiungere qui che
questa relazione costitutiva sussiste anche sotto le nubi
dell'incomprensione, anche dell'incomunicazione, e sotto la grandine del
conflitto e persino dell'avversione. Lo zwischen permane, costitutivo, anche
sotto e nonostante il gegen (contro). Una delle due: o costituente e' il
gegen, e lo zwischen accessorio, casuale, caduco, oppure viceversa. Dunque:
o ontologia della guerra, oppure della pace. La prima e' priorita' dell'Io,
la seconda del Tu e della relazione. Il centro nell'Io configura la casa, la
piccola patria, e il prossimo delimitato. Il centro nel Tu e nella relazione
configura la patria mondo, il prossimo intero. Il centro nell'Io e'
l'economico, il privato, il possesso. Il centro nel Tu e nella relazione e'
il politico, il pubblico, la condivisione, e culmina nel religioso.
*
14. Conclusione: Una politica della nonviolenza
La critica capitiniana della politica e della societa' (testo alle pp.
178-179, da Elementi di una esperienza religiosa, 1937, p. 12) coincide con
la critica della razionalita' occidentale (p. 180). Raimon Panikkar ha
scritto: "Il compito della filosofia nel momento attuale... consisterebbe, a
mio parere, nel disarmare la ragione armata" (19), e questo la filosofia non
lo fa da sola, ne' ad opera di una ragione piu' potente, perche' la
filosofia "non e' esclusivamente razionale ne' meramente teoretica".
La violenza non e' naturale, non e' la legge della realta', ma la negazione
della vita e della natura, percio' anche della politica (p. 181). Quindi
Capitini rifiuta ogni rassegnazione. L'antropologia (di Machiavelli, di
Hobbes) che naturalizza la violenza e' la profezia del peggio, che si
autoadempie ponendo la violenza come regola, come unico orizzonte e
strumento decisivo, e relegando la nonviolenza a fortunata eccezione; mentre
e' vero il contrario. La violenza e' la cecita', che non vede nell'altro la
"radice intima" a tutti comune, amorosa, creativa, che vieta di distruggere
e offendere alcuncha'. L'esperienza e la filosofia della comunione
ontologica, della "apertura ai tutti" si traduce naturalmente in politica,
in una tramutazione della politica.
Una nuova teoria del potere e' "la chiave di accesso ad un nuovo senso della
politica" (p. 182). Ma e' veramente nuova? Gia' Aristotele, Etienne de la
Boetie, Gandhi, e, dopo Capitini, Gene Sharp (20), hanno mostrato che il
potere speciale di uno sta nelle mani di tutti, che nessun potere si regge
senza qualche consenso, che il potere non e' posseduto, ma e' dato dal
consenso. La verita' della compresenza degli esseri tutti, per Capitini,
ispira la politica. La politica e' la costruzione della possibilita' della
convivenza fra tutti, e' "la capacita' di comprendere in essa tutte le
presenze e di preservare il loro futuro". La politica coincide col servizio
alla vita, che e' unita' dei tutti.
*
15. Che cosa significa il potere per Capitini? (p. 183). Potere e' diverso
da potenza, e questa vuol dire dominio sull'altro, privato del suo potere,
invaso e occupato nella sua liberta'. L'essenza del potere non e' questa
violenza, ma la sua condivisione tra tutti, appunto il "potere di tutti"
liberato, l'onnicrazia.
Se la compresenza e' l'unita' tra tutti (non unita' di tutti; non tutti una
cosa sola) essa esclude un potere su tutti, ma vuole il potere di tutti (p.
184). Questa uguaglianza non e' solo formale, giuridica, detta nella legge;
non e' materiale-economica-quantitativa, ma e' anzitutto uguaglianza nel
valore, il quale e' dato dall'infinito a cui ogni finito e' aperto, e'
dunque equi-valenza (Pat Patfoort) piu' che l'ambigua eguaglianza.
Non e' solo, questa uguaglianza, la "pari opportunita'", il non-impedimento,
la non-discriminazione (viene in mente: "Tutti possono arricchirsi, salvo i
poveri!"), ma e' il potere come reale possibilita' di tutti, quindi di
partecipazione effettiva, organizzata e garantita, di espressione da parte
di ciascuno del proprio dono a tutti gli altri, di democrazia dal basso, di
potere ascendente dagli ultimi e umili fatti primi, fino ai capaci e forti,
questi non esclusi ma fatti ultimi. Questo non e' un potere che fa violenza
imponendosi, ma e' il "potere della nonviolenza".
Politica falsa, non genuina, ma adulterata, fallita, come cibo che non nutre
ma danneggia, e' la politica che fa conto su violenza e guerra, che usa il
potere-imposizione. Guerra e violenza non sono affatto mezzi e continuazione
della politica, ma la sua fine: "Nel momento in cui si prepara una guerra
non si ha la prosecuzione della politica, ma il suo fallimento" (21).
Come nella triste serie dei Disastri della guerra di Goya, un testo di
Capitini elenca sei enormi mali della guerra: "la sottrazione di enormi
mezzi allo sviluppo civile, la strage di innocenti e di estranei,
l'involuzione dell'educazione democratica e aperta, la riduzione della
liberta' e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della societa'
e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell'efficienza distruttiva
al controllo dal basso" (p. 185, da Il potere di tutti, p. 67).
In questo testo, Capitini indica poi "l'antitesi della natura come forza e
la compresenza come unita'-amore". Qui c'e' l'idea capitiniana della pura
natura, del "vitalismo", come una dimensione cieca, che si afferma anche con
la violenza, e che solo la consapevolezza della compresenza puo' criticare e
superare, correggere e addolcire con la mitezza del vivere insieme, non del
solo vivere istintivo. Aveva detto che la violenza non e' la legge della
realta' e della natura. Ma solo la religione attiva della compresenza
riporta anche la natura alla sua verita'.
*
16. La nuova politica scaturisce dalla forza della nonviolenza, capace di
riconoscere il valore di ogni alterita'. L'espressione suggerisce
chiaramente la differenza e opposizione tra forza e violenza, a cui tengo
molto. C'e' una confusione corrente, anche voluta, tra i due termini, per
nobilitare la violenza. Ma la forza costruisce, la violenza distrugge (22).
C'e' un enorme equivoco da risolvere. La forza e' vita, e' diritto-dignita',
e' politica; la violenza e' morte, offesa e sopraffazione. La forza e'
resistenza; la violenza e' aggressione.
Capitini non aderisce a partiti, ma sceglie la politicita' quotidiana di
base. Non mi pare che elabori la critica forte dello strumento partito,
fatta da Moisei Ostrogorski, da Simone Weil e da Vaclav Havel (23). Nei
partiti egli vede la vecchia concezione del potere, concentrato, che si
impone sui cittadini dall'alto di una fortezza che i partiti mirano a
conquistare, in lotta tra loro.
Il potere di tutti, annunciato e cercato da Capitini, ha i caratteri del
decentramento, della permanenza (e' continuo, quotidiano, non sporadico, nel
momento della delega elettorale), dell'accessibilita' a tutti. Ma (p. 188),
mentre vale molto come educazione all'incontro e confronto civico e umano,
perche' "per le persone, la cosa peggiore e' non incontrarsi, non ascoltarsi
reciprocamente" (p. 186, tratto da Nuova socialita' e riforma religiosa, p.
240), non pare che possa essere funzionale al momento della delibera, della
decisione, nelle grandi societa'. La "parte mancante" sarebbe il raccordo
tra le strutture dal basso e gli altri organi della democrazia, fino a poter
"rappresentare la voce di tutti all'interno dello spazio della decisione".
Rimane il grande valore dell'indicazione di Capitini per "rifondare una
politica a partire dall'incontro, dalla cura della relazione con altri, con
tutti" (pp. 187-188).
Dunque, politica come incontro paritario di tutti (p. 189): ma la politica
e' anche conflitto, proprio perche' liberta' di tutti i singoli, potere di
tutti, differenze tra i singoli.
Allora, ordinerei le idee in questo schema (tra parentesi il segno positivo
o negativo) [per esigenze grafiche non possiamo qui riprodurre lo schema in
modo adeguato; riportiamo comunque i termini di esso - ndr -]:
1. politica:
2. incontro dalla base, dalla periferia-centro, nel decentramento (+)
3. conflitto
4. violento: scontro eliminatorio (-)
5. moderato: criterio della maggioranza:
= 6. semplice forza del numero (-)
= 7. relativa nonviolenza democratica (+)
= 8. rischio: dittatura della maggioranza (- -)
9. ricerca del consenso nonviolento nel dialogo razionale comunitario:
10. con persuasione comune (+)
11. muro contro muro  (-)
12. delibera a maggioranza (minor danno - +)
13. ripresa del dialogo educativo continuo (n. 2) (+)
Le procedure democratiche classiche per decidere, nella differenza, se non
raggiungono 9 e 10, ricadono in 11. A questa impasse si rimedia con la
imperfetta nonviolenza ("meglio contare le teste che tagliarle") della
democrazia della maggioranza, n. 12, e si deve ricominciare (n. 13 che
riporta al n. 2).
La liberta' non e' individuale, ab-soluta, ma con-divisa (p. 190). E'
liberta' di partecipare con tutti gli altri alla polis. Il programma
politico di Capitini si puo' sintetizzare: "Liberalsocialismo inteso come
massima liberta' sul piano giuridico e culturale e massimo socialismo sul
piano economico" (24).
"Soltanto il potere della nonviolenza come capacita' di vivere con-altri
[tutti gli altri] puo' restituire alla politica la sua identita' propria"
(p. 191). La politica e' pace nonviolenta, relazione di pace non imposta, ma
trovata nel co-orientamento. Il problema e' passare da questo concetto di
politica all'attuazione... Ma intanto si pone salda un'alternativa alla
prassi violenta, da cui nasce il concetto violento della politica, che
genera sempre altra violenza pratica. L'obiettivo politico nonviolento fa
cercare e costruire i mezzi omogenei nonviolenti.
La prassi politica nonviolenta libera le potenzialita' piu' originarie
dell'uomo: la sua dignita', i suoi diritti umani, e specialmente restituisce
i diritti umani a coloro ai quali sono negati. L'esercizio dei diritti si
completa in armonia con l'esercizio dei doveri, perche' la politica e'
etica, ed e' "cura per l'altro": e' questo, in Capitini, "il nuovo nome
della politica", il perfetto opposto del nome oggi (ma quante altre volte
nella storia e nello spazio umano) corrente e dominante: politica come "gara
contro l'altro". La politica capitiniana e' l'opposto assoluto della
politica che intende usare la morte data ad altri, invece della cura della
vita.
*
17. Il criterio e' chiaro: "Preservare la vita ed il futuro di tutti e' il
primo criterio necessario per vivere all'interno di una percezione
mondiale". Qualunque criterio escludente, in nome di qualunque valore -
liberta', progresso, civilta', democrazia - sarebbe dimenticare le radici
della politica, che e' spazio della comunita', di tutti e di ciascuno (p.
191).
Questo e' l'imperativo categorico di Jonas: "Un imperativo adeguato al nuovo
tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente, suonerebbe
press'a poco cosi': 'Agisci in modo che le conseguenze della tua azione
siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra',
oppure, tradotto in negativo: 'Agisci in modo che le conseguenze della tua
azione non distruggano la possibilita' futura di tale vita', oppure,
semplicemente: 'Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza
indefinita dell'umanita' sulla terra', o ancora, tradotto nuovamente in
positivo: 'Includi nella tua scelta attuale l'integrita' futura dell'uomo
come oggetto della tua volonta''" (25).
La partecipazione nel potere di tutti, in quanto produce uguaglianza,
produce pace. Ecco un altro nome vero della politica: la politica e' pace.
La cura per l'altro e' il mezzo, il metodo, la via; la pace e' il risultato.
Il quale e' possibile se il metodo e' quello detto. Che non e' eludere il
conflitto, ma gestirlo senza violenza, con metodi costruttivi, della vita,
non distruttivi, della morte e del dominio (p. 192).
La pace e' il fine della politica. Non ne e' "la fine", nel senso che possa
porsi solo al di la' della politica, essendo questa identificata con la
non-pace, o non-ancora-pace, ma sempre legata a mezzi di conflittualita'
permanente, compromessa con la violenza, non pacificata (26).
La polis di giustizia, di pace, di unione e partecipazione, di nonviolenza,
del potere di tutti, del confronto senza violenza, non e' limitata ai forti,
capaci di lottare e competere, ma e' comunita' - cosa e casa comune, res
publica, di tutti, non divisa e non lacerata fra possessi parziali e
contrapposti, non privatizzata, non consegnata all'etica del profitto
particolare, ma alla legge del bene comune e del servizio ad esso.
Di questa comunita', dunque, sono membri non i forti privilegiati e capaci:
"ne fanno parte non soltanto i cittadini sani e attivi e producenti, ma
anche i malati, gli inerti, i disfatti, i morti" (27). E' una "politica
della responsabilita'", della cura per tutti, quindi certamente anche delle
generazioni future. Capitini anticipa una sensibilita' che ha avuto sviluppi
dopo di lui, nel pensiero morale e in tutta la cultura ecologica: la
responsabilita' verso i posteri (28). Si tratta di una "aggiunta" preziosa
all'etica interpersonale e politica: non e' vero che non abbiamo doveri
verso chi ancora non e' nato, verso i posteri. Poiche' noi poniamo
continuamente le condizioni, positive o negative, della loro vita,
rendendola piu' o meno umana; poiche' il loro modo d'essere e di vivere e'
nelle nostre mani; dal momento che siamo responsabili di tutte le
conseguenze, anche lontane ma prevedibili, delle nostre azioni, siamo tanto
piu' responsabili quando quegli effetti toccheranno vite umane, sebbene ora
sconosciute.
Ecco, la comunita' cosi' intesa e' una proiezione al massimo possibile della
democrazia partecipata, il suffragio piu' universale che ci sia (scritto in
tempi di dittatura imposta e subita dall'Italia). Anche i morti partecipano
con la loro presenza nella costruzione attraverso tempi e spazi della
"coralita' dei valori". Davvero, non una politica del calcolo e confronto
delle forze, ma della convergenza differente e costruttiva di tutte le forze
ed energie spirituali. Un'immagine massima e compiuta della citta' umana,
modello trainante delle realizzazioni storiche condizionate. Ma non un
modello estrinseco al reale: piuttosto un'animazione e fermento intimo della
convivenza umana storica, che cerca e persegue la sua verita' sempre
maggiore.
*
Note
1. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace,
Plus - Pisa University Press, Pisa 2004, p. 22.
2. Mencio (Mengzi), filosofo cinese, 372-289 a. C., citato in Pier Cesare
Bori, Saverio Marchignoli, Per un percorso etico tra culture. Testi antichi
di tradizione scritta, seconda edizione, Carocci, Roma 1998, p. 59. Si
potrebbe usare questo ragionamento, e lo si fa, contro la nostra
argomentazione: "non sono uomini...", dunque vanno eliminati dalla societa'
umana. Ma fa parte dell'umano l'evoluzione sia in peggio sia in meglio, e
nessuno puo' escludere il ricupero di un essere umano all'umanita' che lui
ha negato in se stesso. Sopprimerlo sarebbe un disumano fissarlo nella
contraddizione con la sua natura. Credo, infatti, che questo "non sono
uomini..." sia da intendere non nel senso definitorio, ma descrittivo, come
se dicesse: non vivono all'altezza umana, contraddicono la loro natura
umana.
3. Cfr nota 34 alla stessa p. 59, di Pier Cesare Bori, citando Scarpari, La
concezione della natura umana in Confucio e Mencio, Cafoscarina, Venezia
1991, p. 40.
4. Alberto Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, Einaudi, Torino 2004, p.
134.
5. Cfr il mio Dov'e' la vittoria? Piccola antologia aperta sulla miseria e
fallacia del vincere, Il Segno dei Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano
(Verona) 2005.
6. Si puo' vedere la mia bibliografia dei casi storici di lotte nonviolente
Difesa senza guerra, pubblicata piu' volte in successivi aggiornamenti,
reperibile in internet:
http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_2668.html ;
http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
7. Secondo il giudizio di un autore (citato da Melloni nell'opera citata,
pp. 135-136), che puo' forse avere ragione in qualche caso di pacifismo
estremo, di cui pero' non vedo esempi, quando invece figure di un simile
autolesionismo sacrificale sono tipiche della mitologia militare violenta,
in tutta la storia, fino alla figura tristemente attuale dell'attentatore
sui-omicida.
8. Raniero La Valle, Introduzione a Claudio Napoleoni, Cercate ancora.
Lettera sulla laicita' e ultimi scritti, Editori Riuniti, Roma 1990, p. XXX.
9. Giovanni 4, 37, che cita la bella immagine del salmo 126, 5-6.
10. Luigi Pintor, I luoghi del delitto, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p.
15.
11. Principio della sapienza e' il timore del Signore (Proverbi 1, 7).
12. In La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998, pp. 135-138.
13. Mohandas K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino
1996, pp. 64-65.
14. Norberto Bobbio, Introduzione a Capitini, Il potere di tutti, La Nuova
Italia, Firenze 1969, p. 31.
15. Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, Laterza, Bari 1937,
p. 111; pp. 115-116 della riedizione Cappelli 1990.
16. Questo pensiero di Capitini si ricava dalle pp. 16-17 e 30-31 di Teoria
della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1980, e anche
nella citata Introduzione di Bobbio a Il potere di tutti, p. 33.
17. Scritti filosofici e religiosi, a cura di Mario Martini, Protagon,
Perugia 1994, p. 199; citato da Curzi, p. 130.
18. Teoria della nonviolenza, citato, p. 4, da Il problema religioso attuale
(1948).
19. Raimon Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo. Edizioni Cultura
della Pace, Fiesole (Firenze) 1990, p. 47.
20. Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, vol I, Potere e lotta,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985, Capitolo I, La natura e il controllo del
potere politico, pp. 49-94.
21. Raniero La Valle, Introduzione a Enrico Peyretti, La politica e' pace,
Cittadella, Assisi 1998, p. 8.
22. Vedi nel sito  http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti un
mio articolo.
23. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace,
citato, pp. 172-177.
24. Aldo Capitini, Il potere di tutti, citato, p. 327.
25. Hans Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt am Main
1979; Il principio responsabilita'. Un'etica per la civilta' tecnologica,
Einaudi, Torino 1990, p. 16.
26. Vedi la discussione nei seguenti articoli: La pace, fine della politica,
di Claudio Ciancio, in "il foglio" n. 306, novembre 2003 (l'articolo di
Ciancio giocava sul duplice significato di "fine", volendo dire che la
politica deve preparare la pace, ma questa trascende la politica, che non
puo' realizzarla); Pace, fine o principio della politica?, di Enrico
Peyretti, in "il foglio" n. 310, marzo 2004 ["il foglio" di cui qui si parla
e' il prestigioso mensile redatto da "alcuni cristiani torinesi" da
trentacinque anni a questa parte - ndr -].
27. Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, citato, p. 50;
questa citazione e' a p. 192 di Curzi.
28. Dietrich Bonhoeffer (citato da Curzi a p. 193), Hans Jonas (citato qui
sopra), Giuliano Pontara (in vari scritti: per esempio Etica e generazioni
future, Laterza, Roma-Bari 1995; problema richiamato da Pontara in La
personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, pp. 23-25).

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 23 del 29 maggio 2005