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Nonviolenza. Femminile plurale. 8
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 8
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 21 Apr 2005 11:59:15 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 8 del 21 aprile 2005 In questo numero: 1. Vandana Shiva: Le donne del Kerala contro la Coca cola 2. Marina Forti: Coca cola, la battaglia degli azionisti 3. Mara Maffei Gueret: Ellen Swallow, fondatrice dell'ecologia 4. L'indice di "Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita'" di Bruna Peyrot 5. Cristiano Morsolin ricorda Dorothy Stang 6. Marinella Correggia ricorda Marla Ruzicka 7. Lidia Menapace: Procreazione assistita e relazioni di giustizia tra le donne del mondo 1. INIZIATIVE. VANDANA SHIVA: LE DONNE DEL KERALA CONTRO LA COCA COLA [Da "Le monde diplomatique", edizione italiana, marzo 2005. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003] Espulsa dal governo indiano nel 1977, la Coca Cola ha rimesso piede nel paese il 23 ottobre 1993, quando vi si insediava l'altra multinazionale americana, la Pepsi-Cola. Attualmente le due imprese possiedono novanta stabilimenti "d'imbottigliamento", che in realta' sono di pompaggio: 52 appartengono alla Coca Cola e 38 alla Pepsi-Cola. Ognuno di essi estrae da 1 a 1,5 milioni di litri d'acqua al giorno. Questo genere di bevande gassose presenta rischi certi, derivanti dallo stesso processo di fabbricazione. Prima di tutto gli stabilimenti d'imbottigliamento, pompando dalle falde, tolgono ai poveri il diritto fondamentale a procurarsi acqua potabile. Inoltre, generano rifiuti tossici che minacciano l'ambiente e la salute pubblica. Infine, producono bevande notoriamente pericolose per la salute - il parlamento indiano ha costituito una commissione parlamentare mista incaricata d'indagare sulla presenza di residui di pesticidi. Per piu' di un anno, nel distretto di Palaghat, nel Kerala, alcune donne delle tribu' di Plachimada hanno organizzato sit-in di protesta contro il prosciugamento delle falde freatiche provocato dalla Coca Cola. "Gli abitanti - scrive Virender Kumar, giornalista del quotidiano "Mathrubhumi" - si caricano sulla testa grandi quantita' di acqua potabile, da andare a cercare sempre piu' lontano, mentre camion pieni di bevande gassose escono dallo stabilimento della Coca" (1). Per fare un litro di Coca Cola sono necessari nove litri di acqua potabile. Le donne adivasi (2) di Plachimada hanno iniziato ad organizzarsi poco dopo l'apertura dello stabilimento della Coca Cola la cui produzione doveva raggiungere, nel marzo 2000, 1.224.000 bottiglie di Coca Cola, Fanta, Sprite, Limca, Thums up, Kinley Soda e Maaza. Il panchayat locale (3) aveva concesso alla multinazionale, sotto condizione, l'autorizzazione ad attingere acqua con l'aiuto di pompe a motore. Ma la multinazionale, del tutto illegalmente, dopo aver scavato piu' di sei pozzi attrezzandoli con pompe elettriche ultrapotenti, ha iniziato a pompare milioni di litri di acqua pura. Il livello delle falde e' drasticamente sceso, passando da 45 a 150 metri di profondita'. Non contenta di rubare acqua alla collettivita', la Coca Cola ha inquinato il poco che ne rimaneva convogliando le acque sporche nei pozzi a secco scavati nello stabilimento per sotterrare i rifiuti solidi. Prima, l'impresa depositava i rifiuti in superficie, cosicche' nella stagione delle piogge questi ultimi, disperdendosi fra risaie, canali e pozzi, costituivano una gravissima minaccia per la salute pubblica. Oggi non e' piu' cosi'. Ma la contaminazione delle sorgenti di acqua resta un dato di fatto. Con le sue procedure, la Coca Cola ha provocato il prosciugamento di 260 pozzi, la cui trivellazione era stata eseguita dalle autorita' per sopperire al bisogno di acqua potabile e all'irrigazione agricola. In questa regione del Kerala, definita "il granaio di riso" proprio perche' si tratta di un ecosistema ricco e molto ben fornito di acqua, le rese agricole sono diminuite del 10%. Il colmo e' che la Coca Cola ridistribuisce agli abitanti dei villaggi, sotto forma di concime, i rifiuti tossici prodotti dal suo stabilimento. I test effettuati hanno infatti dimostrato che questi concimi hanno un'alta percentuale di cadmio e piombo, due sostanze cancerogene. Rappresentati delle tribu' e dei contadini hanno denunciato non solo la contaminazione delle riserve acquifere e delle sorgenti, ma anche le trivellazioni senza criterio che compromettono gravemente i raccolti; hanno richiesto, in particolare, la protezione delle tradizionali sorgenti di acqua potabile, degli stagni e dei vivai di pesci, la manutenzione delle vie navigabili e dei canali, il razionamento dell'acqua potabile. Invitata a fornire spiegazioni sul suo operato, la Coca Cola ha rifiutato al panchayat i chiarimenti richiesti. Di conseguenza, quest'ultimo le ha notificato la soppressione della licenza di sfruttamento delle acque. Per tutta risposta, la multinazionale ha cercato di comprarne il presidente, Anil Krishnan, offrendogli 300 milioni di rupie. Inutilmente. Tuttavia, mentre il panchayat le ritirava il permesso di sfruttamento, il governo del Kerala, da parte sua, ha continuato a proteggere l'impresa. Non a caso le ha concesso circa 2 milioni di rupie (36.000 euro) a titolo di sovvenzione alla politica industriale regionale. La Pepsi e la Coca Cola ricevono aiuti simili in tutti gli stati in cui sono presenti. E questo per bibite il cui valore nutrizionale e' nullo rispetto a quello delle bevande indiane tradizionali (nimbu pani, lassi, panna, sattu...). L'industria delle bibite gassose utilizza sempre piu' lo sciroppo di mais ad alto tenore di fruttosio. Non solo questo edulcorante e' nefasto per la salute, ma lo stesso mais viene coltivato per produrre industrialmente alimenti per il bestiame. Una grande quantita' di mais viene quindi sottratta al consumo alimentare, privando alla fine i poveri di un prodotto di base essenziale e a buon mercato. Per di piu', la sostituzione di dolcificanti estratti dalla canna da zucchero, come il gur e il khandsari, danneggia i contadini ai quali questi prodotti garantivano redditi e mezzi di sussistenza. In sintesi, la Coca Cola e la Pepsi-Cola provocano, sulla catena alimentare e sull'economia, un impatto pesante che non si limita al contenuto delle bottiglie. * Nel 2003, le autorita' sanitarie del distretto hanno informato gli abitanti di Plachimada che l'acqua, ormai inquinata, non poteva essere usata per scopi alimentari. Le donne erano state le prime a denunciare questa "pirateria idrica" nel corso di un dharna (sit-in) di fronte ai cancelli della multinazionale. Nato per iniziativa delle donne adivasi, il movimento ha attivato, non solo a livello nazionale, ma mondiale, un crescendo di solidarieta'. Incalzato dall'espandersi del movimento e dalla siccita' che ha ulteriormente aggravato la crisi idrica, finalmente, il 17 febbraio 2004, il capo del governo del Kerala ha ordinato la chiusura dello stabilimento della Coca Cola. Le alleanze arcobaleno, nate inizialmente tra le donne della regione, hanno finito con il coinvolgere tutto il panchayat. Non solo, quello di Perumatty (nel Kerala), ha presentato, in nome del pubblico interesse, un'istanza contro la multinazionale presso il tribunale supremo del Kerala. Il 16 dicembre 2003, il giudice Balakrishnana Nair ha ordinato alla Coca Cola di smettere di pompare illegalmente dalla falda di Plachimada. Le motivazioni della sentenza valgono quanto il verdetto stesso. Il magistrato ha infatti voluto precisare: "La dottrina della pubblica sicurezza si basa innanzi tutto sul principio per cui alcune risorse come l'aria, l'acqua del mare, le foreste abbiano, per l'insieme della popolazione, un'importanza cosi' grande che sarebbe totalmente ingiustificato farne oggetto di proprieta' privata. Le suddette risorse sono un dono della natura e dovrebbero essere messe a disposizione di tutti in modo gratuito, indipendentemente dalla posizione sociale. Poiche' tale dottrina impone al governo di proteggere queste risorse, in modo che l'insieme della collettivita' possa usufruirne, nessuno puo' autorizzarne l'utilizzo da parte di privati o a fini commerciali... Tutti i cittadini senza eccezione sono i beneficiari delle coste, dei corsi d'acqua, dell'aria, delle foreste, delle terre fragili da un punto di vista ecologico. In quanto amministratore, lo stato, per legge, ha il dovere di proteggere le risorse naturale [le quali] non possono essere trasferite alla proprieta' privata". In sintesi: l'acqua e' un bene pubblico. Lo stato e le sue diverse amministrazioni hanno il dovere di proteggere le falde freatiche da uno sfruttamento eccessivo, e la loro inazione in materia e' una violazione al diritto alla vita garantito dall'articolo 21 della Costituzione indiana. La Corte suprema ha sempre affermato che il diritto di usufruire di un'acqua e di un'aria non inquinate fa parte integrante del diritto alla vita stabilito dal suddetto articolo. In altre parole, anche in assenza di una legge che regoli specificamente l'utilizzazione delle falde freatiche, il panchayat e lo stato sono tenuti ad opporsi allo sfruttamento intensivo di queste riserve sotterranee. E il diritto di proprieta' della Coca Cola non si estende alle falde situate sotto le terre che le appartengono. Nessuno ha il diritto di appropriarsi della maggior parte dell'acqua, e il governo non ha alcun potere di autorizzare un terzo privato ad estrarne tali quantita'. Da qui i due ordini emessi dal tribunale: entro un mese la Coca Cola dovra' progressivamente smettere di pompare acqua per suo uso; passato questo termine, il panchayat e lo stato garantiranno l'applicazione della sentenza. * La rivolta delle donne, che sono il cuore e l'anima del movimento, e' stata ripresa da giuristi, parlamentari, scienziati e scrittori... Il movimento si e' esteso ad altre regioni, dove la Coca e la Pepsi pompano le riserve acquifere a danno degli abitanti. A Jaipur, la capitale del Rajahstan, dopo l'apertura, nel 1999, dello stabilimento della Coca Cola, il livello delle falde e' passato da dodici metri di profondita' a trentasette metri e cinquanta. A Mehdiganj, una localita' a venti chilometri dalla citta' santa di Varanasi (Benares), e' sceso di dodici metri e i campi coltivati attorno allo stabilimento sono ormai inquinati. A Singhchancher, un villaggio del distretto di Ballia (nell'est dell'Utar Pradesh), lo stabilimento della Coca Cola ha inquinato definitivamente acque e terre. Ovunque la protesta si organizza. Ma va sottolineato che, nella maggior parte dei casi, le autorita' pubbliche reagiscono con violenza alle manifestazioni. A Jaipur, per esempio, il militante pacifista Siddharaj Dodda e' stato arrestato nell'ottobre 2004 per aver partecipato ad una marcia che chiedeva la chiusura dello stabilimento. Al prosciugamento dei pozzi si aggiungono i rischi di contaminazione da pesticidi. Il tribunale supremo del Rajahstan ha proibito la vendita delle bibite prodotte da Coca e Pepsi, perche' queste ultime si sono rifiutate di fornire la lista dettagliata dei componenti, quando alcune analisi hanno dimostrato la presenza di pesticidi pericolosi per la salute (4). Le due multinazionali hanno presentato ricorso alla Corte suprema dell'India, ma questa ha rifiutato l'appello e ha convalidato la richiesta del tribunale del Rajahstan, ordinando la pubblicazione della composizione precisa dei pro dotti fabbricati dalla Pepsi e dalla Coca. A tutt'oggi, queste bevande sono proibite nella regione. Uno studio, condotto nel 1999 da All India Coordinated Research Project on Pesticide Residue (Aicrp), ha dimostrato che il 60% dei prodotti alimentari venduti sul mercato e' contaminato da pesticidi e che il 14% ne contiene dosi superiori alla quantita' massima autorizzata. Una tale constatazione rimette in discussione il mito secondo cui le multinazionali privilegerebbero la sicurezza e l'affidabilita', il che le renderebbe degne di una fiducia rifiutata al settore pubblico e alle autorita' locali. Questo pregiudizio elitario contro l'amministrazione pubblica di beni e servizi ha contribuito a fare accettare la privatizzazione dell'acqua. In India, come altrove nel mondo, il ricorso ai privati impedisce di fornire acqua di qualita' a un prezzo abbordabile. * Il 20 gennaio 2005, in tutta l'India, attorno agli stabilimento della Coca Cola e della Pepsi-Cola, sono state organizzate delle catene umane. Tribunali popolari hanno notificato agli "idro-pirati" l'ordine di lasciare il paese. Il caso di Plachimada dimostra che il potere del popolo puo' avere la meglio su quello delle imprese private. I movimenti per la difesa delle acque, peraltro, si spingono ben oltre. Vogliono parlare anche delle dighe, e del grande progetto di collegamento fluviale i cui piani, che prevedono la deviazione del corso di tutti i fiumi della penisola indiana, suscitano un'opposizione crescente (5). Denunciano le privatizzazioni incentivate dalla Banca mondiale e la privatizzazione della fornitura di acqua a Delhi (6). Bisogna infatti sottolineare che il saccheggio non potrebbe aver luogo senza l'aiuto di stati centralizzatori e corporativi. La battaglia contro il furto dell'acqua non riguarda solo l'India. L'eccessivo sfruttamento delle falde freatiche, i grandi progetti di deviazione dei corsi d'acqua pregiudicano la conservazione della Terra nel suo complesso. Per avere un'idea della posta in gioco, bisogna sapere che se ogni punto del pianeta ricevesse la stessa quantita' di precipitazioni, con la stessa frequenza e secondo lo stesso schema, ovunque troveremmo le stesse piante e le stesse specie animali. Il pianeta e' fatto di diversita'. Il ciclo idrologico del pianeta e' una democrazia dell'acqua - un sistema di distribuzione al servizio di tutte le specie viventi. Dove non c'e' democrazia dell'acqua, non ci puo' essere vita democratica. * Note 1. Virenda Kumar, Lettera aperta al capo del governo, "Mathrubhumi", Thiruvananthapuram (Kerala), 10 marzo 2003. 2. Il termine Adivasi designa le tribu' autoctone nelle quali non esiste un sistema di caste [ndt]. 3. Il consiglio che esercita l'autorita' nel villaggio. 4. Le bevande contenevano diversi pesticidi tra i quali il Ddt. La commissione del governo ha concluso che questi residui erano "nei limiti normativi" accettati in India... Nelle bottiglie di Coca o di Pepsi consumate negli Stati uniti o in Europa non si trova alcuna traccia di pesticidi. 5. Arundhati Roy, The Cost of Living, Modern Library, 1999. 6. Per il ritrattamento delle acque, il cantiere e' stato affidato a Degremont, filiale del gruppo Suez. A Delhi, negli ultimi anni il prezzo dell'acqua e' aumentato di dieci volte. 2. INIZIATIVE. MARINA FORTI: COCA COLA, LA BATTAGLIA DEGLI AZIONISTI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 aprile 2005. Marina Forti, giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione, scrive per il quotidiano "Il manifesto" sempre acuti articoli e reportages sui temi dell'ecologia globale e delle lotte delle persone e dei popoli del sud del mondo per sopravvivere e far sopravvivere il mondo e l'umanita' intera. Opere di Marina Forti: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004] Non sono molte le occasioni per incontrare i massimi dirigenti esecutivi di una grande azienda multinazionale. Una e' l'assemblea annuale degli azionisti: per questo una rete di attivisti sociali si e' data appuntamento questa mattina all'Hotel Du Pont di Wilmington, Delaware, dove e' convocata l'assemblea degli azionisti della Coca Cola. Con "una forte presenza dentro e fuori l'assemblea", sperano di "lanciare un avvertimento agli azionisti, creditori e potenziali investitori, che saranno tenuti a rendere conto delle azioni irresponsabili dell'azienda". La mobilitazione e' promossa dalla campagna "Stop Killer Coke", dall'India Resource Centre e da alcuni gruppi per la "corporate accountability", che si potrebbe tradurre come "trasparenza" o "responsabilita'" delle aziende. Gli attivisti contano di farsi sentire anche dentro l'assemblea grazie a amici e simpatizzanti titolari di azioni della Coca Cola. Chiederanno conto all'azienda di Atlanta di "gravi violazioni dei diritti umani, ambientali, e sulla salute". Citano in particolare due casi: il rapimento, tortura e uccisione di sindacalisti degli stabilimenti Coca Cola in Colombia, e la storia dello stabilimento di Plachimada, villaggio del Kerala, India, che ha prosciugato le falde idriche dell'intero distretto. * In Colombia, dal 1990 numerosi lavoratori degli impianti di imbottigliamento della Coca Cola sono stati uccisi. In particolare il sindacato Sinaltrainal denuncia che diversi suoi dirigenti - dipendenti della Coca Cola - sono stati rapiti, torturati e assassinati da squadre della morte. Nel 2001 la United Steelworkers Union (il sindacato dei metallurgici Usa) e il gruppo di avvocati International Labor Rights Fund hanno ripreso la denuncia del sindacato colombiano e hanno fatto causa alla Coca Cola presso il tribunale federale di Washington, con l'accusa di mantenere relazioni con diverse squadre della morte allo scopo di intimidire gli attivisti sindacali. L'azione legale per ora e' finita in nulla, il tribunale ha accolto la difesa dell'azienda: Coca Cola non nega i fatti ma dice che rapimenti e uccisioni sono parte di un "generale clima di violenza" in Colombia. Dice anche che gli stabilimenti colombiani sono proprieta' di ditte locali, dunque Coca Cola non ha responsabilita' legali. * Altra e' la storia di Plachimada, in India. Qui la Coca Cola aveva aperto nel 2000 uno stabilimento per imbottigliare le sue note bibite con licenza del locala panchayat, il consiglio elettivo di villaggio. Poi pero' e' risultato che pompava 1,5 milioni di litri al giorno da sei pozzi. In breve, Plachimada e i villaggi circostanti sono rimasti all'asciutto, i pozzi pubblici di acqua potabile erano a secco, l'acqua per l'agricoltura scomparsa. Nel 2003 dunque il panchayat non ha rinnovato la licenza, e la Coca Cola ha fatto ricorso. E' cominciata cosi' una battaglia finita in un lungo "assedio" di massa allo stabilimento. Una sentenza della Hight Court (l'alta corte statale) del Kerala ha poi dato ragione al panchayat di Plachimada: diceva che lo stato ha "il dovere legale di protegge le risorse naturali. Queste risorse intese per l'uso e il beneficio pubblico non possono essere convertite in proprieta' privata" (6 dicembre 2003). Nel febbraio del 2004 il governo del Kerala ha infine chiuso lo stabilimento. La storia pero' non e' finita, perche' Coca Cola ha fatto ricorso e pochi giorni fa ha ottenuto una sentenza favorevole: sarebbe autorizzata a estrarre fino a cinquecentomila litri d'acqua al giorno - ma lo stabilimento resta chiuso, il panchayat e il comitato di solidarieta' che lo sostiene intendono rivolgersi alla Corte suprema. * Tutto questo sara' evocato oggi anche grazie a una risoluzione proposta da due "piccoli azionisti": il fondo pensione degli impiegati comunali e quello degli insegnanti di New York chiederanno di mandare "una delegazione di inchiesta indipendente che includa rappresentanti di organizzazioni statunitensi e colombiane per i diritti umani" a verificare le condizioni di lavoro negli stabilimenti di Coca Cola all'estero. I vertici dell'azienda si opporranno, offrendo in cambio di commissionare una verifica a una ditta specializzata in monitoraggio degli standard sociali delle aziende. 3. MAESTRE. MARA MAFFEI GUERET: ELLEN SWALLOW, FONDATRICE DELL'ECOLOGIA [Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questa lettera della dottoressa Mara Maffei Gueret. Mara Maffei Gueret, laureata con una tesi su "La pianificazione forestale in Trentino", e' impegnata in iniziative per l'ambiente e i diritti] Chiarissimo professore, dopo aver partecipato alla prima lezione di presentazione del Corso di perfezionamento in Ecologia umana il giorno 11 gennaio 2003 a Palazzo Bo (Padova)... desidero inviare questa mia riflessione sulle differenze di genere... Il non aver sentito in quel contesto il nome di Ellen Swallow fra i fondatori dell'ecologia (vedi Robert Clarke, Ellen Swallow: The Woman Who Founded Ecology, Chicago 1973) mi porta oggi appunto alla stesura di questo mio breve, informale e sicuramente inesaustivo contributo, mossa dalla necessita' di riappropriarmi di un tassello di storia della disciplina posta dal genere femminile, quale utile mattone per fondare una spesso non semplice identita'. Dal rapporto Figlie di Minerva: "Per poter avere gli stessi riconoscimenti e la stessa carriera, una scienziata o una ricercatrice deve essere 2,6 volte piu' brava di un suo collega maschio" (Rossella Palomba (a cura di), Figlie di Minerva. Primo rapporto sulle carriere femminili negli enti pubblici di ricerca italiani, Istituto di Ricerche sulla Popolazione, CNR - Franco Angeli, Milano 2000). Dato che "l'apertura delle universita' alle donne, avvenuta per la prima volta nel 1860 in Svizzera e in seguito negli altri paesi europei, segno' la svolta, indicando il momento in cui il contributo femminile alla ricerca scientifica pote' estendersi in tutte le direzioni; e che prima di allora solo le Universita' italiane avevano insignito di un titolo accademico, in via eccezionale, alcune donne ritenute speciali come la nobile veneziana Elena Cornaro Piscopia che fu la prima al mondo ad ottenere una laurea, attribuitale proprio dall'Universita' di Padova, in filosofia, nel 1678" (S. Sesti, L. Moro, Donne di scienza. 55 biografie dall'antichita' al 2000, Pristem-Bocconi, Milano 2002) penso che oggi si potrebbe dedicare il giusto spazio ad una figura come quella di Ellen Swallow. * Di Lei possiamo leggere nel sito http://curie.che.virginia.edu/scientist/richards.html "Ellen Swallow Richards (1842-1911) Ellen Henrietta Swallow was born in Massachusetts on December 3, 1842. At age 26, she entered Vassar College, having only four years of prior formal education, finishing the four year program in two years. She was admitted to study at the Massachusetts Institute of Technology "as an experiment" in January of 1871. By making her work indispensable, she avoided dismissal, working in a small basement laboratory. She became the first woman to be earn a bachelor of chemistry degree in America. After the isolation of a new metal, vanadium, Vassar awarded her an arts master degree. She was denied a request to study for a doctorate at MIT, which then promptly voted not to admit women. She remained an assistant to the men at MIT and began teaching science to female schoolteachers at night. In a renovated MIT garage, she opened the Science Laboratory for Women, the first of its kind in the world. It was here that she began her study of ecology which caused great controversy due to newly exposed environmental problems. In 1884, Richards became the nation's first female industrial chemist after the women's lab was closed at MIT. She lobbied the science hierarchy for a discipline which she called "Human Ecology". When this effort failed, she attempted to create a multidisciplinary profession by the same name. Melvill Dewey denied ecology a place in his classification system and the name was changed to "home economics." After having written her keynote address to the First World Congress on Technology, Ellen Swallow Richards died of heart disease on March 30, 1911". * Molti sono i siti italiani e nel mondo che a questa figura dedicano spazio (basta digitare il suo nome su di un motore di ricerca, provare per credere). Le notizie sotto riportate sono tratte dal libro di AA. VV., Itis Molinari, Profumi di donne, Cuen, 1999: "Ellen Swallow fu la fondatrice dell'ecologia. Oggi di questa disciplina si sente tanto parlare ( a volte anche troppo ed a sproposito) ed e' riconosciuta come una vera e propria scienza, ma ai suoi tempi, a fine '800, non esisteva e, malgrado le sue lotte anche contro alcuni insigni medici e chimici per sollevare i problemi dell'ambiente, loro sapete come chiamarono l'ecologia? Economia domestica. Secondo gli scienziati di allora l'ecologia era poco piu' che lavare i piatti sporchi o tenere ben pulita e areata la casa, una faccenda per signore. Quando si comincio' a parlare di ecologia umana, Ellen Swallow ci lavorava gia' da parecchio tempo, da quando con il suo insegnante al Mit (Massachusetts Institute of Technology) organizzarono un laboratorio per una nuova disciplina che chiamarono chimica sanitaria. Riusci' anche ad ottenere un posto come insegnante di questa materia presso il Mit, e questo era un grande onore, perche' fu, allora, la prima e unica donna che riusci' ad ottenere una laurea al Mit; insegno' al Mit, ma le fu negata una cattedra perche' subito l'istituto voto' per non ammettere donne nei propri laboratori. Allora divenne, dopo la chiusura del laboratorio femminile, la prima donna ad esercitare la professione di chimica industriale. Raggiunse infatti la notorieta' per il suo lavoro di analisi delle acque, cimentandosi in questa, che era considerata una nuova scienza e analizzando una quantita' infinita di campioni di acque provenienti da scarichi domestici e industriali, sistemi fognari, eccetera; il tutto pero' richiese lo sviluppo di nuove tecniche ed apparati di laboratorio che dovette creare da se'. Questa indagine sanitaria porto' alla produzione delle prime tabelle al mondo di purezza delle acque e quindi ottenne l'allestimento del primo laboratorio per i test di purificazione degli scarichi idrici. Nel campo della mineralogia riusci' ad isolare un metallo allora sconosciuto, il vanadio, e per questo le conferirono un master nelle arti. Ma l'ecologia rimase la questione che la appassiono' per tutta la vita. Gia' allora uno dei problemi piu' seri della civilta' era la pulizia delle acque e dell'aria, e non solo negli States ma proprio in tutto il mondo: le fabbriche disperdevano liberamente fumi densi e scarichi maleodoranti, case e uffici erano riscaldati soprattutto a carbone. Per questo tento' di sensibilizzare i cittadini anche, perche' no, scrivendo trattati (una quindicina) in merito all'alimentazione corretta, alla progettazione di edifici piu' sani e sicuri, ed in genere sulle caratteristiche ottimali degli ambienti domestici. In questo si rivolse soprattutto alle donne, non perche' fosse dell'idea che la donna dovesse necessariamente essere considerata solo come casalinga, ma perche' di fatto erano le signore ad essere costrette a combattere giorno dopo giorno per mantenere, per quanto possibile, le condizioni igieniche ad un livello accettabile nelle famiglie; a questo scopo tenne anche corsi in casa sua dedicati a tutti coloro che vi volevano partecipare, senza discriminazioni. La sua casa, del resto, era molto particolare: la ridisegno' lei stessa, facendo particolare attenzione al sistema di riscaldamento e a quello di ventilazione, tanto che la casa dove abitavano lei ed il marito Robert Richards veniva chiamata "il centro del benessere" da tutti quelli che la frequentavano, ed erano molti, tra cui persino degli studenti di ingegneria a fare rilevazioni e studi. Ellen Swallow ci ha insegnato che si tratta di una battaglia lunga e senza tregua, in cui ogni piccolo risultato, pero', puo' avere grandi conseguenze". Buon lavoro e grazie per l'attenzione. dottoressa Mara Maffei Gueret 4. MATERIALI. L'INDICE DI "MUJERES. DONNE COLOMBIANE FRA POLITICA E SPIRITUALITA'" DI BRUNA PEYROT [Ringraziamo Bruna Peyrot (per contatti: brunapeyrot at terra.com.br) per averci messo a disposizione l'indice del suo libro Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita', Citta' Aperta Edizioni, Troina (En) 2002. Bruna Peyrot, torinese, scrittrice, studiosa di storica sociale, conduce da anni ricerche sulle identita' e le memorie culturali; collaboratrice di periodici e riviste, vincitrice di premi letterari, autrice di vari libri; vive attualmente in Brasile. Si interessa da anni al rapporto politica-spiritualita' che emerge da molti dei suoi libri, prima dedicati alla identita' e alla storia di valdesi italiani, poi all'area latinoamericana nella quale si e' occupata e si occupa della genesi dei processi democratici. Tra le sue opere: La roccia dove Dio chiama. Viaggio nella memoria valdese fra oralita' e scrittura, Forni, 1990; Vite discrete. Corpi e immagini di donne valdesi, Rosenberg & Sellier, 1993; Storia di una curatrice d'anime, Giunti, 1995; Prigioniere della Torre. Dall'assolutismo alla tolleranza nel Settecento francese, Giunti, 1997; Dalla Scrittura alle scritture, Rosenberg & Sellier, 1998; Una donna nomade: Miriam Castiglione, una protestante in Puglia, Edizioni Lavoro, 2000; Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita', Citta' Aperta, 2002; La democrazia nel Brasile di Lula. Tarso Genro: da esiliato a ministro, Citta' Aperta, 2004. Per richiedere il libro alla casa editrice: Citta' Aperta Edizioni, via Conte Ruggero 73, 94018 Troina (En), tel. 0935653530, fax: 0935650234] Parte prima: Le Colombie 1. Scrivere l'incontro 2. Mondo unico, guerra totale 3. Il sogno della Grande Colombia 4. Colombia amara 5. Colombia in armi 6. Un dialogo di pace Parte seconda: Donne in cammino 1. Narrare, narrarsi 2. Marta Buritica' Cespedes, la ribelle 3. Rebeca Andrades Alba, una donna che crea radici 4. Ofelia Londono Urrego, la pedagogista internazionale 5. Maria Eugenia Romero Sanchez, una donna che mantiene il sogno 6. Milena Paramo Bernal, alla ricerca delle cose dentro 7. Sonia Patricia Rodriguez Aparicio, fra diritto e rebeldia 8. Rosario Calle Bernal, una donna essenziale 9. Anita Pavas Martinez, una giovane sognatrice 10. Magda Ortega, con serena progettualita' 11. Angela Yasmith Ceron Lasprilla, che sognava il Canada 12. Patricia Buritica' Cespedes, una leader solitaria 13. Rocio Pineda Garcia, una donna felice 14. Maria Luisa Diaz Crespo, la bruja 15. Olinda Garcia Garcia, una madre comunitaria 16. Pablo Montes, il caminante Parte terza: Dalle storie alla Storia 1. Donne "forti" 2. Spazi privati 3. Linguaggi 4. Essere sindacaliste 5. Fra politica e spiritualita' Parte quarta: Donne in guerra e in pace 1. Achille e Cassandra 2. La militanza perduta 3. Dentro il dolore 4. La scoperta della democrazia Parte quinta: Internazionalismo femminile 1. L'Escuela 2. Radici 3. Lavoratrici 4. Nuove politiche Parte sesta: Bibliografia 5. MEMORIA. CRISTIANO MORSOLIN RICORDA DOROTHY STANG [Dal sito www.grillonews.it riprendiamo questo articolo del 15 febbraio 2005. Cristiano Morsolin e' educatore e giornalista, operatore di reti di solidarieta' internazionale. Fa parte inoltre dell'Osservatorio indipendente sulla regione andina "Selvas" (www.selvas.org). Su Dorothy Stang cfr. anche i nn. 843 e 865 de "La nonviolenza e' in cammino", e il n. 5 di "Nonviolenza. Femminile plurale"] Suor Dorothy Stang, missionaria della Commissione Pastorale della Terra (in sigla: Cpt) e' stata uccisa in Brasile da pistoleiros. "La nostra martire Dorothy Stang e' stata uccisa perche' credeva in un sogno diverso per l'Amazzonia, perche' difendeva i progetti di sviluppo sostenibile e lottava per l'asentamiento dei semplici coloni che avevano bisogno di piantare e di vivere. Si opponeva all'idea di crescita infinita del latifondo che, per ampliarsi, non accetta le voci contrarie. L'assassinio della missionaria statunitense naturalizzata brasiliana non e' un semplice crimine che avviene nel Para', bensi' evidenzia la guerra del latifondo, tra chi detiene il potere economico nella regione e gli esclusi... Quando ci collochiamo dalla parte dei poveri, degli impoveriti, da parte di coloro che non hanno voce, corriamo tanti rischi perche' ci opponiamo agli interessi dei grandi latifondisti, che alla fine ci vogliono eliminare". Le parole del Vescovo della Prelazia do Xingu em Altamira, dom Erwin Krautler (profeta dell'Amazzonia venuto in Italia nel 1990 dopo la morte di Chico Mendes, su invito dei "Beati i costruttori di pace"), sintetizzano il significato del martirio di suor Dorothy Stang, 73 anni, missionaria statunitense naturalizzata brasiliana, da 38 anni impegnata al fianco dei "Senza terra" e contro la devastazione dell'Amazzonia. E impegnata da 30 anni nella Commissione Pastorale della Terra (da cui in seguito nasce il Movimento dei Senza Terra - in sigla: Mst) per la riforma agraria. Suor Dorothy Stang e' stata uccisa sabato 12 febbraio a Anapu, nel sud-est del Para', malgrado avesse denunciato da tempo le minacce di morte che riceveva costantemente. Gilmar Mauro (Coordinamento nazionale del Mst), spiega che "la struttura agraria alleata ad una storica impunita' alimenta i conflitti nel campo. Non si tratta di un problema regionale, bense' nazionale, prodotto delle omissioni del potere pubblico, che sara' risolto solo con la riforma agraria. Siamo tristi ed indignati perche' questa situazione di concentrazione della terra perdura. Speriamo dal governo una punizione esemplare per questo barbaro assassinio". Il vescovo dom Tomas Balduino (lo ricordo a Porto Alegre, a fine gennaio, durante il secondo anniversario della nascita della rivista dei movimenti sociali e popolari del Brasile "Brasil do fato", cantare l'Internazionale con il braccio alzato, malgrado la stanchezza dell'eta'), Presidente della Commissione Pastorale della Terra sottolinea che "la migliore forma di esprimere solidarieta' e' dare seguito alle denunce che aveva fatto la religiosa Doroty... Il governo stimola l'agrobusiness come fonte di entrata ma dove fiorisce lí'agrobusiness aumenta la violenza. Dobbiamo lottare contro l'impunita' che rafforza i responsabili di queste azioni criminose". Di fronte a questo agghiacciante delitto operato da due pistoleros, pare mandati dal latifondista Dnair Frejo da Cunha, come documentato nella denuncia dei movimenti sociali del Para' (tra cui Caristas, Cpt, Consiglio Indigenista Cimi, pastorale giovanile del Para') diffusa domenica, in cui si sottolinea l'assenza dello stato in questa zona di frontiera, ostaggio delle prepotenze e della violenza di fazenderos, madeireiros e grileiros che l'anno scorso ha provocato 11 morti e minacciato di morte 30 leaders e dirigenti popolari, la ministra dell'ambiente, Marina Silva, e il ministro dei diritti umani, Mirando, hanno accompagnato personalmente la veglia funebre per confermare l'impegno del presidente Lula a cercare giustizia, attivando serie investigazioni. Questo infame crimine simboleggia le grandi contraddizioni del continente brasiliano dove il linguaggio delle armi tuttora parla piu' forte del linguaggio della legge, segno di un Brasile arcaico dove lo Stato e le sue istituzioni (come la polizia e il settore giudiziario) non riescono ad imporre la propria presenza democratica, malgrado le potenzialita' e le ricchezze della nona potenza economica mondiale. I dati raccolti dalla Commissione Pastorale della Terra, che redige rapporti a cadenza annuale, documentano la morte di 1.349 persone, vittime dei conflitti per la terra avvenuti dal 1985 al 2003 in tutto il Brasile: appena 64 esecutori e 15 mandanti sono stati condannati. Lo stato del Para', dove la religiosa Doroty Stang e' stata uccisa, possiede uno dei maggiori indici di impunita' con 521 assassini e 13 condannati: in questa regione si concentra il 50% delle vittime a livello nazionale. "Questi numeri fotografano la realta' di tutta la struttura brasiliana. Questa grave impunita' esiste perche' il potere giudiziario e' agile e rapido solo contro i piccoli, per esempio nello smantellamento degli accampamenti, mentre per i diritti dei poveri e dei lavoratori la giustizia e' molto lenta", sintetizza Antonio Canuto, segretario nazionale della Cpt. I dati delle violenze nel Para' colpiscono l'attenzione se si rapportano i 429 crimini per conflitti agrari con i solo 20 processi (appena il 5%) passati in giudicato con un saldo di 12 mandanti e 17 esecutori condannati. Uno dei casi piu' eclatanti e' il massacro di Eldorado do Carajas, con l'assassinio di 19 contadini senza terra da parte della polizia militare nel 1996: fu un massacro emblematico (denunciato in Italia dall'attivissimo Comitato italiano di appoggio al Mst, coordinato da Serena Romagnoli): dei 146 militari giudicati solo due furono condannati e 144 assolti. Sempre tagliente l'analisi del vescovo Pedro Casaldaliga, figura di spicco della teologia della liberazione in America Latina (recentemente messo in pensione dal Vaticano con una procedura che a molti e' sembrata poco democratica) che critica il governo Lula "perche' non ha reagito a questo sistema di ingiustizia se non fosse per la pressione del Movimento dei Senza Terra. Non sta facendo la riforma agraria perche' sta giocando a favore delle multinazionali, dei latifondisti e madeireros. Pensa solo al Fondo Monetario Internazionale, a pagare il debito estero, a mantenere il paradiso delle esportazioni per ottenere guadagni immediati. Prima del debito estero, Lula dovrebbe affrontare il debito nazionale con la gente che soffre la fame, e' disoccupata e soffre sempre piu' le conseguenze dell'aggressiva politica neoliberale dell'agrobusiness contro l'ambiente". Apprendo la tragica notizia mentre partecipo all'apertura del corso universitario "Nuovi insegnamenti provenienti dall'analisi sociologica e dalla filosofia", 15 giorni di full immersion per 140 dirigenti contadini del Movimento Sem Terra che si sono radunati presso l'Universita federale di Rio de Janeiro in un percorso di formazione che e' giunto alla terza tappa. Converso tutta la serata con due care amiche: Carla Emanuela Ribeiro del Coordinamento nazionale del Movimento Sem Terra, e Alzeni Tomaz, dirigente federale della Commissione Pastorale della Terra del Nordest colpito dalla siccita', oggi epicentro di conflitti per la terra quanto la regione amazzonica. Alzeni ha appena ricevuto la dichiarazione della Cpt a livello nazionale che esprime "dolore e indignazione per l'assassinio della religiosa Doroty Stang che da 30 anni denuncia l'azione predatoria dei fazenderos e grileiros. Si tratta della prima morte di una rappresentante della Commissione Pastorale della Terra da quando e' al governo il presidente Lula. Sorpresi di fronte a tanta brutalita', la Cpt mantiene forte e deciso il suo servizio nei confronti dei popoli e del diritto alla terra e all'acqua". La religiosa Doroty rappresenta il sacrificio e l'impegno di migliaia di dirigenti, attivisti, leader popolari impegnati contro l'ingiustizia nelle campagne per esigere una riforma agraria che anche con il presidente Lula tarda ad arrivare. E' per questo che il Mst ha deciso di organizzare una grande marcia di 10.000 contadini dal 17 aprile al primo maggio per premere sul governo affinche' realizzi davvero la riforma. Il Movimento dei Senza Terra, e' bene ricordarlo, e' l'espressione latinoamericana piu' organizzata a livello dei movimenti sociali, la cui leadership e' chiaramente emersa durante il Foro Sociale Mondiale ed e' stata resa visibile dalla visita del presidente venezuelano Chavez, ospite in un accampamento del Mst, una alleanza forte per dimostrare che un altro mondo e' possibile, liberi dalla egemonia imperiale Usa e per il diritto alla piena sovranita' dei popoli, mantenendo vive le utopie di Sandino, di Bolivar e di Cristo - come ha ricordato Stedile di fronte alla folla del Gigantinho. "Doroty, il tuo sogno di un'Amazzonia con vita dignitosa per tutti, continua vivo nella lotta del popolo", hanno ricordato migliaia di contadini senza terra durante il funerale celebrato lunedi' 14 febbraio. La religiosa Doroty, come Chico Mendes, martire per la terra: speriamo non si aspetti la morte di altre persone per scrivere un'altra storia di una morte annunciata. 6. LUTTI. MARINELLA CORREGGIA RICORDA MARLA RUZICKA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 aprile 2005. Marinella Correggia e' una giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, della pace, dei diritti umani, della solidarieta', della nonviolenza. Tra le sue pubblicazioni: Manuale pratico di ecologia quotidiana, Mondadori, Milano 2000, 2002] Poche ore prima della sua morte, Marla Ruzicka ha mandato negli Stati Uniti la foto di una bambina irachena, unica superstite di una famiglia colpita da un missile Usa nel 2003: era una delle tantissime vittime che ha incontrato in questi anni, da quando arrivo' a Baghdad ventiseenne, nei primi giorni dell'occupazione, con pochi soldi raccolti presso familiari e amici. Il suo obiettivo era aiutare a identificare le vittime civili della guerra, per ottenere risarcimenti e cure per i feriti. E cosi' ha fatto, con ostinazione. Fino a sabato pomeriggio, quando e' stata uccisa da un'auto-bomba. L'attacco suicida era probabilmente diretto a un convoglio di contractors: Marla e un collaboratore iracheno viaggiava in auto troppo vicino a quel convoglio, sulla strada dell'aereoporto. Entrambi sono morti. In quei primissimi giorni dell'occupazione di Baghdad il gruppo Iraq Peace Team, attivisti di vari paesi che avevano trascorso le settimane di guerra in dolorosi tour per gli ospedali a contare feriti e amputati, aveva guardato con diffidenza quella ragazza americana, quando lei chiese aiuto e collaborazione. Ci sembrava troppo "public relations woman", instancabilmente impegnata in incontri e perfino cene di lavoro. Soprattutto urtava il fatto che chiedesse aiuto ai militari Usa per evacuare via elicottero in Kuwait i feriti civili gravi. Non sapevamo dei suoi trascorsi di attivista negli Stati Uniti (aveva lavorato per Global Exchange, gruppo di sinistra di San Francisco) e sbagliavamo a essere diffidenti. Civic, o "Campagna per le vittime innocenti nei conflitti", l'organizzazione fondata da Marla, gia' in Afghanistan nel 2002 si era assunta il compito di fare il "body count" per avanzare richieste di indennizzo e aiuto agli Stati Uniti. Marla voleva che almeno qualche danno fosse risarcito e che i feriti fossero evacuati per cure urgenti, e a questo scopo la collaborazione con la logistica degli occupanti era nei fatti necessaria. In Iraq capi' che i comandi militari avevano la liberta' e le risorse necessarie per assistere velocemente le vittime; cosi' cerco' contatti con loro e con l'autorita' di occupazione. Per questo fu accusata di fare da foglia di fico all'intervento bellico, ambiguita' di tutto l'umanitario. Ma questa instancabile ragazza americana fin da subito utilizzo' l'appoggio offertole dal senatore democratico americano Patrick Leahy per mettere in piedi un serio censimento dei morti, dei feriti e dei danni materiali causati dal conflitto: i "danni collaterali". Un conto impressionante, che era in se' una denuncia della guerra. Lei e alcuni ricercatori iracheni girarono come trottole in tutto il paese tirando su' un team con oltre cento investigatori. Anche grazie a Marla sono stati approvati stanziamenti per risarcire gli afghani (7,5 milioni di dollari) e gli iracheni (10 milioni, usati per fornire assistenza medica, offrire prestiti, ricostruire case e scuole). Cifre infinitamente inferiori ai tragici danni inflitti dalla guerra e dall'occupazione; ma il lavoro va avanti e Marla ha svolto l'unica attivita' socio-umanitaria non medica che gli iracheni non potessero condurre da soli: presentare il conto dei danni agli americani e battere cassa. In quell'aprile 2003, Marla pensava di poter concludere almeno il lavoro di ricerca in pochi mesi. Nessuno immaginava che tante vittime dell'occupazione si sarebbero aggiunte a quelle della guerra. Cosi' ha continuato fino all'altro giorno a fare la spola fra Stati Uniti (dove perorava le richieste di risarcimento) e Iraq (dove aiutava a organizzare le ricerche). Adesso, con Faiz il direttore iracheno di Civic, e' andata a raggiungere la lunga lista delle vittime civili. 7. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: PROCREAZIONE ASSISTITA E RELAZIONI DI GIUSTIZIA TRA LE DONNE DEL MONDO [Dal sito www.comitatoperla.it riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "Liberazione" del 6 maggio 2004. Lidia Menapace (per contatti: lidiamenapace at aliceposta.it) e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L'ermetismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; (con Fausto Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004] Sono naturalmente d'accordo con le critiche mosse alla legge sulla procreazione medicalmente assistita e non da oggi, ma nel lungo percorso che ne ha preceduto l'approvazione e che ho seguito con altre nel "Tavolo di donne sulla bioetica". Non sto a ripetere dunque le critiche sull'invasivita' poliziesca della legge, la sua inapplicabilita', sulla incostituzionalita' e spero solo che riusciremo presto a trovare le forme giuridiche per ottenere dalla Corte costituzionale i riscontri necessari per poter agire e ottenere la cancellazione o le correzioni della stessa. Ma mi interessa cominciare a dire che prima di tutto non trovo davvero piacevole sentire molti interventi di medici e scienziati, anche di quelli che sono contrari alla legge e quindi in qualche modo aggregabili in una comune lotta: non mi pare che si possa gabellare per grande scienza quella che si limita a interventi sintomatici. Costa molto, mette in moto tecniche molto sofisticate, ma non risolve nessun problema a monte. La prima cosa che dovrebbe fare una scienza degna di questo nome e' di indagare e possibilmente informare perche' la fertilita' e' cosi' in calo nei paesi detti "sviluppati" e perche' nei nostri paesi si allarga anche presso popolazioni che portano una cultura favorevole alle famiglie numerose. Inoltre vorrei che ci occupassimo un po' delle questioni etiche poste dalla legge, non gia' la risibile querelle sulla personalita' giuridica degli embrioni, bensi' sulle relazioni di giustizia e di ingiustizia, di eguaglianza e disparita' tra le donne del mondo. Comincia a serpeggiare qualche voce critica sul fatto che (anche) le femministe sfruttano il lavoro delle donne piu' povere, e prima o poi anche sull'accesso a tecniche di riproduzione assistita credo verranno fuori giudizi aspri. Come e' noto, femministe nere degli Usa hanno fatto sentire voci molto critiche sul fatto che con i movimenti migratori noi donne bianche sfruttiamo il lavoro delle immigrate e solo cosi' possiamo attendere alle nostre carriere. Aver lasciato distruggere lo stato sociale e al suo posto costruire stati militaristi ci toglie i servizi e ci fa diventare sfruttatrici del lavoro di altre donne e coinvolte nella loro oppressione. Ho provato una volta a dire che bisognerebbe ottenere per legge che le donne immigrate possano portare con se' i figli, invece di abbandonarli lontani migliaia di chilometri alle nonne o a donne ancora piu' povere di loro, ma mi e' stato risposto che allora "non e' piu' conveniente". Come si vede, accettiamo situazioni di palese ingiustizia, perche' se andassimo a vedere le questioni fino in fondo scopriremmo che abbiamo molto da perdere e questo ci rende meno capaci di lottare e alquanto subalterne al mercato. Ci si deve e puo' tirar fuori da queste dipendenze culturali, riprendendo il cammino di una critica femminista sulla scienza, sulla sua non neutralita' e allacciando relazioni con donne attive nella ricerca, per mettere a punto programmi e discussioni e fare anche un lavoro di informazione pio' ampia. Non ho competenze in proposito e percio' svolgo ora di seguito solo alcune considerazioni etico-politiche che non mi sembrano fuori luogo, anche perche' mi preme mostrare che un'etica fondata sulla coscienza di noi stesse, che acquisiamo attraverso una cultura femminista e marxiana e' molto piu' ricca e umana di quelle fondate su visioni particolari e specialistiche in uso. * Prima di tutto enuncio in forma estrema cio' che penso: a me pare che non sia lecito - almeno senza rendersi conto di quel che si fa e senza prendere impegno di rimediare - a noi donne bianche, ricche per la nostra collocazione geopolitica, spostare tante risorse conoscitive tecnologiche ed economiche per far si' che ciascuna di noi possa avere un figlio a qualsiasi costo, mentre e finche' i figli e le figlie delle donne dei paesi impoveriti muoiono come mosche di fame malattie acqua inquinata orfanezza da Aids ecc. Penso che dovremmo porre come condizione che, per ogni euro dedicato alla ricerca a nostro favore, almeno il doppio debba essere impiegato per fare ricerca sulle ragioni della sterilita' nei paesi capitalistici e per programmi di salvezza dei bambini e bambine e loro madri e padri dei paesi impoveriti. In questo modo potremmo anche acquisire una vera contrattualita' di donne nei programmi di aiuto internazionale e convertire una quantita' di vendite di armi in cose non nocive. Sia chiaro: ho a cuore il pensiero tematico e non amo le forme generaliste di pensare e agire, che sono quasi sempre generiche. Ma il pensiero tematico, quando e' politico, dal punto di vista scelto (quello della classe, delle donne, della pace, dell'ambiente, dell'informazione) legge il mondo, ha un orizzonte aperto e non e' - appunto - generalista, ma politico e corresponsabile. Svolgo dunque alcuni cenni: non so e non voglio affrontare il tema del rapporto donna-specie, donna-riproduzione dal solo punto di vista del mondo ricco capitalistico bianco: finirei in una visione egoista e imperialistica. Vedo un rischio di questo genere persino nella giusta richiesta e suggerimento di adottare bambini e bambine del sud del mondo invece di fabbricarne con fatiche e costi proibitivi qui: e' un buon suggerimento, ma non finiremo per considerare le donne del sud del mondo come fornitrici di bambini e bambine da comprare legalmente adottandole? E non cominceremo a percorrere la strada di un prometeismo che non ci appartiene, se non accettiamo mai il limite anche di non avere figli direttamente dalla nostra pancia o portafoglio? So di usare parole pesanti e forse offensive, ma sento che stiamo troppo abituandoci a protestare per le enormi difficolta' delle adozioni internazionali (il che e' giusto fare) e a considerarci molto virtuose e generose perche' vogliamo adottare qualche bambino o bambina di laggiu'. Farlo va bene, farlo a distanza ancora meglio, credere che sia una soluzione dei problemi e' falso e un po' ipocrita. A me sembrerebbe piu' giusto appunto dire che tutte le donne che vogliono venire a lavorare da noi e hanno bambini e bambine sono da noi in "adozione o affidamento congiunto" e noi chiediamo alle nostre leggi di dare un contributo a chi si assume il compito di averle a casa, in modo che non solo i ricchi possano permettersi governanti con bambini al seguito, o moderne balie. Devo dire che in generale a me sembra che per mettere insieme desiderio di maternita' e felicita' dei bambini e delle bambine (sara' sempre bello nascere da uno sforzo come quello richiesto per avere figli tecnologici?) sarebbe meglio espandere una cultura della genitorialita' tra tutti gli adulti: come dico sempre, non voglio davvero poter essere madre in tarda eta', sono sempre contenta che le donne giovani facciano figli e mi consentano di spupazzarli, accarezzarli e parlargli. Invece, ormai, vista la diffusione di una concezione ferocemente proprietaria e custodiale della famiglia, se accarezzi la testa di un piccolo ti guardano subito come una pedofila in agguato, non e' vita. * Ho cominciato da questo semplice esempio perche' vorrei che ci rendessimo conto di quanto e' complessa la faccenda e quanto poco percio' possa essere equamente regolata da leggi, fino a che non si siano in qualche modo consolidate pratiche e diffusa una mentalita' in proposito. Sono questioni del tutto nuove: la generazione umana e' stata per millenni affidata alla "natura" e solo da poco dobbiamo confrontarci con una artificialita' della riproduzione che ci scuote e interroga. La mia proposta in merito e' che non serve una legge, basta per ora un regolamento col quale lo stato vieti le pratiche pericolose, informi dei risultati e delle percentuali di successo di quelle note e approvate e vieti le speculazioni economiche e di ricerca (le cavie umane e non) e di farmaci in proposito. Intanto si mettono in atto monitoraggi sulle varie esperienze e dopo qualche tempo (cinque anni, dieci) si fa un bilancio e si comincia a discutere sulle opinioni condivise in materia e forse su quelle si possono fare leggi "facoltative", cioe' che diano facolta' di agire, piuttosto che leggi punitive e piene di divieti. Che sarebbe anche un modo di legiferare che a me piace in generale. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 8 del 21 aprile 2005
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