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La nonviolenza e' in cammino. 892
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 892
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 7 Apr 2005 00:12:22 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 892 del 7 aprile 2005 Sommario di questo numero: 1. "Azione nonviolenta" di aprile 2. Anna Bravo: Donne, guerra, memoria (parte prima) 3. Nicola Calipari, un eroe della nonviolenza 4. Fernanda Pivano ricorda Robert Creeley 5. Luisa Muraro: Fermarsi a parlare 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. RIVISTE. "AZIONE NONVIOLENTA" DI APRILE [Dalla redazione di "Azione nonviolenta" (per contatti: an at nonviolenti.org) riceviamo e diffondiamo] E' uscito il numero di aprile 2005 di "Azione nonviolenta", rivista del Movimento Nonviolento, fondata da Aldo Capitini nel 1964; mensile di formazione, informazione e dibattito sulle tematiche della nonviolenza in Italia e nel mondo. In copertina: Cecenia e Israele-Palestina. In questo numero: Cecenia, una guerra ignorata anche dal movimento pacifista (di Paolo Bergamaschi); Il muro di silenzio e' il peggior nemico della Cecenia (nostra intervista a Seilam Bechaev); La storia dell'orso russo e della pulce cecena (a cura di Elena Buccoliero); La soluzione finale: i campi di filtraggio con tecniche naziste (a cura di Elena Buccoliero); Sul filo della memoria. Colloqui con Norberto Bobbio (di Laura Operti); Le dieci caratteristiche della personalita' nonviolenta: l'empatia (di Luciano Capitini). Inserto speciale: un volantone e cartoline da spedire: Campagna europea "La violenza non e' una soluzione", Isreaele-Palestina: per una forza internazionale di intervento civile. Le rubriche: Educazione: I conflitti nella relazione educativa (Pasquale Pugliese); Lilliput: La passata di pomodoro mette in rete produttori e consumatori (Dario Pedrotti); Economia: Gli angeli nonviolenti vegliano sulla citta' (Paolo Macina); Per esempio: La resistenza nonviolenta salva le foreste (Maria G. Di Rienzo); Cinema: Testimoniare, resistere perche' l'orrore non si ripeta (Franca Conato); Musica: Immagina che tutti vivano la vita in pace (Mao Valpiana); Libri: Narrare la storia del nemico per far fiorire la vita (Sergio Albesano); Campi estivi 2005. In ultima: Materiale disponibile Redazione, direzione, amministrazione: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212; sito: www.nonviolenti.org Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 29 euro sul ccp n. 10250363 intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona. E' possibile chiedere una copia omaggio, inviando una mail a: an at nonviolenti.org scrivendo nell'oggetto "copia di 'Azione nonviolenta'". 2. MATERIALI. ANNA BRAVO: DONNE, GUERRA, MEMORIA (PARTE PRIMA) [Ringraziamo di cuore Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per averci messo a disposizione il primo capitolo del suo fondamentale libro scritto in collaborazione con Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000. Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazioneli. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003. Anna Maria Bruzzone e' nata a Mondovi' e vive a Torino, dove insegna; storica, impegnata per la pace e la dignita' umana. Opere di Anna Maria Bruzzone: (con Rachele Farina), La Resistenza taciuta, La Pietra, Milano 1976, poi Bollati Boringhieri, Torino 2003; (con Lidia Beccaria Rolfi), Le donne di Ravensbrueck, Einaudi, Torino 1978; Ci chiamavano matti, Einaudi, Torino 1979; (con Anna Bravo), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 , Laterza, Roma-Bari 1995, 2000] 1. Vecchio e nuovo nelle guerre Negli ultimi decenni, un numero sempre maggiore di paesi ha aperto le forze armate alle donne; e' forse il simbolo piu' vistoso della crisi che ha investito nel mondo occidentale il sistema di divisione dei ruoli secondo il genere sessuale. Ma quando, nel gennaio '91, una delle trentamila donne soldato impegnate nella guerra del Golfo viene catturata dagli iracheni, stampa e televisioni reagiscono in tutto il mondo con emozione e stupore. Quella prigionia inquieta, evoca sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo luogo quello dello stupro, fantasma perenne dell'immaginario maschile ma anche eventualita' concreta, come la gravidanza che potrebbe derivarne. Nonostante il grande rilievo dato dai media alla presenza femminile nel Golfo, sembra che solo in quel momento si scopra che ha implicazioni intollerabili: un carcere nemico non e' posto per una donna. Eppure cadere prigionieri e' una delle conseguenze piu' ovvie del fare la guerra, ed e' gia' successo a molte - basta pensare alle deportate politiche e alle combattenti dei movimenti di liberazione antinazisti. L'allarme di fronte alla prigionia di una giovane donna assomiglia per certi aspetti alla reazione con cui durante le due guerre mondiali si guarda ai nuovi lavori femminili. E' il fenomeno cui si richiamano prioritariamente le tesi che vedono nelle guerre un potente acceleratore della modernizzazione; e con buoni argomenti. Nella prima, le donne entrano a milioni in settori prima loro preclusi, innanzi tutto nell'industria bellica, a milioni afferrano le opportunita' inedite proposte dall'amministrazione pubblica, dai servizi, dalle stesse forze armate, lavorando sia sul territorio metropolitano con compiti di assistenza e sussistenza, sia al fronte come infermiere, guidatrici di ambulanze, ausiliarie militari. E' una rottura drastica e repentina della divisione sessuale del lavoro che con modalita' diverse riguarda tutti i paesi belligeranti e porta non solo gruppi, ma masse di donne fuori da ruoli e settori classificati come femminili, rendendole per la prima volta visibili con questa ampiezza in un ambito non domestico. Meraviglia e preoccupazione sono forti, specialmente in realta' come quella italiana, dove la tradizione culturale e religiosa vede nel lavoro fuori casa una minaccia alla purezza femminile e all'integrita' del nucleo familiare. Insieme alla mancanza di precedenti, ad acuire l'inquietudine e' la crisi complessiva che si innesca con la prima guerra, il crollo di un intero mondo, dei suoi simboli, delle sue chiavi di interpretazione del reale. Ma appunto per questo e' significativo che nella seconda si abbiano reazioni simili: sulla stampa tornano, come fosse la prima volta, le immagini di postine, tramviere, operaie dell'industria pesante, e tornano gli interrogativi sulle loro capacita', i fantasmi di incidenti dovuti alla loro inadeguatezza ai nuovi impieghi. Lo stereotipo che vuole le donne incompatibili con gli spazi e le mansioni di volta in volta definiti maschili si dimostra tenace. Si reggono su questa continuita' alcuni tratti delle politiche del lavoro che, pur in presenza di differenze radicali su altri piani, si tramandano dalla prima alla seconda guerra: salari spesso migliori di quelli dei settori "femminili", ma quasi sempre lontani da quelli maschili; governi e imprese riluttanti a creare nidi, asili per la prima infanzia e camere di allattamento per le madri, e attenti a presentarli come misure temporanee; carattere a termine di molti nuovi lavori, cui le donne sono chiamate con una esplicita funzione di rimpiazzo dei maschi assenti, in alcuni casi addirittura sostitute ad personam. E' l'aspetto basilare. Rilevarlo non equivale a minimizzare gli aspetti di rottura, ne' a sostenere che finita l'emergenza le cose tornano uguali a se stesse. Al contrario. Proprio questa gestione del lavoro femminile indica che non si tratta solo di attuare strategie economiche, ma di ammortizzare una sfida, di tenere o di rimettere le donne al loro posto. Varia il modo di farlo e variano le reazioni sociali e istituzionali. Durante la prima guerra, nella avanzata Torino la gente comune non trova niente da ridire se un vecchio o un ex cameriere si trasformano in operai, ma infierisce contro le donne accusate di aver preso un posto dove qualcun altro avrebbe potuto imboscarsi (1). Nel dopoguerra alla rapidissima espulsione dalle fabbriche si accompagnano ovunque attacchi scomposti contro la "donna nuova" che a partire da inizio secolo si e' affacciata sulla scena culturale e lavorativa (2). Alla fine della seconda guerra, la smobilitazione e' piu' contenuta e minore l'ostilita' verso figure femminili inedite. Non si tratta solo di un quadro politico diverso, ma della maggiore capacita' di difendersi: nell'estate del '45 le operaie torinesi reagiscono alla prospettiva di un'indennita' di contingenza minore di quella maschile invadendo l'Unione industriali e imponendo la medesima cifra per donne e uomini capifamiglia (3). Che all'epoca il fatto resti isolato non lo rende meno importante come segnale di mutamento, in particolare della crescita di politicizzazione che nell'Italia del '43-'45 tocca anche le donne. Ma il quadro e' molto meno lineare di quello proposto dalle interpretazioni delle guerre come pietre miliari che porterebbero a passi avanti irreversibili verso la modernita'. Per il lavoro di mercato, ne' l'una ne' l'altra delle due guerre mondiali inducono a un riesame concettuale e a un riassetto stabile della divisione sessuale del lavoro; piu' modestamente, provocano uno spostamento provvisorio dei suoi confini, imposto da un cambiamento dei ruoli maschili (dalla sfera produttiva alla sfera militare) anziche' da una ridiscussione di quelli femminili (4). Per quel che riguarda la conquista dei diritti politici, epilogo classico delle guerre e delle lotte di liberazione nazionale, bisogna interrogarsi innanzi tutto sulle sue radici: il voto nel '18 alle donne britanniche, per esempio, e' frutto dell'impegno pluridecennale delle suffragiste non meno che della necessita' di dare riconoscimento alla mobilitazione femminile nel fronte interno, e un discorso simile vale per il voto riconosciuto alle italiane e alle francesi alla fine della seconda guerra mondiale. Bisogna interrogarsi anche sui limiti di quelle conquiste - l'acquisizione di uguali diritti formali puo' non intaccare affatto la marginalita' politica - e sulla loro possibile reversibilita': in Algeria, con il codice elettorale del 1987, non integralista, si e' tentato di dare agli uomini la possibilita' di votare a nome delle donne. Nel nuovo c'e' molto del vecchio. Vale per il lavoro in settori maschili, come per l'ingresso delle donne nei movimenti di liberazione e nelle truppe regolari. Vale per le guerre del passato ma anche per la contemporaneita', sia di guerra sia di pace, nei limiti in cui e' possibile oggi distinguere fra il tempo dell'una e dell'altra. La vicenda degli Stati Uniti insegna. Nell'apertura dell'esercito alle donne ha certo pesato la lotta delle organizzazioni femminili/femministe liberal per la parita' in tutti i campi. Ma sono stati determinanti due obiettivi di politica militare messi a punto negli anni Settanta: controbilanciare la presenza crescente di giovani neri sventando la prospettiva di un esercito troppo di colore; sostenere il volontariato, prevenendo tensioni popolari ricalcate su quelle contro la guerra del Vietnam e diffondendo un'immagine del servizio militare come mestiere, e mestiere non piu' "sporco" di altri (5). Non e' un caso che la divisione sessuale del lavoro si sia prolungata all'interno delle forze armate e al fronte, mentre, non diversamente che nelle guerre mondiali, al mutamento dei ruoli lavorativi extrafamiliari delle donne non ha corrisposto alcuna ristrutturazione stabile dei compiti e delle responsabilita' nello spazio domestico. Durante la guerra del Golfo, la cura dei bambini e della casa delle combattenti e' ricaduta per lo piu' su altre donne, molto di rado su uomini, e in ogni modo come fatto temporaneo ed eccezionale. Nei processi di trasformazione la compresenza di vecchio e nuovo e' la regola. Ma in questo caso si tratta di un carattere fondante: e' nello spazio domestico che risiede il primo terreno di organizzazione della disparita'. Se il nuovo si ferma alla sua soglia, i mutamenti economici e lavorativi rischiano di non intaccare nella sostanza i rapporti di genere; le conquiste politiche di essere vanificate. E' difficile preservare uno spazio politico se non si puo' mettere contemporaneamente in questione quello culturale e simbolico. Eppure la presenza femminile ha innescato conflitti solo in parte previsti e prevedibili. Due esempi fra molti: nell'esercito americano le donne hanno aperto il contenzioso delle differenti opportunita' di carriera e delle molestie sessuali; durante la guerra del Golfo, altre hanno fatto leva sulla carica innovativa legata alla figura delle combattenti per mettere in discussione la propria, come le saudite che hanno manifestato alla guida di automobili contro il divieto di farlo imposto dall'interpretazione nazionale della legge coranica. E' un fatto tanto piu' importante se si pensa che in tutta l'area mediorientale le guerre hanno sfrenatamente rafforzato l'enfasi sulla maternita' come valore e come servizio principale che le donne devono rendere alla nazione; lo stesso avviene nella ex Jugoslavia, dove la maternita' e' diventata strumento e bersaglio delle strategie di pulizia etnica. In questi casi c'e' davvero da augurarsi che i cambiamenti siano instabili; e c'e' da chiedersi se il dibattito sulla irreversibilita' o meno delle trasformazioni non sia troppo vincolato alla storia dell'occidente e alla nostra vecchia concezione del cambiamento come invariabilmente progressivo. Applicarla alle vicende delle donne, dove non e' affatto chiaro cosa rappresenti un miglioramento e cosa un peggioramento, e non lo e' affatto come misurarli (6), sarebbe una leggerezza. A noi pare che raramente una maggiore liberta' femminile sia stata il sottoprodotto di processi che ne' la perseguivano ne' la prevedevano. Questi possono contribuire ad allargare la zona neutra in cui donne e uomini operano in termini relativamente interscambiabili; possono dilatare lo spazio d'azione e i compiti femminili, renderli piu' visibili, metterli in valore - ma come fatto a termine. Difficilmente ridefiniscono i ruoli maschili spostandoli verso la domesticita' e la cura. Se si guarda alla storia del novecento, l'impressione e' che per quanto riguarda i rapporti di genere i risultati piu' importanti siano legati al tempo di pace, o quantomeno a forme di lotta poco militarizzate. L'esempio piu' vicino nel tempo viene dalla prima fase dell'Intifada, in cui l'impegno per l'autonomia sociale e produttiva apre spazi e sollecita iniziative delle donne; mentre il predominio dell'aspetto armato a partire dal '90-'91, con l'avvitamento nella spirale strage-reazione-repressione-vendetta-nuova strage, ha tolto loro visibilita', respiro, forse consapevolezza (7). * 2. Donne e uomini Fare del nuovo una parentesi anziche' un punto di partenza e' stata la strategia generale per contenere gli effetti disordinanti delle guerre. Almeno potenzialmente, le trasformazioni minacciano infatti sia i rapporti di genere sia le costruzioni simboliche del maschile e del femminile, a partire da quella che associa le donne al privato e gli uomini alla sfera pubblica del lavoro e della politica. Nel caso delle donne soldato, si direbbe che le preoccupazioni nascano dal loro distacco dalla casa non meno che dal loro contatto con il nemico. Nira Yuval-Davis (8) ricorda l'intervista radiofonica di un padre inglese che, dovendo occuparsi di due bambini piccoli dopo la partenza della moglie per il Golfo, confessava il suo sgomento per la mole di lavoro e formulava la calda speranza che lei rientrasse al piu' presto e se ne facesse nuovamente carico. Forse una donna capace di combattere e insieme disponibile a tornare alla domesticita' puo' essere la versione postmoderna dell'emancipata, sempre titolare di un doppio lavoro, anche se il secondo e' in questo caso radicalmente diverso da quello produttivo. Altrettanto persistente si e' dimostrato lo stereotipo che identifica la guerra con il maschile e la pace con il femminile. Al punto che, passate le emergenze che l'hanno contraddetto, ha finito spesso per riaffermarsi, sia pure in versione aggiornata: si' alle donne soldato, per esempio, ma protette dalla contiguita' con il nemico e assegnate a settori e funzioni che non creino ansie di tutela, rivalita' e controllo negli uomini. C'e' da stupirsi, ma non troppo. Piu' che a dar conto di quanto donne e uomini fanno, una costruzione simbolica serve a convalidare un assetto di norme e di immagini mentali: in questo caso, un assetto costitutivo della divisione dei ruoli fra donne e uomini e del rapporto individuo/Stato. A dispetto degli enormi cambiamenti nei rapporti fra i generi e nella soggettivita' femminile, da piu' parti si insiste tuttora nell'aspettarsi, quasi nell'esigere dalle donne in quanto tali, particolari competenze e assunzioni di responsabilita' in tema di pace (9). Fra le molte che se ne sono fatte carico, alcune hanno agito appunto in nome di una radicale estraneita' di genere alla guerra; e le donne in nero, cui si deve se in questi anni il dissenso femminile e' stato portato nelle strade e davanti a sedi diplomatiche e militari, hanno scelto deliberatamente i simboli classici del lutto e della testimonianza silenziosa. Ma il rischio, ha notato Lea Melandri, e' "di riprodurre una parte gia' assegnata: quella di una fisicita' senza parole, che si e' voluta immobile nel tempo, a custodire gli eventi dell'esperienza umana che la storia ha escluso da se': la nascita e la morte" (10). Quasi una riedizione del tradizionale pianto materno di fronte alle rovine della guerra. Storicamente, sembra persino ovvio ricordarlo, la separazione non e' invece mai stata netta. Nonostante le molte manifestazioni antibelliciste cui hanno dato vita, nella loro maggioranza le donne hanno lavorato sostenendo la guerra, ne hanno tollerato la violenza per rassegnazione, ma anche per convinzione, spesso sotto le insegne della maternita'. A volte hanno preso le armi; sempre hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli, mariti, fratelli, compagni; sempre hanno riparato ai guasti della guerra, o si sono sforzate di farlo. Non e' solo effetto dell'identificazione con il destino maschile o della propaganda - sebbene nessun governo abbia mostrato di ignorare che per impadronirsi dei corpi e dei cuori dei soldati bisogna prima conquistare, quanto meno neutralizzare, le donne. Il punto e' che, in mezzo a sofferenze e rinunce, dalla guerra nascono nuove forme di autoaffermazione: maternita' e lavoro femminile sono promossi a componente decisiva dello sforzo nazionale, la funzione simbolica della donna viene esaltata come contraltare piu' che mai prezioso al mondo della violenza. Ne nasce anche, almeno per alcune, la possibilita' di guadagni economici, di avventure e vantaggi personali. Di piu': singole donne possono trovarsi, per scelta, necessita' o caso, a trasmettere informazioni e fare sabotaggi, a guidare un'azione armata, salvare e uccidere, torturare e proteggere; e a potenziare con il proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute abitualmente per la interposta persona dell'uomo. A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredita' storica hanno finora immunizzato le donne dall'orgoglio di condividere esperienze fondate su categorie da cui nella normalita' sono state escluse come gloria, onore, virtu' civile; ne' hanno loro impedito di combattere con vecchie e nuove armi (11). Vuol dire allora che scegliere la pace puo' dimostrarsi, anziche' l'adesione irriflessa a uno stereotipo, una sua interpretazione creativa, e questo libro vorrebbe indicarne alcune espressioni. Vuol dire anche chiedersi se le combattenti in armi manifestino o meno diversita' riconoscibili nel modo di vivere la guerra, per esempio una resistenza all'astrazione del pensiero militarista e alla riduzione del nemico a alieno, mostro, non uomo. In mancanza di certezze, si puo' almeno ribadire che le motivazioni e le esperienze formano un mosaico cosi' complicato da non sopportare generalizzazioni. Ma e' cosi' per la stessa esperienza maschile. Assegnarla in toto alla guerra e' altrettanto meccanico che identificare donne e pace. Solo una parte degli uomini fa il soldato, di questi solo una parte combatte; e non tutti sono affetti dal virus militarista. Diversamente, come spiegare il bisogno della leva obbligatoria, come spiegare le renitenze di massa, gli innumerevoli processi - centinaia di migliaia nell'Italia del '15-'18 - per diserzione, rifiuto di obbedienza, abbandono del posto? Come hanno rilevato per primi alcuni studi ormai classici sulla grande guerra, a intaccare il bellicismo e' la stessa fisionomia che puo' assumere la conflittualita' moderna, con il suo tempo interminabile, il suo carattere di meccanismo selvaggio, la dimensione di massa della morte. Nel '14-'18 per molti volontari di classe media scoprire che la guerra e' una copia mostruosa della vita industrializzata mette la parola fine a qualsiasi illusione romantica; a molti operai e contadini la condizione di soldato appariva gia' in partenza un insieme di mansioni pesanti, sporche e mortalmente pericolose comandate da un caposquadra in divisa (12). L'immagine della guerra come trionfo della mascolinita' ne viene incrinata a fondo. Che alla guerra si leghino il piacere della distruzione e lo stupore complice di fronte a manifestazioni di potenza terribili e' un dato di fatto (13). Ma sono molti i comportamenti che lo contraddicono, ispirandosi invece al modello del guerriero compassionevole, capace di contenere la violenza, di non infierire sul nemico, di riconoscere il valore piu' alto non nell'uccidere, ma nel morire per gli altri. Raramente gli altri sono la nazione o i civili. Piu' la guerra mostra il suo volto, piu' la fedelta' del soldato si concentra sui compagni, e precisamente su quelli fra loro che gli sono vicini: si combatte per non lasciarli soli, per aiutarli, se possibile per salvarli. Delle otto medaglie ottenute da un reparto di marines nel 1944, sei riguardavano uomini che si erano buttati a coprire le granate con il proprio corpo per proteggere i compagni dallo scoppio; cosi' tutti e cinque i marines neri decorati di medaglia d'onore in Vietnam (14). E' il culmine di una solidarieta' che puo' venire da modelli precedenti, ma che per lo piu' nasce dall'interno stesso della guerra, dove la sofferenza e il rischio patiti a lungo e fianco a fianco uniscono come forse mai nella vita civile. I tanti episodi di fraternizzazione indicano che questo senso di comunanza ha spesso scavalcato gli schieramenti contrapposti. Non solo: per un singolare paradosso, e' il soldato, non l'uomo di pace, a imparare per primo a farsi carico del suo simile, sostituendo alla "virtu' eroica" del combattimento quella che Todorov definisce virtu' quotidiana della cura (15). Significa misurarsi con l'arte di ascoltare e di parlare, di palesare uno stato d'animo o di nasconderlo se si sa che puo' ferire o abbattere; significa badare al corpo dell'altro, toccarlo, medicarlo, tenerlo vicino. La guerra e' forse l'unica occasione in cui giovani maschi sperimentano fra loro un lavoro di cura simile a quello svolto dalle donne, o riservato a figure professionali come medici, infermieri, psicologi. Non e' un dato incompatibile con il bellicismo, spesso ne e' anzi una componente; ma puo' portare anche alla sua negazione. Ne fa fede l'ambivalenza con cui lo guardano i comandanti militari, ora facendo della solidarieta' di plotone un mito (16), ora temendola come risorsa per comportamenti antagonisti. Che questo aspetto delle relazioni tra uomini sia stato incapsulato nella cifra dell'emergenza e nella categoria di cameratismo non ha niente di strano. La cura e' cosi' rigidamente associata alle donne che per definire il comportamento dell'uomo sollecito non si trovano altro che termini come materno o femminile. E se nel primo caso puo' agire il fascino dell'analogia eroicistica fra il sacrificio del soldato e quello della madre, un'identificazione con il femminile come "piccola" manutenzione della vita parrebbe devirilizzante, e dunque dannosa per la restaurazione dei rapporti di genere. Anche l'esperienza maschile della cura e' stata cosi' archiviata come fatto a termine, mentre il suo potenziale di critica alla polarita' fra immagini del maschile e del femminile restava inesplorato. Ma oggi, primavera duemila, ci sembra che alcuni aspetti del rapporto donne/uomini/guerra siano investiti pesantemente dall'effetto combinato delle trasformazioni tecnologiche e dei nuovi modelli di conflitto via via emersi dopo il crollo del muro di Berlino, in particolare quello sperimentato durante la guerra Nato/Serbia del marzo-giugno 1999. In questo caso, terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse. Sul territorio, uno scontro di tipo tradizionale fra l'Uck, (Esercito di liberazione del Kosovo) e le truppe serbe, che hanno sistematicamente usato la violenza sessuale come strumento della "pulizia etnica": qui le donne sono comparse essenzialmente come vittime, e in qualche caso come militanti della guerriglia nazionalista. Il cielo ha conosciuto invece una guerra tecnologica fatta esclusivamente di incursioni aeree su Serbia e Kosovo e di controffensive serbe: nessuna contiguita' con il nemico, crucialita' delle conoscenze tecniche, peso ridotto del fattore forza fisica. Mentre essere uomo o donna risultava una variabile meno rilevante, l'assenza di scontri ravvicinati e di insediamenti militari Nato in zona di guerra, il dislivello tecnico fra i contendenti e la brevita' del conflitto hanno cancellato una delle condizioni-base su cui si e' storicamente costruita la solidarieta' fra compagni (ma anche la fraternizzazione con il nemico). Sebbene nella discussione sulla guerra del Kosovo di rado sia entrata una prospettiva di genere, e' probabile che ne escano ulteriormente modificati sia il modello maschile del combattente, in molti conflitti sempre piu' simile a un tecnico che a un soldato, sia le funzioni delle donne nelle forze armate. * Note 1. T. Noce, Gioventu' senza sole, Editori Riuniti, Roma 1950. 2. M. De Giorgio, Le italiane dall'Unita' a oggi. Modelli culturali e comportamenti sociali, Laterza, Roma-Bari 1992, cap. I. 3. La manifestazione e' ricordata in varie narrazioni presenti in B. Guidetti Serra, Compagne, Einaudi, Torino 1977. 4. Vedi F. Thebaud, La femme au temps de la guerre de '14, Stock, Parigi 1986; M. R. Higonnet, J. Jenson, S. Michel, M. Collins Weitz (a cura di), Behind the Lines. Gender and the Two World Wars, Oxford University Press, Londra-New Haven 1987; G. Braybon, P. Summerfield, Out of the Cage: Women's Experiences in two World Wars, Pandora Press, Londra-New York 1987; U. Frevert, Women in German History, Berg, Oxford 1989. Sull'Italia, F. Bettio, The Sexual Divison of Labour. The Italian Case, Oxford University Press, New York 1988. 5. Cfr. N. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War: Women's Citizenship and Modern Warfare, in H. Bresheeth, N. Yuval-Davis (a cura di), The Gulf War and New World Order, Zed, Londra 1991, e C. H. Enloe, Le donne soldato americane e la professionalizzazione della "cittadinanza di prima classe", in E. Addis, V. E. Russo, L. Sebesta, Donne soldato, Ediesse, Roma 1994; nello stesso volume, vedi Sebesta, Donne e legittimita' dell'uso della forza: il caso del servizio militare femminile (sull'arruolamento delle donne come risposta alle tendenze verso la delegittimazione dell'uso della forza), e Addis, Le conseguenze economiche del servizio militare: costi e benefici per le donne soldato. 6. J. W. Scott, Rewriting History, in Higonnet et al., Behind the Lines cit., p. 25. Sul concetto di modernita' resta essenziale T. Mason, Moderno, modernita', modernizzazione: un montaggio, in "Movimento operaio e socialista", 1987, n. 1-2. 7. Vedi E. Donini, Che cosa resta, in "Inchiesta", 1991, n. 91-92. 8. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War cit. 9. Lo notava nell'84 Alessandra Bocchetti nel Discorso sulla guerra e sulle donne, Centro culturale Virginia Woolf, Roma, ora in A. Bocchetti, Cosa vuole una donna, La Tartaruga, Milano 1995. 10. L. Melandri, L'illusione dellíinnocenza, in "Il manifesto", 26 febbraio 1991. 11. J. B. Elshtain, Donne e guerra, Il Mulino, Bologna 1991, parte II, La virta' civica armata; S. Ruddick, Il pensiero materno, Red, Como 1993, pp. 191 sgg. 12. Vedi E. J. Leed, Terra di nessuno: Esperienza bellica e identita' personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985, cap. III, e l'altrettanto noto P. Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna 1984; per l'Italia A. Gibelli, L'officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 13. Cfr. J. G. Gray, The Warriors: Reflection on Men in Battle, Harper & Row, New York 1970. 14. Elshtain, Donne e guerra cit., p. 278. Vedi l'intero capitolo VI, Uomini: i molti militanti / i pochi pacifici. 15. Per la distinzione tra virtu' "eroiche" e "quotidiane", T. Todorov, Di fronte all'estremo, Garzanti, Milano 1992. 16. Vedi M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra: da Marinetti a Malaparte, Mondadori, Milano 1990. (Parte prima - segue) 3. MEMORIA. NICOLA CALIPARI, UN EROE DELLA NONVIOLENZA [Dal n. 34, dell'inverno 2005 di "Adesso sulla strada", la bella rivista diretta da Arnaldo Casali e promossa dall'associazione Sulla strada e da altre esperienze di pace e di solidarieta' (per contatti: redazione di "Adesso": via Ugo Foscolo 11, 05012 Attigliano (Tr), e-mail: adesso at reteblu.org, sito: www.reteblu.org/adesso; associazione "Sulla strada": via Ugo Foscolo 11, 05012 Attigliano (Tr), tel. 0744992760, cell. 3487921454, e-mail: sullastrada at iol.it, sito: www.sullastradaonlus.it), riprendiamo il seguente articolo. Nicola Calipari, nato a Reggio Calabria, laureato in giurisprudenza, con una straordinaria e prestigiosa esperienza nelle forze dell'ordine con ruoli di grande responsabilita' nella lotta contro il crimine, da due anni funzionario del Sismi, e' l'eroe che ha salvato la vita a Giuliana Sgrena, come gia' prima alle due Simone; e' stato ucciso il 4 marzo a Baghdad. Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo. Florence Aubenas e' la giornalista francese del quotidiano "Liberation", da sempre impegnata per la pace e i diritti umani, rapita da mesi in Iraq. Tra le opere di Florence Aubenas: con Miguel Benasayag, Resistere e' creare, Mc editrice, Milano 2004] La tragica morte di Nicola Calipari ha rivelato l'esistenza di un eroe della nonviolenza che era funzionario del servizio segreto militare, ovvero ricopriva un ruolo che apparentemente non puo' che essere in netta contraddizione con la scelta della nonviolenza. E invece quell'essere umano quel ruolo ricoprendo salvava vite umane, contrastava la guerra nel suo nocciolo duro, consistendo la guerra nell'uccisione di esseri umani; nel suo nocciolo duro praticava la nonviolenza, la nonviolenza che questo afferma: tu non uccidere, tu salva le vite umane, tu opponiti alla violenza, tu costruisci umanita', riconoscimento di umanita'; tu opponiti alla violenza nel modo piu' nitido e piu' intransigente; tu afferrati alla verita', quella interiore verita' che ciascuno reca nel cuore e che dice: sii responsabile per gli altri, ama il mondo, considera e tratta ogni altra persona cosi' come vorresti essere considerato e trattato tu. * La liberazione di Giuliana Sgrena, che resta una gioia grande sebbene funestata dal lutto immedicabile della morte del suo salvatore, ci restituisce piu' che una giornalista, ci restituisce una testimone di pace e un'amica della nonviolenza, una persona impegnata all'ascolto della voce delle vittime, una persona al servizio dell'unica causa al cui servizio vale la pena di mettersi: la causa dell'umanita', del diritto di tutti gli esseri umani e di ogni singolo essere umano a vivere, a vivere una vita dignitosa. Che e' la causa della pace, della giustizia, dei diritti umani, della solidarieta' e della liberazione, della salvaguardia del creato. Giuliana Sgrena da molti anni di questo impegno e' una protagonista, umile e nobile a un tempo, la sua liberazione dopo l'angoscia del rapimento ci restituisce una persona che molto ha gia' contribuito e molto ancora contribuira' al comune impegno per la pace. * Mentre scriviamo restano ancora ostaggi della guerra e del terrorismo (dell'occupazione militare straniera e dell'occupazione militare delle bande criminali, delle organizzazioni terroristiche e dei gruppi armati di ogni genere) tante persone sequestrate e imprigionate, come Florence Aubenas, e con esse l'intero popolo iracheno. La guerra non sconfiggera' il terrorismo poiche' essa lo alimenta e riproduce, poiche' di esso essa e' la magnificazione. E il terrorismo non fara' cessare l'occupazione straniera, poiche' esso stesso e' occupazione straniera, straniera e nemica dell'umanita' intera, poiche' esso e' ancora guerra, di guerra frutto e di guerra seminagione. Essa guerra ed esso terrorismo sono parimenti orrore assoluto, disumanizzazione e morte. Solo la scelta della nonviolenza puo' sconfiggere a un tempo guerra e terrorismo, puo' realizzare le condizioni che consentono e promuovono la convivenza umana, che schiudono all'umanamente attingibile felicita'. Solo la scelta della nonviolenza puo' salvare l'umanita'. * Qui e adesso, nella drammatica concretezza della situazione che abbiamo di fronte, la nonviolenza deve sapere intervenire concretamente e massivamente per portare soccorsi e sollievo alla popolazione irachena, disarmando le mani e gli animi, facendo cessare guerra, occupazione militare e terrore, togliendo le armi agli armati, spezzando tutti i fucili, chiamando tutte e tutti a quella verita' che e' comune, al di la' del linguaggio in cui i diversi popoli, le diverse culture, le diverse tradizioni religiose o laiche la dicono: "Tu non uccidere" come comandano le tre religioni figlie del medesimo Abramo; satyagraha, "tieniti stretto a cio' che e' buono e vero sempre", come spiegava Gandhi; la "forza dell'amore" di Martin Luther King, il "rispetto per la vita" di Albert Schweitzer; la scelta di Simone Weil e di Etty Hillesum, di Virginia Woolf e di Hannah Arendt, la scelta di Marianella Garcia. 4. MEMORIA. FERNANDA PIVANO RICORDA ROBERT CREELEY [Dal "Corriere della sera" del 3 aprile 2005. Fernanda Pivano, intellettuale italiana impegnata nei movimenti per i diritti civili, studiosa della cultura americana e personalmente intensamente partecipe delle piu' rilevanti esperienze di impegno civile, artistiche, letterarie e culturali nordamericane novecentesche (e particolarmente di quelle legate alla cultura ed alla militanza democratica e radicale, pacifista ed antirazzista, di opposizione e di contestazione, ed agli stili di vita alternativi). Tra le opere di Fernanda Pivano: oltre a numerose e giustamente celebri traduzioni (tra cui la classica versione dell'Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters; la stupenda raccolta di poesie di Allen Ginsberg, Jukebox all'idrogeno; la fondamentale antologia Poesia degli ultimi americani), ha pubblicato tra altri volumi le raccolte di saggi: La balena bianca e altri miti, 1961; America rosso e nera, 1964; Le belle ragazze, 1965; L'altra America negli anni Sessanta, 1971; "Pianeta Fresco", 1967; Beat hippie yippie, 1972, Mostri degli anni Venti, 1976, C'era una volta il beat, 1976, Hemingway, 1985. Su Robert Creeley riportiamo la seguente scheda dal quotidiano "Il manifesto" del 24 marzo 2005: "E' morto ieri a Odessa, nel Texas, il poeta statunitense Robert Creeley. Considerato uno dei massimi poeti del novecento americano, Robert Creeley nasce a Arlington, Massachusetts, il 21 maggio1926. Dopo la laurea all'Universita' di Harvard, lavora, durante gli ultimi anni del secondo conflitto mondiale, per l'"American Field Service" in India. Nel 1946 pubblica la sua prima poesia nella rivista di Harvard; nel 1949 cominicia la sua corrispondenza con William Carlos Williams e Ezra Pound, e poco dopo con il poeta Charles Olson. Nel 1954 Olson, come capo del "Black Mountain College", una scuola d'arte sperimentale in North Carolina, invita Creeley al college per curare la "Black Mountain Review". Creeley attraverso questa rivista e i suoi scritti concorre a definire una "contro-tradizione" rispetto a quella dell'establishment letterario ufficiale: una "contro-tradizione" che ha le radici in Pound, Williams e Zukofsky e che continua con Olson, Robert Duncan, Allen Ginsberg, Denise Levertov, Edward Dorn e altri. Creeley si avvicina al movimento beat nel 1956 dopo la chiusura del "Black Mountain College" e l'incontro con Allen Ginsberg. Nel frattempo pubblica molte raccolte di poesia come A Snarling Garlandof Xmas Verses (1954), A Form of Women (1959), For Love: Poems(1962), Words (1967), A Day Book (1972), Thirty Things (1974), Selected Poems (1976). La produzione poetica di Creeley si e' poi arricchita di altri 30 quaderni di poesia. La sua partecipazione al movimento beat e' un vero e proprio spartiacque nella sua vita. Di quell'esperienza conservera' il carattere fortemente anticonformista e una continua tensione alla ricerca e alla sperimentazione. Rispetto al riconoscimento della qualita' della sua produzione poetica, che anche l'establishment gli riconosce, meno conosciuta rimane invece la sua collaborazione con artisti jazz o con gruppi rock, che ha dato vita a performance ed esibizioni che hanno inscritto il poeta statunitense tra le personalita' piu' eclettiche del panorama poetico americano. Allo stesso tempo, Creeley ha continuato la sua attivita' di docente che lo ha portato ad insegnare in vare universita' americane e a contribuire all'elaborazione di vari programmi nazionali per l'insegnamento della poesia. Premiato piu' volte, ha ottenuto il prestigioso Walt Withman Citation nel 1988"] Ah, Robert, caro Robert Creeley, grandissimo poeta di grandissime poesie, grandissimo divulgatore e trasmettitore di idee, di cultura, di storia, grandissimo interprete di poeti cosiddetti difficili, grandissimo amico di chiunque avesse bisogno di un consiglio per respingere il suicidio. Ha passato una vita in Giappone a imparare la filosofia buddhista e l'insegnamento zen: una quarantina d' anni a partire dal '53, con brevi intervalli per ritornare nella sua America. Per andare a fare i corsi al Black Mountain College del North Carolina e per dirigere la rivista dell' Universita'. E poi per vivere a Taos e a San Francisco e in New Mexico nel '56 per insegnare ad Albuquerque e poi in una finca nel Guatemala. Questa girandola occidentale basata sulla sua formazione ormai orientale l'ha fatta quasi tutta soffrendo di un enfisema, per il quale ha sempre detto di non avere tempo, nonostante negli ultimi anni vivesse attaccato a una bombola di ossigeno, aiutato nella sua ostinazione da una biopsia ai polmoni risultata negativa. Robert Creeley non era mai riuscito a staccarsi dagli strani, stupendi costumi del Giappone. Ne' dalla sua America, di cui amava profondamente cultura e civilta'. I suoi interessi non si fermarono mai solo alla poesia. Gentile e dotato di una grazia ospitale, era soprattutto amico dei piu' importanti artisti moderni e lavorava spesso con loro a libri e progetti di mostre, era pure socio di musicisti jazz: un vero cultore dell'arte. La popolarita' gli veniva anche dalle migliaia di letture che faceva: l'ultimo reading, in Virginia, l'ha organizzato due settimane prima di morire. E quando qualcuno si stupiva del suo intenso programma di presenze pubbliche rispondeva con un verso di uno dei suoi piu' cari amici poeti, il medico William Carlos Williams: "Mi chiamano e io vado". Sono molti a pensare che la sua morte ha impoverito il mondo dell'arte e delle lettere. Almeno Oltreoceano, aveva una gran reputazione di poeta postmoderno. Moltissimi giornali americani hanno accolto cosi' la sua scomparsa: "Il poeta Robert Creeley, uno dei maggiori esponenti della lirica postmoderna americana, e' morto in Texas a 78 anni. Insieme ai piu' noti esponenti della Beat Generation e' considerato uno degli autori che ha contribuito in modo definitivo a rinnovare la poesia americana nel mondo durante il Secondo Dopoguerra". E' stato un eroe degli Anni Cinquanta, uno dei momenti piu' gloriosi della cultura Usa, idolatrato per i suoi esperimenti linguistici e per le libere improvvisazioni nel corso delle sue letture. Quella di Robert e' stata una delle voci poetiche piu' ascoltate e amate: lui, cosi' appassionato ai tentativi di migliorare il linguaggio; lui, tanto lodato da Allen Ginsberg per l'intelligenza dei suoi esperimenti. In America ha pubblicato una sessantina di libri e qualcuno e' arrivato anche qui in Europa, dove pero' era noto soprattutto come direttore delle riviste di poesia americana, specialmente di quella "Black Mountain Review" in cui sviluppo' la sue affinita' con Charles Olson: insieme concepirono l'opera poetica come centro di possibilita' nuove del "respiro", un respiro che divenne componente essenziale di versi trasformati in atto dinamico attraverso la lettura. Il mio ricordo me lo riporta agli occhi e alle orecchie, soprattutto al cuore, ripensando a quando l'ho incontrato la prima volta nell'Istituto di San Francisco dove si tenevano i reading suoi e degli altri poeti beat famosi. Naturalmente stava fumando un joint, naturalmente era la prima volta che ne vedevo uno, naturalmente era la prima volta che mi trovavo, da un piccolo centro provinciale del nord Italia, nella sala famosa della capitale letteraria d'America. Tenero, gentilissimo, senza bisogno di parole aveva capito tutto e mi aveva fatto, con mia sbalordita riconoscenza, la prima lezione su quello che era successo e stava succedendo alla poesia americana, postmoderna o no, ma nuova, libera, tesa al futuro invece che al passato: mi parlava con una sincerita', un riserbo, un'umilta' che non ho trovato in nessuno dei miei amici piu' cari. Chiunque lo abbia avvicinato non puo' che piangere la sua morte e invocare il futuro perche' riesca a essere amato e capito negli enormi spazi profumati dell'eternita'. 5. RIFLESSIONE. LUISA MURARO: FERMARSI A PARLARE [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo questo articolo apparso sul quotidiano "l'Unita'" del primo aprile 2005. Luisa Muraro insegna all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel 1997"] Ha un titolo lungo come una recensione breve, l'ultimo Quaderno della rivista "Via Dogana": Parole che le donne dicono per quello che fanno e vivono nel mondo del lavoro oggi. Editrice, la Libreria delle donne di Milano. Autore, sette nomi fra i quali spiccano quelli di Lia Cigarini, una che c'era dagli inizi del femminismo (come Carla Lonzi e Daniela Pellegrini) e di Oriella Savoldi della Camera del lavoro di Brescia. Si tratta dunque di lavoro-donne-oggi, ma non troviamo operaie ne' contadine ne' infermiere ne' insegnanti ne' le tipiche segretarie: non ci sono le classiche categorie del lavoro femminile, ci sono "le altre", quelle che si sono messe a fare lavori che erano soprattutto di uomini (architetto, agente di borsa, capo del personale...) o che semplicemente non c'erano (call center) o che non ci sono e loro stesse inventano. Non ci sono neanche grandi numeri, inchieste o statistiche, ma solo donne in carne e ossa, invitate a raccontare e a ragionare del loro lavoro con le invitanti e con il pubblico di un circolo femminista. Si cercano le parole e un linguaggio per dire un'esperienza di donna in rapporto ad un fuori molto segnato dagli uomini, sia come presenza fisica sia come organizzazione del lavoro. La situazione fa pensare a quella delle immigrate di paesi di altre culture che devono imparare quasi tutto e, al tempo stesso, lottare per non perdere se stesse. Che cosa ci fa vedere? Un paesaggio dove il lavoro, per quelle che hanno lavoro, e' troppo ma piace, il tempo libero e' molto poco, il perfezionismo domestico non e' sparito, dove un filo di umorismo non manca mai e il risentimento verso gli uomini non si sente, ma una certa paura forse si', e molte non sanno ancora chiedere e contrattare, dove la voglia di fare bene spesso supera quella di fare carriera, dove non si rinuncia ai bambini e agli amori... insomma vite sul trapezio. E' il fronte della civilta' che si muove e cambia: lavoro, aspirazioni, rapporti sociali, vita familiare, dentro-fuori-distante da casa, vestiti, cibi, pettinature, e cambia in forme che non si pretende, o non si puo', dirigere, ma almeno saperle, dirle e ridisegnarle con parole proprie. Il libro non ha capitoli, sostituiti da una serie di voci o lemmi, liberta' di scelta e' la prima, seguita da lingua materna, lingua d'azienda, per finire con corpo di donna in guerra, con la testimonianza di due fotogiornaliste, in tutto ventidue voci. A parte che non c'e' ordine alfabetico, somiglia al fascicolo di un grande dizionario d'uso del mondo che cambia a causa che le donne vanno ormai dovunque. * Io ho cominciato a fare questo tipo di lavoro con la pratica femminista dell'autocoscienza, che ha ispirato anche le autrici di questo libro, ma bisogna dire che il fermarsi a parlare con altre, parenti, colleghe, amiche vicine, parlare di se', dei problemi che si hanno, delle cose che si fanno, e' sempre stata un'abitudine femminile, e forse molte continuano ancora negli interstizi delle nostre giornate vissute correndo. Ma di che "lavoro" si tratta? Proprio quello delle parole. Il piu' grande filosofo americano, Peirce, ha insegnato che il significato-significante ultimo delle parole, cio' che le rende vive, quando vive sono e non frasi fatte, e' una trasformazione interna dei parlanti, ossia la formazione di uno specifico abito mentale che ci dispone ad agire per il meglio. Questo e' lo splendore di avere un linguaggio (uso una formula di Clarice Lispector), avere cioe' la possibilita' di mettere fine alla confusione, di fare luce, aprire passaggi di comunicazione, e disporci ad agire, dove prima c'era l'impasse di una dolorosa scissione tra dentro e fuori, tra se' e gli altri o perfino tra se' e se'. * Di questo breve libro, sono poco piu' di cento pagine, e' stato scritto che e' pieno di verita', nel segno del cambiamento (da Anna Bandettini, su "La Repubblica"). Sono parole forti e accettabili. Nel libro, infatti, e' all'opera un significato-significante ultimo, nel senso del filosofo americano, che trasforma la lettura in un'esperienza di conoscenza modificatrice. Il risultato e' che una smette di recriminare contro le discriminazioni, ma smette anche la difesa di voler considerare l'essere donna come una circostanza indifferente. E si mette a portare il fatto di essere una donna con lo stile di un vestito e di un'acconciatura, stile sobrio o appariscente, sportivo o elegante, ma portato bene, portato nelle parole stesse con cui rende conto di se' e chiede conto al mondo. Questo Quaderno della Libreria delle donne non e' uno scritto sulla differenza sessuale, come ne conosciamo, io stessa ne ho fatti. E' uno scritto di donne che raccontano e ragionano la loro esperienza, e cosi' cambiano la figura del mondo, anche dentro di se', facendo vedere che ci sono anche loro, e vedendosi nel mondo, loro stesse, per prime. Vorrei che anche gli uomini sapessero fare questo tipo di lavoro, vorrei che in ogni campo del vivere ogni tanto ci si fermasse a farlo, fermarsi a parlare. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 892 del 7 aprile 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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