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Nonviolenza. Femminile plurale. 3
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 3
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 17 Mar 2005 16:02:33 +0100
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 3 del 17 marzo 2005 In questo numero: 1. Angela Dogliotti Marasso: Educare alla nonviolenza oggi. Uno sguardo d'insieme 2. Giobatta Corinzi: Ancora dieci parole riflesse in dieci volti 3. Miriam Mafai: Il tutto e la parte 4. Maria Schiavo: Volevamo cambiare il mondo. A partire da noi 5. Lucetta Scaraffia: Tra esperienza e discorso pubblico 6. Lea Melandri: Della fragilita' della memoria 7. Emma Fattorini: Una violenza figlia di opposti integralismi 8. Questioni di metodo (ed un ringraziamento ad Anna Bravo) 1. EDITORIALE. ANGELA DOGLIOTTI MARASSO: EDUCARE ALLA NONVIOLENZA OGGI. UNO SGUARDO D'INSIEME [Ringraziamo Angela Dogliotti Marasso (per contatti: maradoglio@libero:it) per averci messo a disposizione questo testo predisposto per il recente congresso del Movimento Nonviolento. Angela Dogliotti Marasso, rappresentante autorevolissima del Movimento Internazionale della Riconciliazione e del Movimento Nonviolento, svolge attivita' di ricerca e formazione presso il Centro studi "Sereno Regis" di Torino e fa parte della Commissione di educazione alla pace dell'International peace research association; studiosa e testimone, educatrice e formatrice, e' una delle figure piu' nitide della nonviolenza in Italia. Tra le sue opere segnaliamo particolarmente Aggressivita' e violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino; il saggio su Domenico Sereno Regis, in AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia - Movimento Nonviolento, Torino - Verona 1999; e il recente volume in collaborazione con Maria Chiara Tropea, La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2003] In questi ultimi anni l'educazione alla pace si e' sempre piu' frequentemente identificata con l'educazione al conflitto e alla sua trasformazione nonviolenta. E' certamente, questo, un processo molto positivo; sembra tuttavia giunto il momento di ampliare ulteriormente lo sguardo, per arricchire di nuovi percorsi la strada che porta alla costruzione di una cultura di pace e nonviolenza, nel decennio a cio' preposto anche dalle Nazioni Unite. Oggi, infatti, il conflitto a livello macro ha assunto due dimensioni sempre piu' evidenti e ineludibili, dalle quali non si puo' prescindere perche' comportano rilevanti conseguenze, anche in ambito educativo. Potremmo chiamare queste due dimensioni quelle della sostenibilita' economico-sociale e della sostenibilita' ambientale della globalizzazione neoliberista nel sistema-mondo. * La sostenibilita' economico-sociale Conosciamo tutti la situazione di grave disuguaglianza esistente tra i 4/5 degli abitanti del globo che consumano 1/5 delle risorse e il restante quinto che ne consuma i 4/5. Non e' questa la sede per fornire i dettagli, ma sappiamo che tale divario e' andato crescendo negli ultimi decenni, al punto che l'indice di sviluppo umano (Isu), indicatore utilizzato dal programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, calcolato in funzione di tre variabili (speranza di vita, livello di istruzione, reddito per abitante a parita' di potere d'acquisto), nel 2000 vedeva buona parte del continente africano tra lo 0,26 e lo 0,50, mentre Europa, Usa e Australia erano oltre lo 0,90 (ma bisogna ricordare che anche all'interno delle aree ricche e delle aree povere esistono grandi disuguaglianze, tra un "centro" privilegiato e "periferie" diseredate. Nei paesi ricchi, dove piu' ampia e' la fascia dei ceti medio-alti, e' in costante crescita l'area delle nuove poverta', mentre nei paesi poveri, a fronte di una ristretta elite privilegiata, la precarieta' delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione induce forti e inarrestabili movimenti migratori, cui assistiamo ormai da alcuni decenni). Basterebbe un solo dato per evidenziare l'assurdita' e l'insostenibilita' di tale situazione: in un mondo che vede ogni anno "da 40 a 60 milioni di esseri umani morire di fame o di patologie legate alla malnutrizione" (1), circa la meta' delle risorse alimentari prodotte nei paesi ricchi viene distrutta per i meccanismi protezionistici del "libero" mercato. Il modello sudafricano dell'apartheid serviva per difendere i privilegi della minoranza bianca dalla maggioranza nera, costretta a vivere al di sotto del livello di sussistenza: la situazione internazionale puo' essere rappresentata oggi come una estensione a livello mondiale del sistema dell'apartheid. La minoranza privilegiata del globo puo' garantirsi la possibilita' di mantenere il proprio livello di vita e di consumo attraverso la guerra. La guerra e' oggi rilegittimata, dunque, perche' appare come un mezzo per imporre la globalizzazione neoliberista al resto del mondo e per allontanare la resa dei conti. Dire no alla guerra significa percio' non solo affermare che essa e' in ogni caso un mezzo miope e illusorio per affrontare i conflitti, ma significa in primo luogo dire no anche a questo modello di sviluppo insostenibile e ingiusto. * La sostenibilita' ambientale Questo stesso modello di sviluppo e' caratterizzato dal mito della crescita illimitata. Gia' il Club di Roma aveva evidenziato nell'ormai storico testo "I limiti dello sviluppo" (1972) l'insostenibilita' di una economia fondata sulla crescita illimitata in un mondo finito. Ma il paradigma economico prevalente e' rimasto quello, e con la crescita quantitativa della produzione e dei consumi sono cresciuti a vista d'occhio i problemi ad essa collegati (smaltimento dei rifiuti, rarefazione delle risorse primarie come l'acqua, effetto serra, cambiamenti climatici...). Oggi alcuni grandi paesi come la Cina si affacciano a questo modello di sviluppo. Sul mercato cinese si prevede un forte aumento del tasso di vendita delle automobili private. Secondo il paradigma della crescita illimitata questa potrebbe essere una buona occasione per il rilancio di aziende in crisi come la Fiat, ad esempio, che si potrebbe assicurare una fetta cospicua di mercato, o trovare manodopera a basso prezzo delocalizzando la produzione. Ma se i cinesi nei prossimi anni avranno in proporzione il nostro stesso consumo di automobili non vi e' chi non veda quale disastrose conseguenza cio' potrebbe avere a livello ambientale. Un modello di sviluppo energivoro e a forte impatto ambientale come il nostro non sarebbe sostenibile a livello planetario. Bisogna allora impedire ai cinesi di avere anche loro la loro utilitaria e al resto del mondo di raggiungere il livello di vita dei paesi ricchi? Chi vuole difendere il nostro livello di vita contro la concorrenza delle maggioranze "in via di sviluppo" lo deve fare armi in pugno e comunque non puo' consentire che tutto il mondo abbia gli stessi standard di consumo dei paesi ricchi, pena l'invivibilita' del pianeta. Se si rifiutano simili prospettive non c'e' che una strada: quella del radicale cambiamento del nostro tipo di vita, di produzione e di consumo. * Scegliere la semplicita' volontaria e un modello di economia eco-compatibile Essere per la pace oggi sempre piu' significa per noi, abitanti dei paesi ricchi, scegliere la strada della semplicita' volontaria e un modello di economia eco-compatibile, se vogliamo che condizioni di vita dignitose siano accessibili a tutti. Anche il terrorismo, presentato e vissuto con paura come la maggiore fonte di insicurezza in ogni parte del mondo, non puo' essere contrastato senza averne comprese le radici profonde, che trovano alimento nell'humus di questi squilibri globali, in questo fertile terreno si propagano rapidamente e non potranno essere disseccate fintanto che esso non sara' stato bonificato da profonde trasformazioni. Ecco allora che da questi due cruciali processi del mondo contemporaneo scaturiscono chiare indicazioni su cio' che puo' voler dire oggi educare alla pace. * Educare alla pace e alla nonviolenza Per passare dal paradigma della crescita illimitata a quello della sostenibilita' ambientale e sociale, che non ha bisogno della guerra per la difesa di privilegi, disparita' e disuguaglianze e la rapina legalizzata di risorse, occorre agire a piu' livelli e coinvolgere attori e processi diversi. Ci sono importanti trasformazioni strutturali che devono essere realizzate sia a livello locale, sia in ambito internazionale (comprese le riforme delle istituzioni internazionali come l'Onu). Ma c'e' un livello piu' profondo, quello culturale, che agisce anche attraverso i modelli di socializzazione e l'educazione dei giovani a nuove prospettive di futuro, ad essere sfidato da questi problemi, da tempo sul tappeto, ma oggi particolarmente rilevanti. - La delegittimazione della guerra, la sua denuncia come prodotto del sistema militare-industriale, parte essenziale del modello di sviluppo che ha portato alla globalizzazione neoliberista, e' il primo passo di un percorso culturale orientato alla pace, passo che potremmo chiamare di "educazione al disarmo". Cio' deve tradursi anche in un radicale rifiuto della cultura della violenza in tutte le sue forme, e mettere in discussione i miti e i presupposti del "pensiero armato" come l'idea di "nemico", la sindrome Dma (dualismo, manicheismo, armageddon) e la tendenza alla polarizzazione "noi" (buoni), "loro" (cattivi). - La nonviolenza come scienza del conflitto offre poi le riflessioni e gli strumenti per trovare alternative alla violenza negli inevitabili conflitti che attraversano tutti i livelli della convivenza umana, da quelli micro, a quelli macro (educazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti). - Il programma costruttivo ci puo' aiutare, infine, a immaginare, qui e ora, scelte di vita fondate sulla responsabilita' personale nei consumi, nel modo di vivere, nella vita civile e nella partecipazione politica, a partire dalla consapevolezza di queste grandi sfide che il mondo contemporaneo ci pone (educazione alla sostenibilita' e alla sobrieta'). Come tradurre tutto cio' in concreti ed efficaci percorsi di lavoro formativo e' il compito che ci attende. * Note 1. Jeremy Rifkin, Ecocidio, Mondadori, Milano 2001. 2. MAESTRE. GIOBATTA CORINZI: ANCORA DIECI PAROLE RIFLESSE IN DIECI VOLTI [Da "La nonviolenza e' in cammino" n. 619] Mary Wollstonecraft, della forza della verita' Tutto puo' essere detto, ma prima deve essere sentito, vissuto, e solo allora tutto si fa chiaro, e tutto il dolore il tormento la paura si fa parola di rivendicazione di umanita', cammino di liberazione. Per se', per tutte e tutti. Conobbe tutto e non si arrese mai sempre lotto' per la liberazione di tutte, di tutti. * Edith Stein, della coscienza Tutto e' pensiero e storia e tutto si rovescia nella coscienza, e tutto vi si specchia. Sta a te tenere limpido lo specchio vedervi riflessa la via tendere le braccia salvare in te il mondo, aprire porta dopo porta il varco alla liberazione di tutti. * Ada Gobetti, dell'amore Nessun uomo fu piu' intransigente di Piero Gobetti ma una donna si', che ancora per molti anni quella lotta comune che nel loro amore era come una perla condusse. Nessun uomo fu piu' educatore civile, al pubblico bene suscitatore di Piero Gobetti, ma una donna si' che per molti anni ancora quel magistero seppe e volle recare, adempiere, consegnare come un legato dai morti ai vivi. Nessun uomo fu piu' di Piero Gobetti innamorato della ragione e della virtu' ma una donna si', che fu innamorata della ragione, della virtu', di lui, del mondo. Cadde giovane lui, lei attraverso lunghi anni sempre piu' giovane divenne e sempre gentile e saggia seppe rimanere. * Isadora Duncan, della festa Il corpo il movimento l'aria come acqua tutto diviene luce quando la coscienza si sente creatura fra creature e si fa gesto, invito, amore, festa. * Ingeborg Bachmann, della sobrieta' Concentrarsi, trovare il proprio centro fare il vuoto, il deserto entro se', e tendere alla patria da venire e questa e' la virtu' dell'attenzione, scavare la pietra del discorso fino a raggiungere sorgiva la parola, istituire cosi' quella comunita' finora soltanto immaginata. * Anna Kuliscioff, della giustizia In un possente rivolgimento d'amore all'umanita' intera parlare la lingua della carne che soffre, dello spirito che anela dell'occhio che respira e che canta. Col gesto largo del seminatore fecondare il mondo, restituire speranza agli oppressi, risanare le ferite. Il volto, il cuore d'Anna in sogno vidi segno, impronta, aura della classe che liberando se' liberi tutti. * Alice Paul, della liberazione Una persona un voto. Lo diceva in marcia per le vie della citta'. Una persona un voto. Lo diceva dal fondo della galera di qua e di la' dall'oceano in sciopero della fame. Una persona un voto. E poi ancora la pace, il pane, le rose. * Flora Tristan, del potere di tutti Noi che abbiamo conosciuto la miseria e la miseria che sta sotto la miseria ci siamo alzate e alzati infine e abbiamo detto: da adesso no. Noi che abbiamo sofferto la fame e le percosse e cio' che genera la fame e le percosse ci siamo alzate e alzati infine e abbiamo detto: da adesso no. Noi che ci siamo riconosciute e riconosciuti uguali nella maschera del dolore e uguali nel sogno della gioia ci siamo alzate e alzati infine e abbiamo detto: da adesso no. E avendo detto no allo sfruttamento avendo detto no alla guerra e alla paura e al calpestare gli altrui corpi piagati ci siamo alzate e alzati infine e abbiamo detto: da adesso si' che facciamo cominciare la nuova storia. * Milena Jesenska', della bellezza Vi e' una prima Milena, l'amica di Kafka che e' il pozzo silenzioso che il praghese colma delle parole in cui cerca di sciogliere l'infinito auscultarsi nella notte: acque, e delle acque la rottura che non viene e il mistero che non affiora, e la luna, la luna nel pozzo. E vi e' una seconda Milena, la Milena restituita da Margarete che la incontro' nel lager. Oscuro mistero, che la sua vita sia stata salvata dalla memoria di chi la incontro' nell'inferno nazista. Ed e' la Milena delle rotture e del coraggio, la donna che sa dire di no e di si', che lotta inesausta, che e' uno dei volti piu' belli della Resistenza. * Emma Thomas, della persuasione Teneva insieme la vita attiva, poiche' senza le opere buone le sofferenze dell'umanita' che incontri tu alleviarle non puoi, e la contemplativa, poiche' nel silenzio e nella preghiera libera e comune s'incontra l'altro e all'altro ci si apre. Io sempre restai sconcertato di queste persone cosi' diverse da me. Molti anni mi occorsero per cogliere quanto preziosa mi fosse la loro diversita', quanto l'enigma che recano e' anche uno specchio e un appello che mi tocca. 3. RIFLESSIONE. MIRIAM MAFAI: IL TUTTO E LA PARTE [Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questo articolo di Miriam Mafai apparso su "La Repubblica" del 3 febbraio 2005. Miriam Mafai, giornalista e saggista, e' editorialista del quotidiano "La Repubblica" di cui e' stata tra i fondatori; e' stata parlamentare in numerose legislature, ha un lungo passato di militante del Pci ed ha lavorato per "l'Unita'" e "Paese Sera". Tra le opere di Miriam Mafai: Pietro Secchia. L'uomo che sognava la lotta armata, Rizzoli, Milano 1984; Il lungo freddo. Storia di Bruno Pontecorvo scienziato atomico, Mondadori, Milano 1992; Pane nero, Mondadori, Milano 1995; Dimenticare Berlinguer. La Sinistra italiana e la tradizione comunista, Donzelli, Roma 1996; Botteghe oscure, addio, Mondadori, Milano 1997; con Vittorio Foa e Alfredo Reichlin, Il silenzio dei comunisti, Einaudi, Torino 2002] Puo' darsi che Anna Bravo abbia ragione quando in un saggio recensito ieri su queste pagine denuncia il "rapporto irrisolto" che il movimento femminista ebbe con la violenza, non solo per quello che si riferisce agli scontri di piazza o al picchettaggio, ma anche per cio' che si riferisce alla "immaturita'" con cui allora le donne si misurarono con la questione dell'aborto, facendone una bandiera di autonomia e liberta', sottovalutandone la sofferenza e le implicazioni per la madre stessa e per il feto. Puo' darsi, ripeto, che la storica abbia ragione a condizione pero' di rendere esplicito che oggetto della sua critica non puo' essere "tutto" il movimento delle donne ma la parte, pure non irrilevante ma minoritaria, collegata, dal punto di vista culturale ed organizzativo, all'estremismo di quegli anni, e in particolare a Lotta Continua. In mancanza di questa chiara distinzione, tra tutto il movimento di quegli anni ed una sua parte, l'opera di scavo nel passato della Bravo rischia di apparire come l'ennesimo episodio di quel "revisionismo" della nostra storia passata, dalla Resistenza in poi, che si va conquistando sempre piu' spazio nella pubblicistica prima che nella opinione pubblica del nostro paese. Pur non essendo una storica, e confermando tutta la mia stima per l'intelligenza e la sensibilita' della Bravo, vorrei dunque precisare il mio pensiero a proposito del punto essenziale affrontato dalla sua ricerca e che si carica oggi di una stringente attualita'. * Ma davvero nella battaglia condotta negli anni Settanta per sconfiggere la piaga dell'aborto clandestino (una piaga che provocava sofferenze fisiche e morali), in quella battaglia condotta, e finalmente vinta, per ottenere una legge rispettosa dell'autodeterminazione della donna, venne esaltata una spregiudicata, assoluta liberta' della donna, quasi un "diritto all'aborto" in dispregio della entita' e a danno del feto? A quanto ricordo, fu questa la posizione di una parte soltanto del movimento femminista e di alcuni gruppi piu' vivaci e rumorosi, ma non della sua maggioranza. Il problema della liquidazione delle norme del codice che prevedevano il reato di aborto, e quindi della sua legalizzazione e della possibilita' che l'interruzione di gravidanza avvenisse nelle strutture pubbliche su richiesta delle interessate, quel problema, quanto mai delicato, venne affrontato con assai maggiore cautela e prudenza dalla maggioranza del movimento femminista, dalle donne comuniste e all'interno dell'Udi (una organizzazione femminile importante ed oggi ingiustamente dimenticata). Adriana Seroni, la parlamentare comunista che diresse a Montecitorio la battaglia per la legge 194, e convinse il suo partito della necessita' di una legge, era instancabile nell'ammonire che il ricorso all'aborto non poteva essere letto come una affermazione di liberta' per la donna, ma al contrario come il prezzo pesante che le donne erano chiamate a pagare a causa della deresponsabilizzazione del partner e della insufficiente tutela offerta alla maternita' dalle nostre istituzioni. Una posizione che, lo ricordera' certamente anche Anna Bravo, merito' alla Seroni, critiche, irrisioni e inevitabili accuse di collusione con i cattolici. Da una parte, ma da una parte soltanto del movimento femminista, quello al quale la Bravo apparteneva. Anche il movimento allora fu attraversato da divisioni e contraddizioni. Sono passati molti anni e un'altra generazione di donne, che fortunatamente fanno sempre meno ricorso alla legge 194, e' ormai sulla scena. Ma se dovremo, come possibile, riaprire un dibattito su quella legge, ormai apertamente messa in discussione da alcune forze politiche, sara' meglio evitare di farci carico di autocritiche ingiuste o eccessive (quelle giuste, in questo come in altri campi, sono gia' piu' che sufficienti). * E vengo rapidamente al secondo punto affrontato dalla Bravo: il rapporto del movimento femminista con la violenza, tema affrontato a suo tempo dal fondamentale testo di Robin Morgan, Il demone amante. Ben venga naturalmente un approfondimento del tema in chiave nostra, italiana, e dunque un riesame delle vecchie posizioni, di antichi eccessi e solidarieta', sempre che venga precisato che non tutto il movimento femminista subi' quel fascino. La scritta "uccidere un fascista non e' un reato" non venne mai fatta propria dal movimento delle donne. E quando Lama a Roma venne aggredito all'Universita' la maggior parte del movimento stava dalla parte di Lama, non dalla parte dei cosiddetti "indiani metropolitani". Non c'e' dubbio - e fa bene la Bravo a ricordarlo - che una parte del movimento dei giovani fu inquinato in quegli anni dal cosiddetto "fascino della violenza". Ricordo che quando i fratelli Mattei vennero bruciati vivi nella casa di Primavalle, una parte del movimento studentesco si schiero' non a difesa di Lollo, subito inquisito, ma a sostegno pregiudiziale della sua innocenza. "Paese Sera", il giornale dove allora lavoravo, abbraccio' questa tesi. Un giorno all'improvviso arrivo' in redazione un furibondo Luigi Petroselli, segretario della Federazione romana del Pci e futuro sindaco di Roma, per costringerci a correggere la nostra impostazione. Cosa che facemmo. A dimostrazione che il nostro margine di autonomia era ridotto. Ma aveva ragione Petroselli. 4. RIFLESSIONE. MARIA SCHIAVO: VOLEVAMO CAMBIARE IL MONDO. A PARTIRE DA NOI [Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questo articolo di Maria Schiavo apparso sul quotidiano "Liberazione" del 4 febbraio 2005. Maria Schiavo e' nata a Palermo nel 1940, ha vissuto in Toscana e a Parigi, dal 1971 vive e lavora a Torino dove ha fondato con altre nel 1977 la Libreria delle donne. Oltre ad articoli e racconti, ha pubblicato i seguenti volumi: Macellum, storia violenta di donne e di mercato, La Tartaruga, Milano 1979; Margarethe von Trotta, ovvero l'onore ritrovato, Aiace, Torino 1981; Discorso eretico alla fatalita', Giunti, Firenze 1990, Actes Sud, 1995; Amata dalla luce, ritratto di Marilyn, Quaderni di via Dogana, Milano 1996, poi Tre Lune, Mantova 1999; Movimento a piu' voci. Il femminismo degli anni Settanta attraverso il racconto di una protagonista, Fondazione Badaracco - Franco Angeli, Milano 2002. Nel 1993 ha curato una raccolta di lettere di Madame de Sevigne', Alla figlia lontana. Lettere 1671-1690, Editori Riuniti, Roma 1993] E' apparsa su "La Repubblica" del 2 febbraio un'intervista di Simonetta Fiori ad Anna Bravo in occasione dell'uscita di un suo saggio sugli anni '70: "Noi e la violenza. Trent'anni per pensarci", oggi in libreria con la rivista "Genesis". Non avendo ancora letto il testo, mi chiedo se, come succede, possa esserci stato qualche equivoco di interpretazione da parte dell'intervistatrice. D'altra parte, le affermazioni di Anna Bravo, citate con tanto di virgolette, sono cosi' insistentemente articolate intorno alla violenza della lotta politica in quegli anni da non lasciar dubbi. Spiego subito il motivo di disagio: queste affermazioni sono molto scioccanti, non per la condanna da parte sua della violenza politica dei gruppi politici extraparlamentari negli anni in cui lei fu militante di Lotta Continua. Anzi, la riflessione autobiografica di una militante di quei gruppi potrebbe essere di grande interesse, preziosa perche' rara, se si collocasse in un contesto storico, in uno sfondo politico ben chiaro e individuabile. Purtroppo non e' cosi', c'e' nelle affermazioni di Anna Bravo una fortissima ambiguita', che non ha basi storiche fondate, il tentativo di coinvolgere tutto il femminismo nell'avventura che fu sua, del suo e di altri gruppi politici, attribuendogli attrazione per la violenza, incapacita' di interrogarsi su di essa, in occasione della lotta per la legalizzazione dell'aborto. Fino ad affermare che se c'e' un vuoto storiografico sul femminismo degli anni '70, cio' e' dovuto al "rapporto irrisolto con la violenza". Ma di quale femminismo parla Anna Bravo? Quale esperienza femminista ha vissuto all'interno di Lotta Continua? Dovrebbe parlarci di questo per farci cogliere nella loro giusta collocazione storica le sue affermazioni sull'attrazione per i maestri violenti, per gli scontri di piazza, per la lotta armata. Il femminismo di cui lei parla, lo si deduce dalle battaglie che gli attribuisce, e' quello delle donne dei gruppi extraparlamentari, che all'epoca si chiamavano donne della doppia militanza e che in effetti lottarono esclusivamente per l'aborto e per altri obiettivi legati alla politica tradizionale. Scesero in piazza con parole d'ordine dettate dai loro gruppi politici, cercarono di trascinare in questa lotta le donne del femminismo autonomo, che facevano - non dimentichiamolo - autocoscienza in piccoli gruppi, si riunivano in collettivi, ed erano alla ricerca di in un modo di far politica nuovo, non gerarchico, lontano da quello della lotta politica, anche di quella rivoluzionaria della tradizione marxista. Tutto il contrario delle femministe di cui parla Anna Bravo nell'intervista, che ricalcavano gli schemi dei loro compagni e maestri. Mi permetto di osservare che se non si riconosce che il movimento delle donne e' stato un movimento complesso, a piu' voci, non si potra' mai capire quel che e' successo in quegli anni. In questa complessita', tuttavia, una cosa rimane chiara e indiscutibile: da una parte, ci sono stati i gruppi di donne che attraverso l'autocoscienza cercavano un modo di far politica diverso. Il famoso partir da se'. E questa e' stata la pratica innovativa del femminismo autonomo, la rivoluzione pacifica delle donne legata alla presa di coscienza, allo scambio, all'ascolto dell'altra, alla rimessa in discussione della societa' patriarcale, del rapporto con l'uomo, nel pubblico e nel privato. Dall'altra, ci sono stati i gruppi di donne che militavano in gruppi e partiti, che hanno dato luogo a un femminismo, che pur cogliendo qualche elemento dell'altro, come l'autocoscienza, alla fine voleva sempre coinvolgere le donne (le masse) su degli "obiettivi". Quando negli anni '70 inizio' la battaglia per la legalizzazione dell'aborto, queste donne della doppia militanza si mobilitarono cercando l'alleanza del femminismo autonomo che, come risulta da libri e documenti, non approvava la loro pratica politica, si interrogava sulla violenza dell'aborto. Basta del resto guardare il "Sottosopra rosso" del 1975 per smentire quanto sostiene Anna Bravo sulla mancanza di riflessione nel femminismo circa la pratica abortiva. Stupisce quindi che una storica della sua scrupolosita' consideri il femminismo legato a gruppi e partiti, e quindi non autonomo, non fondato sull'autocoscienza, sulla riflessione a partire da se', come "il" femminismo tout court. Lei che ammira tanto la figura di Carla Lonzi, al punto da aver scritto anni fa un pezzo che ne faceva quasi un'icona, sul giornale "Liberal", non puo' ignorare che esisteva in quegli anni un altro femminismo. Una volta fatti i dovuti distinguo, sono felice che Anna Bravo si interroghi oggi sulla mancata riflessione, sulla leggerezza con cui affrontarono questo tema le donne inquadrate politicamente in gruppi e partiti, che appoggiarono la campagna per la legalizzazione degli anni '70. E' da parte sua, anche se nell'intervista non appare chiaramente, (spero appaia nel saggio), un modo di riconoscere a posteriori, anche se un po' troppo indirettamente, l'assenza della pratica politica dell'autocoscienza, del partir da se', nel femminismo cui lei si riferisce e che dichiara di aver praticato negli anni della militanza in Lotta Continua. I gruppi femministi radicali autonomi di Roma, Milano, Torino, e di altre citta', non commisero questo errore (ne commisero altri sui quali nel libro Movimento a piu' voci ho cercato di riflettere) e discussero dell'aborto come di un rimedio estremo, cui ricorrere in situazioni particolarmente gravi. Molte donne si rifiutarono addirittura di parlarne per il profondo disagio che provocava in loro quel tema; altre, perche' avevano spesso radicalmente rimesso in discussione l'eterosessualita', scegliendo di vivere (o vivendo da sempre) la loro sessualita' insieme a un'altra donna. E piu' in generale, anche se non avevamo allora la consapevolezza, la cautela cui ci ha abituate (o dovrebbe abituarci) l'ingegneria genetica, ci rendevamo confusamente gia' conto che nell'oppressione femminile si rispecchiava un rapporto di dominio dell'uomo sulla natura, sul quale era necessario riflettere piu' ampiamente. In realta', quando Anna Bravo parla della violenza, dei morti, del desiderio di vendicarli, facendo un'autocritica su quegli anni, evoca un'esperienza profondamente diversa, un concetto di rivoluzione armata da cui il femminismo autonomo degli anni Settanta fu lontanissimo. Quando evoco quel periodo per me il concetto di rivoluzione e' ancora vivissimo ma non e' associato ad alcuna idea di fucili e di spari. Rivoluzione mi evoca la forte tensione di cambiamento che ci attraverso', che in quegli anni ci apparve innanzi, nitida, insistente, come una visione che l'atmosfera di fluidita', di estrema mobilita' dell'epoca rendeva ancora piu' imperiosa. Fu il tentativo di cambiare noi stesse, di chinarci a meditare anche sulla violenza che era in noi, oltre che nell'altra/o, di rivoluzionarci, di "convertire" la nostra vita. Fu il desiderio fortissimo, che ancora dura, di provare a costruire insieme un mondo migliore. 5. RIFLESSIONE. LUCETTA SCARAFFIA: TRA ESPERIENZA E DISCORSO PUBBLICO [Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questo intervento apparso sul "Corriere della sera" del 6 febbraio 2005. Lucetta Scaraffia, nata nel 1948, insegna storia contemporanea all'universita' "La Sapienza" di Roma. Socia fondatrice della Societa' italiana delle storiche, si e' occupata, oltre che di storia della religiosita', di storia della famiglia e della comunita' contadina. Tra le sue opere di Lucetta Scaraffia: La santa degli impossibili, Rosenberg & Sellier, 1990; con Gabriella Zarri, Donne e fede, Laterza,1994, traduzione inglese Women and faith, Cambridge University Press, 1999; Il Concilio in convento, Morcelliana,1996; Rinnegati. Per una storia dell'identita' occidentale, Laterza,1993; Il giubileo, Il mulino, 1999, tradotto in spagnolo per l'editore Acento; con Anna Bravo, Donne del '900, Liberal libri, 1999; con Anna Bravo e Anna Foa, I fili della memoria, Uomini e donne nella storia, Laterza, 2000 (manuale di storia, in tre volumi)] Silvia Vegetti Finzi ha opportunamente ricordato su queste pagine come il movimento femminista, sin dagli anni Ottanta del Novecento, abbia compiuto "un lungo lavoro di riflessione e di discussione" sulla necessita' dei limiti da porre al desiderio personale e lamenta che pochi se ne siano accorti. Dimentica pero' che questi dibattiti non solo hanno coinvolto un numero esiguo di persone, ma che queste stesse persone, quando poi ci si trovava a discutere di questi temi in pubblico, non si distaccavano per nulla dalla posizione del politicamente corretto femminista che portava a protestare contro l'offesa della liberta' delle donne tutte le volte che sul piano legislativo si e' tentato di regolamentare in modo piu' rigido il diritto di aborto o l'uso degli embrioni o la fecondazione assistita. Questa e' una prova delle difficolta' che incontra in Italia il discorso pubblico sui temi dell'aborto e dello statuto dell'embrione, fitto di non detti e contraddizioni che rendono spesso le discussioni sterili e ripetitive. Ci sono altri esempi: il richiamo che viene dalla Vegetti Finzi e da altre voci femministe sulla parte positiva che avrebbero sempre le donne nei confronti di queste scelte riprende in realta' uno degli argomenti usati piu' spesso contro i fautori della legge sulla fecondazione assistita e, cioe', che insistere su una regolamentazione severa sarebbe segno mancante di fiducia nella natura umana. Pochissime, cioe', sarebbero in realta' le donne disposte a partorire bambini a sessant'anni o a selezionare gli embrioni eugeneticamente, cosi' come gli scienziati sarebbero anch'essi ispirati a una superiore visione etica, quindi immuni da qualunque tentazione demiurgica o da ambizioni personali. I fautori dell'attuale legge vengono cosi' naturalmente collocati nella parte odiosa di chi e' diffidente, pessimista, oltre che verso le conquiste della scienza, anche verso la supposta naturale bonta' del genere umano. Ma un secondo e piu' grave ambiguo non detto grava sul discorso pubblico: quello dell'esperienza personale. E' questo un ambito delicatissimo che comprensibilmente non deve entrare nel dibattito pubblico, ma bisogna pur tenere presente che chi, nella propria vita o in quella di persone vicine, abbia provato la dolorosa e drammatica esperienza di un aborto - terapeutico o no - senza dubbio e' influenzato da questa nella discussione sullo statuto dell'embrione. Se infatti l'embrione viene difeso come persona, o meglio come progetto di essere umano ormai avviato e quindi destinato al completamento, l'inevitabile conseguenza e' una rimessa in discussione anche della legge 194. E, a questo proposito, si arriva a toccare un ricordo drammatico nella vita di molti di noi: si comprende bene, quindi, il bisogno di non rimettere tutto in discussione, di non abbandonare una sorta di alibi e come questo bisogno possa inevitabilmente distorcere poi il giudizio pubblico. Si tratta di un discorso molto difficile da fare, naturalmente, perche' tocca corde scoperte e dolorose nelle coscienze di noi tutti, cattolici e laici, ma in questo c'e' forse una differenza fra cattolici e laici: e non gia' perche' i cattolici non abbiano mai abortito o partecipato a pratiche abortive, ma perche' culturalmente essi non hanno potuto negare a se stessi la gravita' della decisione presa, che ha quindi continuato a pesare nella loro coscienza. Per chi non e' credente, anche se ha provato senza dubbio lo stesso dolore e disperazione, c'e' stata pero' la possibilita' di considerare lecito questo atto, data dalla legge e dall'opinione pubblica: tornare dietro e ripensarci, riaprire un capitolo, in qualche modo chiuso, puo' essere molto piu' difficile. Non a caso nei dibattiti pubblici ha il coraggio di parlare della propria esperienza personale in genere solo chi ha fatto una scelta controcorrente, tenendo un bambino minorato o accettando una gravidanza indesiderata. Si tratta infatti di vicende in qualche modo eroiche e vittoriose che si possono raccontare con gioia, pur comportando fatica e dolore. Questa difficolta' a tornare indietro, a ripensare all'idea di embrione che ci siamo fatti, si riaffaccia anche quando ci arrivano dalla ricerca scientifica informazioni sempre piu' dettagliate sulla complessita' biologica dell'embrione e del feto, che ci dovrebbero suggerire una doverosa prudenza per quanto riguarda la tutela dell'embrione. Un esempio clamoroso: non si ha il coraggio di un ripensamento neppure per la legge che regola l'aborto terapeutico, anche se, con le attuali tecnologie, un feto di ventitre' settimane e' un neonato che puo' sopravvivere. Almeno si dovrebbe cambiare il nome all'intervento e non chiamarlo piu' aborto, ma parto prematuro. Il progresso scientifico non ci porta, infatti, solo nuove possibilita' di manipolazione delle origini dell'uomo, ma anche nuove prove sull'esistenza fin dall'origine di un essere vitale, prove su cui bisogna riflettere senza paura. 6. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: DELLA FRAGILITA' DELLA MEMORIA [Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questo articolo di Lea Melandri apparso sul quotidiano "Liberazione" dell'11 febbraio 2005 col titolo "Il revisionismo delle donne". Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista, redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, poi Manifestolibri, Roma 1997. Cfr. anche Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996] Al femminismo degli anni '70 e' toccata una sorte strana, ma non inspiegabile. Lasciato a lungo in sottofondo da buona parte delle donne stesse che ne erano state protagoniste, nel momento in cui ricompare sulle pagine dei due giornali piu' letti in Italia, il "Corriere della sera" e "La Repubblica", risulta per certi aspetti irriconoscibile, per altri sfiorato cosi' marginalmente da lasciar credere che non sia mai stato altro che un mito. Se il "femminile", denudato ed esposto in tutti i modi possibili, ha cessato di essere il continente misterioso dell'immaginario maschile, ora la parte dell'"oggetto oscuro" e innominabile sembra essere toccata al movimento che per primo ha cercato di riportarlo alla storia, attraverso un paziente lavoro di analisi e pratiche di cambiamento. Quando ho parlato del "silenzio" del femminismo, in un articolo su "Liberazione" (10 dicembre 2004), non mi riferivo a "omissioni", "reticenze", peccati d'origine di un'esperienza che e' peraltro ampiamente documentata da pubblicazioni, materiali d'archivio, testimonianze orali e ricostruzioni storiografiche, ne' tantomeno alludevo all'assenza di donne consapevoli e impegnate sulla questione dei sessi negli ambiti piu' diversi della vita pubblica. Mi chiedevo, al contrario, come mai tanto lavoro teorico e pratico, tante iniziative, tanti studi, libri, riviste, associazioni, seminari - cinque, tra Roma e Milano, solo negli ultimi quattro anni, con una presenza di circa duecento donne di generazioni diverse -, non facessero notizia, e tanto meno "opinione". Ora mi accorgo che la stessa parola, a cui bisogna riconoscere comunque un effetto contagioso, puo' essere usata per aprire un vuoto di realta' storica, per far precipitare nell'"indicibile" consapevolezze, saperi, relazioni che per la loro forza "rivoluzionaria" risultano oggi, piu' che in passato, insopportabili. Riconoscere che gia' dalla fine degli anni '60, col gruppo Demau, e soprattutto dal 1970 in poi con Rivolta femminile, i gruppi di autocoscienza, i convegni nazionali di Pinarella e di Paestum, si era andata affermando una pratica politica anomala, capace di snidare la violenza fin nelle zone piu' oscure della vita psichica, per farne oggetto di una paziente riflessione collettiva, deve essere effettivamente fastidioso se una storica di valore come Anna Bravo ("La Repubblica", 2 febbraio 2005) puo' parlare di "silenzi" e "reticenze" del femminismo a proposito di temi, come la sessualita', la maternita' e l'aborto, su cui si e' scavato con una meticolosita' quasi crudele. In presenza di un dibattito che ha al centro la legge 40 sulla fecondazione assistita, ma che finisce inevitabilmente per toccare il tema dell'aborto, che significato puo' avere azzerare un patrimonio di consapevolezze, saperi acquisiti collettivamente dalle donne nel corso di piu' di un trentennio, anziche' toglierlo dalla clandestinita', dal "silenzio" per l'appunto, e costringere gli uomini a riconoscere la loro parte in queste esperienze essenziali della vita umana? Di solito il "revisionismo" cala dalla parte politica avversa come una mannaia che va ad amputare la complessita' di un evento storico. Le donne, che si sono portate dentro come una spada di Damocle l'imperativo dei loro aggressori, sanno purtroppo mutilarsi da sole, nella vita privata come in quella pubblica. Il fatto che oggi si torni a parlare del femminismo, convogliandolo sbrigativamente sotto la voce "violenza e aborto", oppure sovrapponendo maternita', procreazione assistita e interruzione di gravidanza, dimostra quanto totalizzante sia ancora la figura della donna-madre, quale strascico di ansie e di incertezze la legittimazione a "vivere per se'"si e' lasciata dietro, quanto sia difficile storicizzare un movimento che ha preteso di portare allo scoperto le esperienze piu' vicine al corpo, alla sessualita', al "vissuto" particolare di ogni individuo. Si puo' pensare percio' che sia la radicalita' e l'ampiezza del suo assunto iniziale, la sua ambizione di sovvertire non solo rapporti di potere, ma anche saperi, linguaggi, istituzioni, a condannare il femminismo al silenzio, all'anonimato, al vuoto di storia. Che l'"autonomia" da una "rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtu' d'analisi", come gia' scriveva Sibilla Aleramo, dovesse comportare un percorso tortuoso e "tragico", in quanto presa di distanza da "cio' che si e' amato e in cui si e' creduto", l'avevamo intuito. Non potevamo immaginare che, oltre alla sordita' del mondo maschile, avremmo dovuto combattere anche la fragilita' della nostra memoria, la tentazione di confondere l'io e il noi, facendo dell'autobiografia non il luogo di partenza da cui ripensare il mondo, ma l'orizzonte personale che lo divora. Sorprende anche che un movimento caratterizzato dalla marcata specificita' dei suoi contenuti e delle sue pratiche, dalla critica permanente ai gruppi della sinistra extraparlamentare, possa, retrospettivamente, andare ad appiattirsi su quella "doppia militanza" che costrinse molte donne a tenere faticosamente insieme "femminismo e lotta di classe". Il bisogno di chiudere dentro l'ombra nefasta delle manifestazioni violente e del terrorismo la varieta' indescrivibile di forme che aveva preso l'agire politico per la comparsa di problematiche, luoghi e soggetti "imprevisti" nel panorama tradizionale, aveva finora risparmiato l'unica "rivoluzione pacifica", attestata sul fronte di una conflittualita' non meno sconvolgente degli scontri di piazza, ma di una natura totalmente diversa: il doloroso, ambivalente rapporto con la madre, e quindi la difficolta' a costruire una socialita' tra donne che non ne erediti i fantasmi e le spinte distruttive, la fatica di dar voce a desideri e pensieri contrastanti con quelli di un uomo amato, la scoperta di una sessualita' femminile indipendente dalla funzione procreativa attribuita per "natura" alla donna. Mentre si sta aprendo un dibattito che si profila quanto mai complesso, e percio' facile alle semplificazioni delle ideologie e della prassi politica corrente, e' a dir poco allarmante che a inaugurarlo sia proprio il "fronte" femminista, con la figura astorica della madre mortifera, anello mancante e, sia pure forzatamente, connesso agli spiriti guerrieri dei militanti rivoluzionari. Problematizzare la maternita', quella che si desidera e quella che si respinge perche' indesiderata, quella che sulle donne pesa come "necessita'" biologica di conservazione della specie (oggi della "tribu' occidentale" in via di estinzione) e quella che da molte parti si invoca come contrassegno identitario della "differenza" femminile, e' stato e continua ad essere l'assunto piu' radicale del movimento delle donne, un tema su cui si e' detto e scritto molto. Ma i "pensieri" delle donne non sembra che godano ancora di molto credito e dovere di informazione neppure tra le proprie simili. Come faremo a convincere il mondo che nascita, sessualita', maternita', cura dei figli, non sono solo una "questione femminile"? 7. RIFLESSIONE. EMMA FATTORINI: UNA VIOLENZA FIGLIA DI OPPOSTI INTEGRALISMI [Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questo articolo di Emma Fattorini apparso sul "Corriere della sera" del 15 febbraio 2005. Emma Fattorini si e' occupata del problema religioso nelle sue implicazioni teoriche e storiche, fin dalla sua tesi laurea in filosofia morale, con studi sulla questione religiosa in Italia nei suoi rapporti con la cultura e la politica Otto-Novecentesca. Le sue ricerche si non concentrate poi sullo studio dei cattolicesimi europei nell'Ottocento e nel Nocecento e in particolare sul modello tedesco: la lotta del Kulturkampf, il romaticismo religioso ottocentesco, la storia del piu' antico partito cattolico e della piu' fitta rete associativa cattolica, fino agli anni della seconda guerra mondiale (I cattolici tedeschi. Dall'intransigenza alla modernita'. 1870-1953, Brescia 1997). Ha condotto ricerche di storia politico-diplomatica sul nuovo ruolo che viene assumendo nello scenario internazionale la Santa Sede all'indomani della prima guerra mondiale pubblicando i rapporti inediti del nunzio Pacelli in Germania e anticipando cosi' una documentazione che sara' al centro delle polemiche internazionali degli ultimi anni sui silenzi di Pio XII nei confronti del nazismo (Germania e Santa Sede. Le Nunziature di Pacelli tra la Grande guerra e la repubblica di Weimar, Bologna 1992. Ora e' in corso di pubblicazione un lavoro sulla politica di pace di Benedetto XV durante la grande guerra). Ha poi condotto studi sulla pieta' religiosa, sulle devozioni e sulla santita', con una particolare attenzione al culto mariano nei suoi significati religiosi, politici e sociali, ricostruendo il tracciato di modernita' e arretratezza che e' contenuto in queste forme solo apparentemente arcaiche di religiosita', sottraendole dunque a quella lettura sociologica e antropologica che le relegava alla mera sfera dell'arretratezza e del folklore (ha curato il volume collettaneo: Santi, culti, simboli nell'eta' della secolarizzazione. 1815-1915, Torino 1997, le sue ricerche sul culto della Vergine sono in parte contenute nel recente Il culto mariano nell'Otto e Novecento, Simboli e Devozioni, Roma 2000). Sempre valorizzando gli aspetti modernizzanti e anticipatori ha studiato la religiosita' femminile, il primo associazionismo femminile, le forme di culto piu' vicine alle donne, coordinando anche un gruppo di ricerca tra laureande su questi temi e partecipando, tra le fondatrici, alla Societa' delle storiche. Ha svolto , negli anni passati una intensa attivita' pubblicistica, collaborando con diversi istituti di ricerca e scrivendo su riviste e quotidiani] E' davvero troppo ingenuo sperare che il dibattito sulla vita e sulla morte avvenga in un clima sereno, con un confronto vero, almeno fino a che la mannaia dei referendum non schiacci tutto? Benemerite le analisi che tentano un bilancio di come sono andate le cose, senza rimozioni ma senza neppure "revisionismi" selvaggi, patetici sui temi etici. Ebbene evitiamo le reticenze, ma pretendiamo approfondimento e pietas. E' il caso del saggio della storica Anna Bravo, disinteressato e coraggioso, apparso sull'ultimo numero della rivista "Genesis". Prima di tutto (bisogna leggerlo) e' un raro esempio di come si puo' fare bene storia essendo soggetto e oggetto della propria ricerca, diventandone la fonte principale. Gli anni Settanta, cosi' carichi di soggettivita', sono un bel banco di prova per studiare il dispiegarsi delle emozioni nella politica, per ricostruire quell'intreccio di memoria, sentimenti e politica. Quella saggezza "civica" delle emozioni di cui ci parla la filosofa americana Martha Nussbaum. Con questo spirito, aggiungo allora qualche tassello a quella storia, dopo gli interventi di Silvia Vegetti Finzi e Lucetta Scaraffia. I referendum del divorzio e dell'aborto furono una deflagrazione. Improvvisa e inaspettata per laici, cattolici e comunisti. Nessuno aveva previsto che l a societa' fosse cosi' laica e soprattutto cosi' piu' laica delle sue culture politiche. La crisi della Dc ha il suo momento piu' significativo e quasi simbolico nel referendum del 1974. Se dunque la stagione referendaria ha inciso sul sistema politico italiano molto piu' di quanto non abbia fatto il biennio del 1968-'69, come mai la soggettivita' che ne era all'origine, tanto enfatizzata per essere "piu' avanzata" delle culture politiche dei partiti, una volta esauritesi quelle, si e' vanificata, dispersa o nel nulla o nella violenza? Una seconda considerazione. Il divorzio poneva un problema di laicita' e di modernita' del Paese che erroneamente venne estesa anche alla successiva legge sull'aborto che invece toccava "temi morali e psicologici assoluti". E cosi', tra divorzio e aborto si instauro' una impropria continuita', che ha fatto malauguratamente ascrivere i temi della sessualita' a quelli dei diritti. E questo non fu (solo) "colpa" delle donne. Le gerarchie ecclesiastiche capirono solo fino a un certo punto che si trattava di due piani molto diversi. Una mancanza di senso delle distinzioni che ha origine in quegli anni lontani e che resta il punto piu' opaco della posizione della Chiesa in materia di morale sessuale. Il fronte cattolico era molto piu' diviso di oggi e rifletteva, come ha bene ricostruito Paola Gaiotti nello stesso numero di "Genesis", le divisioni interne alla Democrazia cristiana: nel 1971 la forte rivalita' tra Moro e Fanfani, sulla presidenza della Repubblica, coinvolgeva il tema del divorzio perche' evitare il referendum sarebbe stato un vantaggio per Moro. I vertici vaticani, divisi fra Villot, Benelli, Casaroli, cercavano di influenzare Paolo VI, chiamato in definitiva a dirimere la questione sulla possibilita' o meno di un accordo. Di grande acume fu, in quel frangente, il tentativo di ricomposizione voluto da Enrico Bartoletti, segretario della Conferenza episcopale italiana dal 1972 al 1976. Sarebbe interessante riaprire la riflessione su come e perche', poi, si interruppe quel processo ecclesiale, gia' prima della morte di Moro? Ma in tutto cio', nessuno, neppure le forze di sinistra capirono il legame tra quel processo di secolarizzazione e una nuova identita' femminile che per la prima volta separava sessualita' e riproduzione. Una generazione di giovani donne scopriva forme di liberta' del tutto impensabili che finivano per identificarsi con la immediata soddisfazione dei propri bisogni. Un inganno psicologico ancora prima che etico, nel senso che confondeva il proprio bisogno compulsivo con il desiderio maturo e scelto, l'appagamento immediato con l'amore. Da qui, da questa immaturita' emotiva comprensibile, ancorche' non giustificabile, (per rientrare nei canoni del revisionismo corretto che chiede abiure e pentimenti) nasceranno le onnipotenze sul proprio corpo, frutto di poca consapevolezza, prima che di "immoralita'", causa di infelicita' prima che di peccato. In questo clima le posizioni si estremizzarono. Vogliamo, ora, ritornare a quel clima? A quella contrapposizione tra due integralismi: cio' che di quegli anni resta piu' vivo nella memoria e', infatti, il radicalismo autistico di un certo femminismo e i filmini nelle parrocchie sui feti straziati dagli interventi abortivi. Ci si ricorda molto meno di come, nella stragrande maggioranza delle donne (anche cattoliche), fu vissuta quella difficile situazione: e cioe' con la percezione che l'aborto fosse una indubbia questione morale, perche' la vita e' tale fin dal concepimento, ma che comunque andava sottratto alla clandestinita' e dunque depenalizzato come reato. Da allora le donne sono maturate (anche grazie agli errori delle femministe) e sarebbe davvero immorale da parte di tutti tornare allo stesso punto, accapigliandosi in una arena su temi oggi ancora piu' complessi e gravi di ieri. Capitalizziamo e non buttiamo via quel senso del limite cresciuto soprattutto tra le donne, nella maggioranza delle loro vite concrete. Le femministe, "storiche" ormai de iure e de facto, data l'eta', sono vicine ai temi della vita e della morte sotto il segno dell'invecchiamento, della fatica di vivere, della malattia. Da loro percepisco una pieta' compassionevole per il liminale, per cio' che e' scarto, piccolo, ancora non uomo-donna. Ma anche da quello che fu il Movimento per la vita ci sono segnali di minore rigidita'. Non buttiamo via tutta questa vita cresciuta sugli errori e che anche per questo e' piu' matura e profonda. 8. RIFLESSIONE. QUESTIONI DI METODO (ED UN RINGRAZIAMENTO AD ANNA BRAVO) Ci appassiona il dibattito suscitato dal saggio di Anna Bravo ripubblicato anche su questo foglio. E vorremmo proseguisse, si estendesse, si approfondisse; ed anche si decantasse di alcuni equivoci e finanche scadimenti di stile ai quali qui vorremmo accennare. 1. Molti interventi apparsi sui quotidiani sono stati scritti senza prima aver letto il saggio di cui si parla. Stravagante e insieme sintomatica cosa, monsieur Dupin. 2. Taluni interventi hanno qua e la' sostituito l'insulto gratuito e grossolano (e ingiustificato e quindi vieppiu' inammissibile) alla discussione anche aspra ma leale. Sono cose di questo mondo, ma dispiacciono sempre. 3. Si avverte talvolta in alcuni interventi come un disagio, su cui cannibalesco il sistema dei mass-media (patriarcale, fascista e belligeno) non manchera' di tentar di speculare. 4. Molte e molti di noi forse temono ancora che una rinnovata e franca riflessione sui temi posti da Anna Bravo possa "fare il gioco" del potere che opprime, mentre si avvicinano elezioni importanti ed un decisivo referendum su una pessima e sadica legge (quella sulla fecondazione assistita), mentre la guerra e' in corso, mentre l'offensiva ideologica e pratica delle nuove ferocissime totalitarie e terroristiche destre si dispiega su scala planetaria. Ma e' non saggio timore. Anzi. Piu' che mai oggi abbiamo bisogno di tutta la nostra lucidita' ed empatia, di tutta la partecipazione e la riflessione e la discussione di tutte e di tutti, di tutta la forza della verita'. 5. E quindi a maggior ragione ad Anna Bravo siamo grati per aver promosso questa corale, dialogica, conflittuale e maieutica riflessione. E se nel riproporre in questi giorni su questo foglio anche alcuni interventi apparsi sulla stampa (che recano anche, ci pare, utili e degni e fecondi contributi alla riflessione comune) riproduciamo anche - per fedelta' testuale - alcune ingiuste e fin dereistiche espressioni offensive e fin scandalose a lei rivolte ivi contenute, la preghiamo di portare ancora pazienza, e di accogliere sincere le nostre scuse e il nostro affetto e la gratitudine nostra ancora, e i sensi della nostra piena solidarieta'. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 3 del 17 marzo 2005
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