La nonviolenza e' in cammino. 872



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 872 del 18 marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Normanna Albertini: La donna immolata
2. Valeria Ando': La donna planetaria
3. Angela Dogliotti Marasso: Una storia per la pace
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. NORMANNA ALBERTINI: LA DONNA IMMOLATA
[Ringraziamo Normanna Albertini (per contatti: normanna.a at libero.it) per
questo intervento. Normanna Albertini e' nata a Canossa nel 1956, insegnante
nella scuola elementare, vive e lavora a Castelnovo ne' Monti; e' impegnata
nel gruppo di Felina (Reggio Emilia) della Rete Radie' Resch, e quindi in
varie iniziative di solidarieta', di pace, per i diritti umani e per la
nonviolenza; scrive da anni su "Tuttomontagna", mensiled fell'Appennino
reggiano. Opere di Normanna Albertini: Shemal, Chimienti Editore,
Taranto-Milano 2004]

"Ci sono state molte guerre, molti morti. Affinche' arrivi la pace, Aybanu
si e' immolata. E' diventata la moglie del comandante mongolo. Hai una
missione? Si', risponde Aybanu.
Si', diffondete queste parole. Le donne devono partorire figli che odino la
guerra. Il mondo viene distrutto dalle mani degli eroi. Tocca a noi, ora
ricostruirlo! Cantate inni all'amicizia, cantate inni al dolore. Un mondo
distrutto fin dove spazia lo sguardo. Siano benedetti coloro che lo
ricostruiranno. Siano benedetti coloro che riusciranno a far fiorire questo
mondo".
(Bahram Beyzaie)

Ho letto con attenzione il saggio di Anna Bravo: l'ho apprezzato.
Non ho gli strumenti necessari per permettermi un commento, posso soltanto
dire che non l'ho trovato revisionista, ma sincero, appassionato; a tratti
commovente.
Mi hanno parecchio infastidito le levate di scudi contro di lei. Il solito
discorso che si ripete da un po'. Quando si prova a riflettere sul passato
(o sul presente) della sinistra, spesso si finisce per essere accusati di
"dare addosso alla sinistra". Ne ha fatto le spese recentemente anche Furio
Colombo all'"Unita'".
Del saggio posso solo criticare l'eccessiva verbosita', la lunghezza. Amo lo
stile di Galeano, dei sudamericani in genere, dei teologi della liberazione,
abituati a parlare per un popolo incolto. Sintetici e comprensibili per
tutti. Anche per me.
Diceva Etty Hillesum: "Io detesto gli accumuli di parole. In fondo, ce ne
vogliono cosi' poche per dir quelle quattro cose che veramente contano nella
vita". Provo a dire le mie quattro cose.
*
Credo che il discorso del silenzio delle donne sulla legge che regolamenta
la fecondazione assistita, e sui tentativi di riportare l'aborto nelle
cliniche clandestine a pagamento (o peggio in mano ad altri macellai), vada
inquadrato nell'attuale contesto economico- sociale. Perche' il silenzio non
e' delle donne: e' delle giovani donne, e' dei giovani in generale.
Ci sono dibattiti su quei temi, in giro, in cui compaiono venticinquenni o
trentenni? Se li trovate, vi prego: segnalateli. Ma perche' quest'assenza?
Dove sono le giovani donne? Danno per scontati i diritti ottenuti dalle
femministe (mamme? nonne?), danno per scontati la liberta' sessuale, la
contraccezione, il diritto al lavoro, la parita' uomo-donna. E tacciono.
Forse troppo occupate a far quadrare i loro bilanci, sempre che, terminati
gli studi, siano riuscite a trovare uno straccio di lavoro. E straccio non
e' un eufemismo. Il 59 per cento del popolo dei collaboratori a progetto (
ex co.co.co) e' costituito da donne, con un livello d'istruzione elevato.
Hanno contratti collettivi; per la malattia arriva l'indennita' Inps solo se
ti ricoverano in ospedale; se rimani incinta e' probabile che tu debba
smettere di lavorare. Soprattutto se la maternita' e' a rischio. La
categoria degli interinali guadagna, in media, 12.500 euro lordi l'anno.
Le donne guadagnano un terzo in meno di un uomo. Il mercato e' stato reso
flessibile, ma senza gli ammortizzatori sociali, previsti da Marco Biagi nel
libro bianco e completamente disattesi. Un disastro.
Se avete dei figli appena usciti dall'universita', sapete di cosa sto
parlando. Dal '95, quando si e' cominciato a parlare di globalizzazione, ad
oggi, la forbice tra i ricchi e i poveri si e' allargata sempre di piu', non
e' un mistero. E sono aumentati i poveri.
In Italia, 2.360.000 famiglie stanno per passare la soglia di 869,50 euro
per una famiglia di due componenti. La poverta'. Sono 6.786.000 persone:
l'11,8 per cento dell'intera popolazione.
E il prezzo piu' alto della poverta' lo pagano, come sempre e come ovunque,
le donne.
Perche' senza indipendenza economica, che liberta' e capacita' di
autodeterminazione puo' avere una donna?
Sara Ongaro, giovane antropologa siciliana, in un suo recente saggio diceva:
"Attraverso quali corpi si crea il profitto? 'Gli operai', potrebbe
rispondere qualcuno. Nell'era della globalizzazione, se ci capita di leggere
qualche reportage sui luoghi della produzione di merci sparsi per il mondo,
potremmo scoprire che a rivestire un ruolo centralissimo per la produzione
di denaro in vari settori non sono tanto gli operai, quanto le operaie".
Corpi femminili nelle fabbriche, nelle campagne, nell'industria del sesso;
corpi che devono, comunque e contemporaneamente, prendersi cura di altri
corpi: i figli, i fratellini piccoli, i genitori e i nonni anziani.
Continua Sara: "L'uso dei corpi nella produzione delle merci con lo scopo di
elevare al massimo i profitti non e' una storia nuova... Ma solo in questo
nostro tempo il sistema della riproduzione del capitale ha coinvolto masse
cosi' imponenti di popolazione... L'intensita' e le modalita' con cui oggi i
corpi, in particolare delle donne, sono utilizzati su scala mondiale, ci
mette di fronte ad una violenza che non pensavamo conciliabile con il
progresso, la democrazia e la tecnologia".
C'e' tanto silenzio su temi che un tempo avrebbero riempito le piazze
perche' ai nostri figli, alle nostre figlie, stiamo consegnando un mondo che
sembra senza futuro. Cosi' le piazze si riempiono soltanto per dire no al
massimo prodotto di questo mondo: la guerra. Il mostro che divora le risorse
e permette ai capitali di girare e riciclarsi.
Il ricorso all'aborto da una parte, l'idea del diritto ad un figlio ad ogni
costo dall'altra sono, secondo me, due facce della stessa medaglia. Il
frutto di un sistema che non sa prendersi cura delle persone, che uccide i
"superflui" e che crea bisogni indotti su cui costruire industria e
profitto. E che chiede alle donne, soprattutto, di immolarsi. "Affinche'
arrivi la pace, Aybanu si e' immolata".
*
Partorire figli: se l'atto in se' e' di pura competenza femminile, partorire
figli che odino la guerra e che, di conseguenza, si prendano cura del mondo,
puo' essere demandato alle sole donne? Partorire la pace, la giustizia, il
bene, il futuro dell'umanita', puo' essere responsabilita' solo femminile?
Quando sul tema del rapporto uomo-donna e' uscita la lettera di Ratzinger,
molte femministe hanno solidarizzato con il cardinale. Non le ho capite:
egli non faceva che ribadire furbescamente il concetto che la cura e' tipica
dell'essere donna. Caricando sulle spalle delle donne cio' che per millenni
tutti hanno, piu' o meno, cercato di caricare: l'essere custodi e
responsabili della vita degli altri e del futuro della vita stessa.
Intanto abbiamo costruito una societa' che si basa sulla dittatura del
profitto ad ogni costo, dove l'unica cosa che conta e' produrre e dove non
c'e' piu' spazio per la cura.
E' pura ipocrisia, allora, parlare di aborto come omicidio, quando non si
mettono le donne e i loro compagni nella condizione di desiderare un figlio,
di poterlo crescere nella serena speranza del domani.
L'aborto e' una violenza sulla donna, e' uno dei suoi tanti dolori, ma
quante volte nella vita una donna e' costretta ad uccidere qualcosa dentro
di se', a sacrificare parti di se', della sua esistenza, dei suoi sogni, per
il "bene" di altri?
L'aborto e' uno dei tanti sacrifici che una societa', fondata essenzialmente
sull'efficienza e la produzione, chiede alla donna. Rinfacciandole poi,
ipocritamente, di essere una criminale. E legiferare per proteggere gli
ovociti dalla sperimentazione, quando nessuna legge (che io sappia) mette
freni alla scienza nello studio di nuove, terribili armi, quando non e'
ritenuto criminale mandare in giro a schiantarsi missili foderati di uranio
impoverito, anzi: e' un "intervento umanitario", credo che sia un grottesco
paradosso. Che le radiazioni non fanno bene agli esseri umani, ai feti,
anche a quelli che nessuno vuole abortire, lo sappiamo.
*
"La grande sfida per l'essere umano- afferma Leonardo Boff- e' combinare
lavoro e cura... La cura e' stata diffamata come femminilizzazione
dell'agire umano, come impedimento all'oggettivita' nella comprensione e
come ostacolo all'efficienza. La dittatura del modo-di-essere del
lavoro-dominazione sta conducendo attualmente l'umanita' a una impasse
cruciale: o mettiamo limiti alla voracita' produttivistica, associando
lavoro e cura, o andiamo incontro alla catastrofe... Secondo Illich la crisi
si puo' trasformare in una catastrofe di dimensioni apocalittiche. Ma puo'
anche essere una chance unica per definire un uso conviviale degli strumenti
tecnologici a servizio della conservazione del pianeta, del benessere
dell'umanita' e della cooperazione tra i popoli. Per giungere a questa nuova
piattaforma - continua il teologo- probabilmente l'umanita' dovra' passare
attraverso un sinistro 'venerdi' santo' che precipitera' nell'abisso la
dittature del modo-di-essere del lavoro-produzione-materiale. Solo allora ci
potra' essere una domenica di risurrezione, la ricostruzione della societa'
mondiale sulla base della cura".

2. RIFLESSIONE. VALERIA ANDO': LA DONNA PLANETARIA
[Ringraziamo Valeria Ando' (per contatti: andov at tin.it) per averci messo a
disposizione la sua relazione tenuta nel corso della X settimana alfonsiana
"Oltre la tolleranza nelle pluralita' il futuro" (Palermo, 18/26 settembre
2004), pubblicata in "Segno", anno XXX, n. 260, pp. 28-37. Valeria Ando' e'
docente di Cultura greca all'Universita' di Palermo, direttrice del Cisap
(Centro interdipartimentale di ricerche sulle forme di produzione e di
trasmissione del sapere nelle societa' antiche e moderne), autrice di molti
saggi, ha tra l'altro curato l'edizione di Ippocrate, Natura della donna,
Rizzoli, Milano 2000. Opere di Valeria Ando': (a cura di), Saperi bocciati:
riforma dellíistruzione, discipline e senso degli studi, Carocci, Roma 2002;
con Andrea Cozzo (a cura di), Pensare all'antica. A chi servono i filosofi?,
Carocci, Roma 2002]

Se dovessi dare un titolo a questa mia relazione, posta nella sezione della
settimana alfonsiana intitolata "L'uomo planetario", con un pizzico di
provocazione ma anche per una forte sollecitazione etica e politica, la
intitolerei "Donna planetaria".
Mi spiego subito. Proprio qui, nel contesto di queste giornate di
riflessione in cui le pluralita', in quanto portatrici di ricchezza e di
autentica crescita umana, vengono valorizzate e poste come orizzonte ultimo
per l'umanita' futura, mi sembra doveroso porre l'accento sulla differenza
primaria che ci attraversa tutti, quella tra uomini e donne, evitando quindi
di fare discorsi in apparenza "neutri", ma che in realta' producono la
cancellazione e l'oblio di una specificita': quella femminile.
Rompere il silenzio sulle donne e porre a tema la loro presenza nel pianeta
in questo momento della storia significa per me da un lato rendere evidenti
i danni vistosi che il processo di globalizzazione in atto sta comportando
per le donne in quanto tali, dall'altro individuare il potenziale ruolo che
l'essere donna sottende, proprio nella costruzione di un futuro che sia
realmente "oltre la tolleranza".
Su entrambi questi livelli cerchero' di condurre il mio discorso.
*
A proposito del primo punto, con un'espressione altrettanto provocatoria,
potrei dire che la specifica condizione delle donne nel pianeta e' "ben al
di qua della tolleranza".
Certo, la forte contraddizione, che arriva fino alla inconciliabilita' tra
diritti umani e globalizzazione, riguarda tutti gli individui, maschi e
femmine. Un'esistenza dignitosa, assicurata dalla possibilita' di disporre
di beni primari, e' preclusa a gran parte di cittadini/e della terra.
L'occidentalizzazione universalizzante, l'egemonia economica dei paesi
ricchi e industrializzati confliggono palesemente con il dichiarato
obiettivo di emancipazione e benessere per tutti, inibendo potenziali spinte
all'autodeterminazione. Se questo e' vero, e' stato anche rilevato da piu'
parti come proprio le donne siano i soggetti deboli che stanno pagando il
prezzo piu' alto conseguente al processo di globalizzazione.
Nelle aree industrializzate del sud del mondo, dove sono sorte spettrali
fabbriche isolate da qualunque insediamento, le donne, lasciando le loro
case nelle campagne, hanno offerto manodopera a bassissimo costo per le
imprese, accettando orari massacranti e condizioni di lavoro disumane. Nelle
industrie manifatturiere infatti la netta maggioranza dei lavoratori e'
costituita da giovani donne non sposate, tra i 18 e i 25 anni, disposte a
vivere in alienanti dormitori, senza nessun contatto con i luoghi nei quali
lavorano, con una forte nostalgia del paese di provenienza, private di tutto
il loro mondo affettivo, per vivere soltanto del lavoro delle loro mani. Ma
essendo spesso le uniche a lavorare in famiglie numerose, garantiscono un
reddito sia pur minimo, e questa condizione di estremo bisogno le rende
ricattabili e dunque sottomesse ai datori di lavoro (maschi), che instaurano
con loro una vera e propria relazione di potere. E' stato esplicitamente
dichiarato da parte dei dirigenti delle fabbriche che "preferiscono giovani
donne lontane da casa che non hanno finito la scuola perche' 'sono
spaventate e non conoscono i loro diritti'" (1). Sicche', a fronte di un
salario basso, l'orario di lavoro e' dalle 7 alle 22, ma talora arriva anche
alle 2 di notte, e, in taluni casi, dietro distribuzione di anfetamine, i
turni sono di 48 ore consecutive. La sindacalizzazione e' repressa
attraverso forme ricattatorie e, cosa ancor piu' disumana, la maternita' e'
di fatto impedita: spesso la gravidanza accertata determina l'immediato
licenziamento e, anche quando le donne gravide mantengono il posto di
lavoro, l'orario e le condizioni massacranti provocano aborti spontanei.
Un'enorme forza lavoro di donne senza figli e' al centro, nel sud del mondo,
di quella produzione pronta per il consumo nei paesi del nord del mondo.
*
Ma l'effetto forse piu' devastante della globalizzazione e' il diffusissimo
fenomeno della prostituzione. Spinte dal bisogno, vagheggiando un futuro di
affrancamento e di emancipazione, le piu' giovani tra le donne del sud del
mondo entrano nel circuito di sfruttamento non solo del loro corpo, come le
altre lavoratrici, ma della loro sessualita': il mercato globale sessuale ha
raggiunto cifre elevatissime. In un rapporto di Pino Arlacchi, del 1999, le
prostitute immigrate in Italia sono stimate fino a 25.000 (2). Altro
inquietante fenomeno di sfruttamento e' il cosiddetto turismo sessuale, con
un giro di 5 miliardi di dollari l'anno (3).
Il corpo delle donne dunque e' diventato merce pregiata, ma al contempo a
basso costo, da sfruttare nel mercato globale, sia come forza lavoro sia
come oggetto sessuale.
*
Ma il corpo femminile non e' soltanto merce, e' anche, dai tempi piu'
lontani della storia, ambita preda dei vincitori.
In questi ultimi anni in cui stiamo vivendo una "guerra infinita", sempre
piu' efferata e crudele, la violazione del corpo delle donne, gli stupri
etnici, l'abuso sessuale da parte dei soldati occupanti sono stati
l'insopportabile effetto di una guerra sbagliata e ingiusta, ancor piu' di
tutte le guerre combattute nel corso della storia, in quanto e' quella che
maggiormente mistifica le sue motivazioni e i suoi obiettivi.
Nonostante il lucido invito di Simone Weil a "non ricominciare la guerra di
Troia", le guerre di questi ultimi anni continuano ad essere combattute per
ideali astratti, che si scrivono con l'iniziale maiuscola, la Democrazia, la
Lotta al Terrorismo, la Difesa delle Liberta' democratiche, presentati come
realta' assolute che prescindono da contesti e situazioni, mentre la
concretezza dei corpi martoriati viene taciuta, in un silenzio omertoso e
complice.
La guerra produce dunque un altro dolore, acuto, bruciante, sanguinante, che
si iscrive nel corpo in modo ancor piu' devastante dello sfruttamento
sessuale. Parlo del dolore per la morte in guerra degli uomini, i mariti, i
fratelli, e soprattutto i figli. La guerra distrugge, spazza via, il lavoro
di riproduzione della vita. La vita che il corpo delle donne e' in grado di
dare, per specificita' biologica, e che viene salvaguardata e protetta dal
ruolo culturale che le donne ricoprono nella quotidianita', viene consegnata
alla morte in guerra. Anzi, poiche' le guerre moderne non risparmiano la
popolazione civile, non piu' solo gli uomini che combattono incontrano la
morte, ma intere famiglie, case, villaggi: proprio il tessuto della vita,
intrecciato dalle donne, anzi l'intero ordine simbolico femminile viene
devastato, e nelle forme piu' atroci (4).
*
La guerra e le donne sembrano dunque porsi su piani insanabilmente
antitetici.
Non intendo, lo chiarisco subito, riprodurre il mito di un "naturale"
pacifismo femminile contro un'altrettanto "naturale" aggressivita' maschile.
Questo mito non ha resistito di fronte ad indagini di tipo sociologico o
psicologico, e soprattutto ai dati di realta' provenienti dalle cronache. Le
donne soldato, le terroriste dei commandos ceceni, le kamikaze palestinesi
sono inquietanti e dolorosi esempi di un malinteso senso di parita' col
sesso maschile, l'omologazione a un modello bellico e militarista che
storicamente e culturalmente non ci appartiene, come ha mostrato tra gli
altri Robin Morgan.
Questa estraneita', storica e culturale, delle donne rispetto a modelli che
si basano sulla forza, la competizione, il desiderio di sopraffazione e
annientamento dell'altro - estraneita' messa a tema in forma esplicita da
Virginia Woolf, nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale -
dovrebbe essere assunta con consapevolezza dalla Donna planetaria, e fare di
questa estraneita' la molla per l'agire politico.
L'iscrizione delle donne in una storia culturale di assoggettamento
all'ordine patriarcale dovrebbe darci chiara coscienza della nostra
appartenenza ad una genealogia femminile storicamente portatrice di valori
opposti a quelli patriarcali.
Intendo dire che le donne, proprio a partire dall'esperienza del femminismo,
hanno imparato a riconoscere, sperimentandoli su di se', gli strumenti
attraverso i quali il sistema patriarcale si e' imposto.
Johan Galtung, uno dei maggiori studiosi del pensiero della nonviolenza, non
esita a definire il patriarcato "un'istituzionalizzazione del dominio
maschile" che esercita violenza nelle tre forme individuate dallo stesso
studioso, cioe' violenza diretta, strutturale e culturale. La violenza
diretta, cioe' l'esercizio della forza fino alla lesione del corpo e le
ferite dell'anima, e' compiuta al 95% da individui di sesso maschile; la
violenza strutturale, che comporta lo sfruttamento e la sottomissione
attraverso le stesse strutture sociali, ha visto e vede, come ho detto in
apertura, le donne come le piu' esposte e piu' deboli vittime; la violenza
culturale, che agisce attraverso elementi della cultura, primo tra tutti il
linguaggio, legittima di fatto la violenza diretta e quella strutturale (5).
A tutte e tre queste forme di violenza il femminismo ha reagito, opponendo
strumenti di lotta che, come ha notato Lidia Menapace, hanno costituito,
assieme al movimento operaio, l'unica rivoluzione nonviolenta della storia.
Le donne dunque, in virtu' della loro collocazione storica in una posizione
di minorita', hanno saputo riconoscere e combattere il potere, fino a
quando, alcuni anni fa, e' stata annunciata con "salti di gioia" la fine del
patriarcato. Eppure sappiamo anche che cio' cui stiamo assistendo sono i
colpi di coda di un sistema di potere che affonda le sue radici nell'ordine
dei padri.
*
Occorre prendere responsabilmente coscienza del carattere sessuato e non
neutro che presiede al Nuovo Ordine Mondiale, sicche' tutti, uomini e donne,
riconoscendo il nostro posto nella storia, possiamo costruire una
cittadinanza globale.
La via che propongo, percorribile in egual misura sia dalla donne sia dagli
uomini, e' quella della "femminilizzazione della politica".
Si tratta a mio avviso di attingere al patrimonio di esperienze, di
pratiche, di riflessioni che le donne hanno maturato nel corso della storia
e segnatamente negli ultimi trent'anni.
Comincio da una parola d'ordine della politica delle donne, che fa
riferimento ad una pratica che ha aperto spazi di consapevolezza e liberta'.
Mi riferisco al "partire da se'", che significa partire dal nostro corpo,
con i vissuti che lo hanno attraversato, e dalla nostra storia, storia
personale e storia culturale del genere cui noi donne apparteniamo.
Significa anche "iniziare qualcosa, o meglio farsi inizio... Mettersi in
gioco in una realta', facendola essere e cosi' facendosi essere. Qualcosa,
questo, che puo' avvenire solo in una dimensione di apertura di se' allo
spazio a sua volta aperto dalle relazioni con altri nel mondo" (6).
Farsi inizio dunque, sapendo che dalla profonda trasformazione di ciascuno/a
di noi puo' iniziare il cambiamento. Trasformarsi significa innanzi tutto
dare voce al silenzio dentro di noi, spegnendo i rumori di pensieri e parole
ancora contaminati dalla violenza e dall'intolleranza, e aprirsi ad
autentiche relazioni con l'Altro. Per far questo occorre riappropriarsi,
facendone un gesto politico, della sapienza su cui si e' fondato il lavoro
che tradizionalmente e' stato delle donne, portandolo fuori dallo spazio
chiuso della casa e facendolo giocare nei luoghi pubblici della politica.
Non si tratta, beninteso, della acritica e passiva accettazione dei ruoli
femminili che sono stati escludenti e segreganti; al contrario occorre fare
di questi ruoli oggetto di elaborazione di pensiero e di produzione di
pratiche politiche. Su entrambi questi piani, quello speculativo e
filosofico e quello dell'azione politica, i riferimenti sono ormai numerosi
e autorevoli.
*
Su una nozione soprattutto vorrei riflettere, perche' e' quella che ingloba
al suo interno l'opera culturale delle donne: e' la nozione di cura, di cui
il lavoro materno rappresenta una specifica espressione.
Per coglierne piu' efficacemente la portata vorrei stabilire una
correlazione con la categoria di nascita, la cui centralita' e' stata
oggetto della riflessione filosofica di Hannah Arendt. Rovesciando il
percorso del pensiero occidentale, che da Platone in poi ha considerato la
morte il punto sul quale orientare l'esistenza individuale e la tensione
etica, Arendt considera invece la nascita il momento incipitario che
contraddistingue la condizione umana: una sua celebre affermazione e' che
"gli uomini sono natali"; e' la nascita l'accadimento che da' origine ad una
nuova esistenza, consentendo all'essere che e' nato di apparire nel mondo
tra altri esseri umani, e da qui iniziare il suo percorso che lo portera' a
seguire, in modo unico e irripetibile, le tappe di un destino che, oltre il
lavoro e la produzione, prevede, come elemento connotante, l'agire politico
nel contesto comunitario.
La filosofia femminile, come e' noto, proprio partendo dalla riflessione
arendtiana, ha compiuto un decisivo passo che ha condotto ad una vera e
propria rivoluzione del pensiero. Porre al centro la nascita significa
infatti evidenziare un elemento, pur ovvio, e tuttavia puntualmente
dimenticato a livello culturale, cioe' che tutti gli esseri umani sono "nati
da donna", devono la loro vita ad un corpo femminile, provenendo da una
dimora fluida e calda, al riparo dalla ferocia degli uomini, come evoca una
suggestiva pagina di Francesca Traina (7). Ma nonostante l'ovvieta', l'oblio
del materno o meglio il matricidio simbolico e' stato un elemento
macroscopico della nostra cultura, su cui l'ordine dei padri ha potuto
costruire il suo sistema.
Ritornare a quel momento incipitario, a quel luogo d'origine da cui ha preso
inizio la vita di ciascuno/a di noi comporta un modo diverso di orientarsi
nel mondo. Significa infatti per tutti/e noi, figli/e di una donna, potere
sentire ancora la ferita originaria, il distacco, la separazione che,
consentendoci di vivere un'esistenza singola e individuale, ha pero' segnato
una dolorosa perdita, una mancanza, un desiderio.
Certo, un soggetto femminile, che si riconosce dello stesso sesso della
madre, ha impressa nella propria vicenda genealogica questa carenza
originaria, la sente iscritta nel proprio corpo, se ne appropria. Molte
donne riproducono l'esperienza della madre e, da figlie, diventano madri
anch'esse; attraverso la maternita', la dolorosa ferita dell'incompletezza
sperimenta il progetto ardito di una nuova fusione, anch'essa destinata al
taglio, alla separazione, non appena una nuova vita viene alla luce.
Divenire madri non e' l'egoistico e onnipotente desiderio di completezza,
ma, al contrario, la tensione, l'apertura all'Altro, la disposizione a
decentrare il proprio se' in un altro essere.
Scrive Luisa Muraro: "Nascere donna vuol dire nascere predisposta allo
sbilanciamento del centro di gravita' che si sposta in altro, fuori di se'"
(8). Questo strutturale decentramento del proprio essere, l'impossibilita'
del ripiegamento narcisistico su di se', la relazionalita' intrinseca alla
maternita' possono avere luogo in quanto si sostanziano del sentimento
d'amore.
*
Non intendo fare la retorica dell'amore materno, innato o naturale. Sappiamo
quanto contraddittorio, conflittuale, carico di tensioni negative puo'
essere il rapporto di una madre verso i/le figli/e. Mi riferisco alla
possibilita' di trasformare l'esperienza della maternita' in consapevole
modo d'essere e di disporsi nelle relazioni con le/gli altre/i.
Come scrive sempre Muraro: "C'e' qualcosa perche' c'e' mancanza che chiama
senza disperarsi, c'e' essere perche' l'amore fa del niente un passaggio al
suo avvenimento" (9). La dolorosa carenza dovuta alla ferita originaria
innesca cioe' un movimento d'amore, che non si esaurisce mai
nell'appagamento ma mantiene irrisolta e sospesa la tensione.
Questa e' la acrobatica capacita' dell'amore materno, di attualizzarsi in
una forma di contenimento, sospeso tra se' e l'Altro, che non impone vincoli
o catene, ma anzi prevede strutturalmente la separazione. Perche' l'Altro
esista occorre che l'amore rinunci al possesso, facendolo esistere altro da
se', e in questo trovare una nuova misura del proprio stesso essere.
Per questo l'amore materno non e' fatto di statica contemplazione
dell'oggetto d'amore, ma si manifesta e realizza appunto nel prendersi cura,
nozione ricca che ha alla base una concezione unitaria dell'essere umano,
come tutto inscindibile di corpo e psiche. Il lavoro di cura e' interamente
rivolto a soggetti, non ad oggetti, e comporta per cio' stesso l'immersione
nel mondo fisico e affettivo. Cura e' infatti nutrimento, accudimento delle
esigenze del corpo, risposta ai bisogni materiali, ma anche ascolto,
compassione, empatia, assunzione su di se' del dolore dell'Altro.
Ma, se e' la nostalgia della completezza che porta a riattraversare
l'esperienza materna aprendosi alla vita di un altro essere, allora,
iscritto nell'amore materno rimane questo bisogno, questo desiderio, che e'
bisogno e desiderio dell'alterita'. Questo imprime alla cura un movimento
circolare e non lineare, e tanto meno dall'alto in basso: mi prendo cura
perche' io stessa ho bisogno di cura. In quanto essere umano strutturalmente
carente, divengo soggetto che da' cura ma anche oggetto di cura (10). In tal
modo la soggettivita' materna si costruisce come costitutiva tensione verso
l'alterita', come ricerca di relazioni reciproche in cui l'offerta di se'
rivela al contempo il proprio bisogno: una circolarita' di amore in grado di
curare e sostenere la dolorosita' della condizione umana.
Inoltre la separazione come condizione di possibilita' dell'esistenza del
figlio/a comporta un atteggiamento ambivalente tra responsabilita' e ricerca
dell'individualita' autonoma, nel senso che al doveroso sforzo per il
raggiungimento dell'autonomia del/la figlio/a si accompagna senza
contraddizione il forte senso di responsabilita' per la sua vita. Ancora una
volta dunque non alterita' in quanto distanza, poiche' l'amore di cui si
sostanzia la cura materna contiene, sostiene responsabilmente, fa vivere, in
un legame strutturalmente libero. Scrive Sara Ruddick: "Amare un figlio
senza appropriarsene o usarlo, vedere la sua realta' con il paziente,
affettuoso sguardo dell'attenzione: questo e' il tipo di amore e di zelo che
puo' descrivere bene la separazione tra madre e figlio dal punto di vista
della madre" (11).
*
Il materno di cui ho parlato finora e' l'elaborazione dell'esperienza reale
della maternita' sperimentata dai corpi delle donne.
La mia proposta e' di procedere oltre nella riflessione e considerare la
soggettivita' materna un possibile modello su cui costruire la nuova
soggettivita' nel futuro, anche da parte di donne che non sono madri, per
scelta o per eventi del caso e, paradossalmente, anche degli uomini.
Perche' se e' vero che la maternita' reale e' esperibile solo da corpo di
donna, e' vero anche, come ho evidenziato, che tutti/e siamo nati da donna e
che la tensione alla relazionalita' reciproca e' impressa in ogni essere
umano. Non voglio con questo eludere le differenze tra donna e donna ne' la
differenza maschile, e tanto meno prospettare una semplicistica e univoca
soluzione all'irrisolto conflitto tra i sessi: penso che il sapere sotteso
all'esperienza della maternita', teoricamente elaborato, possa essere
assunto nelle pratiche, dopo secoli nei quali i saperi femminili sono stati
cancellati o almeno subordinati ai saperi maschili dominanti, con gli esiti
cui stiamo assistendo.
Il modello di relazionalita' fornito dalla maternita' consente a mio avviso,
ed e' questo il senso della mia proposta, di costruire una nuova politica,
nuove forme di socialita', solidale e nonviolenta. Attraverso essa infatti
si passa da una visione dell'alterita' oppositiva e distante, sia pur nel
rispetto della diversita' (come e' appunto l'atteggiamento di tolleranza),
ad una visione inclusiva e aperta alle differenze.
Se l'alterita' e' costitutiva della soggettivita' materna, non solo l'Altro
e' oggetto di amore e di cura responsabile, ma e' come un figlio al quale
fare dono e dal quale ricevere dono, in uno scambio che arricchisce
mutuamente. Sicuramente l'Altro non e' il nemico al quale fare la guerra.
*
E ritorno alla estraneita' dalla guerra, non piu' soltanto storica e
antropologica per le donne, ma da assumere coscientemente come esito di una
riflessione sulla condizione umana, attraverso la riappropriazione e
valorizzazione del materno.
Non parlo semplicemente del dato, pur ovvio, che le madri, generatrici di
vita, vogliono tutelarla contro istanze di morte. Ma parlo invece della
assunzione, con consapevole gesto politico, della soggettivita' materna come
possibilita' di trasformazione di se', in vista della costruzione di una
personalita' e di una societa' nonviolenta.
La pratica materna, come sostiene ancora Sara Ruddick, "appare come una
lotta verso la nonviolenza, una lotta per non colpire cio' che e' strano o
diverso, per non permettere che la paura o la lealta' verso i propri figli
porti a maltrattare quelli degli altri" (12). Non un sentimentale pacifismo
dunque ma un'acquisizione che richiede impegno nella lotta contro la
violenza.
*
Questo elemento della conflittualita' costituisce un tratto essenziale della
teoria e della pratica della nonviolenza, finora non emerso dal mio
discorso, che ha privilegiato gli aspetti della maternita' legati
all'empatia, all'ascolto, alla compassione, all'apertura all'Altro.
La conflittualita' nonviolenta comporta la capacita' di aprire e condurre il
conflitto con l'avversario secondo una modalita' che trasforma la lotta in
possibilita' di relazione, di crescita e rinnovamento del proprio se', in
incontro creativo.
Il conflitto, come con sorprendente consonanza dichiarano la politica delle
donne e la pratica della nonviolenza, va ricercato e non evitato, per il
dovere di intervenire con coraggio in tutte le situazioni di ingiustizia che
ci colpiscono direttamente o indirettamente. Alla necessita' etica di
restituire la giustizia si accompagna la volonta' di trasformare lo scontro
con l'avversario, grazie all'attraversamento doloroso del conflitto, in
incontro fecondo che scardina le nostre parziali verita' e ci apre al
confronto con le verita' dell'Altro, fino a costituire, nello spazio della
negoziazione, possibilita' di rinnovamento e di condivisione.
Si tratta di una forma di conflittualita' che si puo' iscrivere a ragione
all'interno della relazionalita' materna, con una specificita'. La spinta
alla lotta nelle politica delle madri non deriva da un'astratta esigenza
etica di giustizia, ma da necessita' concrete legate alla quotidianita',
dallo sforzo di ristabilire l'ordine di cui sono portatrici, risanando
ferite inflitte ai corpi. La concretezza fisica del dolore e' spesso la
potente molle delle azioni politiche che intraprendono.
*
L'esempio forse piu' fulgido di lotta politica condotta a partire dallo
specifico materno e' quello delle Madres dei desaparecidos argentini, che
hanno intrapreso dal 1977 una lotta nonviolenta contro il regime militare
responsabile delle scomparse e delle morti, e che ancora adesso, non
rassegnate all'impunita' che i governi attuali continuano a concedere ai
responsabili dei crimini di allora, desiderose di ottenere giustizia
continuano la loro azione di pubblica protesta. Si ritrovano ogni giovedi'
in Plaza de Mayo, davanti al palazzo del governo, dove andarono per la prima
volta con le fotografie dei figli scomparsi, sfidando la repressione della
polizia, anzi facendosi volontariamente arrestare; in seguito, per
riconoscersi, indossarono un fazzoletto bianco, che altro non era che un
pannolino dei figli bambini, dove ricamarono i nomi degli scomparsi. Il
lutto irreparabile, il dolore per la perdita dei figli sono stati dunque il
motore dell'instancabile azione politica di queste donne che, ormai vecchie,
continuano a combattere, non piu' soltanto per ottenere giustizia per i loro
figli ma, assumendosi la maternita' di tutti i diseredati argentini, dei
bambini che frugano nella spazzatura, lottano per ottenere per loro
condizioni di giustizia.
E non soltanto per l'Argentina queste donne continuano a lottare, ma
intervengono nelle molte situazioni di ingiustizia sociale nel mondo, dove
non risparmiano il loro intervento coraggioso e la loro voce autorevole.
Nella loro azione politica la loro identita' di madri e' centrale, anzi e'
proprio la maternita' a conferire vigore alla loro lotta. Nel prezioso
piccolo libro che hanno pubblicato, dal titolo Non un passo indietro, che
raccoglie le testimonianze della loro storia, scrivono: "Ogni mattina, nel
momento del risveglio, noi Madres pensiamo alla nuova giornata di lavoro
alla quale ci chiamano i nostri figli. Loro sono in piazza..., loro che ci
hanno partorito alla vita, alle nostre posizioni, alle nostre attivita', a
tutto cio' che siamo oggi" (p. 47).
Essere partorite dai figli significa nascere, grazie alla maternita', alla
dimensione pubblica, traendo da un dolore che riguarda la sfera del privato
energia propulsiva per la lotta politica. Esse combattono per la giustizia
con la stessa tenacia con cui hanno combattuto per la scomparsa dei loro
figli, come se fossero madri di tutti i figli del mondo. Dicono ancora, in
una commossa lettera ai figli morti: "La tua lotta e' nella Plaza de Mayo.
Li', ogni giovedi' sento che dal tuo braccio sto partorendo altri figli che,
come te, mi insegnano il cammino migliore, quello dell'amore e della
solidarieta'" (p 102). E ancora: "Noi Madres dimostriamo che esistono mille
modi per essere un rivoluzionario: migliorandosi ogni giorno, essendo
solidali con gli altri, amando il prossimo" (p 88).
La socializzazione della maternita', la politica "fatta con amore e con i
sentimenti" (p. 127) e' la concretizzazione, in una reale esperienza di
lotta, di quella femminilizzazione della politica di cui parlavo. Proprio
perche' radicata in una relazione d'amore, la politica delle madri immette
nello spazio pubblico la forza dei sentimenti, come dichiarano
esplicitamente: "Non si puo' lottare se non si gode la vita. Se non si gode
la musica, il teatro, le marce, il sole, l'alba, il tramonto, l'amore...
Perche' no? Anche l'amore. Loro ci hanno insegnato che per lottare e'
necessario godere, che c'e' bisogno di saper ridere. Per lottare e'
necessario saper abbracciare" (pp. 188-189).
Questo abbraccio a fondamento della lotta politica mi pare sintetizzi in
un'immagine di grande efficacia quanto il femminile e il materno possano
contribuire alla costruzione di un futuro realmente oltre la tolleranza.
*
Note
1. N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Milano 2001,
p. 204.
2. P. Arlacchi, Schiavi. Il nuovo traffico di esseri umani, Milano 1999.
3. Cfr. S. Ongaro, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere
all'economia globale della ri-produzione, Soveria Mannelli 2001.
4. Cfr. T. Plebani, Corpi di pace, corpi di guerra, in Donne disarmanti.
Storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi, a cura di M. Lanfranco e
M. G. Di Rienzo, Napoli 2003, pp. 35-52.
5. J. Galtung, La pace con mezzi pacifici, Milano 2000, il cap. Donna : uomo
= pace : violenza?, pp. 73-89.
6. D. Sartori, Nessuno e' l'autore della propria azione: identita' e azione,
in Diotima, La sapienza di partire da se', Napoli, 1996, pp. 23-57 (cit. a
p. 55).
7. F. Traina, Dimore d'acqua, in "Mezzocielo", XII, 4, 2004, p. 2.
8. L. Muraro, La maestra di Socrate e la mia, in Diotima, Approfittare
dell'assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Napoli 2002, pp. 27-43
(la citazione a p. 38).
9. Ivi, p. 43.
10. Per questa riflessione cfr. il bel libro di E. Pulcini, Il potere di
unire. Femminile, desiderio, cura, Torino 2003, che parla di "soggetto
contaminato".
11. S. Ruddick, Il pensiero materno. Pacifismo, antimilitarismo nonviolenza:
il pensiero della differenza per una nuova politica, Como 1993 (1989), p.
153.
12. Ivi, p. 75.

3. RIFLESSIONE. ANGELA DOGLIOTTI MARASSO: UNA STORIA PER LA PACE
[Ringraziamo Angela Dogliotti Marasso (per contatti: maradoglio@libero:it)
per averci messo a disposizione questo suo articolo pubblicato sulla rivista
"Ecole" nel fascicolo del febbraio 2005 monografico sul tema Pedagogia della
nonviolenza. Angela Dogliotti Marasso, rappresentante autorevolissima del
Movimento Internazionale della Riconciliazione e del Movimento Nonviolento,
svolge attivita' di ricerca e formazione presso il Centro studi "Sereno
Regis" di Torino e fa parte della Commissione di educazione alla pace
dell'International peace research association; studiosa e testimone,
educatrice e formatrice, e' una delle figure piu' nitide della nonviolenza
in Italia. Tra le sue opere segnaliamo particolarmente Aggressivita' e
violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino; il saggio su Domenico Sereno Regis,
in AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia - Movimento Nonviolento,
Torino - Verona 1999; e il recente volume in collaborazione con Maria Chiara
Tropea, La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 2003]

"La storia degli ebrei danesi e' una storia sui generis, e il comportamento
della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro
paese d'Europa. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie
in tutte le universita' ove vi sia una facolta' di scienze politiche, per
dare un'idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza
passiva, anche se l'avversario e' violento e dispone di mezzi infinitamente
superiori". E' quanto scrive Hannah Arendt (1) a proposito del caso degli
ebrei danesi salvati in massa dallo sterminio nazista grazie alla resistenza
civile messa in atto dai  danesi per proteggerli.
E' il caso piu' straordinario, forse, date le circostanze in cui e'
avvenuto, ma comportamenti di resistenza senza armi, di "resistenza civile",
come verra' definita in seguito (2), sono stati numerosi, nel corso della
lotta antinazista come in altri momenti e contesti storici.
Un bel libro di Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi.
Storie di donne (1940-45) (3), mette in luce e da' valore a quei
comportamenti di opposizione non armata al nazifascismo, messi in atto in
modo particolare da donne (come l'aiuto dato ai soldati sbandati dopo l'8
settembre 1943, il sostegno agli ebrei perseguitati, le azioni di diffusione
della stampa clandestina, gli interventi volti a contenere la violenza  e a
contrastare l'occupazione), con l'intento di ampliare lo sguardo e superare
l'ottica, ancora prevalente, che interpreta la Resistenza come un evento
essenzialmente armato e maschile. Anna Maria Bruzzone, insieme a Rachele
Farina, nell'ormai classico testo La resistenza taciuta, uscito nel 1976 e
recentemente ripubblicato (4), pur non utilizzando il concetto di resistenza
civile, di fatto di questo parlano, quando raccontano le esperienze di
partigianato delle donne, che su dodici casi analizzati, almeno in dieci non
si caratterizza come una resistenza armata.
Il concetto di resistenza civile e' relativamente recente ed in Italia e'
entrato a pieno titolo nel dibattito storiografico proprio anche grazie a
testi come quelli citati, soprattutto in occasione dell'ampio confronto
svoltosi in occasione del cinquantennale  della Resistenza.
*
Ma quanto di tutto cio' e' giunto nelle nostre scuole ed ha lasciato traccia
nei libri di testo, a quasi un decennio di distanza? Molto poco, purtroppo.
Eppure sarebbe un chiaro esempio di come si possa leggere la storia
facendone emergere aspetti finora nascosti, che sono significativi per una
storia di pace. Scrive infatti Jacques Semelin: "... la nostra memoria e'
selettiva. Si perde nel tempo restituendoci del passato solo cio' che
rafforza i nostri schemi mentali e le nostre convinzioni. Il problema della
difesa si fonda in gran parte sull'esperienza che ci proviene dal passato.
Se la nostra memoria collettiva non conserva che i fatti violenti, e'
evidente che le soluzioni che troveremo per l'oggi al problema della guerra
non potranno che essere soluzioni militari. Al contrario, se recuperiamo dal
passato le tracce di un'altra storia, di un'altra difesa, di una resistenza
non militare che ha mostrato qua e la' la sua efficacia nel corso dei
secoli, allora il moderno discorso sulla difesa non potra' che essere
radicalmente trasformato" (5).
Tutto cio' appare quanto mai urgente e necessario in questo momento
drammatico e di guerra, insicurezze e paure, frutto di una tragica
rilegittimazione di comportamenti e culture violente a tutti i livelli.
Che cosa potrebbe significare, dunque, rivedere il curricolo di storia in
una simile prospettiva?
E' certamente un tema troppo complesso e vasto per essere affrontato
adeguatamente nello spazio di un articolo come questo, ma  provo ad
individuare, schematicamente, alcune direzioni di lavoro in quella
direzione.
*
1. Ampliare lo sguardo: la storia non e' solo storia di guerre.
La storia, come sappiamo, risponde alle domande che le vengono poste: se
l'ottica storiografica privilegia i fatti politico-militari,
l'histoire-bataille, la storia non puo' che apparire come una interminabile
serie di eventi bellici, in cui la pace e' concepita unicamente come lo
spazio che intercorre tra due guerre. A livello di senso comune la storia e'
ancora molto connotata in tal modo.
A questo proposito Gandhi scrive: "La storia comunemente conosciuta e' la
registrazione delle guerre del mondo... Nella storia troviamo accuratamente
registrato come i re hanno agito, come sono divenuti nemici di altri re,
come si sono uccisi l'un l'altro; se nel mondo fosse avvenuto soltanto
questo l'umanita' avrebbe cessato di esistere da lungo tempo. Se la storia
dell'universo fosse iniziata con le guerre, oggi non sarebbe vivo un solo
uomo". E ancora: "Il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo
dimostra che questo non e' fondato sulla forza delle armi ma sulla forza
della verita' e dell'amore. Dunque la prova piu' grande e inconfutabile del
successo di questa forza deve essere vista nel fatto che malgrado tutte le
guerre che si sono avute nel mondo, questo continua ad esistere... La storia
in realta' e' una registrazione di ogni interruzione della costante azione
della forza dell'amore o dell'anima" (6).
Da tempo, pero', l'angustia della visuale che identifica la storia come
histoire-bataille e' stata superata dalla comunita' degli storici. La
storiografia del Novecento ha proseguito l'opera di ampliamento dello
sguardo (basti pensare al ruolo svolto a questo proposito dalla scuola
francese delle "Annales", per fare solo l'esempio piu' noto), allargando la
prospettiva di analisi alla vita quotidiana nel suo contesto geografico,
ecologico, economico, tecnologico, materiale e culturale, fino ad
"affrontare lo studio degli esseri umani non solo rispetto al potere
politico, alle strutture economiche, all'organizzazione sociale, ma anche
rispetto ai comportamenti interpersonali, ai meccanismi psicologici e
conoscitivi, agli interessi, alle idee, alle immagini che stanno nella testa
degli individui" (7).
In questa storia  "totale", a piu' dimensioni, in questo intricato complesso
di eventi di vario tipo, la vita e la morte si intrecciano, il conflitto
puo' assumere i connotati distruttivi della guerra ma anche quelli
costruttivi di una nuova conquista sociale, e la violenza fa parte della
storia cosi' come le altre modalita' umane di relazione.
Utilizzare questo approccio storiografico nell'insegnamento della storia
significa gia' far emergere, dunque, aspetti di una storia di pace.
*
2. Dotarsi di "occhiali" per vedere cio' che altrimenti non si vedrebbe.
Per vedere cio' che e' reso invisibile da approcci storiografici troppo
condizionati da una cultura violenta e' necessario costruire nuovi
strumenti, nuovi concetti euristici, come e' stato, ad esempio, quello di
resistenza civile richiamato sopra.
Per affrontare la ricerca specifica sulla storia della pace nel suo
complesso, fin dall'inizio del secolo, ma soprattutto dagli anni Sessanta in
poi, e' nata la Peace History.
Secondo uno degli approcci presenti in questo specifico settore di indagine,
la Peace History e' "lo studio delle cause e delle conseguenze storiche dei
conflitti internazionali e della ricerca storica di alternative alla
risoluzione violenta dei conflitti" (Conferenza di Stadtschlaining, 1986);
mentre da altri studiosi e' intesa in modo piu' restrittivo, come "lo studio
delle idee, degli individui e delle organizzazioni impegnati nella
promozione della pace e nella prevenzione della guerra e dei conflitti
internazionali" (Conferenza di Stadtschlaining, 1991).
Ancora oggi, tra gli storici della Peace History il dibattito e' aperto.
Coloro che aderiscono ad una visione piu' ristretta della ricerca storica
sulla pace sostengono che e' gia' molto importante far conoscere il pensiero
e l'azione di uno dei piu' significativi movimenti sociali del nostro tempo,
il movimento per la pace. Essi affermano, inoltre, che interrogarsi sulle
ragioni dei successi e dei fallimenti dei movimenti pacifisti puo' dare
utili indicazioni su cio' che promuove  o ostacola la pace in un determinato
contesto storico.
Chi invece e' fautore di un approccio piu' ampio ritiene che, cosi' come la
storia delle donne non puo' essere ricondotta unicamente a quella dei
movimenti femministi o quella del lavoro alla storia dei movimenti
sindacali, cosi' la storia della pace e' ben piu' ampia di quella
dell'attivismo pacifista e comporta l'assunzione di una specifica
prospettiva nell'indagare la storia nel suo complesso.
Essa, in particolare, e' inseparabile dalla storia delle guerre. Spiegare
come si giunge ad una guerra significa infatti capire cio' che ha ostacolato
la pace e quali interessi e giochi di forze, nel loro insieme, hanno
contribuito a produrre un esito piuttosto di un altro.
Secondo Sharp, fare storia della pace significa in particolare elaborare
nuovi strumenti concettuali per poter leggere la storia secondo un'ottica
nonviolenta: "Per le molteplici forme che un conflitto militare puo'
assumere esiste da tempo uno strumento concettuale globale che probabilmente
ha contribuito a rendere le guerre oggetto di tanto interesse. Questo
interesse per la guerra ha prodotto a sua volta studi storici e strategici
utilizzati nelle guerre successive. Ma fino ad un'epoca molto recente
l'azione nonviolenta non ha avuto una tradizione consapevole altrettanto
paragonabile. Una tradizione di questo tipo avrebbe probabilmente orientato
l'attenzione su molte di queste lotte misconosciute e ci avrebbe potuto
procurare le conoscenze da impiegare in nuovi casi di azione nonviolenta"
(8).
*
3. Assumere alcuni presupposti metodologici.
- Vedere le relazioni, i processi, le dinamiche dietro i "fatti". Nonostante
l'assunzione della dimensione temporale sia infatti una operazione specifica
del discorso storico,  talvolta nell'insegnamento della storia i fatti sono
appiattiti al punto tale da perdere il loro spessore  di eventi che si
producono nel tempo e in quanto tali si intrecciano con altri e si dipanano
secondo dinamiche e processi che vanno riconosciuti perche' vi possa essere
"comprensione storica" di quanto avvenuto. Cio' e' particolarmente rilevante
quando si tratta di comprendere i motivi di una guerra o le dinamiche di un
conflitto;
- Affrontare l'analisi dei conflitti evidenziando i punti di vista e gli
interessi di tutte le parti coinvolte. Si veda, ad esempio, nel caso
emblematico del conflitto israelo-palestinese, il prezioso testo "La storia
dell'altro" (9), un manuale di storia per le scuole prodotto da due gruppi
di insegnanti, palestinesi e israeliani, con una duplice narrazione storica
che procede parallelamente, mettendo in evidenza i punti di vista, spesso
contrastanti, delle due parti. Cio' aiuta a comprendere un aspetto
essenziale nella trasformazione nonviolenta dei conflitti: saper riconoscere
e far emergere le "verita'" e gli obiettivi legittimi di ciascuno;
- La storia "ufficiale" e' scritta dai vincitori: qual e' il punto di vista
dei vinti? Cio' che e' stato fatto dai vincitori sarebbe stato considerato
ugualmente "legittimo" se fosse stato compiuto dai vinti?
*
Con simili operazioni si puo' prendere coscienza di  alcune premesse
implicite del senso comune storiografico e si puo' fare un utile esercizio
di analisi critica che aiuta ad allargare gli orizzonti e a divenire
consapevoli  dei meccanismi di produzione del discorso storiografico stesso
e dei suoi fondamenti culturali. Questo consente di svelare alcuni "miti",
come quello che la guerra sia un prodotto necessario ed ineliminabile della
storia umana.
Per uscire dallo stato di impotenza di fronte agli eventi, usare il potere
positivo di cui ciascuno dispone, dare il proprio contributo civile e
politico alla vita della collettivita' e' necessario saper trovare nella
storia, accanto alla violenza e alla devastazione prodotte da guerre e
genocidi, anche gli esempi di un diverso paradigma di pensiero e di azione,
capace di trasformare in profondita' le strutture stesse della nostra
cultura politica per orientarle alla pace.
*
Note
1. Hannah Arendt, La banalita' del male, Feltrinelli, Milano 1993, p.178.
2. Si veda a questo proposito il fondamentale testo di Jacques Semelin,
Senz'armi di fronte a Hitler, Sonda, Torino 1993.
3. Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne
(1940-1945), Laterza, Roma-Bari 1995.
4. Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite
di partigiane piemontesi, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
5. Jacques Semelin, Dossier di "Non-violence politique", n. 2, Montargis
1983,  p. 4 , trad. it.: Resistenze civili, le lezioni della storia, La
Meridiana, Molfetta 1993.
6. Mohandas K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino,
nuova edizione 1996, pp. 64-65.
7. Luisa Passerini (a cura di), Storia orale, vita quotidiana e cultura
materiale delle classi subalterne,  Rosenberg & Sellier, Torino 1978,
Introduzione, p. VIII.
8. Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1985, vol. I, p. 135.
9. Peace Research Institute in the Middle East, La storia dell'"altro",
israeliani e palestinesi, una citta', Forli' 2003.

4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

5. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 872 del 18 marzo 2005

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