La nonviolenza e' in cammino. 866



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 866 del 12 marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Enrico Peyretti: La nonviolenza e' regola, le eccezioni sono fallimenti
2. Di alcuni temi di un saggio di Anna Bravo
3. Giancarla Codrignani: La violenza, le donne
4. Costruttrici di pace a Gerusalemme
5. Alberto Conci presenta "Il sapore della liberta'" di Marcelo Barros e
Francesco Comina
6. Pietro Montani presenta "Ermeneutica della finitezza" di Donatella Di
Cesare
7. Diana Sartori: Presentazione della rivista "Per amore del mondo"
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. ENRICO PEYRETTI: LA NONVIOLENZA E' REGOLA, LE ECCEZIONI SONO
FALLIMENTI
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo
foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace
e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la
sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia
storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente
edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha
curato la traduzione italiana), e una recentissima edizione aggiornata e'
nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei
siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei
principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di
questo notiziario]

La vita ha in se' una forza per cui, almeno in parte, ripara e guarisce se
stessa. Mi viene il paragone con le ginocchia dei bambini vivaci, sempre
sbucciate e sempre in guarigione. Non e' cosi' facile e bello nella storia.
I grandi mali continuano a far male e a fare vittime nei secoli. Ma,
mescolati agli effetti negativi, possono verificarsi effetti positivi.
Questi, pero', non permettono di cambiare giudizio sul male. Oggi accade
che, per qualche fatto che da' speranza, nel complesso panorama
internazionale, qualcuno assolva come benefica la criminale ingiustificabile
guerra degli Usa (i maggiori produttori di violenza nel mondo) all'Iraq.
Quindi, si dice, va bene la nonviolenza, ma bisogna ammettere casi in cui va
bene usare la violenza. E i nonviolenti sono accusati di astratto
ideologismo, di fondamentalismo pacifista, di assolutismo irresponsabile.
Tutti coloro che meglio pensano e vivono l'impegno nonviolento, a cominciare
da Gandhi, esplicito su questo (1), sanno che, nelle strette della storia,
non si puo' farne un assoluto. Nel conflitto fra doveri - la nonviolenza da
un lato, la liberazione dalla violenza in atto per salvarne le vittime,
dall'altro lato - non sempre e' possibile, oppure non sempre riusciamo a
vedere la possibilita', di una integrale nonviolenza. In breve, senza
sviluppare ora di piu' l'analisi di questo problema (2), credo di poter dire
che l'importante e' capovolgere la logica tuttora dominante anche nella
filosofia politica, che fa della violenza la regola ultima dell'azione
storica nei conflitti acuti e dello stesso concetto di stato (secondo la
definizione di Max Weber comunemente accettata: lo stato come monopolio
della violenza legittima), e vede nella nonviolenza una possibilita' rara,
eccezionale, fortunata.
L'opzione morale e politica della nonviolenza non e' proponibile come
assoluta, in tutti i casi che si possono presentare, ma puo' e deve essere
decisa come regola, salvo drammatiche eccezioni di necessita'. La
nonviolenza e' quindi una regola con eccezioni, e non un'eccezione alla
regola (3). Questa impostazione e' responsabile e realistica, piu' della
realpolitik, perche' risparmia tanti piu' errori e dolori, e tanto di piu'
difende le vite e i diritti (4).
Ma non voglio, col dir questo, essere inteso come se riconoscessi uno spazio
di legittimita' alla guerra e un suo ruolo moralmente tollerabile nelle
relazioni umane e politiche. Non voglio concedere un sollievo al pensiero
che legittima o tollera una funzione della violenza. La guerra,
esclusivamente di stretta difesa, puo' essere una necessita', ma resta
sempre una piu' che triste necessita', una caduta nell'impotenza, un
fallimento anche quando ha successo nel respingere un'aggressione, mai una
gloria, mai un vanto, mai un diritto. La guerra non e' altro che uccidere,
un'uccisione di massa, e, anche se imposta dall'avversario, anche se vinta
con effetto liberante, e' una sconfitta umana e una vergogna (5). La
politica, per essere politica, costruzione e non distruzione del vivere
insieme, deve ripudiare la guerra sistematicamente, in linea di principio e
nelle conseguenze legislative, pratiche, operative, strumentali.
*
Anche la guerra di difesa deve essere superata: la difesa armata omicida e'
uno stadio barbaro e feroce dell'azione che rivendica il diritto aggredito.
Difende e non aggredisce, ma uccide come chi aggredisce. Uccidere  puo'
essere una tragica necessita', se non si e' predisposto altro mezzo di
difesa, ma non e' mai un dovere, mai un diritto, mai un successo (6). La
difesa armata omicida e' ancora piu' vendetta che difesa, piu' ritorsione
che riparo. La difesa civile, sociale, non armata - in Italia denominata
meglio Difesa Popolare Nonviolenta - e' possibile, se c'e' la volonta' di
conoscere e attuare un modello umano, non omicida, di difesa che resiste,
frustra e respinge la violenza; e' programmabile, se se ne volessero
conoscere le esperienze storiche e le molte tecniche sperimentate. Gli
apparati statali in generale dicono impraticabile quello che non hanno mai
neppure tentato di conoscere davvero e non hanno mai minimamente
organizzato, finanziato, strutturato in una misura almeno centesimale
rispetto a cio' che profondono in spese e risorse umane e materiali nella
struttura militare omicida: "Una cosa e' dire: bisogna ricorrere alla
violenza il meno possibile; altra cosa e' dire: bisogna ricorrere alla
nonviolenza il piu' possibile" (7). Gli stati si comportano cosi' perche'
sono tradizionalmente e strutturalmente legati all'apparato
militar-industriale (8), spesso anche con vincoli di interessi personali di
dirigenti statali nella grande industria militare, attivamente interessata a
provocare guerre utili a consumare con profitto cruento e ad aggiornare i
suoi strumenti omicidi.
*
Il fatto che noi non possiamo ancora, oggi, adottare come regola assoluta la
nonviolenza nei conflitti su vasta scala sociale, come la adottiamo nei
rapporti interpersonali, dove l'omicidio non e' mai ammesso ma sempre punito
(9), non dipende da un limite del principio del non uccidere, ma dipende,
per un verso, dalla complessita' non tutta prevedibile delle situazioni che
possono verificarsi e dal conflitto di doveri opposti, e, per un altro verso
piu' determinante ancora, dalla debolezza dell'opzione morale e culturale di
ripudio della violenza nella politica. Come e' finora prevalentemente
concepita, vincolata alla angusta antropologia machiavellica e hobbesiana,
la politica e' intrisa fino al midollo, anche nelle democrazie formali, di
un uso cinico del potere degli uni sugli altri. La concezione che abbiamo di
noi stessi e delle nostre possibilita' di convivere costruttivamente, e'
cosi' bassa e disperata, cosi' succube delle vicende negative, cosi' priva
di fede incoraggiante e stimolante del miglioramento umano, cosi' ignara
delle possibilita' di quello che Ernesto Balducci, sulla scorta di Ernst
Bloch, chiamava "l'uomo inedito" (10), dentro l'uomo edito che noi siamo,
quella concezione - dicevo - e' tale che ci fa credere necessario, per non
ucciderci tra noi, che il potere statale abbia su di noi un minaccioso
diritto, che e' in realta' un diritto di vita e di morte, anche dove non
c'e' la pena capitale, ma c'e' la possibilita' della guerra (11). Questo
falso diritto bisogna arrivare a negare. Noi siamo ancora nella preistoria
della politica umana. Noi dobbiamo umanizzare questa nostra storia. Sappiamo
inventare mille trovate tecnologiche e non sappiamo ancora inventare forme
politiche del tutto libere dall'uccidere. La democrazia e' un parziale
inizio di nonviolenza (contare le teste invece di tagliarle), ma
assolutamente insufficiente, perche' non abolisce la guerra, non e'
determinata a realizzare universalmente il diritto alla vita che vuole
affermare all'interno, perche' usa ancora pene violente.
*
Note
1. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996, pp. 18
e ss., 69 e ss. Anche Gandhi si e' trovato, ovviamente, a dover decidere in
un serio conflitto fra doveri diversi: op. cit.,  p. 103.
2. Giuliano Pontara precisa con chiarezza che la nonviolenza non e' un
principio assoluto e fanatico, e risponde cosi' alla critica frequente per
cui essa mancherebbe al dovere di impedire efficacemente una precedente
violenza. Proprio in base all'etica della responsabilita' (cioe' degli
effetti dell'atto) e non dei principi o delle intenzioni, Pontara sostiene
"la tesi per cui e' desiderabile che, a livello pratico, di morale positiva,
gli individui interiorizzino una norma che proibisce l'uso della violenza"
(La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, pp. 46-47,
ma vedi da p. 42 a p. 48). Questa interiorizzazione pratica, anche se non
teoricamente assoluta, del rifiuto della violenza e' la via piu' efficace,
percio' piu' responsabile, per ridurre globalmente la violenza e per
inventare alternative ad essa nei conflitti. Lo stesso problema Pontara
tocca altrove (Antigone e Creonte. Etica e politica nell'era atomica,
Editori Riuniti, Roma 1990) concludendo: "Parrebbe necessario che in pratica
il nonviolento debba accettare quella norma che proibisce assolutamente
l'uso della violenza che in teoria, come ho accennato sopra, non parrebbe
sostenibile" (pp. XII-XIV della Introduzione).
3. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace,
Edizioni Plus, Pisa 2004, pp. 229, 274-275.
4. Jean-Marie Muller, op. cit., p. 294, 302.
5. Vedi ampiamente il mio libro Dov'e' la vittoria? Piccola antologia aperta
sulla vacuita' e fallacia del vincere, Il Segno dei Gabrielli editori, S.
Pietro a Cariano, 2005.
6. Mentre per Gandhi uccidere puo' essere addirittura, in certe circostanze,
un dovere, un imperativo della nonviolenza (Teoria e pratica della
nonviolenza, cit., pp. 69 e ss., ma anche p. 22 e 344), per Jean-Marie
Muller "la giustificazione della violenza con la necessita' e' la prova che
la violenza non ha una giustificazione umana" (op. cit., p. 69), e "la
necessita' di uccidere non sopprime affatto il comandamento di non uccidere"
(ivi, p. 78); lo stato di necessita' non permette di rendere dovere o
diritto la violenza dell'uccidere (v. ancora la pp. 80, 275, 289, 292).
7. Jean-Marie Muller, opera citata, p. 296; vedi anche p. 209.
8. Giuliano Pontara lo definisce piu' completamente "complesso
militare-industriale-accademico-burocratico", in Guerre, disobbedienza
civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, p. 10.
9. Il principio della legittima difesa personale, che puo' scusare
penalmente anche chi uccide per non essere ucciso, si basa sul giudizio
insostituibile, entro la situazione immediata, della coscienza personale
dell'aggredito. Ma nessuno puo' ordinare ad un altro di uccidere. Ogni
esercito, invece, e' basato su questo comando, rafforzato da dura disciplina
spersonalizzante. Non si puo' evitare una considerazione che sembra condurre
a negare ogni possibilita' morale di un esercito.
10. Vedi principalmente Ernesto Balducci, La terra del tramonto. Saggio
sulla transizione, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi)
1992, passim e, in particolare, p. 12 e pp. 49 e ss.
11. Anche Norberto Bobbio nel libro Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla
pace e la guerra, Edizioni Sonda, Torino 1989, che raccoglie saggi scritti
durante la guerra fredda, paga il suo tributo all'idea che la pace puo'
soltanto venire imposta, e che, pur necessaria, non e' possibile perche'
manca il "terzo" piu' potente degli antagonisti. Bobbio, tuttavia, dopo la
fine della guerra fredda senza che scoppiasse la guerra calda, ammise in una
corrispondenza epistolare inedita che la saggia paura della "mutua
distruzione assicurata" aveva funzionato da "terzo".

2. RIFLESSIONE. DI ALCUNI TEMI DI UN SAGGIO DI ANNA BRAVO
Il saggio di Anna Bravo che abbiamo riprodotto nei numeri 862-864 di questo
foglio, e  su cui si e' gia' sviluppato in queste settimane un appassionato
dibattito (delle questioni che contano appassionatamente si discute) che
vorremmo proseguisse e si approfondisse, pone una molteplicita' di temi di
straordinaria rilevanza e densita', ciascuno dei quali merita una
riflessione appropriata. Proviamo ad elencarne alcuni.
*
Il tema della memoria e dell'empatia (e anche dell'immaginazione
anticipatrice).
Il tema della nascita e il tema dell'aborto, e quindi della vita, della sua
formazione e interruzione, e quindi della morte, tema che evoca per un verso
anche quelli della temporalita', della relazione, del formarsi della persona
umana attraverso un lungo tragitto non meramente biologico; per un altro
verso quelli dello scacco, del dolore, del concrescere di un vivente in un
altro vivente e dell'esposizione al rischio e al fallimento di un progetto
esistenziale; per un altro verso ancora il nesso e i distinguo tra materia
vivente, organismo umano, persona. Il tema del mettere al mondo il mondo,
della maternita' come evento decisivo della vicenda umana nella sua
dimensione storica e nella sua dimensione esistenziale, nella sua fisica
concretezza e nella sua materialita' culturale; nel nodo che lega psiche e
soma; individuo, genere e specie; vita, caducita' e storia.
Il tema del legiferare, e della formazione e delle funzioni del diritto e
del potere e della regolazione delle interazioni nello spazio pubblico, e
dei legami e delle differenze tra campo politico, giuridico, morale,
esistenziale.
Il tema della violenza e della politica. Che e' anche il tema della
sofferenza, della condivisione, dell'oppressione, del riconoscimento; della
totalita' e del nulla che parimenti annientano; e del relativo e del
qualcosa, della relazione e dell'alterita', che parimenti aprono al rischio,
al varco, all'abisso, alla salvezza forse, alla responsabilita' sempre.
Il tema della sofferenza, anche della vita non umana, e della cura per il
mondo. E quindi del rapporto tra persona e cosmo, tra umanita' e natura.
Il tema delle difficolta' della storiografia quando s'intreccia con i
vissuti.
*
E soprattutto, e decisivo, il tema del sentire, del pensare, dell'agire
delle donne, ed in particolare del femminismo, che e' stato non solo per
tutte, ma per tutti una seconda nascita (cosi' Anna Bravo), un taglio (cosi'
Ida Dominijanni), una cesura che rompe il continuum ma insieme scandisce e
ricompone, e una novitas che ha cambiato la vita, consentito e avviato
l'esodo e la liberazione da tragiche aporie, aperto percorsi inediti di
felicita' possibile, di solidarieta' creaturale e creativa.
Il pensiero e la prassi delle donne, e soprattutto del movimento delle donne
nelle sue molteplici esperienze ed espressioni - dei femminismi, per dirla
in una parola -, che e' l'esperienza storica, epistemologica ed assiologica
decisiva e trainante, cruciale e aggettante, di cio' che chiamiamo la
nonviolenza in cammino: ovvero la nonviolenza come scelta e prassi insieme
di trasformazione sociale e di riconoscimento esistenziale, metodologia
ermeneutica ed esperienza relazionale, infinita e responsiva apertura
all'alterita', liberazione pensata e agita - concretamente, contestualmente,
dialetticamente/dialogicamente - nella plenitudine del principio
responsabilita', dell'eguaglianza da costruire fondandola nel riconoscimento
delle differenze, dell'umanizzazione dell'umanita'
Il tema della nonviolenza, quindi, che con la riflessione e le esperienze
delle donne si intreccia, e per cosi' dire nella teoria e nella prassi delle
donne ha trovato il suo luogo di massima emersione, disvelamento, verifica,
elaborazione.
*
Vorremmo che la ricchezza e pluralita' di proposte di ricerca, di
riflessione, di interrogazione che il saggio di Anna Bravo offre e suscita
non venisse sepolta dalla pervasiva pressione del sistema dei mass-media
(della societa' dello spettacolo) che predilige e sollecita letture
schematiche e frettolose per cercar di costruire polemiche
sensazionalistiche e indurre pronunciamenti sommari. Laddove invece il
saggio di Anna Bravo propone e richiede una ricerca comune che richiede,
ancora una volta, capacita' di ascolto profondo in dialogica apertura,
l'attenzione di cui diceva Simone Weil, l'amore per il mondo di cui diceva
Hannah Arendt, il cuore pensante di Etty Hillesum, la stanza e le ghinee di
Virginia.
De te fabula narratur. Questa storia parla di noi.

3. RIFLESSIONE. GIANCARLA CODRIGNANI: LA VIOLENZA, LE DONNE
[Ringraziamo Giancarla Codrignani (per contatti: giancodri at libero.it) per
averci messo a disposizione questo suo intervento pubblicato su "Noi donne"
di marzo 2005. Giancarla Codrignani, presidente della Loc (Lega degli
obiettori di coscienza al servizio militare), gia' parlamentare, saggista,
impegnata nei movimenti di liberazione, di solidarieta' e per la pace, e'
tra le figure piu' rappresentative della cultura e dell'impegno per la pace
e la nonviolenza. Tra le opere di Giancarla Codrignani: L'odissea intorno ai
telai, Thema, Bologna 1989; Amerindiana, Terra Nuova, Roma 1992; Ecuba e le
altre, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1994]

Anche le donne sperimentano i loro revisionismi?
Il dibattito che si e' sviluppato su "Repubblica" attorno al saggio di Anna
Bravo - pubblicato su "Genesis", la rivista della Societa' delle storiche -
intitolato "Noi e la violenza: trent'anni per pensarci" farebbe pensare di
si'. Davvero il nostro e' un tempo di ri-pensamenti: se venissero solo per
raddrizzare gli schematismi, sarebbero i benvenuti.
In realta' la discussione su "violenza e aborto" - o, per dir meglio "la
violenza dell'aborto sul feto" piu' che essere "revisionista" e
rappresentare un'involontaria collusione con il "Movimento per la vita",
rappresenta una delle tante "differenze tra noi" rispetto al tema di fondo
della violenza.
Piu' la analizziamo, piu' scopriamo che e' uno di quei nomi plurali il cui
significato si rifrange infinite volte con aspetti specifici sulla storia
delle donne e sulle loro esperienze personali. Chi ha fatto la Resistenza,
chi si e' solo impegnata nella campagna per il divorzio, chi ha fatto
politica per la prima volta con la legge e il referendum sull'aborto, chi
oggi non fa ne' politica ne' femminismo e' segnata da differenze profonde,
perfino a livello simbolico, rispetto al campo sconfinato della violenza.
La partigiana che, finita la guerra, aveva deposto le armi con l'intenzione
di rimuoverle per sempre dalla storia (e che tuttavia restava intrappolata a
fianco di un uomo che la faceva seguire a piedi l'asino che lui cavalcava, o
che abortiva con il prezzemolo che l'avvelenava) votava per il divorzio e
per l'aborto senza alcuna idea di femminismo. Le sostenitrici del divorzio
avevano limpidamente a cuore la loro dignita', non il mainstreaming.
L'interruzione volontaria di gravidanza, agitata dalla minoranza radicale,
ha coinvolto in una risposta corale tutte le donne: non dimentichiamo che la
legge fu mantenuta dal 67% dei votanti - con una chiara egemonia femminile,
in cui ebbero parte anche moltissime cattoliche - contro una "piaga sociale"
che, punita dal codice, restava nascosta nella vergogna, soprattutto delle
piu' povere, e nell'ipocrisia della societa' che la rimuoveva.
Non va dimenticato che la maggioranza delle donne che "dovevano" ricorrere
all'aborto era - ed e' ancora - quella delle coniugate. Durante la campagna,
a Napoli, una donna, di fronte alla richiesta che anche il partner dovesse
dare l'assenso per l'interruzione di gravidanza, rivendicava l'autonomia
delle donne, ricordando che era proprio il marito a rifiutare di essere
coinvolto: "ti do la mia busta-paga; sei tu che sai se ce la fai a tenere un
altro figlio...".
In questo contesto facevano rumore le posizioni di quelle che allora erano
piu' giovani ed erano in genere legate alle aree politiche
"extraparlamentari", gli "angeli del ciclostile", come Natalia Aspesi
ricorda: cittadine uguali per un principio egualitario che si contrapponeva
all'emancipazionismo, ma non teneva conto pienamente della "differenza di
genere" che pure studiavano. In quell'area puo' esserci stata una certa
indifferenza materialistica rispetto alle pratiche abortive, anche perche'
era di moda un'ingenua disponibilita' a "darla" piuttosto che a prevenire
gravidanze indesiderate. I radicali (maschi) erano sbrigativi e brutali
nella loro difesa delle legittimita' dell'aborto, ma Adele Faccio, che aveva
fatto un figlio e che conosceva il muoversi del suo corpo nel grembo, non fu
mai "violenta" se non contro l'ipocrisia di chi voleva le donne colpevoli e
sottomesse.
Intendiamoci: per far approvare una legge che coinvolgesse la societa' nella
responsabilita' delle interruzioni di gravidanza volontarie, bisognava
partire dal riconoscimento della "maternita' libera e consapevole". Era un
principio che ancor oggi dovrebbe riconoscere il rapporto sessuale fecondo
solo per il consenso della donna; fu tuttavia inteso da molte come un
cedimento rispetto all'assoluta autonomia della donna.
Non si parlava allora "a difesa" del feto o dell'embrione; come ritengo che
non se ne dovrebbe trattare oggi, dato che questo, si', incrinerebbe la
liberta' femminile, se e' vero che giuridicamente (che e' il piano che
dobbiamo tenere presente) sarebbe immediato il conflitto di interesse fra
due soggetti di tutela per legge, la madre e il figlio, e si incomincerebbe
a discutere di responsabilita' civile (puo' la donna mettere a repentaglio
la vita del feto se cade perche' va a spasso liberamente?) o di norme
patrimoniali (l'embrione puo' ereditare?). Chi fa riferimento ai feti o agli
embrioni come a oggetti di violenza e pensa alle loro eventuali sofferenze,
puo' farlo nell'ambito religioso, morale o scientifico. Dal punto di vista
delle leggi significa solo identificare feti ed embrioni come "persone", con
tutti i conflitti che ne derivano. Per questo i documenti dell'epoca -
discorsi parlamentari, interventi socio-politici e scientifici - non
trattano sotto quest'angolatura l'argomento, cosi' come ancora oggi -
davanti al referendum per la fecondazione assistita - ritengo impropria piu'
che inopportuna la difesa della personalita' del feto.
Le donne sono, come gli uomini, ignare di che cosa siano la vita e la morte,
ma per quella che e' la loro competenza - piu' diretta e interiorizzata di
quella maschile - sanno che e' in loro due volte, perche' si sentono viventi
e perche' possono riprodurre l'umanita' nel loro corpo. Processo complesso
che conoscono anche solo intuitivamente, ma che le rende consapevoli delle
modalita' della gestazione, della presenza interna al loro corpo, dei
movimenti del piccolo visibile solo dall'ecografia, della comunicazione con
quello che e' gia' amato senza essere ancora il figlio o la figlia. La
gestazione e' misteriosa, ma le donne l'accolgono con naturalezza,
consapevoli che ogni giorno e' a rischio, che puo' costare la vita e che
migliaia e migliaia di embrioni se ne vanno da soli, senza che neppure ci si
accorga dell'avvenuta ovulazione, salvo un anche piccolo ritardo mestruale.
Di quale violenza sono vittime quei concepiti che scorrono giu' per gli
scarichi? Chi ricorre alla "violenza" la agisce sul suo corpo, sulla sua
coscienza di persona consapevole di intervenire nel processo di vita e di
produrre a se stessa un trauma che durera' per sempre: perche' si parlerebbe
del costo psicologico, se non si sapesse di fare, dopo aver subito,
violenza?
Ricordo molto bene che a suo tempo le donne parlavano della violenza
dell'aborto: volevano una legge proprio per aprire un percorso che,
eliminando la clandestinita', consentisse un futuro senza aborti attraverso
l'impegno pubblico, l'educazione sessuale e la contraccezione.
Dagli anni Ottanta (del secolo scorso) ogni prevenzione e' stata rimossa e
le donne si sono dovute arrangiare, emancipandosi nel prendere le
iniziative, imponendo il preservativo ai loro uomini, proteggendosi con i
contraccettivi, avviandosi al sesso libero come i maschi. L'emancipazione
omologata non e' una gran cosa, perche' rimuove l'idea di violenza e la
riduce a mero incidente; inoltre riguarda ancora poche ragazze, che appaiono
piu' visibili nelle inchieste giornalistiche. La maggioranza resta
abbastanza "ignara", si trovano ancora ragazze che "si devono sposare" per
una gravidanza imprevista in arrivo e, anche se diminuiscono gli aborti, gli
uomini continuano a restano abbastanza indifferenti e irresponsabili. Eppure
per evitare anche i conflitti con gli embrioni, basterebbe che chiedessero
alla loro donna se e' disposta a diventare madre in conseguenza del loro,
magari reciproco, desiderio. Ma gli uomini fanno conto di non sapere come
nascono i bambini e la liberta' delle donne e' affidata alla sorte.
Nel caso che una donna si trovi incinta senza averlo voluto, e', come dice
il linguaggio popolare,"nei guai": perche' mai dovrebbe ubbidire alla legge
dell'uomo e diventare custode del suo seme, sola colpevole di una violenza
che segue a un'altra violenza?
Nessuna dice che si debba far ricorso alla interruzione din gravidanza ne'
che sia una soluzione facile; si dice solo che nessuno puo' sostituirsi a
chi vi fa ricorso e che la societa' la sostiene.
Anna Bravo fa bene a richiamare il problema del "fare violenza", ma la sua
analisi storica resta parziale proprio storicamente. Come per gli altri
revisionismi: la violenza va combattuta in tutte le aree che ne sono
infiltrate, a patto che non si carichino di violenza proprio le iniziative,
anche forti e drammatiche, di chi cerca di rimuovere la violenza dalla
storia.

4. ESPERIENZE. COSTRUTTRICI DI PACE A GERUSALEMME
[Dall'Associazione per i popoli minacciati / Gesellschaft fuer bedrohte
Voelker" (per contatti: info at gfbv.it) riceviamo e diffondiamo]

Sabato 12 marzo 2005 a Berna (Svizzera) verra' assegnato il premio biennale
per la liberta' e i diritti umani a due donne che si sono distinte per la
loro capacita' di dialogo e mediazione nel conflitto israeliano-palestinese:
Zahira Kamal, palestinese, e Naomi Chazan, israeliana, lavorano entrambe per
organizzazioni di donne che aderiscono al coordinamento di pace "Jerusalem
Link". Tra coloro che hanno ricevuto questo premio di carattere
internazionale, figurano ad esempio Jeanne Hersch, Boutros-Boutros Ghali,
Yehudi Menuhin e il Dalai Lama. La fondazione con sede a Berna e' presieduta
da Lotta Jacobi.
Zahira Kamal, nata nel 1946 a Gerusalemme, e' collaboratrice del "Board of
Trustees" del "Jerusalem Center of Women" che aderisce al coordinamento
"Jerusalem Link". E' Ministro per le questioni femminili dell'Autorita'
autonoma palestinese ed ex-presidente della Federazione palestinese "Women's
Action Committees".
Naomi Chazan, nata nel 1946 a Gerusalemme e' collaboratrice del comitato
direttivo di "Bat Shalom", che partecipa anch'esso al "Jerusalem Link". E'
professoressa di scienze politiche e di studi africani all'Universita'
ebraica di Gerusalemme e deputata al Parlamento israeliano, la Knesset.
Le due donne si sono distinte per il loro instancabile impegno prestato
all'interno dell'organizzazione femminile israelo-palestinese "Jerusalem
Link" nella creazione di un ponte di dialogo fra le parti in conflitto.
Questa organizzazione segue una politica di pace femminile e gestisce una
rete di collegamenti in un contesto dominato da separazione e violenza.
Per ulteriori informazioni: www.batshalom.org, www.wameed.org,
www.peacewomen.org

5. LIBRI. ALBERTO CONCI PRESENTA "IL SAPORE DELLA LIBERTA'" DI MARCELO
BARROS E FRANCESCO COMINA
[Ringraziamo Francesco Comina (per contatti: f.comina at ladige.it) per averci
inviato questo articolo di Alberto Conci apparso sul quotidiano "L'Adige".
Alberto Conci e' docente di religione e di etica, apprezzato studioso di
teologia e di bioetica, collaboratore di varie riviste, e' una delle figure
piu' note e  stimate nella scuola, nella societa' civile e nella vita
ecclesiale trentina. Opere di Alberto Conci: Dietrich Bonhoeffer. La
responsabilita' della pace, Edb, Bologna 1995.
Marcelo Barros, monaco brasiliano, teologo della liberazione, priore del
monastero benedettino di Goias Velho, impegnato per i diritti umani di tutti
gli esseri umani, ha scritto con Francesco Comina il libro Il sapore della
liberta', La meridiana, Molfetta (Bari) 2005.
Francesco Comina, giornalista e saggista, pacifista nonviolento, e'
impegnato nel movimento di Pax Christi; nato a Bolzano nel 1967, laureatosi
con una tesi su Raimon (Raimundo) Panikkar, collabora a varie riviste. Opere
di Francesco Comina: Non giuro a Hitler, Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo (Mi) 2000; (con Marcelo Barros), Il sapore della liberta', La
meridiana, Molfetta (Ba) 2005; ha contribuito al libro di AA. VV., Le
periferie della memoria, Anppia - Movimento Nonviolento, Torino-Verona; e a
AA. VV., Giubileo purificato, Emi, Bologna]

Il sapore della liberta' (La Meridiana, Molfetta 2005) e' prima di tutto un
incontro: quello fra un giornalista italiano - Francesco Comina, della
redazione bolzanina dell'"Adige" - che molto ha scritto sui temi della pace
e della nonviolenza, e un monaco brasiliano - Marcelo Barros - "assieme a
Carlos Mesters e frei Betto, uno dei teologi piu' letti ed amati dalle
comunita' ecclesiali di base" (Boff), impegnato nella pastorale della terra
e membro della commissione latinoamericana dell'Associazione ecumenica dei
teologi del terzo mondo (Etawot).
Un libro che, scrive Leonardo Boff nella prefazione, "non si propone come
una riflessione sistematica o uno studio (...), ma come una testimonianza di
vita in forma di dialogo"; un dialogo nel quale i due autori, a partire da
esperienze e prospettive culturali diverse, affrontano in cinque dialoghi il
tema, complesso e affascinante, della liberta'.
Il primo dialogo riguarda la liberta' vissuta nella propria esistenza
personale. Scrive Barros: "Io non mi definisco un uomo libero, piuttosto un
pellegrino della liberta', uno che a diciotto anni e' entrato in un
monastero per essere monaco avendo capito che la vocazione monastica lo
avrebbe reso libero. (...) Nel monastero ho imparato che la mia liberta'
dipende da altri. Se tutto il mondo non fosse libero, io pure non lo sarei".
Il nocciolo della liberta' personale sta qui, nella capacita' di cogliere il
nesso profondo fra la propria storia personale, il proprio anelito alla
realizzazione e alla liberta', e l'anelito alla liberta' degli altri,
soprattutto di coloro che vivono in una condizione di oppressione e di
ingiustizia. Per questo la liberta' non e' solo "un cammino, un orizzonte,
un mito", ma anche "una delle grandi leve che muovono la storia individuale
e collettiva" (Comina), e per questo essa contiene sempre la dimensione
comunitaria, della ricerca e della conquista assieme agli altri.
Il secondo dialogo si snoda attorno al problema della liberta' assediata,
che deve fare i conti con la presenza, spesso drammatica, dell'ingiustizia e
dell'oppressione. Proprio perche' "la lotta per la liberta' e' anche
responsabilita' per gli altri e responsabilita' politica" (Barros), essa non
puo' ignorare le condizioni disumane in cui versa ancora una parte troppo
grande dell'umanita'. E qui Barros ricorda le parole di un vecchio abate di
ottantotto anni, che ebbe a dirgli: "Quando io ero giovane difendevo le
posizioni, avevamo bandiere per le quali vivere e lottare. Oggi la gente
lotta per che cosa? Quali sono le cause collettive che appassionano i
giovani?".
Sono domande cruciali, non solo perche' costringono a interrogarsi sulla
capacita' di trovare assieme una ragione per impegnarsi e assumersi
responsabilita', ma anche perche' la permanenza dell'ingiustizia non e'
indipendente dall'incapacita' di sognare, di criticare un sistema che ha
creato "un apparato tecnocratico che ci domina" (Comina) e che costringe
l'uomo nel vortice del mercato globale nel quale la struttura portante
diventa la velocita'.
Eppure sarebbe necessario, ritiene Barros, rivedere questo modello per
riguadagnare liberta'. e cita il vecchio capo degli indiani Xingu, che gli
fece fermare la macchina sulla strada per Petropolis dicendo: "Tu stai
andando troppo forte e la mia anima non e' capace di seguirmi. E' rimasta
indietro. Io ho perso la mia anima e ora dobbiamo rimanere qui finche' la
mia anima non mi raggiunge; solo recuperandola possiamo continuare".
Il terzo dialogo affronta una questione fondamentale sul piano politico e
antropologico: la liberta' dalla violenza. "Quello che voglio dire - scrive
Comina - e' che, superata la soglia atomica (e l'abbiamo superata di gran
lunga dato che il mondo potrebbe saltare in aria da un momento all'altro
pigiando un semplice bottoncino in codice), urge una mutazione antropologica
a partire dalla coscienza individuale. O noi prendiamo coscienza che da ora
in avanti le nostre azioni e i nostri pensieri debbono rifuggire la violenza
distruttiva, oppure la violenza distruttiva diventera' un'arma rivolta
contro di noi".
Parlare di liberta' significa quindi fare i conti con la possibilita' sempre
presente della violenza, e con la possibilita' estrema di una violenza che
possa mettere fine a interi popoli o addirittura alla vita umana sulla
terra. E significa porsi la domanda sulla possibilita' di estirpare o di
resistere alla presenza del male, "la faccia oscura del mistero della
liberta'" (Barros).
La liberta' dalla violenza non e' dunque solo un problema politico. Al
contrario il comandamento "Tu non ucciderai" investe la domanda sull'essenza
dell'uomo, sul dovere della custodia dell'altro, sul volto stesso di Dio.
Ed e' proprio il volto di Dio ad essere oggetto del quarto dialogo. Un Dio
che "con il suo regno sovverte totalmente l'ordine del mondo, (...) che fa
cadere i potenti dai troni e alza i piu' piccoli", che in Gesu' Cristo
esiste per altri, che guarisce le persone in giorno di sabato, che "proclama
la liberazione delle persone dalle malattie, dal peccato, dalla morte", che
denuncia farisei e sacerdoti, che critica una politica imperiale, che
annuncia il "riequilibrio di un mondo ingiusto", che rovescia le categorie
del potere come garanzia di liberta', che "muore impotente nella sua
assoluta impotenza".
E' il carattere sovversivo del Dio dei profeti, che non lascia nulla di
intatto, che mette in pericolo perfino la nostra stessa visione della
liberta'.
Anche per questo c'e', infine, nella liberta' una profonda dimensione
utopica. Che e' una dimensione che mette in pericolo la realta' del
presente: "L'utopia e' tutto cio' che noi non vogliamo che diventi realta'"
(Turoldo). Ma che e' soprattutto una dimensione che non si gioca e non si
realizza sul piano della liberta' del singolo: "Nessuno - scrive Barros -,
nemmeno Dio, da' la liberta' a qualcuno. La liberta' non si da'. Si
conquista. E per conquistarla io vedo che la mia liberta' e' intimamente
legata alla liberta' degli altri. Io divento piu' libero nella misura in cui
mi comprometto a garantire la liberta' degli altri. Non sarei mai davvero
libero se anche gli altri esseri umani non fossero liberi. La liberta'
diventa quindi una conquista personale e comunitaria".
Non e' questa l'utopia che puo' salvare il mondo?

6. LIBRI. PIETRO MONTANI PRESENTA "ERMENEUTICA DELLA FINITEZZA" DI DONATELLA
DI CESARE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 febbraio 2005.
Pietro Montani, nato a Teramo nel 1946, e' docente di estetica
all'Universita' "La Sapienza" di Roma. Opere di Pietro Montani: Il debito
del linguaggio, Venezia 1986; L'esemplarita' ermeneutica della poesia,
Urbino 1990; Fuori campo, Urbino 1993; C'e' altro da raccontare?, Urbino
1995; Estetica ed ermeneutica, Roma-Bari 1996; L'immaginazione narrativa,
Milano 1999. Tra le edizioni curate da Pietro Montani, quella degli scritti
teorici di Dziga Vertov (L'occhio della rivoluzione, Milano 1976) e quella
delle Opere scelte di Sergej M. Ejzensteijn (in dodici volumi).
Donatella Di Cesare, gia' allieva di Gadamer, docente di filosofia del
linguaggio, e' acuta studiosa della riflessione filosofica contemporanea;
dal sito www.donadice.com riportamo la seguente notizia: "Donatella Di
Cesare si e' laureata in Filosofia nel 1979 all'Universita' La Sapienza di
Roma. Ha proseguito gli studi all'Universita' di Tubinga dove ha conseguito
il dottorato con Eugenio Coseriu nel 1982. Dal 1985 e' stata ricercatrice di
filosofia del linguaggio all'Universita' La Sapienza di Roma. Nel 1996 ha
ottenuto la borsa di studio Alexander von Humboldt presso Hans-Georg Gadamer
all'Universita' di Heidelberg; in questa universita' ha compiuto ricerche
anche presso la Hochschule fuer Juedische Studien. Nel 1998 ha vinto il
concorso di professore associato, nel 2000 quello di professore ordinario.
Dal 2001 e' professore ordinario di filosofia del linguaggio alla facolta'
di filosofia dell'Universita' La Sapienza di Roma. E' membro della Societa'
italiana di filosofia del linguaggio, della Societa' italiana di studi sul
secolo XVIII, della Deutsche Hamann-Gesellschaft, della Academie du Midi,
della Associazione italo-tedesca di Villa Vigoni, dello International
Institut for Hermeneutics, della Heidegger-Gesellschaft, e' membro fondatore
della Walter-Benjamin Gesellschaft. Fa parte della redazione scientifica
dello Jahrbuch fuer philosophische Hermeneutik, dirige la rivista di
filosofia Eidos. Pubblicazioni di Donatella Di Cesare: segnaliamo i seguenti
volumi: Wilhelm von Humboldt y el estudio filosofico de las lenguas,
Anthropos, Barcelona 1999; Die Sprache in der Philosophie von Karl Jaspers,
Francke Verlag Tuebingen-Basel 1996; La semantica nella filosofia greca,
Bulzoni, Roma 1980; ha inoltre curato i seguenti libri: Filosofia,
esistenza, comunicazione in Karl Jaspers, a cura di D. Di Cesare e G.
Cantillo, Loffredo, Napoli 2002; L'essere che puo' essere compreso, e'
linguaggio. Omaggio a Hans-Georg Gadamer, a cura di D. Di Cesare, Il
Melangolo, Genova 2001; "Caro professor Heidegger...". Lettere da Marburgo
1922-1929, a cura di D. Di Cesare, Il melangolo, Genova 2000; Wilhelm von
Humboldt, La diversita' delle lingue, a cura di Donatella Di Cesare,
Laterza, Roma-Bari 1991, 2000. Wilhelm von Humboldt, Ueber die
Verschiedenheit der Sprache, hrsg. und mit einer Einleitung von Donatella Di
Cesare, Paderborn, UTB, 1998; Eugenio Coseriu, Linguistica del testo.
Introduzione all'ermeneutica del senso, a cura di Donatella Di Cesare,
Carocci, Roma 1997, 2000; Lexicon grammaticorum, a cura di T. De Mauro e D.
Di Cesare, Niemeyer, Tuebingen 1996; Torah e filosofia. Percorsi del
pensiero ebraico, a cura di D. Di Cesare e M. Morselli, La Giuntina, Firenze
1993; Karl Jaspers, Il linguaggio. Sul tragico, a cura di Donatella Di
Cesare, Guida, Napoli 1993; Le vie di Babele, a cura di D. Di Cesare e S.
Gensini, Marietti, Milano 1987; Iter babelicum. Studien zur Historiographie
der Linguistik. 1600-1800, a cura di D. Di Cesare e S. Gensini, Nodus
Publikationen, Muenster 1990"]

Tutti sappiamo che cosa significa "comprendere". Ma, come Agostino quando
immaginava di dover rispondere a chi gli chiedesse che cos'e' il tempo,
questo concetto cosi' vitale e decisivo sembra sottrarsi a ogni afferramento
esaustivo se solo proviamo a definirlo. Forse cio' dipende dal fatto che
l'attivita' del comprendere (ma sara' poi un'"attivita'"?) non si lascia
ricondurre a un modello teorico positivo e a una disciplina che lo prenda
specificamente in carico perche', piuttosto, una concezione indeterminata
del comprendere precede e orienta la medesima determinabilita' di oggetti
disciplinari veri e propri. Proprio come un certo indeterminato affidamento
a una "comprensione in genere" precede e orienta le pratiche effettive,
linguistiche e non, con cui di volta in volta ci capita di comprendere - o
di fraintendere - questo e quello. Parlare della comprensione ci
condannerebbe dunque a mantenerci nell'ambito di enunciati generici? E una
filosofia del comprendere - per esempio l'ermeneutica, o la decostruzione -
dovrebbe rinunciare a costituirsi come un pensiero rigoroso? La domanda va
precisata. Se e' vero che il "comprendere in genere" e' qualcosa di
necessariamente indeterminato, ci si deve chiedere se questa
indeterminatezza tolleri o no di essere interrogata in quanto tale in modo
responsabile e non generico. Nel capoverso che precede, per esempio, ho
fatto sul comprendere affermazioni che mi vincolano a una piu' rigorosa
assunzione di responsabilita'. Ho detto che il comprendere e' qualcosa di
"vitale e decisivo". Ho inoltre parlato di "affidamento" e di "precedenza".
Ho messo in dubbio che il comprendere sia un'attivita'. Ho esteso questo
dubbio al fatto che si tratti di un'attivita' in tutti i sensi linguistica.
Lo stesso concetto di "indeterminatezza" del comprendere in genere, infine,
mi vincola all'impegno di un'esplicitazione il piu' possibile determinata.
Faro' alcune considerazioni su queste assunzioni di responsabilita'
lasciandomi guidare dall'ultimo libro di Donatella Di Cesare, Ermeneutica
della finitezza (Guerini, pp. 186, euro 18), che riprende secondo una
specifica curvatura - quella della finitezza, appunto - l'originale discorso
filosofico presentato nel libro precedente, titolato Utopia del comprendere
(Il Melangolo, pp. 347, euro 24), gia' recensito su queste pagine da Franca
D'Agostini.
*
Comincio dal tema piu' intuitivo - quello del comprendere come condizione
presupposta dai parlanti - per segnalare la peculiare e qualificante
intonazione politica con cui Di Cesare lo ripensa, sulla scorta di Kant e di
Gadamer, di Derrida e della tradizione ebraica. Va registrata, anzitutto,
una forte convergenza tra le tesi ermeneutiche sul comprendere e quelle
elaborate da Kant nella Critica della facolta' di giudizio (un libro di cui
Hannah Arendt colse con finezza le implicazioni politiche), dove si parla di
un "sentire che abbiamo in comune", che e' anche un "sentimento della
comunita'", una precomprensione del carattere sensato dell'esperienza in
genere e della sua comunicabilita', almeno possibile. E' notevole che in
molti testi di Gadamer sussista un pensiero del tutto analogo, perfino nella
terminologia: vi si parla infatti di un preludio del comprendere (in quanto
tale non ancora linguistico in senso stretto e non ancora indirizzato su
singoli oggetti della comprensione), da intendere come un affidamento
indeterminato all'altro, a cio' che l'altro ha da dirmi e al fatto stesso
che abbia qualcosa da dirmi. Altrove questo preludio viene ricondotto al
concetto di un "vocativo assoluto" che evidenzia l'iscrizione di un primo e
decisivo tratto di finitezza - piu' precisamente: di espropriazione - nel
fatto del comprendere: non solo noi dipendiamo dall'altro che ci ha gia'
sempre preceduto e che ci ha trasmesso il linguaggio che parliamo (che
dunque non e' mai fino in fondo il nostro), ne dipendiamo anche nel senso
che non possiamo non fare appello al suo ascolto. E' evidente, qui, come una
condizione necessaria (in senso kantiano) della comprensione cominci gia' a
prospettarsi nei termini di un compito ermeneutico interminabile e
aleatorio. Ma il punto piu' significativo non e' solo da cogliere nella
perspicua e chiarificante connessione tra la finitezza del comprendere e
l'in-finita' del compito, sempre necessariamente provvisorio, in cui questa
si articola di fatto (e' il grande tema del carattere dialogico della
comprensione su cui Di Cesare scrive pagine illuminanti soprattutto in
rapporto alla presa di distanza che Gadamer, rileggendo Platone, guadagna da
Heidegger). Il punto piu' significativo sta nella domanda che sorge,
ineludibile, di fronte alla possibilita' che vi siano situazioni in cui il
vocativo assoluto del comprendere puo' essere revocato da un atto di
violenza politica.
Per ciascuno di noi queste situazioni si raccolgono sotto il nome di
Auschwitz. E la domanda che sorge e' la seguente: che cosa significa
comprendere, dopo Auschwitz? Come dovremmo assumere, cioe', la situazione
limite nella quale una condizione di possibilita' del comprendere (il
vocativo assoluto) fu destituita dal suo medesimo carattere condizionante?
*
Comincia a precisarsi, cosi', l'entita' della posta politica inerente alla
finitezza del comprendere: la comprensione e' cosi' poco un'"attivita'" del
soggetto, perfino del soggetto espropriato in quanto dipendente dall'altro,
che in essa si decide della vita e della morte. Il vocativo assoluto,
l'affidamento-dipendenza nei confronti dell'altro che fa del comprendere,
sempre finito, un compito in-finito, rientra piu' profondamente nel dominio
dello Schibboleth, perche' nel suo sussistere e nel suo poter essere
revocato ne va della vita e della morte. Su questo confine la riflessione di
Di Cesare supera ogni versione conciliata del dialogismo ermeneutico e fa
valere, oltre la lezione di Gadamer, nuovi compiti teorici che fanno appello
alla decostruzione derridiana e alle radici ebraiche di un pensiero
dell'interpretazione (da Rosenzweig a Benjamin).
Torniamo alla domanda decisiva: che cosa significa comprendere dopo
Auschwitz? Piu' precisamente: che ne e' del comprendere una volta che gli
siano stati tolti i requisiti di quell'indeterminato "sentimento della
comunicabilita'" che, seguendo Kant e Arendt, precede e condiziona il
dialogo effettivo?
La risposta, anche in questo caso, non puo' che essere politica. Non puo'
che segnare uno spostamento dal dominio ontologico a quello etico,
dall'indagine sull'essere a quella sul dover-essere. Non e' un'ontologia
dell'essere finito (come quella heideggeriana) a poter guidare un pensiero
della comprensione dopo Auschwitz. Il compito grava ora su una filosofia
della finitezza, capace di sintonizzarsi sul debito, che ci riguarda tutti,
di testimoniare cio' che e' stato. Il debito di testimonianza e' dunque la
figura che puo' e deve assumere la comprensione dopo Auschwitz.
Il vincolo posto dall'alterita' in tal modo si raddoppia e il compito di
corrispondergli raggiunge i limiti dell'ineseguibile. Perche' l'altro da
cui, nello specifico, noi tutti dipendiamo e' un altro cui fu tolto, parafra
sando Gadamer, l'essere che puo' essere compreso. Ma guai a ridurre la
testimonianza a un fatto di memoria e di commemorazione. Questo "essere
comprensibile" (e lingusitico, e dialogico e comunicabile e condivisibile)
viene tolto continuamente, in tutte le situazioni presenti che non fanno che
rimetterci di fronte al nostro debito di testimonianza.
*
Chiudo con un esempio. Quanto c'e' di "comprensibile" nella strage della
scuola di Beslan? Cio' che vi e' di comprensibile, in quell'evento, non
coincide forse con la nostra capacita' di renderne testimonianza o, almeno,
di pensarne la testimoniabilita'? Comprendere la strage di Beslan, in altri
termini, non significa solo portare alla luce, com'e' doveroso, l'esatto
svolgimento dei fatti e delle responsabilita'; significa tentare di dar voce
e figura a quell'evento dal punto di vista dei bambini che vi persero la
vita e, forse soprattutto, dal punto di vista di quelli che sono
sopravvissuti. Cio' evidenzia, in conclusione, un ulteriore tratto della
finitezza del comprendere: la sua necessaria esposizione non solo
all'indaguatezza ma proprio al fallimento. Non e' escluso che il suicidio di
Primo Levi, o quello di Paul Celan, rientrino in questa terribile figura del
debito in-finito di testimonianza.

7. RIVISTE. DIANA SARTORI: PRESENTAZIONE DELLA RIVISTA "PER AMORE DEL MONDO"
[Dal sito www.diotimafilosofe.it riprendiamo la presentazione della bella
rivista on line "Per amore del mondo". Diana Sartori e' filosofa e lavora da
sempre con la comunita' filosofica femminile di Diotima; insieme a Barbara
Verzini coordina la rivista on-line di Diotima "Per amore del mondo"
(www.diotimafilosofe.it); fa parte anche della comunita' scientifica
femminile "Ipazia". Ha contribuito a vari volumi collettanei, tra cui:
Mettere al mondo il mondo, La Tartaruga, Milano 1990; Autorita' scientifica,
autorita' femminile, Editori Riuniti, Roma 1992; Oltre l'uguaglianza,
Liguori, Napoli 1995]

... E' un titolo rubato ad Hannah Arendt, che avrebbe voluto usarlo per Vita
activa, a segnalare che la filosofia non a' una superiore vita contemplativa
morta al mondo.
L'amore per la filosofia che pratica diotima e' amore del mondo, o meglio la
nostra e' stata, e', una pratica filosofica insieme pratica del mondo,
entrambe mosse da un desiderio che e' nostro ma che e' della realta' del
mondo. L'amore che fa girare il mondo, si diceva, e che qui speriamo anche
ci faccia girare la testa.
E' l'amore del mondo che porta a cercare il senso di quel che avviene
attorno a noi e di quel che rimane non visto, estraneo ad uno sguardo
generico. A stare con le parole vicino a cio' che e' contingente e a
coglierne il significato, che altrimenti rimane schiacciato da
interpretazioni che sono gia' a disposizione.
Mettere al mondo il mondo fu il titolo di un nostro libro, ormai tanti anni
fa, dove parlavamo di realismo femminile. E ancora oggi pensiamo che il
lavoro della pratica filosofica che amiamo, quella che e' stata chiamata
politica del simbolico, riguardi il desiderio di esserci nel movimento reale
del mondo.
Il reale infatti e' cio' che conosciamo attraverso le modificazioni che
provoca in noi per lo scambio che abbiamo con esso. Sentiamo infatti la
forza del reale perche' qualcosa tra noi e gli altri sta avvenendo.
Non possiamo parlare oggettivamente come se fosse qualcosa fuori di noi, ma
capire quello che avviene per le trasformazioni che cogliamo nei legami che
abbiamo con esso.
Anche eventi lontani ci modificano, ma per strade che spesso ignoriamo.
Questo ci modifica in modo diverso e di cio' anche possiamo rendere conto.
Come e' la simpatia che apre all'ascolto dei bisogni e dei sentimenti degli
altri, cosi' e' l'attenzione che fa si' che quel che di vero si riesce a
dire, venga ascoltato, "ruminato" e arricchito di proprie riflessioni.
Tra noi e' comune una fiducia nella realta' di cio' che ci muove come
desiderio che, segnale del reale, eccede e taglia la realta' stessa.
Cosi' nell'iniziare questa impresa, per amore del mondo, ci e' sembrato
naturale dirci che avremmo affidato la scrittura al desiderio, con la sua
forza ma anche con la sua incertezza, con la sua ambiguita' ma anche con la
sua precisione. Che sa essere tempestivo ma e' a volte intempestivo, al
tempo opportuno e talvolta del tutto inopportuno. Che a volte trova parole
precise e felici, altre si esprime grezzamente e quasi balbetta, altre volte
risulta inutilmente prolisso, altre ancora se ne resta muto, proprio come
noi. Che parla tante lingue e su tanti registri diversi, che si fa catturare
da cose che brillano, come pure da cose minute, quotidiane e opache, come le
nostre vite.
Che incontra desideri e parole spesso a incroci imprevisti e mai garantiti,
come le nostre relazioni. Che muove sempre insoddisfatto e insoddisfacente,
mai compiuto, che spinge e frena, magari a volte persino sembra perdersi e
poi esplode e fa luce come l'amore del mondo.
Si puo' fare una rivista cosi'? Beh, proprio come si puo' vivere.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 866 del 12 marzo 2005

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