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La nonviolenza e' in cammino. 865
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 865
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 11 Mar 2005 00:30:09 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 865 dell'11 marzo 2005 Sommario di questo numero: 1. Enrico Peyretti: 4 marzo 2005, i sommersi e i salvati 2. Donatella Di Cesare: Idee la cui essenza e' la carne del mondo 3. Bruno Segre: La memoria della Shoah 4. Ileana Montini: Levar la mano su di se' 5. Maurizio Matteuzzi ricorda Gladys Marin 6. Marcelo Barros ricorda suor Dorothy Stang 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. ENRICO PEYRETTI: 4 MARZO 2005, I SOMMERSI E I SALVATI [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recentissima edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario] "Nicola Calipari era un servitore dello Stato caduto per difendere una comunista che e' anche contro questo governo" ("l'Unita'", 8 marzo). Questo giudizio di Domenico Gramazio, di An, (a parte la discutibile solita espressione "servitore dello stato") coglie bene la realta' eccezionale dei fatti del 4 marzo 2005: l'Italia si e' unita nella difesa di una vita, pagata da un'altra vita. Il riscatto non solo della vita e liberta' di Giuliana Sgrena, ma del senso civile d'Italia lo ha pagato Nicola Calipari, altro che i sei o otto milioni di euro. Il nostro paese si e' unito per un momento, salvo le immediate successive divisioni, ma ci sono momenti che valgono anni, che contengono verita'. * Compiangiamo Calipari, ma non commiseriamolo: forse e' questa la morte migliore, con un senso attivo, un atto di vita (come fu per il giovane Filippo Piredda, un caso analogo a Torino, nel 1997), nel fare un'azione umana giusta, una morte sfuggita forse al degrado fisico, a una interminabile agonia, oggi la sorte di tanti. La pena maggiore e' per i familiari e gli amici, per lo strappo improvviso, non per chi muore. * Nella morte istintivamente generosa di Calipari c'e' vita. Un segno di vita particolarmente prezioso e promettente la' dove regna la guerra. Perche' la guerra e' morte, e' scelta della morte, e' fornicazione adulterina con la morte, per tradire la vita e partorire altra morte. E' dare la morte, aggiungere morte, che sempre dilaga e ritorna su chi crede di poterla usare contro altri. La guerra e' tradimento e follia. La politica di guerra e' alto tradimento, e' sovversione contro il patto civile, cioe' dissolvimento della convivenza civile, ricaduta nella barbarie. Non e' mai davvero contro un nemico, ma e' fare nemica l'umanita', dunque farsi nemici dell'umanita'. Non c'e' guerra tollerabile. La guerra non vale contro la guerra, contro la violenza e il terrorismo, perche' puo' solamente imitare, riprodurre e moltiplicare questi orrori, come oggi vediamo fino a sentirci schiacciati dall'evidenza. La difesa - difesa del diritto e non del dominio - puo' avere ancora, temporaneamente, a questo grado intermedio di evoluzione umana, bisogno delle armi: lo ammettono quei patti giusti e saggi, aperti al futuro, che sono la Costituzione italiana e la Carta dell'Onu, ma solo se immediatamente l'aggredito rimette la contesa al diritto internazionale e alle sue istituzioni (art. 51 della Carta dell'Onu). Resistere alla guerra che ci aggredisce non e' fare guerra. * La guerra merita il tradimento. Il patto criminale di guerra deve essere tradito. Gloria d'Italia e' l'8 settembre, quando tradimmo (tardivamente, costretti dai fatti) il patto criminale con Hitler. Anche oggi siamo implicati in una guerra criminale, che ci vomita addosso tutti i suoi frutti mortali. E' l'ora di tradire quel patto. Se il popolo iracheno chiede un aiuto internazionale, chiede tutt'altra presenza. * Scoprire un uomo onesto, mite, umano, capace, deciso e discreto, nel braccio armato e segreto dello stato, strumento di azioni incontrollabili, fa riflettere una volta di piu' sulla distinzione tra persone e strutture, anche quando resta il problema delle strutture. Nelle quali, in questo e simili casi, la segretezza e' discrezione necessaria alla delicatezza dell'operazione, ma resta pericolosa e deprecabile come carattere di un'istituzione denominata appunto segreta. * Si discute se e' giusto e conveniente pagare il riscatto per i sequestrati. Altri paesi lo escludono, per non riconoscere e finanziare gli autori della violenza. Sul caso Moro, propendevo con dell'incertezza per la tragica fermezza. Ora penso che i sequestrati vanno sempre riscattati, anche con denaro: lo stato e' per il cittadino, e non viceversa. Non si puo' sacrificare una vita ad un obiettivo politico e a una struttura generale. Uno puo' accettare di morire per tutti, ma non e' accettabile che uno venga fatto morire per tutti. Si affrontino e si riparino i danni politici, gia' compensati dal grande frutto civile del far valere l'uomo piu' del sabato. Nacquero ordini religiosi dediti a riscattare i prigionieri fatti schiavi dai pirati: oggi e' una funzione dello stato. Sul piano contabile, le spese di guerra sono infinitamente superiori. E' piu' onorevole pagare il nemico che ridursi a imitarne la violenza. * Non eroicizziamo Calipari. E' giustissimo esaltarne la qualita', l'azione compiuta come atto supremo del suo lavoro. Ma se la celebrazione dell'uomo generoso sconfina nella retorica, tace sulle cause e sul contesto, mette in ombra il contesto della guerra, che strappa la vita a chi non vuole, e costringe al sacrificio una persona di valore. Beato il popolo che non ha bisogno di eroi. Beata quella giornata sulla terra che non costringe nessuno all'eroismo. Maledette le guerre che uccidono, anche se risvegliano alte qualita' umane, contro l'uccidere. Non militarizziamo - retorica deformante - un'azione umana per nulla militare, anche quando la compie un militare. * Agli Stati Uniti l'Italia deve chiedere severamente conto, non accontentarsi di formalita'. Dagli Stati Uniti la comunita' internazionale deve esigere con nuova insistenza che accettino la Corte Penale Internazionale, se vogliono provare di essere un paese all'altezza dell'evoluzione civile. Si apprende (Gr1) che, da dicembre, su quella via dell'aeroporto, sei auto occidentali sono state colpite (degli iracheni nessuno tiene il conto). Come la guerra in corso e' preventiva, cosi' il tiro preventivo e' nelle regole dei soldati Usa in Iraq. Il direttore della Cnn e' stato licenziato perche' ha detto a Davos che i militari Usa hanno sparato a dei giornalisti. * Il 4 marzo 2005 e' un'immagine concentrata della violenza eretta a istituzione nella guerra, nuovo orrendo lager senza confini di sfruttamento e schiacciamento dei corpi umani. Ci sono sommersi e salvati, ci sono gli estremi dell'offesa e della dignita'. Giuliana Sgrena e' stata salvata da Nicola Calipari, sommerso. Quella salvezza e' stata derubata del diritto a gioire dal mare di violenza che e' la guerra, che ha inghiottito Calipari, il liberatore. * Giuliana Sgrena ha diritto di parlare, perche' e' il suo lavoro per noi tutti, perche' lo ha pagato con la prigionia, perche' troppo pochi parlano. Se alcuni suoi giudizi, turbati dall'esperienza patita, fossero da correggere, si correggeranno. Ma la sua e' la testimonianza di chi e' stata attraversata dalla guerra, come la sua spalla dalla pallottola che ha ucciso Calipari; ferita da quella guerra che e' andata a smascherare nella sua oscena nudita'. Giuliana e' viva per dare voce ai morti, perche' e' stata rapita per raccogliere le voci delle vittime di Falluja, che ancora devono parlare. 2. RIFLESSIONE. DONATELLA DI CESARE: IDEE LA CUI ESSENZA E' LA CARNE DEL MONDO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 marzo 2005. Donatella Di Cesare, gia' allieva di Gadamer, docente di filosofia del linguaggio, e' acuta studiosa della riflessione filosofica contemporanea; dal sito www.donadice.com riportamo la seguente notizia: "Donatella Di Cesare si e' laureata in Filosofia nel 1979 all'Universita' La Sapienza di Roma. Ha proseguito gli studi all'Universita' di Tubinga dove ha conseguito il dottorato con Eugenio Coseriu nel 1982. Dal 1985 e' stata ricercatrice di filosofia del linguaggio all'Universita' La Sapienza di Roma. Nel 1996 ha ottenuto la borsa di studio Alexander von Humboldt presso Hans-Georg Gadamer all'Universita' di Heidelberg; in questa universita' ha compiuto ricerche anche presso la Hochschule fuer Juedische Studien. Nel 1998 ha vinto il concorso di professore associato, nel 2000 quello di professore ordinario. Dal 2001 e' professore ordinario di filosofia del linguaggio alla facolta' di filosofia dell'Universita' La Sapienza di Roma. E' membro della Societa' italiana di filosofia del linguaggio, della Societa' italiana di studi sul secolo XVIII, della Deutsche Hamann-Gesellschaft, della Academie du Midi, della Associazione italo-tedesca di Villa Vigoni, dello International Institut for Hermeneutics, della Heidegger-Gesellschaft, e' membro fondatore della Walter-Benjamin Gesellschaft. Fa parte della redazione scientifica dello Jahrbuch fuer philosophische Hermeneutik, dirige la rivista di filosofia Eidos. Pubblicazioni di Donatella Di Cesare: segnaliamo i seguenti volumi: Wilhelm von Humboldt y el estudio filosofico de las lenguas, Anthropos, Barcelona 1999; Die Sprache in der Philosophie von Karl Jaspers, Francke Verlag Tuebingen-Basel 1996; La semantica nella filosofia greca, Bulzoni, Roma 1980; ha inoltre curato i seguenti libri: Filosofia, esistenza, comunicazione in Karl Jaspers, a cura di D. Di Cesare e G. Cantillo, Loffredo, Napoli 2002; L'essere che puo' essere compreso, e' linguaggio. Omaggio a Hans-Georg Gadamer, a cura di D. Di Cesare, Il Melangolo, Genova 2001; "Caro professor Heidegger...". Lettere da Marburgo 1922-1929, a cura di D. Di Cesare, Il melangolo, Genova 2000; Wilhelm von Humboldt, La diversita' delle lingue, a cura di Donatella Di Cesare, Laterza, Roma-Bari 1991, 2000. Wilhelm von Humboldt, Ueber die Verschiedenheit der Sprache, hrsg. und mit einer Einleitung von Donatella Di Cesare, Paderborn, UTB, 1998; Eugenio Coseriu, Linguistica del testo. Introduzione all'ermeneutica del senso, a cura di Donatella Di Cesare, Carocci, Roma 1997, 2000; Lexicon grammaticorum, a cura di T. De Mauro e D. Di Cesare, Niemeyer, Tuebingen 1996; Torah e filosofia. Percorsi del pensiero ebraico, a cura di D. Di Cesare e M. Morselli, La Giuntina, Firenze 1993; Karl Jaspers, Il linguaggio. Sul tragico, a cura di Donatella Di Cesare, Guida, Napoli 1993; Le vie di Babele, a cura di D. Di Cesare e S. Gensini, Marietti, Milano 1987; Iter babelicum. Studien zur Historiographie der Linguistik. 1600-1800, a cura di D. Di Cesare e S. Gensini, Nodus Publikationen, Muenster 1990"] A ciascuno di noi sara' senz'altro capitato di ascoltare o anche di ripetere dentro di se', talvolta involontariamente, un motivo musicale e di intuire proprio in quel motivo l'idea dell'amore che stiamo vivendo o abbiamo vissuto, di riconoscere anzi incarnata l'idea stessa che abbiamo dell'amore. L'idea e' tutt'uno con la sua presentazione sensibile, l'amore inseparabile da quel motivo musicale. Ma si potrebbero fare molti altri esempi. Basterebbe seguire Marcel Proust che nella sua Recherche si e' fermato su queste idee "impenetrabili all'intelligenza", eppure ben distinte le une dalle altre. Famosissimo e' un passo della Strada di Swann in cui il protagonista, bevendo il te' e gustando un pezzetto di madeleine, riassapora l'"essenza" del paese in cui trascorreva le vacanze da bambino e coglie cosi' l'idea, l'in se' della cittadina di Illiers che Proust aveva ribattezzato con il nome di Combray. E' da questo famoso passo della Recherche che prende le mosse l'ultimo volume di Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili, pubblicato da Quodlibet. L'intento non e' quello di fornire una nuova interpretazione del testo: Proust non e' qui l'oggetto di una analisi, piuttosto e' uno dei protagonisti del libro che si sviluppa in una sorta di polifonia, di coro a piu' voci. Ed e' anzi Proust il primo a parlare. Perche' attraverso una splendida descrizione fenomenologica fa vedere quello che i filosofi hanno stentato per secoli a vedere: l'esistenza cioe' di idee sensibili. Carbone accoglie dunque il suggerimento di Proust e lo sviluppa all'interno del dibattito filosofico contemporaneo portando a compimento una ricerca iniziata gia' con Ai confini dell'esprimibile (Guerini, 1983) e proseguita fra l'altro con il volume Di alcuni motivi in Marcel Proust (Cortina, 1998). Ma nella polifonia del libro ci sono almeno altre due voci che non vanno dimenticate: quelle di Maurice Merleau-Ponty e quella di Gilles Deleuze. Entrambi hanno tradotto in termini filosofici la descrizione narrativa di Proust. Ma e' a Mauro Carbone che va il merito non solo e non tanto di aver diretto abilmente il coro, quanto soprattutto di aver portato alle estreme conseguenze quello che Merleau-Ponty per un verso e Deleuze per l'altro hanno pensato o anche solo intuito. * In uno degli ultimi corsi tenuti al College de France nel 1961, poco prima di morire, e pubblicato poi solo nel 1996, Merleau-Ponty si chiede se in quelle idee descritte da Proust non si possa scorgere una concezione generale delle idee, una teoria non platonica o, meglio, non platonistica delle idee. E percio' propone di chiamarle "idee sensibili" - una definizione provocatoria per tutta la metafisica basata com'e' noto sulla netta separazione tra cio' che e' sensibile e cio' che e' intelligibile. E' alla domanda lasciata aperta da Merleau-Ponty che Carbone intende rispondere, facendola interagire con i risultati della indagine compiuta da Deleuze nel volume Marcel Proust e i segni (Einaudi, 2003). Le convergenze dei due filosofi, a partire da Proust, non sono poche. Quel che Deleuze chiama "in se' di Combray", riassaporato nella madeleine, non e' molto lontano dall'"idea sensibile" di Merleau-Ponty. Perche' attribuisce paradossalmente un nucleo di verita' immutabile a un oggetto, anzi a un luogo singolare, per di piu' inesistente sulla carta geografica. L'"in se' di Combray" e' allora un altro modo per dire "idea sensibile", un'idea inseparabile dal suo differente manifestarsi nella sensibilita' che avra' non per caso conseguenze nel modo in cui Deleuze elaborera' il concetto di "differenza" (Differenza e ripetizione, Cortina, 1997). In gioco e' qui il rapporto tra universale e individuale, intelligibile e sensibile, identita' e differenza - a seconda della prospettiva che si assume -, nodo fondamentale della tradizione filosofica che il pensiero contemporaneo prova a ri-leggere, tentando pero' di non cadere in un platonismo alla rovescia che si limiti a prendere le parti dell'istanza repressa. Consapevole di questo rischio, Carbone rivaluta la sensibilita' senza per questo eliminare l'idea; semmai delinea un modo nuovo di intenderla sulla base della radice comune di idealita' e presenza sensibile, attivita' e passivita'. * Ma che cosa vuol dire che l'idea e' inseparabile dalla sua manifestazione sensibile? Vuol dire che l'idea non esiste ne' prima, come ha voluto il platonismo, perche' non e' il modello originario di cui la manifestazione sarebbe solo una copia, ma non esiste neppure dopo, come ha preteso l'empirismo, perche' non e' un oggetto logico, il risultato dell'astrazione dei tratti comuni di tanti oggetti particolari. Parlare di "idee sensibili" significa allora ammettere che l'idea e' presente solo nelle sue manifestazioni sensibili, anche se queste non la esauriranno mai, anche se dunque l'idea le eccedera' sempre, come il tutto eccede, va oltre le parti che lo costituiscono. L'idea descritta da Proust e' insomma una forma che si da' solo nella carne delle sue deformazioni sensibili - deformazioni che non si basano su una forma preliminare, che sono dunque senza precedenti. E proprio nella "deformazione senza precedenti" Carbone scorge la peculiarita' dell'arte nel novecento. Questa arte non solo accetta la voyance, come la chiama Merlau-Ponty, quel vedere che non e' assoggettare, ma piuttosto assecondare, con un occhio che ascolta, il mostrarsi del sensibile; ma in piu', sapendo di essere per sua essenza deformazione, rinuncia a ogni forma originaria. Let it be, "lascia che sia", puo' essere allora il motto per indicare la genesi dell'idea sensibile accolta in un soggetto che non e' piu' tale, perche' e' la cavita' in cui l'idea si manifesta, cassa di risonanza del suo incontro con la carne del mondo. In questo incontro si produce per noi una "iniziazione" all'idea che si delinea attraverso le sue deformazioni. L'idea sensibile non e' ne' all'inizio, ne' alla fine: la sua presenza-assenza e' data solo simultaneamente, appunto attraverso le sue deformazioni. Che cos'e' ad esempio la nostra idea sensibile dell'amore? E' quell'idea che ci siamo fatti nei singoli rapporti amorosi, che attraverso questi ha assunto fisionomia, senza potersi esaurire in nessuno - a meno di non volersi esporre al dolore di una delusione. Il nesso che lega quei rapporti, ciascuno differente dall'altro, fa pensare alla corda di Wittgenstein, a somiglianze di famiglia che fanno si' che tra i rapporti d'amore ci sia qualcosa in comune che non puo' pero' essere ridotto all'astrazione di un'identita'. * Come riconoscere allora l'idea sensibile senza questa identita'? Come riconoscere senza la garanzia di una somiglianza? Soprattutto: come riconoscere quel che prima non si conosceva? Domanda che percorre la filosofia a partire da Platone e a cui e' dedicata l'ultima parte del libro di Carbone dove viene assumendo rilievo il concetto di "memoria involontaria". Mediante un confronto serrato con Freud e una ricostruzione della "reminiscenza" nell'eta' greco-arcaica, viene sottolineato il carattere creativo del riconoscere - che e' sempre conoscere piu' di quel che si conosce - e dunque della memoria. Ricordare e' alla fine creare. Perche' la memoria fa si' che l'idea sensibile si sedimenti, che divenga "essenza carnale", proiettandola in un tempo mitico e indistruttibile; qui l'idea sensibile si rivela un'anticipazione di conoscenza che non potra' piu' essere richiusa e che sara' anzi destinata a venire ogni volta ripresa e trasformata nel mistero di un'identita' che si ripete. 3. RIFLESSIONE. BRUNO SEGRE: LA MEMORIA DELLA SHOAH [Ringraziamo Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci messo a disposizione questo suo articolo apparso sul bel mensile "Viator" (sito: www.viator.it), n. 2, febbraio 2005. Bruno Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, si e' occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del Movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano; dal 1991 presiede l'Associazione italiana "Amici di Neve' Shalom / Wahat al-Salam"; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet" (e-mail: segreteria at keshet.it, sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno Segre: Gli Ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003] Quali sono i modi piu' significativi in cui la memoria della Shoah viene coltivata oggi in ambito ebraico, sia in Israele che nella diaspora? Spesso gli ebrei vengono rimproverati di fare di Auschwitz, della Shoah, un mito, un monumento. A ben vedere le cose non stanno esattamente cosi'. Per i sopravvissuti e per i loro eredi la Shoah, assai piu' che un monumento rappresenta il ricordo incancellabile di un disastro, di una vicenda di rovinosa umiliazione, di impotenza e solitudine. Come ha scritto Yosef Hayim Yerushalmi, docente alla Columbia University di New York, la necessita' di ricordare e' divenuta piu' urgente da quando hanno alzato la voce "coloro che fanno a brandelli i documenti, gli assassini della memoria e i revisori delle enciclopedie, i cospiratori del silenzio, coloro che, come nella bellissima immagine di Kundera, possono cancellare un uomo da una fotografia in modo che ne rimanga solo il cappello". Quella che ci risulta intollerabile e' l'idea che persino i crimini piu' atroci possano cadere nell'oblio. In sostanza, il bisogno di ricordare riguarda il male. Da piu' parti si sostiene che, in quanto male assoluto, la Shoah sia qualcosa di indicibile, di irrapresentabile. Si tratta, in questo caso, di un'opinione che non condivido. Ritengo infatti che anche il lavoro di coloro che fanno storiografia avrebbe uno spessore molto inferiore se non potesse fare riferimento proprio alle narrazioni dei testimoni diretti, dei deportati, dei sopravvissuti. Ai fini della conservazione e trasmissione della memoria, il racconto individuale offre spunti e risorse di una vitalita' unica, insostituibile: basti pensare alle narrazioni e alle riflessioni preziosissime di un grande testimone quale fu Primo Levi. * Ma perche' conservare e trasmettere oggi la memoria? che cosa insegna la Shoah, in particolare a noi ebrei? Innanzitutto non possiamo dimenticare che la Shoah ha inghiottito sei milioni di persone: approssimativamente la meta' degli ebrei europei, ossia circa un terzo degli ebrei del mondo, fra i quali un milione e mezzo di bambini. Ma soprattutto, nella Shoah e' andata distrutta una civilta', quella degli ebrei dell'Europa centro-orientale. Dell'antico scenario fisico entro il quale si mossero e fiorirono numerose comunita' estremamente vitali e creative, oggi non rimangono che i muri delle sinagoghe, i cimiteri, i libri, gli oggetti rituali e d'uso quotidiano, le carte: documenti di una storia durata poco meno d'un millennio. Pagine della storia degli ebrei, certamente, ma anche, a pieno titolo, della storia d'Europa e - vorrei aggiungere - della storia dell'intera umanita'. Da questo disastro e' uscito irrimediabilmente sconvolto l'intero contesto geopolitico degli ebrei nel mondo. La rovina dell'ebraismo europeo - che per secoli era stato il nucleo forte dell'ebraismo mondiale - ha impresso una cesura straordinaria nella storia degli ebrei, con la dislocazione fatale e forse definitiva del baricentro della vita ebraica dall'Europa verso due nuovi poli d'aggregazione e d'espressione socio-economica e culturale: lo Stato d'Israele e la grande comunita' ebraica nord-americana. Certo, il genocidio ebraico non rappresenta l'unico inferno cui il XX secolo abbia dato luogo (anche se non mi sembra casuale il fatto che il termine "genocidio" sia stato coniato dal giurista americano Raphael Lemkin nel 1943). Pur senza risalire nel tempo sino all'eccidio degli armeni (1894-1918), rammento che nei Lager allestiti dai nazisti furono sterminati anche gli zingari, i malati mentali, gli omosessuali, i Testimoni di Geova. E poi ci furono gli inferni comunisti dei Gulag, ci furono i genocidi nell'Ucraina collettivizzata, ci furono le stragi perpetrate in Camboglia dai khmer rossi di Pol Pot. E poi, in tempi piu' vicini a noi, stermini orrendi ebbero a registrarsi in Africa, e l'Europa fu il teatro delle ignobili "pulizie etniche" inscenate dai popoli balcanici, condannate retoricamente da tutti e ben presto dimenticate dai piu'. Ancora una volta, come gia' negli anni della Shoah, eventi catastrofici lasciati accadere in un clima di diffusa apatia e insensibilita'. Detto cio', a mio parere il genocidio ebraico, compiutosi nel cuore stesso di quella cultura europea e cristiana che era stata la culla della modernita', e' e continuera' ad essere la matrice fondamentale per la comprensione del nostro tempo storico. Evento rivelatore del contrasto tra il potere spaventoso degli uomini e la loro inettitudine a crescere sul terreno della civilta', si porra' per sempre quale paradigma e testimonianza della millenaria follia del mondo. * In questo mondo sempre piu' orientato a rimuovere e a banalizzare il male, e' importante che un sano impegno pedagogico dia vita a strategie educative capaci di offrire alle generazioni piu' giovani il senso concreto di un legame tra la vicenda dello sterminio nazista e situazioni di violenza, di offesa ai diritti umani, di eccidi di massa che accadono oggi, pur con tutte le differenze rispetto alla Shoah. Il ricordo del male passato non puo' e non deve ridursi a retoriche manifestazioni in chiave celebrativa: una sorta di illusori compensi postumi elargiti alle vittime e ai loro eredi. Manifestazioni di questa natura sono i prodotti di una memoria statica, capace soltanto di dare corso a rievocazioni del male che, per essere meramente commemorative ed esorcistiche, rivelano una radicale sterilita'. Da esse occorre distinguere le forme di una memoria dinamica, preoccupata di tenere viva la consapevolezza del male al fine di favorire, semmai, la progettazione di un futuro diverso e migliore. Infatti il ricordo dell'orrore, seguito dalla rituale invocazione "cio' non deve accadere mai piu'", appare destinato a rimanere privo di reale efficacia quando non si saldi a un'interrogazione argomentata e analitica circa il presente e non si apra con spirito critico e creativo alla progettualita'. Se si intende evitare che la Shoah possa ripetersi o che venga emulata da nuovi mostri, occorre andare al di la' della pura e semplice memoria dell'orrore e spingersi avanti sul terreno della riflessione, tentando di cogliere ogni aspetto della complessa situazione socio-culturale e storica della quale la Shoah fu l'orribile espressione. E' allora necessario, in particolare, sforzarsi di educare le giovani generazioni a leggere la storia, a comprenderne criticamente la complessita' e a mostrarsi pronte, in ogni evenienza, a prevenire e a impedire. Il problema, in sostanza, e' quello di conciliare il compito morale di evitare che il passato cada nell'oblio con l'impegno a operare perche' le nuove generazioni si possano costruire un futuro vivibile e decente, da condividere responsabilmente e fraternamente con tutti i figli degli uomini. * In ambito ebraico, alcune strade in questa direzione appaiono gia' tracciate. Mi riferisco, in primo luogo, all'esperienza di Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme: un'istituzione che, fin da quando vide la luce nel 1957, volle ricordare accanto alla memoria delle vittime anche i "giusti", ossia i protagonisti del bene, quanti a rischio della propria vita si prodigarono per la salvezza dei perseguitati. Le vicende dei "giusti" hanno permesso a molti fra i sopravvissuti di ritrovare la speranza nell'umanita'. Per numerosi ebrei e per i loro figli e' stato possibile ritornare nei Paesi che li avevano perseguitati e traditi, solo dopo avere saputo di uomini che si erano comportati diversamente. I "giusti" sono diventati cosi' il tramite di un riavvicinamento tra le vittime della violenza e i popoli che li hanno oppressi. In una direzione non dissimile si colloca il lavoro del Post-Holocaust Dialogue Group: un'associazione internazionale creata all'inizio degli anni Novanta da Gottfried Wagner, pronipote di Richard e figlio "degenere" dell'attuale direttore del Festival di Bayreuth (in Germania), e da Abraham Peck, direttore amministrativo e dei programmi dell'Archivio ebraico-americano di Cincinnati (negli Stati Uniti). Le iniziative di questo gruppo mirano non gia' a ricomporre le memorie della Shoah - ancor oggi profondamente divise - in una fittizia unita' sotto l'etichetta di una "comune memoria" (un'operazione che, qualora venisse proposta, recherebbe offesa a tutte le persone coinvolte a vario titolo nella tragedia), bensi' a dare luogo al lavoro difficilissimo, e tuttavia necessario, di reciproco riconoscimento - di dialogo, appunto - tra i figli di coloro che la Shoah l'hanno subita e i figli di coloro che, invece, l'hanno architettata e inflitta. Un dialogo, dunque, tra persone nate dopo lo sterminio. Uno dei membri ebrei del gruppo, lo psichiatra newyorkese Yehuda Nir, ha pubblicato The Lost Childhood (L'infanzia perduta), un'autobiografia che e' stata tradotta in nove lingue. In un'introduzione all'edizione olandese, composta con un pensiero rivolto in particolare agli studenti, Nir interpella idealmente Gottfried Wagner con parole che esprimono tutt'intera la tensione e la fatica di un lavoro congiunto di ricostruzione morale e psicologica, portato avanti con estrema delicatezza dagli uni e dagli altri attori di questo dialogo straordinario: "Gottfried, io ti vedo come un rappresentante di questo [nuovo] mondo. Tu sei l'anti-Lohengrin, che non nasconde il suo passato e dice: 'Per favore, Yehuda, chiedimi che cos'hanno fatto i miei genitori'. In modo sincero ti definisci un figlio dei persecutori, un tedesco nato dopo la Shoah. Hai affermato di essere legato alla storia della Germania. Non chiedi perdono. Tutto cio' che desideri e' impegnarti in un dialogo per capire che cosa e come e' successo, e se e' possibile evitare che possa accadere di nuovo. Sei un tedesco che vuole aiutare a creare un mondo in cui noi ebrei possiamo prendere in considerazione il perdono". * Nel maggio 1960 agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano, rapirono in Argentina e portarono clandestinamente in Israele Adolf Eichmann, un ufficiale superiore delle SS che durante la seconda guerra mondiale si era occupato principalmente degli aspetti organizzativi dello sterminio degli ebrei. Gli israeliani avrebbero potuto eliminarlo fisicamente in Argentina - la' dove si era nascosto -, ma non era questo il loro scopo. Secondo David Ben Gurion, "padre fondatore" e massimo rappresentante politico dello Stato d'Israele, non era l'uomo Eichmann che importava: quello cui il Primo ministro teneva era il processo, e che questo processo si celebrasse a Gerusalemme. Come documenta con ampiezza lo storico israeliano Tom Segev nel suo libro Il settimo milione (Mondadori, Milano 2001), la vera importanza del processo Eichmann stava nella sua funzione di terapia collettiva per l'intera societa' del neonato Stato ebraico. Prima del processo, la Shoah era quasi completamente un tabu'. In Israele i genitori non ne parlavano ai loro figlioli, e i figli non osavano chiederne. Un gran numero di israeliani si sentiva in colpa per avere abbandonato i propri cari, lasciando l'Europa prima dello sterminio. Altri, ossia i sopravvissuti, si sentivano in colpa per essere rimasti vivi, e avevano la sensazione che si richiedesse loro continuamente di giustificare la sopravvivenza. Altri, ancora, disprezzavano la debolezza delle vittime e chiedevano perche' gli ebrei non si fossero difesi. Molti, infine, affermavano di rappresentare un nuovo tipo di ebreo, "l'uomo nuovo" propagandato dalla mitologia sionista. Cosi', il processo Eichmann segno' in Israele l'inizio di un'evoluzione in cui la Shoah si trasformo' da un trauma irrisolto e terribilmente doloroso in una memoria nazionale istituzionalizzata. Con il passare degli anni, la memoria dello sterminio divenne un elemento essenziale dell'identita' israeliana, della cultura e della politica del Paese: una sorta di religione civile, con un suo rituale codificato. Nella sostanza, Israele ando' via via considerandosi lo Stato degli ebrei profughi e perseguitati, il luogo di rifugio e di riscatto dopo gli orrori della Shoah. Cio' e' probabilmente corretto in sede storica nel senso che, forse, senza la Shoah Israele non sarebbe mai nato. In anni recenti, i sondaggi d'opinione indicano con insistenza che gli israeliani, per la maggior parte, si considerano come sopravvissuti della Shoah, anche se sono giovani e se appartengono a famiglie che erano giunte originariamente da Paesi musulmani. Si tratta, nel contesto israeliano, di sviluppi naturali e per lo piu' assai spontanei: fanno parte del discorso politico e culturale in atto entro una societa' che non e' ancora riuscita a trovare un accordo circa la propria identita' collettiva. Descrivere percio' la memoria israeliana della Shoah quale un mero strumento della propaganda sionista - come alcuni negatori della Shoah, antisionisti e portavoce dei palestinesi fanno - puo' essere malvagio o sciocco, o entrambe le cose. Nel caso dei palestinesi, puo' essere anche molto nocivo, poiche' non e' possibile capire veramente Israele senza comprendere qual e' il ruolo della Shoah nelle menti del suo popolo. E se non si capisce il nemico, non si puo' fare la pace con esso. Detto cio', e' innegabile che della memoria dello sterminio si e' fatto anche, da parte di alcuni, un uso politico strumentale: gia' a partire dalla Guerra dei sei giorni (giugno 1967), ma con accentuazioni notevoli nel corso degli anni Ottanta e, soprattutto, in coincidenza con il recente affermarsi nel Paese di posizioni di destra marcatamente nazionaliste e vigorosamente antiarabe. Nel conflitto molto crudele in corso dall'autunno 2000 con i palestinesi, infatti, non sono mancate e non mancano in Israele personalita' politiche e opinion leaders che ritengono conveniente equiparare gli avversari di oggi ai nazisti di ieri, ossia considerare Arafat un novello Hitler. Constatazioni come questa mi fanno rammentare alcune osservazioni formulate da Abraham B. Yehoshua nel magistrale Elogio della normalita' (La Giuntina, Firenze 1991): "Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda da cui ogni popolo puo' essere affetto, e in quanto portatori di anticorpi dobbiamo innanzitutto curare il rapporto con noi stessi... Chi ha molto sofferto puo' non rendersi conto del dolore degli altri, e questo e' un comportamento del tutto naturale. Come alfieri dell'antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilita' e non diminuirla". * "Rendersi conto del dolore degli altri". Certo, nei confronti dei palestinesi, delle loro sofferenze, della loro condizione di oppressione, delle privazioni di liberta' cui sono attualmente soggetti, prevale fra molti ebrei israeliani, cosi' come fra molti di noi ebrei della diaspora, un'ostinata cecita', quasi che il carico della persecuzione subita a suo tempo conferisca agli ebrei una sorta di superiorita' morale, capace di esimerli da sensi di compassione per il dolore altrui. "La vittima", ammonisce per contro Yehoshua, "non diventa morale in quanto vittima. L'Olocausto, al di la' delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale, bisogna compiere degli atti morali e per questo affrontiamo degli esami quotidiani". Nelle pagine dell'epilogo di Il settimo milione, Tom Segev racconta di una sua visita nel 1990 al generale Yossi Peled, un militare ben difficilmente incasellabile nel novero dei cosiddetti "falchi", anzi, molto vicino e in sintonia con gli orientamenti politici - aperti e animati da spirito conciliante - di un Yitzhak Rabin. Risulta tuttavia con chiarezza che, al pari di ampi settori dell'opinione israeliana, Peled conserva della Shoah un ricordo ossessivo, angoscioso. Lo si evince da alcuni brani di una sua lettera, che Segev cita: "Piu' invecchio, piu' il legame con il passato si fa stretto, e il mio passato, che e' il passato della nostra nazione, acquista sempre piu' forza e importanza... Molte delle cose che faccio da anni sgorgano da quel terribile passato. E per essere onesto fino in fondo, esse rappresentano il mio sforzo per far si' che quello che e' successo alla mia famiglia e ai sei milioni di morti non succeda ai miei figli nati in Israele. E' questa la mia vera motivazione". Quasi a fare da contrappunto a tali parole, mi piace rammentare alcuni passi - di ben diverso tenore - dell'articolo Dimenticare, scritto per "HaAretz" (16 marzo 1988) da Yehuda Elkana, direttore dell'Istituto di Storia della scienza e delle idee dell'Universita' di Tel Aviv, egli stesso un sopravvissuto alla Shoah. "Per noi stessi non vedo un compito educativo maggiore che quello di impegnarci nel costruire il nostro futuro in questa terra senza sbandierare ogni giorno i simboli orrendi, le cerimonie strazianti e le lezioni deprimenti della Shoah. L'elemento politico e sociale piu' profondo che motiva la maggior parte della societa' israeliana nel suo rapporto con i palestinesi e' un'angoscia esistenziale, alimentata da un'interpretazione particolare della lezione della Shoah e dalla predisposizione a ritenere che tutto il mondo sia contro di noi, che noi siamo le vittime eterne. In questa antica credenza, condivisa da molti di noi in Israele oggi, io vedo la vittoria tragica e paradossale di Hitler. Due nazioni, parlando metaforicamente, sono emerse dalle ceneri di Auschwitz: una minoranza che dice che cio' non deve accadere mai piu', e una maggioranza spaventata e ossessionata che dice: 'questo non deve accadere mai piu' a noi'. Se queste sono le due uniche possibili lezioni, io sono molto piu' vicino alla prima. Vedo la seconda come catastrofica. La storia, la memoria collettiva, sono certamente una parte inseparabile di ogni cultura, ma il passato non deve diventare l'elemento determinante del futuro di una societa' e del destino di un popolo". 4. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: LEVAR LA MANO SU DI SE' [Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia' insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per "L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain" di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle" insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne". Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa, scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani, Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani, Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha redatto il progetto e curato la supervisione delle operatrici: titolo: "... ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione, insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir". Ha recentemente pubblicato, con altri coautori, Il desiderio e l'identita' maschile e femminile. Un percorso di ricerca, Franco Angeli, Milano 2004. Su Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia Menapace e Rossana Rossanda] I quotidiani hanno dato la notizia del suicidio collettivo di tre persone a Bologna. Fa sempre un certo effetto, ma non vuol dire che sappiamo interrogarci e trarne qualche riflessione e conseguenza. Anzi, credo che si tenda ad applicare la rimozione collettiva. Si tratta di un noto gastroenterologo di 63 anni, di sua moglie e di suo figlio di 29. I quotidiani hanno anche dato notizia delle lettere che i due coniugi hanno lasciato ai parenti, nelle quali spiegano - e giustificano- la loro scelta di togliersi la vita. Il medico ha iniettato una sostanza altamente letale al figlio e alla moglie e poi a se stesso. Il figlio da diversi anni giaceva a letto paralizzato a causa di un brutto incidente perche' l'airbag, uscendo, l'aveva proiettato contro il soffitto dell'auto causandogli lesioni cerebrali gravissime. Ora le sue condizioni erano peggiorate: aveva difficolta' di respirazione, come spiega la moglie nella lettera di addio. Entrambi quindi, in compagnia del fantasma della fine di uno dei due, hanno pensato che la soluzione ideale sarebbe stata quella di scomparire dalla vita. La possiamo anche definire una situazione di depressione familiare, ma a me non pare sufficiente. Sono abbastanza convinta che questa tragedia faccia notizia non soltanto perche' il medico era un primario noto a Bologna. C'e' di mezzo un mutamento di sensibilita' che viene registrato, soltanto registrato, anche dai media. La cultura cattolica ha alla base sia il rifiuto del suicidio che l'etica della sofferenza. La vita e' un dono di Dio e comunque va vissuta fino alla sua fine "naturale". E se si deve vivere anche con inumane sofferenze fisiche e psichiche, fa lo stesso. O meglio, la sofferenza puo' essere accettata come segno di predilezione da parte di Dio, che cosi' chiama la persona a partecipare alla stessa sofferenza del Cristo per la salvezza dell'umanita'. La Chiesa e' totalmente contro l'eutanasia. Le donne, nell'antica educazione cattolica, a imitazione della Madonna dei sette dolori (simboleggiata dalla sette spade che le trafiggono, in molta iconografia, il petto), dovevano dimostrare la grandezza sublime del patire sulla terra "valle di lacrime". L'unica sana della famiglia era la moglie, una pianista, scrivono i cronisti. Forse quindi anche una donna realizzata. Avrebbe, appunto, da brava madonna, dovuto accettare la morte del marito e l'iniqua sofferenza del giovane figlio, fino alla fine di lui o sua. E allora il messaggio che ci danno e' proprio quello del rifiuto della sofferenza che non ha soluzione, perche' la sua sublimazione mistica non e' piu' una strada facilmente accettabile. Un mutamento non da poco perche' ci costringe a pensare in termini diversi il percorso di vita come sta accadendo nel mondo dei vecchi la cui sofferenza, oltre che fisica, e' anche psicologica a causa del senso di inutilita' e della situazione spesso di grande solitudine esistenziale. Le inchieste ci dicono che i vecchi temono soprattutto la perdita dell'autonomia e la sofferenza fisica.Temono di diventare un peso per i figli non piu' inclini a seguire e accudire i vecchi genitori come una volta. Stiamo entrando in una fase storica, in occidente soprattutto, che mette alla prova gli antichi significati religiosi della sofferenza della vita o li ha gia', in parte, cancellati. 5. LUTTI. MAURIZIO MATTEUZZI RICORDA GLADYS MARIN [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 marzo 2003. Maurizio Matteuzzi, giornalista e saggista, e' un profondo conoscitore della realta' latinoamericana] Gladys Marin e' morta ieri mattina a Santiago del Cile, a 63 anni. Gladys era il presidente del Partito comunista. Ma era molto di piu'. Il grande trobador cubano Silvio Rodriguez, suo grande amico e autore della prefazione della sua autobiografia uscita appena prima della morte, La vida es hoy, disse e scrisse di lei che "con la vita di Gladys scorre quella del Cile". Gladys era una gran donna, e' stata la "pasionaria" cilena. Esplosiva d'energia e d'allegria, durissima come politica e dolcissima come persona. Rivoluzionaria professionale, con tutte i crismi propri dell'ortodossia del Partito comunista, e allo stesso tempo donna che sapeva di essere bella e adorava essere ammirata e esibire la sua bellezza e il suo charme. Un tempo, negli indimenticabili anni '60 quando era entrata da poco in politica e partecipava alle marce e agli scontri per il Vietnam, furono famose le sue minigonne e le sue gambe tornite divennero un mito fra compagni e avversari. Bella fino all'ultimo, anche quando la malattia - un tumore maligno e incurabile al cervello - l'aveva ormai colpita e segnata. Gladys e' morta ieri all'una del mattino, nella sua casa di La Florida, a Santiago, assistita dai suoi due figli Alvaro e Rodrigo, da sua sorella Nancy e dalla sua grande amica Marta Friz che, durante gli anni della clandestinita' dopo il golpe di Pinochet e l'esilio, divenne la "madre posticcia" dei suoi due allora bambini. Jorge Munoz, il padre, anche lui comunista che sposo' nel '61, fu arrestato nel '76, mentre lei era in esilio e da allora e' uno dei tremila desaparecidos. Il feretro, coperto con la bandiera rossa e rose rosse, e' stato portato nel salone d'onore dell'ex Congresso nazionale - grazie a Pinochet il parlamento fo spostato a Valparaiso e li' e' inspiegabilmente rimasto -, domani 8 marzo le esequie pubbliche fino al cimitero generale, lo stesso in cui e' tornata a riposare la salma di Salvador Allende, dove sara' cremata. Proprio perche' Gladys era Gladys la sua morte, per quanto annunciata, e' stata un colpo che va molto oltre l'ambito dei militanti e simpatizzanti comunisti. Il governo della Concertacion - la coalizione imperniata su socialisti e democristiani al governo dal '90 - e il presidente Ricardo Lagos, ai quali non ha mai risparmiato le sue critiche sferzanti, hanno decretato un lutto nazionale di due giorni. Oggi e domani la bandiera cilena sara' a mezz'asta su tutti gli edifici pubblici, a cominciare dal palazzo della Moneda alle caserme di quei militari di cui e' stata nemica implacabile fino all'ultimo. Fra i primi a rendere omaggio a Gladys, ieri, Hortensia Bussi e Isabel Allende, l'anziana vedova del presidente socialista morto alla Moneda, e la figlia, oggi deputata socialista. "E' stata una straordinaria combattente, coerente fino all'ultimo, una donna di grande valore e coraggio. In Gladys c'e' molta storia", ha detto Isabel. Gladys Marin ha guidato il Partito comunista cileno nella fase piu' diffcile della sua lunga storia, una fase in cui il Pc e' dovuto passare dal ruolo della forza marxista piu' poderosa dell'America latina agli inizi degli anni '70 a quello di una forza marginale ed extraparlamentare degli inizi degli anni '90, dopo il ritorno - allora solo parziale - della democrazia. Da allora il Pc, nonostante abbia mantenuto un radicamento in ambito sindacale e studentesco, non ha piu' avuto un seggio in parlamento. In parte per i suoi errori e per la crisi del comunismo, in parte per il perverso sistema elettorale binominale imposto dalla costituzione pinochettista dell'80 e incredibilmente ancora intatto. Gladys Marin era nata il 16 luglio del '42 da un padre contadino e una madre maestra. Lei stessa divenne maestra e prima di entrare nella Gioventu' comunista era passata per quella cattolica. A ventitre anni fu eletta per la prima volta in parlamento, poi di nuovo nel '70 e nel marzo '73. Dopo il golpe dell'11 settembre il suo nome comparve nella lista dei cento "sovversivi" piu' ricercati dalla giunta militare. Lei passo' alla clandestinita' e nel dicembre fu obbligata dalla leadership del Pc a rifugiarsi nell'ambasciata d'Olanda a Santiago, dove rimase otto mesi. Poi l'esilio in Olanda e Costa Rica, e il ritorno in Cile per organizzare la resistenza clandestina. Per anni non pote' neppure avvicinare i suoi due figli, rimasti anche orfani di padre, ma solo vederli di tanto in tanto da lontano. A partire dal '94 fu eletta per tre volte a capo del Pc. Candidata presidenziale comunista nel '99. Il 12 gennaio '98, dieci mesi prima dell'arresto di Pinochet a Londra, Gladys Marin presento' la prima denuncia penale per genocidio e sequestro di persona contro l'ex dittatore che era ancora comandante in capo dell'esercito. Sembrava una battaglia persa. Ma la denuncia fu accolta e a istruirla fu designato il giudice Juan Guzman: fu l'inizio della fine per il vecchio macellaio. Nel 2002 i primi sintomi del tumore. Fu operata a Stoccolma dal dottor Inti Peredo, figlio di uno dei compagni del Che in Bolivia, ma la diagnosi fu infausta. Ando' a piu' riprese a Cuba, ospite di Fidel, a curarsi. Ma tutti, a cominciare da lei, sapevano che non c'era niente da fare. Nel dicembre scorso e' tornata a Santiago, per morire in Cile. Ieri la fine. Sempre in prima fila negli scontri di piazza, piu' volte arrestata, sempre indomabile nei successi e negli errori. Per domarla c'e' voluta un tumore. 6. TESTIMONIANZE. MARCELO BARROS RICORDA SUOR DOROTHY STANG [Ringraziamo Francesco Comina (per contatti: f.comina at ladige.it) per averci messo a disposizione questa testimonianza di Marcelo Barros estratta da una sua piu' ampia lettera. Marcelo Barros, monaco brasiliano, teologo della liberazione, priore del monastero benedettino di Goias Velho, impegnato per i diritti umani di tutti gli esseri umani, ha scritto con Francesco Comina il libro Il sapore della liberta', La meridiana, Molfetta (Bari) 2005. Un profilo di suor Dorothy Stang, scritto da Maurizio Matteuzzi, e' nel n. 843 di questo foglio] Qui in Brasile, stiamo ancora vivendo il dramma del martirio della sorella Dorothy Stang. Era una suora nord-americana, naturalizzata brasiliana, che ho conosciuto negli anni '70 e che ha sempre lavorato con i contadini nello stato del Para'. Abbiamo lavorato insieme nella pastorale della terra, quando io ero segretario della Commissione Pastorale della Terra, per alcuni anni le sono stato molto vicino. Quando l'hanno assassinata aveva 73 anni. Mi ricordo sempre il suo sorriso di pace e di fermezza, la forza con la quale difendeva i contadini minacciati di schiavitu', l'impegno di denuncia contro la destruzione della fioresta amazzonica. La stampa qui in Brasile pubblica le parole di un testimone che ha visto suor Dorothy parlare con il suo assassino: "Non faccia questo" - gli ha detto - "Segua il cammino di Dio. Sono soltanto una vecchia senza difese. Non faccia questo, figlio mio. Vada a casa sua e si prenda cura dei suoi figli e di sua moglie". Queste sono state le sue ultime parole. Ho appena ricevuto una e-mail di Joao Paulo, un giovane di Brasilia, molto legato al monastero dell'Annunciazione di cui sono priore. Joao aveva pensato di entrare nella comunita'. Con il martirio della suora, ha deciso di andare adesso in Amazzonia come avvocato del Movimento Sem Terra). Pregate per lui. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 865 dell'11 marzo 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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