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Nonviolenza. Femminile plurale. 2
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 2
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 10 Mar 2005 12:45:06 +0100
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 2 del 10 marzo 2005 In questo numero: 1. Nello Scardani: Ancora dieci parole della nonviolenza riflessi in dieci volti di donne 2. Anna Bravo e Giovanna Fiume: Gli anni Settanta, la violenza, i movimenti, le donne 3. Ida Dominijanni: Il taglio dimenticato 4. L'indice del numero tre di "Per amore del mondo" 1. MAESTRE. NELLO SCARDANI: ANCORA DIECI PAROLE DELLA NONVIOLENZA RIFLESSE IN DIECI VOLTI DI DONNE [Da "La nonviolenza e' in cammino" n. 600] Carla Lonzi, o della forza della verita' Piu' passa il tempo e piu' diventa chiaro che quelle parole scritte sulla carta vetrata trent'anni fa, ancora c'interpellano. Piu' passa il tempo e piu' diventa urgente quel nitore di sguardo e di voce per contrastare l'orrore presente. * Maria Zambrano, o della coscienza La coscienza e' l'esilio e l'esilio e' il ritrovarsi. Perso tutto, allora resti tu. Ed il pensiero che pensa e che ricrea un mondo intero infine abitabile da tutte tutte le persone umane. * Marina Cvetaeva, o dell'amore Nessuno mai amo' quanto Marina: amo' la luce e la terra, i corpi e i sogni e le parole. Amo' le vite delle persone si oppose sempre al cenno del carnefice. * Violeta Parra, o della festa Conosceva la tristezza dalla coda lunga come la Ande e fino in Patagonia. Sapeva stringere i denti e lottare masticando le erbe piu' amare, senza arrendersi mai. Smascherava i fascisti col grido e col riso e col ragionamento, insegnava ad ascoltare lo zittito, l'offesa, gli inermi. Ed abbracciata alla chitarra con la voce rompeva catene, cavalcava le nuvole, dava sollievo muovendo al coro e alla danza. Al popolo restituiva la dignita' rubata dai padroni. * Georgia O'Keeffe, o della sobrieta' Per arrivare all'essenzialita' occorre liberarsi dai feticci spogliarsi dai viluppi di fantasmi alla lusinghe del superfluo dire no. Ed asciugarsi, andare nel deserto. E solo allora trovi la scala che dalla terra porta alla luna. * Marianella Garcia, o della giustizia Salvare anche i morti restituir loro il volto, allo scempio compiuto dai carnefici opporre infinita la pieta'. E cosi' salvare coloro che verranno dalla ripetizione incessante dell'orrore, cosi' salvare l'umanita' presente, cosi' rendere bene per male. * Rosanna Benzi, o della liberazione Io la ricordo come una voce che mi giunse qualche volta da un telefono da Genova, dal polmone d'acciaio. Ma la ricordo anche come donna che volle vivere una vita piena di affetti e di lotte, di verita' che affronta il dolore e nessuno abbandona nelle fauci dell'orco, nessuno nel pozzo nero della solitudine lascia che sia gettato. Di liberazione maestra non piu' dimenticata. L'apertura che Capitini disse in lei si era incarnata. * Ginetta Sagan, o del potere di tutti Partecipo' alla Resistenza fondo' Amnesty International rese l'umanita' piu' buona e piu' forte. Ancora chiama la sua voce all'azione e chiama te. * Emily Dickinson, o della bellezza Si puo' condurre una vita segreta e donare al mondo tanta luce che io che leggo ogni volta mi chiedo quanto dolore costo' tanta gioia quanta fatica tale levita'. Si puo' essere sola e in solitudine essere gia' figura dell'intero genere umano, e lieve silenziosa essere gia' di quella societa' delle estranee che il mondo ha da salvare, da mettere al mondo. * Margarete Buber-Neumann, o della persuasione I campi, e nei campi l'umanita'. I campi, e contro i campi l'umanita'. Dire la verita', salvare quel che resta delle vittime, contrastare il totalitarismo che genera i campi ed ogni ora si riproduce. Ed ogni ora devi contrastare. Saper distinguere tra i ruoli, le idee astratte, e concreta la carne che soffre. Saper riconoscere il bene e non sottrarsi. Fare la scelta di salvare le persone. 2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO E GIOVANNA FIUME: GLI ANNI SETTANTA, LA VIOLENZA, I MOVIMENTI, LE DONNE [Dal sito www.donnealtri.it riprendiamo il seguente testo che costituisce l'introduzione ai saggi pubblicati nell'ultimo numero della rivista "Genesis". "Genesis" e' la rivista della Societa' italiana delle storiche. Il numero in libreria si intitola Anni Settanta ed e' a cura di Anna Bravo e Giovanna Fiume. Anna Bravo, storica e docente universitaria, si e' occupata tra l'altro di Resistenza, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte. Opere di Anna Bravo: La vita offesa (con Daniele Jalla), Angeli, Milano 1986; Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia (con Daniele Jalla), Milano 1994; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 (con Anna Maria Bruzzone), Laterza, Roma-Bari 1995. Giovanna Fiume insegna storia moderna presso la facolta' di Scienze politiche dell'Universita' di Palermo. Fa parte della direzione di "Quaderni storici", della redazione della "Rivista di storia delle donne" e del comitato scientifico di "Crime, histoire & societes". Ha pubblicato: La crisi sociale del 1848 in Sicilia (Messina 1982); Bande armate in Sicilia. Violenza e organizzazione del potere, 1819-1849 (Palermo 1984); La vecchia dell'aceto. Un processo per veneficio nella Palermo di fine Settecento (Palermo 1990). Ha curato il volume Madri. Storia di un ruolo sociale (Venezia 1995) e Il santo patrono e la citta', San Benedetto il Moro. Culti strategie, devozioni di eta' moderna (Venezia 1999). Con M. Modica ha pubblicato Benedetto il Moro. Santita', agiografia e primi processi di canonizzazione (Palermo 1998)] Gli anni Settanta (meglio, gli anni fra il sessantotto e la fine del decennio successivo) trovano ormai regolarmente spazio all'interno della storia dell'Italia repubblicana come "stagione dei movimenti", come inizio e apogeo del terrorismo, come fase di passaggio dal blocco del quadro politico, alla solidarieta' nazionale, al nuovo ruolo del Psi. E' uno sguardo attento al contesto verticale, in cui vicende e fenomeni rivelano le loro radici diverse e diversamente datate. Non si puo' parlare di stagione dei movimenti senza rifarsi alla cultura e alla scolarizzazione di massa, alle sottoculture giovanili nate anche in Italia nei decenni '50 e '60, al mercato dei nuovi consumi, ai modelli familiari - e sono solo gli aspetti piu' evidenti. Non si puo' parlare delle lotte operaie senza tenere conto delle tensioni degli anni precedenti al '68, della grande emigrazione, della nascita dell'operaio-massa, della durezza del sistema di fabbrica, che l'autunno caldo disarticola e che la ristrutturazione industriale della seconda meta' del decennio punta, fra ritorsione e esigenze produttive, a restaurare. La stessa pratica della violenza chiede di essere collocata sullo sfondo di una politica dell'ordine pubblico storicamente aggressiva, della tradizione antiriformista della sinistra, dei non pochi casi in cui in Italia e' stata la piazza a decidere del destino dei governi, e non ultimo della profonda debolezza dei sentimenti civici. Al centro, spicca il problema della controversa modernizzazione italiana, che incrocia da piu' punti di vista la storia delle donne e quella dei giovani. Nel decennio Settanta si varano riforme importanti sui diritti dei cittadini e sulla tutela del lavoro, dalla legge 180 per la chiusura progressiva dei manicomi, all'istituzione delle Regioni, allo Statuto dei lavoratori. Alcune leggi riguardano proprio i giovani (il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, l'abbassamento della maggiore eta' a 18 anni) e le donne (l'introduzione del divorzio, il nuovo dritto di famiglia, la creazione dei consultori familiari, la legalizzazione dell'aborto, la legge in materia di parita' salariale e di tutela del lavoro); grazie a magistrati che sollecitano un giudizio di costituzionalita' su singole norme dei vecchi codici, nel '68 viene cancellata la norma del codice Rocco che considerava reato l'adulterio femminile, nell'81 sono aboliti gli articoli che concedevano attenuanti per il "delitto d'onore". Nell'insieme si tratta di un programma di innovazione/incivilimento. Ma a mancare - giudizio unanime - e' la riforma base, quella dello stato, che resta una macchina autoritaria, inefficiente e inadempiente, in cui tutti i servizi sono male amministrati e prevale l'interesse dei partiti, che, compreso il Pci, in modi e misura diversi hanno invaso la societa' civile e si curano ben poco di migliorare il funzionamento dello stato. Peggio ancora quando l'applicazione delle riforme e' affidata alla capacita' di mediazione della politica, che anzi accentua i suoi caratteri di chiusura e autorefenzialita' - i Settanta sono anche gli anni della transizione dallo stato dei partiti a un sistema di partiti di Stato. Il paradosso e' che si seguono in via teorica i migliori principi, mentre nello stesso tempo si lasciano immutate le condizioni che li vanificheranno. Se ogni paese ha la sua anomalia, questa e' davvero vistosa. Ci sono poi casi in cui la normativa e' ambigua all'origine, e fa testo la legge sull'aborto, che da' l'ultima parola alle donne (maggiorenni), ma dopo un iter lungo il quale si esprime e pesa il potere del medico. La modernizzazione e' un punto chiave anche nei testi dove si mette invece a tema il decennio seguendo piu' versanti, il passaggio dallo sviluppo economico degli anni Sessanta all'arretramento dei Settanta, il diffondersi e inasprirsi delle tensioni politiche e sociali, e naturalmente il ruolo dei giovani e delle donne. Il paese mancato, di cui al titolo del libro di Guido Crainz, non e' solo il paese dallo sviluppo caotico e dalle riforme sulla carta (come la legge 180), e' anche quello dove uno spaccato di generazione rimane stretto fra terrorismo, violenza statale, sordita' dei partiti e fatica a convertire in passione civile quotidiana le grandi speranze insoddisfatte - una difficolta' che convive con il segno profondo impresso dai movimenti sulla cultura, sulle mentalita', sull'immagine della politica e sulla sua pratica, i terreni piu' nettamente e durevolmente trasformati. La deriva di molti giovani non e' la sola peculiarita' italiana, basta pensare al "lungo '68" (su cui non e' stata detta l'ultima parola), al terrorismo di sinistra (condiviso con la Germania, ma con un'area di simpatia piu' ampia), allo stragismo della destra eversiva, ai reali o presunti progetti di golpe. * L'attenzione al contesto orizzontale suggerisce ulteriori interrogativi. Pensiamo, per esempio, ai limiti della tesi dell'individualismo acquisitivo di fronte a una fase in cui la spinta al miglioramento di status non si traduce in strategie a livello personale, ma in una stagione di lotta. Ai meccanismi attraverso i quali un decennio che si apre con il sogno di "despecializzare" la politica (e che in effetti rompe il monopolio dei partiti), sbocca poi, sia nei movimenti sia nelle istituzioni, in una sorta di revival di culture politiche da immediato dopoguerra, e si chiude con la rispecializzazione della politica e con un diffuso disamore verso la cosa pubblica. Pensiamo al problema della possibile parentela tra fenomeni diversi, come le lotte in fabbrica e le spinte corporative in alcuni settori dell'impiego pubblico, o la nascita dei micropartiti e il perdurare del libertarismo. Sempre, naturalmente, che una parentela esista - non c'e' alcun aspetto di riemersione o di carsismo nel movimento del '77, i suoi attori sono semplicemente altra cosa rispetto agli studenti del '68. Per Mariuccia Salvati sono due i lasciti riconducibili alla "stagione dei movimenti": "l'amore (la solidarieta', la difesa del welfare, che si puo' tradurre anche in chiusura corporativa) e la rabbia (l'affermazione individualistica, il rifiuto di ogni autorita', ma anche la scoperta delle nuove ingiustizie della societa' moderna)". Aggiungeremmo il fermo sospetto verso le verita' ufficiali. Che i due filoni trovino o meno credito "presso i nuovi Peter Pan a noi spetta comunque il compito di aiutarli a distinguere fra mito e realta'". Il noi coinvolge prioritariamente gli studiosi/protagonisti, come sono alcune delle autrici, cui tocca lo sforzo di far fruttare l'"esserci stato" dello storico senza trasformarlo nella verita' della storia. Problema dell'intera (e molto molto ex) "giovane sinistra", che non consiste tanto nel diverso peso assegnato a alcuni momenti (e' anzi interessante, per esempio, che esistano molte versioni della "fine del sessantotto"), quanto nella difficolta' di selezionare gli eventi: se, come diceva Seurat, dipingere e' l'arte di svuotare una tela, qui si tratta di svuotare una tela di cui si e' parte; la tentazione puo' essere allora quella di farci entrare tutto, le idee strutturate, quelle in farsi e quelle fisse, gli eventi e i minimi particolari, i barlumi, le schegge: la mappa dell'impero, cosi' accanitamente dettagliata da ridursi a una duplicazione inutile del reale. Forse non e' l'ultima delle ragioni di una certa renitenza a studiare anni cruciali sia per la storia dell'Italia repubblicana, sia per quella dei giovani e delle donne del XX secolo. * Mentre il dilemma del testimone riguarda anche il femminismo, le sue specificita' si palesano su altri piani, non necessariamente di contenuto. Il movimento delle donne e' l'unico per cui si puo' parlare di decennio, visto che i suoi inizi e la fine di una sua fase coincidono grosso modo con i primi e gli ultimi anni Settanta. E' l'unico per cui ha qualche senso la metafora del carsismo; sebbene le ragazze che negli anni Settanta sfilano in corteo per l'aborto libero, gratuito e assistito possano sembrare del tutto aliene agli occhi delle femministe originarie (e viceversa), le une e le altre fanno parte di una medesima corrente di rifiuto del modello emancipativo, e di ricerca di un'autenticita' fondata in se stesse e nel rapporto con le proprie simili. Non solo: il movimento delle donne e' quello che piu' ha vissuto e denunciato i limiti della modernizzazione italiana - oltre all'aborto e alle carenze dei servizi pubblici, la commercializzazione dell'immagine femminile e l'accentuata identificazione fra la liberta' delle donne e la loro disponibilita' sessuale, stereotipo di comodo cui il '68 e la nuova sinistra hanno dato impulso e legittimita'. Infine, quello delle donne e' il movimento che piu' ha inciso sulla trasformazione delle culture e dei comportamenti quotidiani (molto meno sulla politica). Come conquista civile o come segnaletica del politically correct, il linguaggio di oggi e' figlio della strana coppia studenti del '68/donne degli anni Settanta, non meno che di internet e della tv. Una ricognizione sullo stato degli studi sul femminismo degli anni Settanta deve essere ancora affrontato compiutamente sul piano storiografico. Sporadicamente si e' ritornate su quella stagione storiografica per trarne un bilancio complessivo o piuttosto locale (il femminismo milanese, il movimento delle donne in Emilia Romagna, quello catanese, ecc.). Per diverse buone ragioni la memoria di quegli anni non ne ha ancora prodotto la storia e occasionali sono stati i tentativi di esprimere la ricchezza del movimento per la difficolta' di travalicare la trasmissione orale di quegli anni e di raccontare l'intreccio tra corporeita' e teoria; per le caratteristiche della documentazione scritta e orale del movimento; perche' ci vuole tempo e lavoro per trasformare la memoria in una fonte storica e, anzi, la memoria puo' essere persino irriducibile; per "la mancanza di una interpretazione consensuale del nostro passato politico"; per la rimozione di alcuni temi decisivi, quale ad esempio la violenza; per la perdita di tensione tra sessualita' e saperi; per la mancanza di domanda politica: a chi sarebbe servito quel bilancio? Anche per il femminismo siamo in attesa di una storia che metta vicende e posizioni teoriche in confronto fra loro e in rapporto con gli eventi di quegli anni. Alla felicita' narrativa che si coglie in alcuni testi, contribuisce, credo, la scelta di lasciare fra parentesi un "esterno" che in quegli anni e' piu' che mai invadente, affascinante, confuso, a volte terribile, di costruire una trama a se' e un campo di vincoli autonomo. Ma la liberta' delle donne, compresa la liberta' dai canoni storiografici e dagli incroci obbligati fra storia del femminismo e altre storie, ha un prezzo e un rischio. Ida Dominijanni in una recensione a Non credere di avere dei diritti, a proposito del patto sociale fra donne proposto dalle autrici, scrive che i prezzi da pagare sono due: "il debito simbolico verso la madre" e "la scotomizzazione di esperienza e di pensiero che una tale vincolante scelta di fedelta' alle ragioni del proprio sesso comporta - a suo modo l'elaborazione di un lutto". Punto di rischio, beninteso, non equivale a punto debole, ne' la storia e' l'erede universale del passato; ci sono esperienze che sarebbe velleitario spingere a forza al suo interno, e autolesionista declassarle a scorie o a pulviscolo ornamentale. Resta il fatto che uno dei testi piu' noti degli anni Ottanta, a meta' fra storia e memoria, come Non credere di avere dei diritti, sorvola sul contesto sia verticale sia orizzontale - il che, insieme al linguaggio disteso e poco gergale, puo' essere una ragione del suo successo. Vale la pena di inserire anche questa ipotesi nel dibattito sulle forme in cui si puo' trasmettere la nostra storia. * Queste e altre ragioni hanno giocato a favore del silenzio delle donne sulla storia di quegli anni. Un silenzio che rasenta la reticenza. Scrive Lea Melandri: "Ma se e' calata sul primo femminismo una dimenticanza cosi' tenace e' perche' la scrittura e la memoria del singolo [...] hanno incontrato da subito le spinte opposte di una 'generalizzazione' che subordinava a criteri di 'universalita'' e 'appartenenza' la materia concreta di cui e' fatta ogni vita". Le stesse corde tocca Maria Luisa Boccia: "Abbiamo desiderato, amato, detestato, subito e agito attraversando ambivalenze e ricchezza di uno scambio tra individuale e collettivo che ha costituito la cifra peculiare di un vissuto denso di politica. E' difficile, per non dire impossibile, tradurre questa densita' in un bilancio trasparente e lineare; molto piu' semplice e' congedarsi, come si addice al tempo della giovinezza". Luisa Passerini ha suggerito la difficolta' di separare il soggetto dall'oggetto della ricerca e ha evidenziato tutti i rischi e limiti dell'identificazione di storico e di testimone e tutti gli autori dei saggi qui raccolti se ne dichiarano, a vario titolo e argomentazione, persuasi. Alle riflessioni avanzate nei singoli saggi, occorre aggiungere non solo "l'obiezione della donna muta", quella che non voleva essere interpretata e rappresentata nei collettivi, nelle battaglie politiche e nemmeno nelle teorizzazioni onnicomprensive e totalizzanti, ma anche quella di chi obietta agli antropologi di volere mettere "la nostra vita nelle vostre opere". E poiche' non e' accademico il fine del nostro interesse, questa domanda apre un ulteriore fronte di discussione sulla necessita', avvertita sempre piu' largamente, di fare un bilancio storico degli anni Settanta: essere stati testimoni equivale ipso facto a essere legittimate a farne il bilancio? Se "vita" e "opere" coincidono, di che bilancio si tratta? Si produce una storia o una sua fonte? La presa di distanza consiste solo nel fatto che e' purtuttavia trascorso un trentennio? E come ci si distanzia da se stesse? Emmanuel Betta ed Enrica Capussotti argomentano la necessita' che sia la generazione successiva a produrre quel bilancio per "decostruire i miti di quella stagione, relativizzandone il progetto di trasformazione, spesso annullandolo del tutto", come accade nei romanzi da loro citati, dove e' "il giovane" a agire per la riconciliazione. La messa in discussione della "egemonia della testimonianza" di chi puo' dire "io c'ero", che pesa come un macigno su questo tema, sblocca finalmente la possibilita' di confliggere sulla ricostruzione di quel "passato" e rende piu' evidenti gli interessi in campo. D'altronde sappiamo bene come scrivere e riscrivere la storia sia parte di un conflitto di legittimazione di cui la formula dell'"uso pubblico della storia" e' stata una comoda e ideologica semplificazione. E dunque? Dunque parliamone. L'intento del numero della rivista, correndo i rischi impliciti in questa proposta, e' quello di mettere in agenda la necessita' di discutere degli anni Settanta in modo problematico, ma franco, aprendo, in modo talvolta persino doloroso, una serie di fronti che aiutino a ripensare uno snodo centrale della nostra storia individuale e collettiva. * Anna Bravo si concentra su un unico tema, la violenza, non quella dello stato o dei gruppi neofascisti, ma quella di cui le donne attive negli anni Settanta portano in vario grado una responsabilita' per averla agita, tollerata, misconosciuta. Due gli ambiti presi in considerazione. Il primo e' l'aborto, in cui il corpo femminile e' oggetto di manipolazione cruenta e nello stesso tempo tramite dell'aggressione contro il feto. Dopo aver delineato lo sfondo storico e le caratteristiche della campagna per la depenalizzazione, l'Autrice sottolinea come spesso si siano trascurate le ambivalenze dell'esperienza femminile, e soprattutto il tema del dolore. Dolore della donna, possibile dolore del feto, che oggi vari studi di fisiologia e psicobiologia prenatale ritengono sia da prendere in considerazione a partire dalla diciassettesima settimana. Su quest'ultimo punto, il movimento ha mostrato una mancanza di immaginazione che gli ha impedito di distanziarsi dal discorso medico-scientifico, di cui stava denunciando la simulazione di neutralita' su altri terreni. Il secondo ambito e' la violenza della sinistra extraparlamentare, praticata nelle manifestazioni di piazza e negli scontri con i neofascisti, una violenza le cui radici di lungo e breve periodo erano cosi' forti da offuscare la presenza di alternative che pure esistevano. Nonostante la partecipazione di molte donne a azioni e manifestazioni, nonostante alcuni tentativi di individuare forme specifiche di violenza femminile (per esempio l'isteria), l'atteggiamento prevalente nelle varie componenti del femminismo e' stato quello di ribadire il principio dell'estraneita', senza entrare nel merito di derive devastanti, come la disumanizzazione della parte avversa e la perdita di ogni compassione verso le sue vittime. Nei quasi trent'anni trascorsi da allora, il dibattito sulle responsabilita' personali e collettive non ha praticamente raccolto opinioni di donne, come se il femminismo, nel suo aspetto di seconda nascita, avesse fatto tabula rasa dei coinvolgimenti e delle storie precedenti. Che sulle violenze di oggi si esprimano invece varie voci femminili fa pensare all'Autrice che il quasi silenzio sugli anni Settanta sia soprattutto una questione di biografia individuale e collettiva. * Si sofferma brevemente sulla vicenda dell'aborto Elda Guerra, che nella ricognizione sullo stato degli studi dedicati al neofemminismo, ancora senza scatti significativi rispetto alla produzione degli anni Ottanta, individua alcuni fattori del ritardo, a partire da un approfondimento del significato da attribuire alla stessa definizione di "femminismo degli anni '70": per esempio, la complessita' del rapporto storia e memoria, i problemi sul piano delle fonti e della loro traducibilita' che derivano dall'oralita' e dagli scambi avvenuti all'interno dei gruppi di autocoscienza, lo sventagliarsi del movimento in molte esperienze di grado e livello diversi. Snodi cruciali del dibattito attuale, non solo italiano, come non sono solo italiane la pluralita' e l'eterogeneita' (ormai tutti gli studi piu' recenti usano il plurale feminisms o movements), e la differenza fra la ricchezza del pensiero e della ricerca femminista, e la scarsa presenza del femminismo nella storiografia delle donne. Al centro dell'analisi e' comunque il caso italiano, al cui interno due nodi in particolare interessano l'autrice: il primo e' il rapporto tra il femminismo e gli altri movimenti degli anni Settanta, un rapporto non univoco, segnato da discontinuita' e temporalita' diverse, e variamente interpretato a seconda che si sottolinei il contesto dei movimenti o quello verticale costruito, a partire dal primo femminismo, sul filo dell'iniziativa pubblica delle donne. L'opinione dell'Autrice e' che nei movimenti molte donne trovino maggiori possibilita' di esprimersi, ma anche di sperimentare in prima persona gli squilibri legati alle relazioni tra i sessi e i generi. Il secondo punto e' il tema delle fasi, dei passaggi e delle trasformazioni intervenute alla fine del decennio. Nel dibattito sulla capacita' o meno del femminismo di andare oltre la meta' degli anni Settanta, Guerra propone una visione in cui "il movimento" rappresenta solo una delle forme e delle articolazioni possibili della cultura delle donne, che vive anche in un reticolo diffuso di centri, librerie, case delle donne, riviste, che fanno sentire la loro influenza nella sfera pubblica. Ne nasce una periodizzazione che porta la vicenda del femminismo contemporaneo oltre il passaggio degli anni Settanta, nel cuore degli anni Ottanta e del "femminismo diffuso" e che nutre l'auspicio di una visione del femminismo come espressione sul piano politico della soggettivita' femminile: molti femminismi, dunque, da studiare nel loro rapporto con la transizione e la crisi di fine secolo, in altre parole con la crisi della modernita'. * La forte affermazione dell'importanza della presenza delle donne in molti passaggi della storia politica dell'Italia repubblicana, malgrado la loro assenza nei luoghi della decisione politica, caratterizza il saggio di Paola Gajotti che, pur nella consapevolezza dell'ambiguita' di una ricostruzione che intreccia memorie personali e ricerca, legge in un'ottica di genere il tema dei cattolici di fronte alla battaglia per l'aborto, "concentrandosi sull'interazione fra una oligarchia politica prevalentemente maschile e una pressione femminile piu' esigente e determinata". L'incredulita', la sorpresa, lo spiazzamento della chiesa e dei cattolici di fronte agli esiti delle battaglie referendarie, la sottovalutazione degli effetti dello sviluppo e delle nuove liberta' sulle donne e sulle relazioni familiari, la semplificatoria visione dell'evoluzione del mondo delle donne da parte delle grandi organizzazioni femminili cattoliche di fronte allo "emergere di una parte oscura e mai detta della storia umana, rimossa, esorcizzata e coperta [...] che improvvisamente riaffiorava con il suo 'diritto di cittadinanza', fuori da ogni categoria concettuale sistemata", stanno tutti dentro il paradosso della societa' italiana a partire dal dopoguerra di "un processo di modernizzazione politicamente guidato da cattolici che ha prodotto [...] un intenso processo di scristianizzazione". Pensare all'aborto come peccato, come caduta etica, banalizzare la sessualita' e la liberta' delle donne, fare una battaglia teorica di principio tagliava fuori i cattolici dal governo dei fenomeni sociali. La ricostruzione delle fratture nel campo cattolico, della difficolta' del dialogo tra le donne e del carattere di duro scontro politico che si instauro', conduce a un giudizio severo sulla sconfitta del movimento cattolico, sulla debacle parlamentare, sull'immobilismo della classe politica che non pago' l'errore fatto fino alla battaglia referendaria del 1981, quando "si e' di fatto consumato il ruolo del cattolicesimo democratico in Italia". Di contro, le donne non si impegnarono a tradurre la loro forza e il loro successo politico in una strategia di modernizzazione del paese, aggravando ancora di piu' il loro rapporto con i partiti che viravano verso una professionalizzazione del ceto politico, il rafforzamento delle correnti, lo stretto legame tra politica e affari. Il rapporto tra riequilibrio di genere della rappresentanza e i caratteri del sistema politico sono strettissimi e, nell'opinione dell'Autrice, se le donne non assumeranno la leadership del rinnovamento, dovranno accontentarsi a vivere di cooptazione. * Posto che il tema della violenza rappresenta il non detto, il rimosso, il problema irrisolto, Emmanuel Betta e Enrica Capussotti, raccolgono la provocazione e, quasi a chiudere il cerchio delle argomentazioni, additano, avvalendosi anche della produzione letteraria e cinematografica, la difficolta' delle ricostruzioni della storia dell'Italia di quegli anni a confrontarsi con questo problema, la costruzione di un senso comune che identifica gli anni Settanta con gli anni di piombo e li proietta all'indietro, saldandoli alla stagione dei movimenti, trasformati cosi' nel brodo di coltura delle manifestazioni successive, la necessita' di recuperare la complessita' dei fenomeni studiati - la violenza era di destra e di sinistra - radicandoli nel loro contesto. La difficolta' di raccontare quella stagione manifesta "un grumo identitario che esprime retaggi ed echi di stagioni passate nelle quali l'analisi doveva confrontarsi con l'accusa di collateralismo o di fiancheggiamento". Forse e' la generazione anagraficamente successiva, a cui i nostri due storici appartengono, a proporre un rapporto disincantato con quella stagione, a fare diventare la violenza un oggetto di studio come un altro, senza schiacciarlo con lo stigma morale che pesa sugli "sconfitti", osando additare limiti e difetti di progetti rivoluzionari e osando indagare dentro le ambiguita', contraddittorieta' e rischiosita' di connessioni e rotture, contribuendo, in definitiva, a che la generazione degli anni '70 elabori il lutto sulla fine di una fase di grandi speranze di trasformazione sociale e politica per potere tornare a interrogare la propria storia. 3. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: IL TAGLIO DIMENTICATO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 marzo 2005. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, e' una prestigiosa intellettuale femminista] Fra i molti paradossi che la storia repubblicana ci consegna ce n'e' uno che negli ultimi anni si rinnova puntualmente ad ogni 8 marzo, e consiste nella beatificazione delle donne pagata al prezzo della dannazione del femminismo. E' il filtro che la storia e la politica ufficiale impongono alla rivoluzione femminile per spuntarne gli elementi originali e irriducibili: la modernizzazione si', la critica della politica no; la parita' di diritti si', la voce della differenza sessuale no. Si aggiunge a questo il revisionismo spontaneo che parte dall'interno del femminismo come di tutti i movimenti degli anni '70 per consegnare quella stagione alla vulgata del "decennio maledetto", e ne rinfocola la memoria solo per deformarla e addomesticarla a uso del mercato, o mercatino, politico di oggi. Le donne contro il femminismo? La storia delle donne contro il punto di vista della differenza nella storia? Il paradosso e' in atto. Vorrei rileggere in questa chiave il dibattito suscitato nell'ultimo mese da un saggio di Anna Bravo, Noi e la violenza. Trent'anni per pensarci, pubblicato sulla rivista della societa' italiana delle storiche "Genesis" [ripubblicato anche nei numeri 862-864 de "La nonviolenza e' in cammino"] e rilanciato con clamore da un'intervista di Simonetta Fiori all'autrice su "Repubblica" del 2 febbraio. Replicando a una serie di successivi interventi polemici, Anna Bravo ha rimproverato alle sue interlocutrici di non avere ben letto e ponderato il suo saggio. Giuro che per parte mia l'ho letto e riletto, e non per questo mi ha convinto piu' dell'intervista, anzi. Si tratta, come ormai le/gli interessati sanno, di una lunga perorazione della tesi per cui "le tante che negli anni '70 si sono sentite continuativamente, a tratti, in una sola occasione parte del femminismo" avrebbero, anzi avremmo, perso la bellezza di trent'anni senza nominare e rielaborare il nodo del rapporto fra donne e violenza, su un doppio versante: la violenza verso il feto implicata nell'aborto, e la violenza verso terzi implicata in alcune pratiche politiche della nuova sinistra, dell'estremismo e del terrorismo. * La ricostruzione dell'autrice parte dalla "autoricerca" di un gruppo di tredici ex-sessantottini durata tre anni, usata dall'autrice per quel che sulla violenza dice e per quel che tace. Il rovello di fondo e' che il femminismo - "rivoluzione pacifica, sostanzialmente vittoriosa, durevole" -, vissuto dalle sue protagoniste come una "seconda nascita", abbia fatto tabula rasa sulle "responsabilita' precedenti" delle militanti della nuova sinistra e dell'estremismo, e non sia riuscito a smontare "le categorie correnti sul nodo della violenza e della sofferenza". Dell'aborto, Bravo dice che c'era fra le femministe "fatica a districarsi fra la consapevolezza di essere vittime e quella di non essere solo vittime, e non le sole": era ed e' vittima anche il feto, della cui "sensorialita'" non ci saremmo mai occupate, questione che riporta a interrogativi di bioetica e biopolitica che oggi, in tempi di procreazione assistita e ricerca sulle staminali, diventano ancor piu' decisivi, primo fra tutti quello della "responsabilita' anche verso chi non e' persona, chi non lo e' ancora e non lo diventera', chi neppure sa di esserci". Della violenza politica dei gruppi della nuova sinistra, Bravo denuncia la mancanza - che in verita' non colma - di un pensiero originale che andasse oltre "l'idea che la violenza sia un dato costitutivo della politica" o "la vecchia distinzione fra azioni difensive e offensive"; il confronto mancato con le pratiche di nonviolenza che pure nel '68 c'erano; l'identificazione vincente nel "combattentismo maschile". Alle donne che prima della o contemporaneamente alla pratica femminista condivisero la militanza nell'estrema sinistra, rimprovera il silenzio sulla violenza allora e oggi. Alle donne di Lotta Continua, organizzazione da cui proviene, Bravo rimprovera - par di capire - un "esercizio di equilibrismo" fra fedelta' all'organizzazione e scoperta femminista, mal compensato dalla pur eclatante rottura nel congresso di Rimini del '76. * Nel merito di queste due tesi, entrambe a dir poco sorprendenti, molto e' gia' stato contestato da quante sono intervenute su "Repubblica", "Liberazione", "l'Unita'", contrapponendo alla versione di Anna Bravo non solo altre memorie, ma documenti (il sito della Libreria di Milano sta ripubblicando i piu' significativi sull'aborto), testi e bibliografia che lei non considera (Paola Di Cori, su "Liberazione", e' stata particolarmente severa sul punto) o considera senza crederci. Sull'aborto, l'immagine del femminismo come un esercito incosciente all'assalto di un diritto facile e gaudente urta la memoria sia delle emancipazioniste, che tornano a mettere l'accento sui meriti della battaglia contro la "piaga sociale" dell'aborto clandestino, sia delle femministe, che lo mettono - lo mettiamo - sulla piega autocoscienziale che l'analisi dell'aborto prese nei collettivi, costruendo un discorso diverso da quello del diritto d'aborto di matrice radicale, e basato piuttosto sull'analisi del desiderio di essere-non essere madre, delle fantasie legate alla gravidanza, dei lapsus dell'inconscio, che portavano a gravidanze indesiderate in anni di uso di massa della pillola, dei sensi di colpa verso il non-nato, delle fantasie sui destini dell'embrione, della distanza fra il vissuto femminile dell'aborto e la disinvoltura dell'intervento medico: potrei raccontare ad Anna Bravo, che evidentemente nel frattempo faceva altro, centinaia di ore di autocoscienza in materia. Sulla violenza politica, e' stato fatto presente all'autrice che la sua esperienza all'interno di Lotta continua a Torino, e il suo occhio puntato piu' sul femminismo della "doppia militanza" che sul femminismo separatista, le confonde la mappa facendole sovrapporre quelle che condividevano le pratiche violente con quelle che le rifiutavano (Maria Schiavo, su "Liberazione"). Condivido e sottoscrivo; e tuttavia non credo che la contestazione possa limitarsi a uno scontro fra memorie diverse, la parola di una contro quella dell'altra affogate in una plurale equivalenza in cui i media possono pescare a piacimento secondo i capricci del momento. Sul femminismo degli anni '70 siamo ancora davvero a questo grado zero dell'acquisizione condivisa? Il conflitto - inevitabile e potenzialmente perfino fecondo - fra memorie diverse non trova argine in alcuna tradizione sedimentata? Detto altrimenti: qual e' il criterio - politico, prima che storiografico - con cui trent'anni dopo si guarda a quell'inizio, e con quale fine? * Piu' che l'enormita' delle sue tesi sull'aborto e sulla violenza politica distintamente prese, colpisce nel saggio di Bravo la mancanza di un nesso fra loro, salvo quello della presunta insensibilita' femminile per il dolore del feto e per il dolore delle vittime. Che e' molto, ma non e' abbastanza, se si tiene conto della ricchezza di nessi che, al contrario, il discorso femminista fu capace di costruire in quegli anni fra la critica della sessualita' e la critica della politica, tracciando un'analitica della violenza in verita' un po' piu' spessa del "siamo tutti responsabili" di Erri De Luca che Anna Bravo porta ad esempio di un "lavoro" ancora da fare. C'era un nesso eccome, fra la domanda "per il piacere di chi abortiamo?" e la domanda "per il piacere di chi dovremmo fare politica come la fanno i nostri compagni?". C'era un nesso eccome, fra l'esercizio microfisico della violenza nei rapporti quotidiani e il ricorso alle forme violente di lotta nella vita pubblica; fra il godimento maschile nell'aderenza ai modelli della forza e del potere, e il senso di estraneita' (o viceversa il mimetismo) femminile nei loro confronti. Che altro voleva dire "il personale e' politico" se non questo taglio del discorso? E a che cosa rispondeva, se non a questo taglio del discorso, il taglio politico operato con la scelta di separarci dai compagni e inventarci un'altra politica? Il vero problema del saggio di Anna Bravo, a mio avviso, e' che a questo taglio non da' alcun valore, e non ne fa principio di interpretazione storica. Si spiega cosi' la mappatura approssimativa - sorprendentemente approssimativa, per una storica riconosciuta come lei - del "noi" a cui fa riferimento, accomunando nella colpevole responsabilita' del silenzio sulla violenza "le militanti dei gruppi extraparlamentari, che hanno sfilato in corteo scandendo slogan truci, partecipato a scontri di piazza e in qualche caso alle azioni dei servizi d'ordine, le donne dei sindacati, dei consultori, della vecchia sinistra, le senza partito", nonche' "le femministe storiche autonome dai gruppi", comprese "quante avevano denunciato il nucleo guerresco della politica maschile scegliendo di comunicare solo con donne"; e sostenendo che ogni distinzione storica e biografica cade di fronte all'"atmosfera di cui siamo state partecipi in varie forme" e da cui nessuna puo' "chiamarsi fuori". Chiamarsi fuori? E da quale atmosfera? Qui siamo al punto. Evidentemente presa dal vecchio equivoco del separatismo come estraneita' femminile, Bravo non riesce a vedere nella nascita del femminismo "storico" e "autonomo" quello che fu, cioe' - rubo l'espressione a Lia Cigarini - un taglio che spacco' la sfera pubblica, dimostrando che un'altra politica, basata sulla relazione e non sullo scontro di piazza, sul conflitto e non sulla guerra, sul rapporto fra personale e politico e non sulla loro scissione, sulle pratiche discorsive e non sui muscoli e la violenza, era - e' - pensabile e possibile. Non fu un gesto di estraniazione: fu un gesto di lotta politica, pacifico in superficie ma a sua volta non poco "violento" sul piano simbolico e psicologico. Il che rende la "seconda nascita" femminista, e per fortuna, molto meno innocente e naive di quanto Bravo la dipinga; ma esente dalla dipendenza, dai sensi di colpa, dai pentimenti nonche' dai moralismi rispetto all'"atmosfera" di quegli anni che Bravo manifesta. Non abbiamo di che pentirci in verita': ne' in parole ne' in opere ne' in omissioni. E nemmeno di che immunizzarci da quell'atmosfera, che non fu solo violenta e luttuosa ma feconda e felice. * Non e' per mettere i puntini sulle i del "noi" e delle sue interne differenziazioni che questo punto va ribadito. Il fatto e' che senza quel taglio, che ha creato ex novo il luogo di enunciazione per la presa di parola di tutte, non ci sarebbe stato allora ne' oggi nessun "noi" di donne, e nessuna politica della differenza. Ma c'e' di piu'. Quel taglio fece venire alla luce per il passato, e rese praticabile per il futuro, l'imprescindibile asimmetria della posizione femminile rispetto alla politica e del femminismo rispetto agli altri movimenti: dopo quel taglio, e' impossibile ricostruire gli anni '70, nonche' gli '80 e i '90, continuando a vedere nelle donne il femminile della politica maschile, nel femminismo un derivato del '68, nella parola femminile un'aggiunta o un correttivo di quella maschile (da questo punto di vista si puo' leggere come un contraltare al saggio di Anna Bravo quello di Maria Luisa Boccia, Il patriarca, la donna, il giovane. La stagione dei movimenti nella crisi italiana, nel secondo volume su L'Italia repubblicana nella crisi degli anni '70, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao, Rubbettino). La differenza sessuale - intesa, c'e' ancora bisogno di dirlo? non come identita' di genere ma come significante aperto della dialettica sociale e politica - domanda di entrare nei criteri politici e storiografici. Ma non sembra orientare ne' il saggio di Anna Bravo ne', per la verita', l'intero numero di "Genesis", da cui il femminismo esce come un fenomeno di late comers, secondo, mancante, sovraordinato dal contesto, fermo alla sua esplosione iniziale, privo di una tradizione di pensiero gia' sedimentata: piu' una gravidanza interrotta che una seconda nascita, tanto per restare in metafora. * Ancora un punto cruciale, forse il piu' cruciale. Nei suoi rimproveri alle donne per aver mancato di parola sulla violenza, Anna Bravo sembra dimenticare quale fossero, negli anni '70, le condizioni della presa di parola pubblica femminile; quali difficolta' avesse la lingua femminista a sfondare la rappresentazione massmediale melensa del femminismo come movimento in gonna a fiori; quale conflitto fosse e sia tutt'ora necessario per contrastare la traduzione e il tradimento (ne ha scritto Luisa Muraro nel sito della Libreria delle donne) del pensiero della differenza nelle compatibilita' correnti del discorso politico accreditato. E quel che e' piu' grave, la dimenticanza dell'autrice continua per l'oggi. Almeno nella sua replica, Bravo avrebbe potuto utilmente riflettere sul contesto in cui il suo saggio cade e viene recepito e utilizzato: in tempi in cui l'accusa di aver ridotto l'aborto a un diritto allegro e incosciente nutre tutta la campagna a favore della legge sulla procreazione assistita; in tempi in cui la riduzione degli anni '70 a anni di piombo e di violenza nutre il peggior revisionismo sulla storia repubblicana, e troppi protagonisti di allora stanno al gioco per guadagnarsi il passaporto di bravi cittadini e cittadine, come ha gia' osservato Maria Serena Palieri sull' "Unita'". O forse perche', come scrive Boccia, di fronte a un bilancio denso e non lineare di quegli anni "molto piu' semplice e' congedarsi, come si addice al tempo della giovinezza, consegnando alla sua acerbita' ogni eccedenza". Fatto sta che il dialogo con le generazioni piu' giovani ne risulta irrimediabilmente compromesso. Nello stesso numero di "Genesis", due giovani ricercatrici, Emmanuel Betta e Enrica Capussotti, accusano i protagonisti e le protagoniste degli anni '70 di farsi portatori e portatrici di una "memoria possessiva, che sembra bloccare la possibilita' di altri punti di vista" sul passato suscitati dalle domande di oggi. Io credo che abbiano ragione. Finche' la memoria del femminismo e degli anni '70 rimarra' appannaggio di chi li ha direttamente vissuti, sara' una memoria identitaria, bloccata, narcisista, noiosa nelle sue ritornanti controversie. A me parrebbe piu' interessante aprirla a relazioni di differenza: con le donne piu' giovani, e con gli uomini che subirono il taglio femminista e poco o nulla ci hanno mai detto di come ne sono rimasti segnati. 4. RIVISTE ON LINE. L'INDICE DEL NUMERO TRE DI "PER AMORE DEL MONDO" [Dal sito www.diotimafilosofe.it riprendiamo l'indice del terzo numero della bella rivista on line "Per amore del mondo"] "Dire il senso delle proprie relazioni con il mondo trasforma il mondo, trasformando il nostro rapporto con esso" Presentazione Per amore del mondo * Per cominciare Carla Lonzi, Per immettere me nel mondo * Strano ma vero Catrin Dingler, Congratulazioni per Elfriede Jelinek * Taglio del presente Ida Dominijanni, Lost in Transition Fina Birules, Difference, Freedom, and Violence. Women and Politics * Sentimento del mondo Mario Tronti, Mundus pulcherrimus nihil. Una lettera Chiara Zamboni, Weltliebe: amore del mondo. A proposito di un libro di Andrea Guenter * Pratica filosofica Maria Isabel Pena Aguado, Bettina Schmitz, Einleitung Maria Isabel Pena Aguado, Bettina Schmitz, "Brief an die Leserin und den Leser" Vorwort zu Das zerstueckelte Leben. Ein philosophischer Briefwechsel Maria Isabel Pena Aguado, Bettina Schmitz, "Carta a la lectora y al lector" Introduccion a Das zerstueckelte Leben. Ein philosophischer Briefwechsel ( La vida fragmentada. Una correspondencia filosofica) Elisabeth Schaefer, "Brief an Marianne und Raquel" Nachwort zu Das zerstueckelte Leben. Ein philosophischer Briefwechsel Adela Vidal, Visiones de una comadrona o mediar en la maternidad * Lingua materna Parlando ancora con Jacques Derrida Chiara Zamboni, Derrida, tra lingua materna e lingua dell'altro Nadia Setti, Langue maternelle en langue autre * Femminismo Luisa Muraro, La scommessa del femminismo Luisa Muraro, L'enjeu du feminisme * Filosofe Intervista a Maria Zambrano (1988) Entrevista a Maria Zambrano (1988) Chiara Paganini, "Tutta la Vita lasciata in disparte dal pensiero" Dal convegno su Maria Zambrano * Presente remoto Luisa Muraro, Andare liberamente tra sogno e realta' Maria-Milagros Rivera Garretas, La mediacion femenina en la historia Ida Travi, Una rimozione storica * Misandria Diana Sartori, Collezionisti. Spunti per una generalizzazione indebita * Al lavoro Anna Maria Piussi, Approfittare della liberta' femminile. Dare anima e corpo al lavoro e alla formazione in tempi di postfordismo * Parole sante Politicamente scorretto * Il lavoro del negativo Wanda Tommasi, Sofferenza di donne: figure di trasformazione * A memoria Mariella Baldo, Re-reading Susan Sontag Barbara Verzini, L'importanza di mantenere un filo * Tradizione filosofica Chiara Turozzi, Caverne cibernetiche * Note a margine Eleonora Graziani, In cerca di un codice * Scritture Giulia Ponsiglione, Segni e sensi del "tu" in alcune liriche di Emily Dickinson Federica Giardini, Marguerite Yourcenar, Il tempo grande scultore * Visioni Barbara Verzini, Las ventanas del alma / Le finestre dell'anima Odilia Mezqia * Materiali del grande seminario Diana Sartori, Connesse: la politica nella rete 1. La terza navigazione Barbara Verzini, Connesse: la politica nella rete 2 Federica Giardini, Matri_x - Ostica matrice Ida Dominijanni, La ferita espropriante. Guerra, lutto, amore * Ho letto Giorgio Rimondi, Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata. Maria Zambrano e i suoi insegnamenti Giovanni Invitto, Sul femminile. Scritti di antropologia e religione . La lettura di Angela Ales Bello Annarosa Buttarelli, Liliana Rampello (a cura di), Virginia Woolf fra i suoi contemporanei * Tesi Gemma Del Olmo Campillo, Lo divino en el lenguaje Eleonora Ievolella, La seduzione nei film di Jane Campion Arianna Ballabio, Il corpo parlato dalle donne ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 2 del 10 marzo 2005
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