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La nonviolenza e' in cammino. 862
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 862
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 8 Mar 2005 00:53:18 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 862 dell'8 marzo 2005 Sommario di questo numero: 1. Giuliana Sgrena: La mia verita' 2. Anna Bravo: Noi e la violenza, trent'anni per pensarci (parte prima) 3. Tre note sul saggio di Anna Bravo 4. Edi Rabini: La scomparsa di Lisa Foa 5. Anna Achmatova: Nella notte vuota 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: LA MIA VERITA' [Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 marzo 2005. Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo. Dal sito del quotidiano "Il manifesto" riprendiamo, con minime modifiche, la seguente scheda: "Nata a Masera, in provincia di Verbania, il 20 dicembre del 1948, Giuliana ha studiato a Milano. Nei primi anni '80 lavora a 'Pace e guerra', la rivista diretta da Michelangelo Notarianni. Al 'Manifesto' dal 1988, ha sempre lavorato nella redazione esteri: appassionata del mondo arabo, conosce bene il Corno d'Africa, il Medioriente e il Maghreb. Ha raccontato la guerra in Afghanistan, e poi le tappe del conflitto in Iraq: era a Baghdad durante i bombardamenti (per questo e' tra le giornaliste nominate 'cavaliere del lavoro'), e ci e' tornata piu' volte dopo, cercando prima di tutto di raccontare la vita quotidiana degli iracheni e documentando con professionalita' le violenze causate dall'occupazione di quel paese. Continua ad affiancare al giornalismo un impegno anche politico: e' tra le fondatrici del movimento per la pace negli anni '80: c'era anche lei a parlare dal palco della prima manifestazione del movimento pacifista"] Sto ancora nel buio. E' stata quella di venerdi' la giornata piu' drammatica della mia vita. Erano tanti i giorni che ero stata sequestrata. Avevo parlato solo poco prima con i miei rapitori, da giorni dicevano che mi avrebbero liberato. Vivevo cosi' ore di attesa. Parlavano di cose delle quali soltanto dopo avrei capito l'importanza. Dicevano di problemi "legati ai trasferimenti". Avevo imparato a capire che aria tirava dall'atteggiamento delle mie due "sentinelle", i due personaggi che mi avevano ogni giorno in custodia. Uno in particolare che mostrava attenzione ad ogni mio desiderio, era incredibilmente baldanzoso. Per capire davvero quello che stava succedendo gli ho provocatoriamente chiesto se era contento perche' me ne andavo oppure perche' restavo. Sono rimasta stupita e contenta quando, era la prima volta che accadeva, mi ha detto "so solo che te ne andrai, ma non so quando". A conferma che qualcosa di nuovo stava avvenendo a un certo punto sono venuti tutti e due nella stanza come a confortarmi e a scherzare: "Complimenti - mi hanno detto - stai partendo per Roma". Per Roma, hanno detto proprio cosi'. Ho provato una strana sensazione. Perche' quella parola ha evocato subito la liberazione ma ha anche proiettato dentro di me un vuoto. Ho capito che era il momento piu' difficile di tutto il rapimento e che se tutto quello che avevo vissuto finora era "certo" ora si apriva un baratro di incertezze, una piu' pesante dell'altra. Mi sono cambiata d'abito. Loro sono tornati: "Ti accompagniamo noi, e non dare segnali della tua presenza insieme a noi senno' gli americani possono intervenire". Era la conferma che non avrei voluto sentire. Era il momento piu' felice e insieme il piu' pericoloso. Se incontravamo qualcuno, vale a dire dei militari americani, ci sarebbe stato uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto. Dovevo avere gli occhi coperti. Gia' mi abituavo ad una momentanea cecita'. Di quel che accadeva fuori sapevo solo che a Baghdad aveva piovuto. La macchina camminava sicura in una zona di pantani. C'era l'autista piu' i soliti due sequestratori. Ho subito sentito qualcosa che non avrei voluto sentire. Un elicottero che sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. "Stai tranquilla, ora ti verranno a cercare... tra dieci minuti ti verranno a cercare". Avevano parlato per tutto il tempo sempre in arabo, e un po' in francese e molto in un inglese stentato. Anche stavolta parlavano cosi'. * Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilita' e cecita'. Avevo gli occhi imbottiti di cotone, coperti da occhiali da sole. Ero ferma. Ho pensato... che faccio? comincio a contare i secondi che passano da qui ad un'altra condizione, quella della liberta'? Ho appena accennato mentalmente ad una conta che mi e' arrivata subito una voce amica alle orecchie: "Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla sei libera". Mi ha fatto togliere la "benda" di cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di questo "Nicola". Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute. Ho provato finalmente una consolazione quasi fisica, calorosa, che avevo dimenticato da tempo. La macchina continuava la sua strada, attraversando un sottopassaggio pieno di pozzanghere, e quasi sbandando per evitarle. Abbiamo tutti incredibilmente riso. Era liberatorio. Sbandare in una strada colma d'acqua a Baghdad e magari fare un brutto incidente stradale dopo tutto quello che avevo passato era davvero non raccontabile. Nicola Calipari allora si e' seduto al mio fianco. L'autista aveva per due volte comunicato in ambasciata e in Italia che noi eravamo diretti verso l'aeroporto che io sapevo supercontrollato dalle truppe americane, mancava meno di un chilometro mi hanno detto... quando... Io ricordo solo fuoco. A quel punto una pioggia di fuoco e proiettili si e' abbattuta su di noi zittendo per sempre le voci divertite di pochi minuti prima. L'autista ha cominciato a gridare che eravamo italiani, "siamo italiani, siamo italiani...", Nicola Calipari si e' buttato su di me per proteggermi, e subito, ripeto subito, ho sentito l'ultimo respiro di lui che mi moriva addosso. Devo aver provato dolore fisico, non sapevo perche'. Ma ho avuto una folgorazione, la mia mente e' andata subito alle parole che i rapitori mi avevano detto. Loro dichiaravano di sentirsi fino in fondo impegnati a liberarmi, pero' dovevo stare attenta "perche' ci sono gli americani che non vogliono che tu torni". Allora, quando me l'avevano detto, avevo giudicato quelle parole come superflue e ideologiche. In quel momento per me rischiavano di acquistare il sapore della piu' amara delle verita'. Il resto non lo posso ancora raccontare. * Questo e' stato il giorno piu' drammatico. Ma il mese che ho vissuto da sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza. Un mese da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni piu' profonde. Ogni ora e' stata una verifica impietosa sul mio lavoro. A volte mi prendevano in giro, arrivavano a chiedermi perche' mai volessi andar via, di restare. Insistevano sui rapporti personali. Erano loro a farmi pensare a quella priorita' che troppo spesso mettiamo in disparte. Puntavano sulla famiglia. "Chiedi aiuto a tuo marito", dicevano. E l'ho detto anche nel primo video che credo avete visto tutti. La vita mi e' cambiata. Me lo raccontava l'ingegnere iracheno Ra'ad Ali Abdulaziz di "Un Ponte per" rapito con le due Simone, "la mia vita non e' piu' la stessa", diceva. Non capivo. Ora so quello che voleva dire. Perche' ho provato tutta la durezza della verita', la sua difficile proponibilita'. E la fragilita' di chi la tenta. Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero semplicemente infuriata. Dicevo in faccia ai miei rapitori: "Ma come, rapite me che sono contro la guerra?!". E a quel punto loro aprivano un dialogo feroce. "Si', perche' tu vai a parlare con la gente, non rapiremmo mai un giornalista che se ne sta chiuso in albergo. E poi il fatto che dici di essere contro la guerra potrebbe essere una copertura". E io ribattevo, quasi a provocarli: "E' facile rapire una donna debole come me, perche' non provate con i militari americani?". Insistevo sul fatto che non potevano chiedere al governo italiano di ritirare le truppe, il loro interlocutore "politico" non poteva essere il governo ma il popolo italiano che era ed e' contro la guerra. * E' stato un mese di altalena, tra speranze forti e momenti di grande depressione. Come quando, era la prima domenica dopo il venerdi' del rapimento, nella casa di Baghdad dove ero sequestrata e su cui svettava una parabolica, mi fecero vedere un telegiornale di Euronews. Li' ho visto la mia foto in gigantografia appesa al palazzo del Comune di Roma. E mi sono rincuorata. Poi pero', subito dopo, e' arrivata la rivendicazione della Jihad che annunciava la mia esecuzione se l'Italia non avesse ritirato le sue truppe. Ero terrorizzata. Ma subito mi hanno rassicurata che non erano loro, dovevo diffidare di quei proclami, erano dei "provocatori". Spesso chiedevo a quello che, dalla faccia, sembrava il piu' disponibile che comunque aveva, con l'altro, un aspetto da soldato: "Dimmi la verita', mi volete uccidere". Eppure, molte volte, c'erano strane finestre di comunicazione, proprio con loro. "Vieni a vedere un film in tv", mi dicevano, mentre una donna wahabita, coperta dalla testa ai piedi girava per casa e mi accudiva. I rapitori mi sono sembrati un gruppo molto religioso, in continua preghiera sui versetti del Corano. Ma venerdi', al momento del mio rilascio, quello tra tutti che sembrava il piu' religioso e che ogni mattina si alzava alla cinque per pregare, mi ha fatto le sue "congratulazioni" incredibilmente stringendomi fortemente la mano - non e' un comportamento usuale per un fondamentalista islamico -, aggiungendo "se ti comporti bene parti subito". Poi, un episodio quasi divertente. Uno dei due guardiani e' venuto da me esterrefatto sia perche' la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle citta' europee e sia per Totti. Si' Totti, lui si e' dichiarato tifoso della Roma ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo con la scritta "Liberate Giuliana" sulla sua maglietta. * Ho vissuto in una enclave in cui non avevo piu' certezze. Mi sono ritrovata profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io sostenevo che bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi ritrovavo nell'alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di finire sequestrata per colpa del mio lavoro. "Noi non vogliamo piu' nessuno", mi dicevano i sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno di sangue di Falluja dalle parole dei profughi. E quella mattina gia' i profughi, o qualche loro "leader", non mi ascoltavano. Io avevo davanti a me la verifica puntuale delle analisi su quello che la societa' irachena e' diventata con la guerra e loro mi sbattevano in faccia la loro verita': "Non vogliamo nessuno, perche' non ve ne state a casa, che cosa ci puo' servire a noi questa intervista?". L'effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava addosso. A me che ho rischiato tutto, sfidando il governo italiano che non voleva che i giornalisti potessero raggiungere l'Iraq, e gli americani che non vogliono che il nostro lavoro testimoni che cosa e' diventato quel paese davvero con la guerra e nonostante quelle che chiamano elezioni. Ora mi chiedo. E' un fallimento questo loro rifiuto? 2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: NOI E LA VIOLENZA, TRENT'ANNI PER PENSARCI (PARTE PRIMA) [Dal sito www.donnealtri.it riprendiamo il seguente saggio di Anna Bravo pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Genesis", saggio su cui si e' sviluppato un ampio dibattito (sebbene molti degli interventi in tale dibattito abbiano fatto riferimento piuttosto ad articoli giornalistici che di esso davano sommariamente notizia che non al testo integrale di esso). Anna Bravo, storica e docente universitaria, si e' occupata tra l'altro di Resistenza, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte. Opere di Anna Bravo: La vita offesa (con Daniele Jalla), Angeli, Milano 1986; Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia (con Daniele Jalla), Milano 1994; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 (con Anna Maria Bruzzone), Laterza, Roma-Bari 1995] Premessa Il (quasi) vuoto storiografico sui femminismi anni settanta e' una doppia anomalia. Di solito i movimenti che hanno vinto le loro sfide non faticano a trovare velocemente storici e narratori. Se poi nelle loro file si contano un certo numero di intellettuali e una componente acculturata, la storia e il suo primo pubblico possono nascere dall'interno stesso del movimento. Non cosi' il femminismo, che pure e' l'unico dei soggetti emersi fra il '68 e la fine del decennio settanta a aver collezionato successi durevoli, anche se ambivalenti. E che, ancora piu' del '68, si e' caratterizzato per la forte presenza di ceto medio colto. Alle ipotesi storiografiche su questa anomalia, vorrei aggiungere il rapporto irrisolto con la violenza. Non la violenza che lo stato e i gruppi neofascisti hanno rovesciato sui movimenti, non la violenza esercitata contro il corpo delle donne, ma quella di cui in vario grado portiamo una responsabilita' per averla agita, tollerata, misconosciuta, giustificata - una questione che e' rimasta fuori o ai margini estremi della ricerca storica e della riflessione politica. Scorrendo le annate di "DWF" e di "Memoria", due riviste classiche degli studi delle donne, ho riscoperto in un numero del 1980 un articolo di 70 pagine sul legame del femminismo con le sinistre (in particolare con il leninismo!) in cui il tema della violenza non viene neppure nominato; lo stesso nei per altro piu' interessanti commenti critici che lo accompagnano. Come se la cosa non ci riguardasse (dominio patriarcale?), o come se la dessimo per scontata (adesione al modello del movimento operaio ufficiale?). Il "noi" che ha avuto trent'anni per pensarci e' costituito dalle tante che all'epoca si sono sentite - continuativamente, a tratti, in una sola occasione - parte del femminismo, e temono che quell'esperienza possa restare, come ha ammonito Lea Melandri, una "rivoluzione senza memoria". E si' che le sue molte anime facevano sperare in una storia a piu' facce, e hanno comunque contribuito a produrre l'arco amplissimo di argomenti e di temporalita' su cui abbiamo lavorato - in questo casi il noi include ricercatrici/tori di seconda generazione. Per contrastare le vaghezze di un pronome sempre sconsigliabile, tranne nel caso di affiliazioni codificate, cerchero' di volta in volta di specificare a quale noi faccio riferimento. Tengo a precisare che parlo della violenza perche' sento il bisogno di una riflessione di donne, ma che gli anni fra il '67-'68 e la fine del decennio settanta, compresa la sua seconda meta', sono stati soprattutto altro: il tempo in cui uno spaccato consistente di giovani donne e uomini ha avuto il privilegio di sperimentare la presa di parola, di vivere e inventare in comune, guardando al futuro con un'intensita' e una fiducia poco comprensibili oggi, quando ormai la parola cambiamento evoca scenari allarmanti. Quel che noi donne abbiamo dato e ricevuto lungo quegli anni, e che e' oggetto di giudizi molto diversi, non e' qui in discussione. Quello che segue e' un abbozzo fondato sui pochi testi in cui il problema della violenza affiora, su dialoghi con amiche di allora e di oggi, sulla mia memoria autobiografica, con i vantaggi e i rischi che comporta, su vicende degli anni successivi lungo le quali molte idee sono cambiate, per me come per altre; sarei felice se la ricerca smentisse il pessimismo di alcune osservazioni. Lo sfondo e' soprattutto torinese. Non mi sembra un limite grave, le riflessioni piu' originali si devono finora a studi di dimensione locale, e Torino, se non e' stata all'avanguardia del femminismo, ha contato molto come laboratorio, soprattutto per quanto riguarda le donne dei gruppi extraparlamentari e del sindacato. * Un esperimento torinese A farmi ripensare alla violenza e alla sua collocazione nella memoria degli anni settanta, ha contribuito un avvenimento gioioso. Il 27 novembre 1987, a Torino, alcuni ex del sessantotto hanno organizzato una festa per il ventennale dell'occupazione di palazzo Campana, la vecchia sede universitaria che aveva visto il debutto del movimento - stesso luogo, nessun discorso, torte giganti, i Nomadi che suonavano. A qualcuno e' venuto in mente che sarebbe stato interessante rivedersi per continuare a parlare. Ci siamo assemblati a caso, indipendentemente dalle vecchie amicizie e appartenenze, e tempo qualche settimana eravamo una microcomunita' chiusa all'esterno, 13 persone che si ritrovavano ogni 15 giorni per intervistarsi a vicenda, dodici a interrogare una a rispondere. Da questa autoricerca durata tre anni, a volte cupa a volte ridanciana, sono uscite decine di ore di registrazione, piu' di duemila pagine trascritte. Oggi la vedo come una riappropriazione collettiva del principio di realta' nei confronti della memoria che avevamo coltivato di quella fase, o almeno di alcuni suoi aspetti, per esempio la rapidita' con cui palazzo Campana si era trasformato da casa-nido-tana, in zona libera da difendere, poi in avamposto da cui muovere bellicosamente verso l'esterno, o il dileguarsi dell'ala situazionista-hippie torinese di fronte all'ala "politica" dei pisani. Sulla violenza, il dato nuovo era che ci riferivamo quasi sempre alla nostra, raramente a quella della parte avversa, un bel salto di qualita' per ex protagonisti di movimenti in cui si era fatto molto uso della distruttivita' altrui per legittimare la propria - il che non diminuisce la tragedia degli uccisi, da Franco Serantini a Giorgiana Masi. Ricordo scorci imprevisti - un dirigente del servizio d'ordine di Lotta continua raccontava di aver immaginato la rivoluzione come uno scenario buio e stagnante, occhi sbarrati che spiavano dalle inferriate di qualche cantina, come se si fosse identificato, invece che con i rivoluzionari, con i braccati; un'altra si sentiva ancora in debito per aver scritto e parlato contro la violenza in termini piu' da anima bella che da militante. Spesso si trattava di flash, e non di tutti; c'erano una Bella addormentata e uno Smemorato di Collegno che tacevano o si stupivano. Non solo: aver messo al centro la soggettivita' aveva un effetto di svelamento e insieme di offuscamento: nessuno faceva appello al contesto per "spiegare" i comportamenti, a differenza di quel che e' avvenuto in varie memorie di terroristi; ma nessuno spingeva l'interrogazione oltre certi margini di sicurezza, quasi volessimo proteggere una zona vulnerabile - altra cosa, comunque, dell'aura di insindacabilita' che di li' a poco sarebbe stata conferita al cosiddetto versante soggettivo. Sulla violenza nei rapporti uomo/donna ci attenevamo cautamente al passato. Era un materiale significativo per quel che diceva e per quel che non diceva, curioso, a tratti davvero nuovo. Non abbiamo mai accettato di renderlo pubblico in qualche forma, eppure tre di noi facevano gli storici, quattro gli insegnanti, uno il sociologo, un altro scriveva narrativa. Le duemila pagine sono rimaste li'. Perche', credo, eravamo consapevoli che su due punti, la violenza e i rapporti uomo/donna, ci eravamo fermati a meta' strada. Gli stessi terreni su cui si era consumata la dissoluzione di Lotta continua avevano finito per logorare il nostro "Paradiso bimbi", come scherzava una di noi alludendo alla rimozione del conflitto fra i sessi, della distruttivita incorporata in ogni dinamica di gruppo - e, nei termini che ho detto, della violenza. Metto in conto anche il rispetto per gli assenti, e quel tanto di spirito di corpo che nasceva "dall'aver fatto il militare insieme", espressione con cui uno di noi sintetizzava la prevalenza dell'immaginario maschile e una visione dell'impegno politico come rito di passaggio. Ma c'era di piu', una sorta di sbarramento nella memoria, una resistenza quasi fisica al rovistare negli angoli oscuri del passato. Anni dopo, quando Aldo Cazzullo mi ha chiesto un'intervista per il libro su Lotta continua destinato a diventare I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, ho risposto che non avrei potuto raccontare senza parlare della violenza, e che non ero pronta a fare i conti con i miei peccati di omissione - troppo "interne" le critiche che avevo avanzato all'epoca, troppo tardiva la presa d'atto del vincolo fra mezzi e fini. Esagerare le proprie responsabilita' puo' essere una autolegittimazione a tacere. Mi sono chiesta se era stato cosi' per altre - di alcune lo so - e quanto la violenza fosse un ingombro anche per la ricerca, impossibile ignorarla, doloroso analizzarla. Come problema storico-teorico e come dannazione del presente, molte di noi se ne sono fatte carico in vari modi. Dunque la "svagatezza" sugli anni settanta sembra soprattutto una questione di biografia individuale e collettiva. Come se la rivoluzione delle donne, pacifica, sostanzialmente vittoriosa, durevole, si fosse guardata allo specchio sentendosi rispondere "sei la piu' bella del reame", e non accettasse di incrinare quell'immagine. O come se il femminismo, vissuto come seconda nascita, avesse fatto tabula rasa delle storie e delle responsabilita' precedenti. Dietro le metafore, le domande sono: fino a che punto siamo riuscite a smontare le forme mentali e le categorie correnti sul nodo della violenza e della sofferenza; fino a che punto ha senso oggi difenderci dalla memoria di quel che e' avvenuto prima della seconda nascita, o che ci ha contornato in seguito? * Una lotta non (troppo) ideologica Quando si nomina la violenza dei movimenti anni settanta, ci si riferisce di solito allo scontro di piazza, ai picchettaggi, all'"antifascismo militante" (su un diverso piano al terrorismo). Ma c'e' una violenza che ha una storia infinitamente piu' lunga e piu' complicata, quella dell'aborto, in cui il corpo femminile e' oggetto di manipolazione cruenta e nello stesso tempo tramite dell'aggressione contro il feto. Di fronte alla somma di sopraffazioni patite dalle donne, anche oggi si ha quasi paura di scegliere il punto di vista della distruttivita' in cui siamo invischiate. Dietro certe semplificazioni e silenzi di allora, c'era la fatica di districarsi fra la consapevolezza di essere vittime e quella di non essere solo vittime, e non le sole. Si puo' ben capire - eravamo giovani, nel pieno della lotta per la depenalizzazione esplosa in tutto il mondo occidentale, si viveva di corsa e lo trovavamo naturale. Ma in seguito? sono passati piu' o meno trent'anni, e non siamo state sempre sotto assedio, come avviene oggi con la legge 40 del 2004 sulla procreazione assistita. Per chi non c'era o ha dimenticato, bisogna accennare a tre scenari almeno. Il primo e' il processo secolare lungo il quale il potere religioso, politico, medico-scientifico - si puo' davvero dire potere patriarcale - e' arrivato a imprigionare il corpo femminile, fino a dichiarare madre e feto realta' separate e contrapposte. Le leggi e la loro applicazione potevano essere piu' o meno dure, le motivazioni variare dalla tutela della persona e del pudore agli interessi della nazione o di un'ideologia totalitaria. Sono distinzioni rilevanti sul piano giuridico e politico, e prima ancora per la vita delle donne. Una cosa e' la maggiore ingerenza dello stato nei paesi democratici, dove si accompagna all'ampliamento dei diritti legati alla cittadinanza, al suffragio femminile, spesso al potenziamento dell'informazione sugli anticoncezionali - e al libero confronto di opinioni. Tutt'altra cosa e' il dominio sui corpi nella Germania nazista, nell'Urss di Stalin, nell'Italia fascista. Anche su questo terreno i totalitarismi non sono la verita' nascosta delle democrazie. Resta il fatto che il controllo sul corpo e la natalita' da parte degli stati e delle istituzioni medico-scientifiche e' un aspetto della modernita'; e che le normative riducono la donna a ambiente di crescita del feto e a sua potenziale nemica. Fra la Mater dolorosa e Medea, versione procreativa dell'antinomia vergine/puttana, non c'e' spazio per la paura, il dubbio, la sprovvedutezza, il sacrosanto rifiuto del sacrificio a tutti i costi, la voglia di autonomia, e altro ancora. Pochi cenni sul secondo scenario, che descrive quel che e' stato l'aborto fino alla legge 194 del 1978. Clandestinita' a caro prezzo, metodi sempre pericolosi, a volte mortali; per chi poteva, cliniche in Italia o viaggi a Londra. Dietro la ventata di liberazione sessuale dei primi anni settanta, c'erano ancora molta paura e ignoranza, mentre lo speciale potere della Chiesa cattolica nella politica nazionale e la prudenza del partito comunista sul tema ostacolavano le prospettive di riforma. Il rischio era che per reazione il movimento delle donne imboccasse una deriva ideologica. Il terzo scenario mostra che non e' andata del tutto cosi'. La campagna inizia nel 1971, quando il neonato Movimento di Liberazione della Donna, vicino al partito radicale, lancia una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare che abolisca il reato di aborto, senza introdurre norme in positivo. La facolta' delle donne di decidere se essere madri e' fatta rientrare (insieme a violenza sessuale, lavoro, salute) nell'alveo dei diritti civili; che la legge criminalizzi una pratica secolare e' la prova del limite posto alla autodeterminazione delle donne, dunque depenalizzare l'aborto equivale a reintegrarle nella piena cittadinanza. La prima a respingere la proposta, lo stesso anno 1971, e' probabilmente Carla Lonzi, che insiste sul nesso fra maternita' e sessualita' femminile imposto come legge naturale dal sistema dei rapporti di genere; la domanda da porsi non e' se abortire o no, e': "per il piacere di chi sto abortendo?". Anche la Libreria delle donne di Milano rifiuta il concetto di diritto di aborto, che lo assimilerebbe a una tappa nell'allargamento graduale dei diritti civili e umani, e discute, ma con il timore di esporla apertamente, la posizione delle "disinteressate al problema dell'aborto", "l'obiezione della donna muta , di quella cioe' che non vuole essere descritta, illustrata, difesa da nessuno". Ad alcuni collettivi sembra assurdo sostenere una legge che pretenda di decidere sul corpo di altre donne, e che finirebbe per favorire l'irresponsabilita' maschile; di fronte a una gravidanza inopportuna, un uomo potrebbe piu' facilmente caldeggiare l'aborto. Previsione in parte sbagliata: con l'enfasi crescente sulla maternita' e sulla paternita', il maggior potere contrattuale femminile e la stessa maturazione maschile, e' spesso accaduto il contrario - la donna che rivendica il suo diritto esclusivo a decidere, l'uomo che chiede di esserne fatto partecipe. Sempre piu' vicina al femminismo, l'Udi preme per una normativa che fissi alcune condizioni e procedure, salvando pero' la facolta' di decidere delle donne. Nel frattempo prende forma una svolta. Alcuni gruppi mutuano dal '68 e dalla nuova sinistra la pratica degli obiettivi, come si diceva allora - cioe' la messa in atto di comportamenti giusti e illegali di contro a situazioni o leggi ingiuste. Nel '73 viene fondato il Cisa (Centro italiano sterilizzazione e aborto) espressione dell'area radicale-femminista, che pratica interventi alla luce del sole, in centri privati e a prezzi politici. E' la prima uscita dalla clandestinita'. Nel 1975 nascono il Crac (Coordinamento romano aborto contraccezione), e in varie citta' i Centri per la salute della donna, composti per lo piu' da militanti di Avanguardia operaia, Lotta continua, Manifesto, e da vari collettivi femministi. Il Cisa punta sulla disobbedienza civile e sull'importanza di renderla visibile, i Centri danno spazio al self-help e all'autocoscienza prima e dopo l'intervento, e si concentrano sulla ricerca di modalita' il meno possibile traumatiche. In tutti e due i casi l'autogestione favorisce l'approccio piu' pragmatico che caratterizza la lotta per l'aborto rispetto ad altre. Fra le varie componenti del movimento, potevano correre toni duri. Per le femministe dei gruppi extraparlamentari e del sindacato, l'aborto rappresentava anche quell'opportunita' di uscire "allíesterno" cara alla loro formazione movimentista; e uscita all'esterno voleva dire raccolte di firme, grandi manifestazioni fragorose e colorate, e intervento nei quartieri a fianco delle donne. Stare dalla parte dei piu' deboli, o presunti tali, e' stato il sogno migliore della nuova sinistra, per quanto a volte in veste di Zorro e con precipitose semplificazioni populiste - come quando ci facevamo forti della tranquillita' con cui molte proletarie sembravano affrontare l'aborto. Le femministe storiche, stremate dal martellamento delle "scadenze politiche", dagli appelli a sottoscrivere documenti e a scendere in piazza, convenivano su una legge che garantisse condizioni sicure per la gravidanza e la sua interruzione; ma altra cosa era organizzare manifestazioni "abortiste", e per di piu' in compagnia dei maschi, una scelta che mimetizzava il conflitto uomo/donna proprio sul piano del rapporto fra sessualita' e concepimento. Tensioni inevitabili, dunque. Evitabile, invece, la delegittimazione reciproca affidata alla decrepita abitudine di scambiarsi etichette distorcenti: "borghesi" autoreferenziali e sorde ai problemi delle masse, le femministe storiche; "gruppettare" eterodirette dai capi le donne della nuova sinistra - dal "chi vi paga" con cui alcuni sindacalisti reagivano ai volantinaggi alla Fiat, si era passati al "chi vi manovra?". Potevamo fare di meglio, tutte. L'aspetto interessante e' che la discussione ha sempre cercato di ancorarsi all'esperienza, sebbene dell'esperienza si sottolineassero aspetti diversi - per le radicali l'abuso di potere dello stato, per le femministe storiche il cortocircuito sessualita'/procreazione, per le extraparlamentari, almeno in un primo tempo, l'ingiustizia dell'"aborto di classe". E' grazie a questo legame con il vissuto che alla contrapposizione aborto/non aborto abbiamo sostituito quella fra aborto legale e aborto clandestino, che abbiamo insistito sul destino dei figli non voluti voluti, mentre hanno avuto pochissimo seguito posizioni estreme, come quelle cui si ispirava la proposta di legge presentata da due deputati della sinistra extraparlamentare, Pinto e Corvisieri, per l'aborto libero fino a 22 settimane di gravidanza - aborto sempre o quasi, versione speculare di "aborto mai". Avremmo meritato una legge migliore della 194. Con qualche contraddizione rispetto alla presunta disinvoltura delle proletarie, la donna era presentata invariabilmente come vittima di una violenza plurima: la pretesa di controllo sul suo corpo, la pratica abortiva, la rinuncia a un figlio che in condizioni diverse forse avrebbe voluto. Chi interveniva "nel sociale", insisteva sui costi fisici e psichici - descrizione verosimile, ma anche tentativo di superare attraverso la certificazione del dolore l'ideologia del contrasto fra interesse della donna e interesse del concepito. Negare di aver sofferto era pressappoco la rottura di un patto tacito. Soprattutto, al di la' di grandi ansie e incertezze, su un punto siamo rimaste ferme. Erano anni in cui il Movimento per la vita mostrava fotografie di minuscoli feti con braccia gambe testa, bambini in miniatura, mentre la propaganda antidepenalizzazione (e Pasolini) definivano l'aborto un omicidio. Per noi (tutte noi), convinte che la soggettivita' sia un fatto di relazioni, la vita cominciava quando si entrava in contatto con il mondo e con gli altri; che il feto fosse materia vivente, non implicava considerarlo una vita. Eppure non ci siamo mai lasciate trascinare a discutere sul momento in cui avverrebbe il passaggio dall'una all'altra condizione. Credo che all'epoca nessuno avrebbe potuto pretendere di piu', tranne noi stesse. * Cose non dette Ci sono punti su cui si e' taciuto, o forse si e' parlato fra poche, e mi chiedo se non sia stato un segno di poca fiducia nella nostra capacita' di reggerli, e di poca cura verso noi stesse. Torno al rapporto fra interesse della donna e interesse del feto, fra i rispettivi "diritti alla tutela" (ma come suona sempre ipocrita il termine diritto se lo si applica a chi non puo' rivendicarlo, e come hanno ragione le studiose che hanno criticato l'ipertrofia giuridicista che fa di ogni relazione un fatto di diritti e doveri). Giusto denunciare l'artificialita' dell'espressione "vita fetale"; il concepito vive della madre e attraverso la madre, visto come entita' a se' si puo' al massimo dire che esiste. Ma appunto esiste come qualcosa (qualcuno) d'altro, diversamente l'organismo materno non dovrebbe rimodulare il proprio sistema immunitario per neutralizzare gli anticorpi che lo espellerebbero come entita' estranea; se non c'e' contrapposizione, c'e' distinzione. Giusto, di fronte a questa situazione unica in cui il corpo deve negoziare con se stesso prima ancora che con il feto, ribadire che nessun diritto spetta allo stato, e affidarsi alla coscienza femminile. Se non che, coscienza e' la piu' ingannevole delle parole (e lo sapevamo), che nasconde una dimensione niente affatto libera da ambivalenze e oscillazioni. Sulla coppia madre/figlio, luogo delicatissimo dell'immaginario (non solo) femminile, pesano fantasmi di lunga durata. La madre ostile e' un topos cosi' numinoso che le fiabe la sdoppiano nella matrigna. Nella fantascienza e nella fantasy ricorre l'incubo del feto (o neonato) nemico, potente e subdolo, Rosemary's baby o la creatura di Alien. La paura del bambino mostro non abbandona mai una donna, e neppure la paura di essere incapace di accogliere il figlio. Di questo fardello non c'e' traccia, quantomeno nei discorsi e negli scritti pubblici, dove si sorvolava sulla sensazione di essere invase da un estraneo, e sulla madre ostile - quella che ci ha generato, quella che potevamo diventare. Doppio paradosso per noi che predicavamo il diritto ai nostri tempi in potenziale collisione con i tempi dell'altro - e il feto e' un altro; per noi che della madre nemica avevamo fatto a volte esperienza diretta - come scrive Dorothy Parker, ci sono donne molto restie ad abbandonare la speranza in un fallimento delle figlie. E ci sono figlie per le quali scegliere l'aborto e' il modo piu' immediato per non diventare come le madri. Il grande (o forse piccolo) mito ideologico di quegli anni era partorire se stesse. Il perche' del silenzio si puo' in parte intuire. Che la minaccia al feto venissse dall'esterno era facile da accettare, che venisse dalla madre, no, ne' che le sue ambivalenze non si sciogliessero affatto nell'accettazione. Eletta a garanzia contro "l'aborto facile", la sofferenza non aiutava a vedere la realta' in tutte le sue implicazioni, a cominciare dal destinatario duplice della violenza. Come sembrano piu' lineari (e antiche) certe questioni su cui si spendeva la nuova sinistra, partito o non partito, votare o non votare. A ripensarci oggi, mi sembra che un certo grado di ottusita' fosse necessario per difenderci dalle immagini da Grand Guignol degli antiabortisti, per resistere a una propaganda cosi' brutale e insinuante che non c'era bisogno di essere credenti per sentirsene ferite. Il Movimento per la vita invitava a non abortire promettendo assistenza e l'adozione pre-nascita da parte di amorose famiglie "regolari" (ironia: essendo oggi ammessa in vari paesi la pratica dell'utero in affitto, si potrebbe parlare di lavoro non pagato); dopo l'approvazione della 194 correva voce che in alcuni ospedali si cercasse di organizzare funerali per i feti abortiti. Se esistesse il reato di istigazione al senso di colpa, questo sarebbe un esempio da manuale, proprio il contrario della riduzione del danno che ci stava a cuore - per quanto il termine all'epoca non fosse in uso. In fondo, e' stata una fortuna viverci come figlie, puellae, angeli sterili, all'interno di movimenti in cui signoreggiava il mito del puer aeternus e l'adultita' era rinviata a un futuro impreciso. Ma come dovevano sentirsi sole quelle di noi che avessero sentore o consapevolezza di quei problemi, le forse non molte che, pur lottando per la depenalizzazione, non avrebbero mai potuto abortire, le poche che praticavano gli interventi nei consultori autogestiti. Penso soprattutto alla difficolta' di fare i conti con la parte di noi che restava impigliata nel corpo del feto, e all'incapacita' di trovare un modo per dare forma al lutto - a distanza di anni, una "disinvolta proletaria" ricordava il feto abortito nei minimi dettagli, quasi non fosse mai uscito dalla sua mente e dalla sua vita. Agnostiche o religiose che fossimo, abbiamo avversato con perfetta ragione i riti del Movimento per la vita; ma non siamo andate al di la', troppo sensibili al rischio di una egemonia cattolica, troppo preoccupate di fare il gioco dell'avversario, programmaticamente sospettose verso un possibile ritorno del sacro. E inermi di fronte alla morte. La scheggia di generazione che eravamo (qui parlo soprattutto di donne e uomini dei gruppi extraparlamentari) l'aveva trasformata da corollario della vita a evento inscritto nello scontro politico. Scandire "per i compagni morti non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto" valeva a indicare i responsabili e insieme ad alleviare la sofferenza grazie a un sostegno simbolico potente: i morti si piangevano, e piangerli voleva dire anche vendicarli. Poi quella fase si e' chiusa, il rito militante ha perso senso, e sono arrivati i terribili funerali di fine anni settanta - primi anni ottanta: sparite le bandiere, i discorsi, i pugni chiusi, e al loro posto la solitudine in mezzo a tanti, e niente e nessuno che potesse contenere il dolore. Infatti sono nate presto nuove cerimonie, con canzoni, poesie, fiori, letture, in qualche caso con la riscoperta del tradizionale pasto in comune al rientro dal cimitero. Forse anche per l'aborto qualche forma di rito - opposto alla logica del Movimento, non codificato, tenero, pudico - avrebbe portato un po' di consolazione. La vicinanza delle amiche prefigurava qualcosa di simile, e credo che nessuna, o quasi, sia andata ad abortire senza la compagnia di un'altra donna: dove non arrivava la teoria arrivava l'empatia. Ma chissa' se qualcuna ha capito il bisogno di ritualita', o se tutte ci eravamo consegnate allo schematismo iperlaicista. Ricordo la volta che Alexander Langer aveva detto di provare compassione per le donne che abortivano, e la mia reazione istantanea: "e' rispetto che vogliamo" - come se le due posizioni non potessero coesistere, e la compassione fosse un sentimento dubbio, troppo poco militante, troppo "cattolico". Che la religione e le credenze religiose andassero smontate e "vivisezionate", per capirne le ragioni e rubargliele, era, se c'era, un'idea di poche. (Parte prima. Segue) 3. RIFLESSIONE. TRE NOTE SUL SAGGIO DI ANNA BRAVO La prima: il femminismo, i femminismi, e piu' ampiamente: il pensiero e le prassi delle donne, sono la "corrente calda" della nonviolenza in cammino. Lo stesso saggio di Anna Bravo ne e' la conferma in atto, e ne sono conferma i molti interventi di donne che a questa acuta, acuminata e sollecitante proposta di riflessione di Anna Bravo hanno risposto - in forme e toni e stili variegati assai, ed esprimendo opinioni assai diversificate e sovente divergenti - in questi ultimi mesi, interventi alcuni dei quali abbiamo gia' pubblicato anche su questo foglio. Se, come crediamo, la nonviolenza e' quella teoria-prassi di solidarieta' e di liberazione che afferma la dignita' umana di ogni essere umano, la coerenza tra i mezzi e fini, la scelta della verita', concretamente agita, sperimentale, contestuale, aperta, ebbene, le esperienze di pensiero e di azione delle donne sono exemplum atque figura e principale motore storico e teoretico della nonviolenza come progetto politico-sociale e come modalita' relazionale; come scommessa, struttura e trama esistenziale, e come scelta logico-assiologica, ermeneutica, metodologica ed operativa. La seconda: la nonviolenza e' la scelta necessaria per condurre hic et nunc la lotta contro le immani violenze che stanno devastando il mondo. La scelta necessaria. E urgente. Chi pensa di poter lottare per la pace, la giustizia e la dignita' umana con metodi che la violenza riproducono, in verita' non sta lottando per la dignita' umana, la giustizia e la pace, ma coopera alla catastrofe riproducendo, provocando, perpetuando e magnificando l'iniquita' dominante. La terza: dalle esperienze e dalle riflessioni del movimento delle donne, e dalle concrete esistenze, elaborazione e pratiche dalle donne agite (a partire almeno da Saffo: prima costruttrice e animatrice di una comunita' di pace e di nonviolenza, prima promotrice di una cultura della solidarieta', della liberazione e dell'amore come paradigma educativo e principio di organizzazione sociale), abbiamo tutti imparato qualcosa, qualcosa di cruciale e ineludibile, poiche' quelle esperienze e riflessioni parlano a tutta l'umanita' e fanno scuola in primo luogo alle persone di genere maschile eredi e corresponsabili di millenni di oppressione che hanno negato piena qualita' umana a meta' dell'intera umanita' (e proprio alla meta' che l'umanita' concretamente riproduce e fa esistere ancora), e quindi all'umanita' intera: dimidiandola, mutilandola, accecandola, sbranandola infine. E' persuasione di questo foglio che la scelta della nonviolenza sia una necessita' ormai evidente per tutte le persone ragionevoli; e' persuasione di questo foglio che della nonviolenza il pensiero e le pratiche delle donne siano il referente storico, epistemologico ed esperienziale decisivo. 4. LUTTI. EDI RABINI: LA SCOMPARSA DI LISA FOA [Ringraziamo Edi Rabini (per contatti: edorabin at tin.it) per questo ricordo. Edi Rabini, che e' stato grande amico e stretto collaboratore di Alex Langer, e' impegnato nella Fondazione Alexander Langer (per contatti: e-mail: langer.foundation at tin.it, sito: www.alexanderlanger.org). Lisa Giua Foa, nata nel 1923 a Torino da una famiglia di illustri intellettuali antifascisti, partigiana, intellettuale, storica e saggista, attenta osservatrice dell'est, un lungo impegno politico nel Pci, tra i fondatori del "Manifesto", poi in "Lotta Continua", poi ancora impegnata, da ultimo nella Fondazione Alexander Langer. Opere di Lisa Foa: tra le altre segnaliamo: La societa' sovietica, Loescher, Torino 1973; sua la prefazione a Yolande Mukagasana, La morte non mi ha voluta, La meridiana, Molfetta (Bari) 1998; E' andata cosi', Sellerio, Palermo 2004. Scritti su Lisa Foa: segnaliamo il profilo scritto da Adriano Sofri in Italiane, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 2004; e la pagina a lei dedicata dal quotidiano "Il manifesto" del 5 marzo 2005, che riporta anche un suo profilo estratto dal capolavoro di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi e Mondadori, varie edizioni ("Lisetta era identica al fratello Renzo, alta, magra, pallida, diritta con gli occhi accesi, con i capelli corti e un ciuffo sulla fronte. Andavamo insieme in bicicletta...". E ancora alla fine del libro: "Lisetta non era molto cambiata, dal tempo che andavamo in bicicletta e mi raccontava i romanzi di Salgari. Era sempre magra, dritta e pallida, con gli occhi accesi e col ciuffo sugli occhi. Sognava, a quattordici anni, imprese avventurose: e aveva avuto qualcosa di quello che aveva sognato, durante la Resistenza. Era stata arrestata, a Milano, e incarcerata a Villa Triste. L'aveva interrogata la Ferida. Amici travestiti da infermieri l'avevano aiutata a fuggire. Poi si era ossigenata i capelli, per non essere riconosciuta. Aveva avuto, tra fughe e travestimenti, una bambina...")] Ancora un lutto nella Fondazione Alexander Langer, dopo Anna Segre e Renzo Imbeni. Ora Lisa Giua Foa. Anche lei faceva parte del piccolo gruppo che dal 1996 ha pensato di voler dedicare ad Alex una Fondazione e continuare la sua ricerca di "talenti" che potessero far riflettere su di un luogo e un tema. Soprattutto a lei si devono il premio ruandese a Yolande Mukagasana e Jacqueline Mukansonera nel 1998, e quello ultimo alla fondazione polacca Pogranicze, per i quali ci ha messo a disposizione le sue reti di amicizie e scambi maturati in decenni di intelligente lavoro. 5. POESIA E VERITA': ANNA ACHMATOVA: NELLA NOTTE VUOTA [DA Anna Achmatova, Poema senza eroe, Einaudi, Torino 1966, 1993, p. 127. Anna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (1889-1966), e' una delle grandi poetesse del Novecento, e delle piu' alte voci contro la guerra e il totalitarismo. Opere di Anna Achmatova: Poema senza eroe, Einaudi, Torino 1966, 1993; Io sono la vostra voce, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1990, 1995; Lo stormo bianco, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, Fabbri, Milano 1997. Opere su Anna Achmatova: Lidija Cukovskaja, Incontri con Anna Achmatova. 1938-1941, Adelphi, Milano 1990] E quel cuore piu' non rispondera' Alla mia voce, esultante e afflitto. Tutto e' finito... E il mio canto risuona Nella notte vuota, ove piu' tu non sei. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 862 dell'8 marzo 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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