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La nonviolenza e' in cammino. 863
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 863
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 9 Mar 2005 00:29:57 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 863 del 9 marzo 2005 Sommario di questo numero: 1. Severino Vardacampi: Anni settanta 2. Anna Bravo: Noi e la violenza, trent'anni per pensarci (parte seconda) 3. L'arte della nonviolenza. Un corso a Verona 4. Antonio Papisca: Testimonianza al processo per il blocco nonviolento del treno della morte 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. SEVERINO VARDACAMPI: ANNI SETTANTA Nel frattempo infuriava non sale o grandine, ma piombo e sangue. Fummo di quelli che allora si accostarono con sempre maggior consapevolezza e saldezza alla nonviolenza, sentimmo che la nonviolenza era l'"aggiunta" (cosi' Capitini) indispensabile al "sogno di una cosa", al progetto di liiberazione per cui ci battevamo. Non abbiamo mai cambiato idea. Abbiamo sempre saputo che l'unico partito a cui potevamo aderire era ed e' quello delle vittime. Abbiamo sempre saputo che l'unico programma politico a cui potevamo aderire era ed e' quello che al primo punto recita: tu non uccidere, tu salva le vite umane. Il programma di Giacomo Leopardi, il programma di Virginia Woolf, il programma di Simone Weil, il programma di Albert Camus, il programma di Hannah Arendt. 2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: NOI E LA VIOLENZA, TRENT'ANNI PER PENSARCI (PARTE SECONDA) [Dal sito www.donnealtri.it riprendiamo il seguente saggio di Anna Bravo pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Genesis", saggio su cui si e' sviluppato un ampio dibattito (sebbene molti degli interventi in tale dibattito abbiano fatto riferimento piuttosto ad articoli giornalistici che di esso davano sommariamente notizia che non al testo integrale di esso). Anna Bravo, storica e docente universitaria, si e' occupata tra l'altro di Resistenza, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte. Opere di Anna Bravo: La vita offesa (con Daniele Jalla), Angeli, Milano 1986; Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia (con Daniele Jalla), Milano 1994; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 (con Anna Maria Bruzzone), Laterza, Roma-Bari 1995] La cognizione del dolore C'e' stato un non detto, probabilmente un non pensato, che oggi mi colpisce piu' di ogni altro. Da quanto so e ricordo, ne' durante le riunioni di autoscoscienza, ne' nei documenti in circolazione, si sono affacciati un timore o un'inquetudine per l'eventualita' che il feto potesse risentire dell'intervento, neppure quando si trattava di tecniche pesanti o di gravidanza avanzata. La legislazione americana, che ammette l'aborto fino a 24 settimane (e la nostra, che fissa lo stesso termine in caso di motivi terapeutici), inquietava non perche' si temesse di "far male" al feto, ma perche' il suo corpo era ormai troppo simile a quello di un neonato e ci si sentiva al limite dell'infanticidio. A nessun fisiologo o medico abbiamo mai pensato di chiedere informazioni sullo sviluppo del sistema sensoriale nel feto, sul momento in cui dolore e fastidio avrebbero potuto essere avvertiti. Molto probabilmente non avremmo incontrato che risposte vaghe, o un vago stupore. Dai paladini del concepito non veniva il minimo barlume di consapevolezza, a conferma che ci si puo' benissimo mobilitare per la vita in astratto e non tenere in nessuno conto la materia vivente. Nel linguaggio medico non esisteva neppure un termine per indicare il male che puo' patire il feto, la parola sofferenza o suffering si riferiva a una patologia, non a una sensazione, e non molto e' cambiato. Anche oggi, quando si parla dei pericoli dell'amniocentesi si intende pericolo per la buona riuscita del "prodotto", non per le sue reazioni di fronte all'ago che penetra nel sacco amniotico. Il dolore del feto non rientra fra quelli "autorizzati" dai codici sociali, medici, linguistici, non dispone di una retorica per descriverlo, lo si puo' al massimo spiare attraverso rilievi clinici. Fino agli anni ottanta non era autorizzato neanche quello dei prematuri e dei neonati. Sono lontanissima dal pensare che avremmo dovuto sbattere la possibile sofferenza del feto sulla nostra stessa faccia - torturatrici, oltre che assassine? - e ripiegare nella lotta per la depenalizzazione. Riconosco che il discorso sarebbe stato sconvolgente, sospettabile di eccesso emotivo e di abuso concettuale, e da tenere fra noi, protetto dalle manovre politiche - l'opportunita' non coincide sempre con l'opportunismo. Ma avrebbe segnato, credo, una buona presa di distanza dal potere medico-scientifico, di cui stavamo denunciando la simulazione di neutralita' su altri terreni; e un passo in piu' sulla strada della cura. Se si da' credito al dolore delle donne, bisogna dar credito anche all'impegno (di molte, di alcune?) a non duplicarlo nel feto, dunque ad aumentare l'attenzione contraccettiva e magari a porre la questione delle tecniche piu' protettive per provocare, o scongiurare, l'aborto, in primo luogo l'anestesia. Pensieri disperatamente improbabili, allora. Resta il fatto che la domanda "Fara' male?' e' la prima reazione di fronte a qualsiasi intervento medico-chirurgico, e che non e' stata posta. Ci avrebbe fatto bene conoscere la storia di Ignaz Philipp Semmelweiss, giovane chirurgo ungherese in servizio al reparto di maternita' dell'ospedale di Vienna, che nel 1847 nota che a ammalarsi di febbre puerperale sono soprattutto le donne che sono state visitate dagli studenti. Un fatto cui nessuno aveva mai badato, tranne le partorienti, che supplicavano di essere assistite dalle levatrici. Collegando la malattia alla scarsa igiene degli studenti e sospettando l'esistenza di microorganismi invisibili, Semmelweiss impone loro di lavarsi le mani con un disinfettante prima di visitare le puerpere: in due anni, la mortalita' nel reparto si riduce dal quasi 13% all'1,23%, e lo stesso accadra' alla clinica universitaria di ostetricia di Budapest. Manca il lieto fine. Accusato di diffamare la professione e di postulare un contagio non accertabile "scientificamente", bersaglio di ostracismi e dicerie, Semmelweiss avra' un crollo nervoso e morira' ancora giovane in manicomio. Ma la sua rimane una storia di rispetto per l'esperienza delle donne e di coraggio nel lasciar fluire connessioni impreviste. La nostra no, non in questo caso. Dietro la domanda mai formulata, intravedo una mancanza di immaginazione che non era affatto un vuoto, era un pieno inconsapevole di vecchie forme mentali, dalla passione per la compiutezza/completezza, alla smaterializzazione dei corpi, all'identificazione fra razionalita' e logica strumentale. Forse che la condizione albare, sospesa (o terminale), giustifica l'irrilevanza del dolore? L'importante e' solo che il feto "funzioni" bene? Anche i movimenti e lo stesso amato '68 hanno contribuito a questa impasse, impregnati com'erano di un antropocentrismo secco e non riflettuto, in cui la natura e i viventi non umani (o non ancora umani) erano tranquillamente ignorati. "Vi siete mai chiesti che cos'avranno pensato le capre di Bikini? e i gatti nelle case bombardate? e i cani in zona in guerra? e i pesci allo scoppio dei siluri?" scriveva Calvino nel '46. La risposta e' "no", e ha molte radici, dalla lunga cecita' delle ideologie politiche e della dottrina cattolica, all'incapacita' di immaginare che possa esistere un interesse comune fra classi o fra popoli in conflitto, a una militanza cosi' totalizzante e dominata dall'antinomia amico/nemico da cancellare quel che la eccedeva, a cominciare dalla prossimita' fra l'umano e il resto del mondo senziente. Ancora oggi, dopo tanti anni e tanti ripensamenti, non so se quando ci viene in mente Nietzsche, che crolla in ginocchio davanti a un cavallo preso a frustate dal vetturino, ci identifichiamo con il dolore dell'uomo o dell'animale. * Puo' esistere un pensiero di donne? Alla sofferenza avremmo pero' potuto ripensare in seguito, via via che si diffondeva un pensiero inclusivo, che rivendica la dignita' di quel che e' piccolo, liminale, di natura incerta o sconosciuta, e lotta perche' non si limiti la tutela a chi e' persona, completa di raziocinio e coscienza di se'. E via via che la fisiologia e la psicobiologia prenatale e neonatale ampliavano le conoscenze sul sistema sensoriale del feto - il tatto e la mobilita' che si sviluppano dalle prime settimane, la capacita' a 4 mesi di reagire favorevolmente alla musica, la precocita' del gusto, suggerita dal fatto che alcuni prematuri mostrano di riconoscere gli alimenti preferiti dalla madre durante la gravidanza. Sulla sensibilita' al dolore le opinioni variano. Per alcune/i, dove non c'e' coscienza di se' non c'e' percezione, e sarebbe cosi' fin quando, intorno alla 24-26esima settimana, non si perfezionano le connessioni nervose fra la corteccia e il talamo. Mi limito a qualche citazione. Secondo uno studio del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists di Londra, "it was not easy to define or evaluate foetal awareness, in particular awareness of pain"; la direttrice della comunicazione per il British Pregnancy Advisory Service, la piu' grande clinica indipendente per aborti della Gran Bretagna, riferisce il parere analogo di alcuni esperti, presentato al Ministero della salute nel 1995 in risposta a domande in materia. Piu' cauta Gillian Penney, dell'Aberdeen Maternity Hospital, che parla di incapacita' di sperimentare "cio' che noi percepiamo come dolore". Sull'altro versante, mi sembra chiarissima la posizione di Vivette Glover, del London of Queen Charlotte's and Chelsea Hospital, docente di psicobiologia perinatale all'Imperial College di Londra, e presidente di un convegno tenuto sul tema nel 2000. A suo giudizio, "although 90 per cent of terminations take place before 13 weeks, (...) it is incredibly unlikely that the foetus could feel anything. After 26 weeks it is quite probable, but between 17 and 26 it is increasingly possible that it starts to feel something". Dato che oggi e' impossibile stabilire quando un feto nelle fasi iniziali avverta il dolore, e se lo senta allo stesso modo che dopo la nascita, i ginecologi dovrebbero considerare l'ipotesi di applicargli direttamente l'anestesia. Per questo l'autrice sta conducendo una ricerca sui metodi migliori in materia. Spero che su queste tesi si esprimano voci qualificate. Io non ho strumenti per valutarle, tranne quelli del linguaggio usato dagli autori e dei loro titoli professionali; ma chiunque ne ha abbastanza per capire che la questione e' emersa da tempo e che le scoperte nel campo delle neuroscienze sono tali da non escludere niente, o quasi niente. Di alcune argomentazioni mi preme sottolineare il tono laico e responsabile. Pur giudicando che non ci siano abbastanza prove che il feto soffra prima delle 24 settimane, un docente del Foetal Behaviour Research Centre presso la Queen's University di Belfast, Peter Hepper, conclude che e' comunque meglio "to be safe than sorry". Ancora Glover riconosce che sollevando il problema si puo' creare ansia alle donne e dare un'arma agli antiabortisti, ma spiega: "I am pro-choice, but one should not muddle the two. One should think about how one is doing it in the most pain-free way (...) We should give the foetus the benefit of the doubt". Ci si muove davvero su un terreno minato. In Italia gli attacchi contro l'aborto hanno toni non meno odiosi di trent'anni fa. Basta pensare all'identificazione fra lo sterminio degli ebrei e "gli orrori che vengono compiuti in tantissime sale operatorie, con la 'connivenza' della legge" - cosi' su "Famiglia cristiana" online. Persino un giornale abitualmente moderato, il torinese "La Stampa", ha scelto per un pezzo di don Leonardo Zega contro una nuova versione della pillola Ru486 il titolo Con l'aborto fai-da-te c'est plus facile. Mentre in vari paesi si discute su come rivedere la normativa, negli Usa una sentenza ha incolpato di duplice omicidio l'assassino di una donna incinta, introducendo il concetto di "violenza contro le vittime non nate", in cui il feto e' visto come persona separata dal corpo della madre. Ci si potrebbe fare scudo di molti altri esempi di fondamentalismo "pro vita" e di cinismo imbecille. Ma l'urgenza etica legata alle nuove acquisizioni resta, e investe punti difficilissimi da toccare, compresi i limiti temporali dell'aborto; bisognera' pur ridiscuterli alla luce delle tecniche mediche che hanno moltiplicato le probabilita' di sopravvivenza del prematuro fino a sei mesi, e, aggiungo, alla luce delle conoscenze attuali sulla sensorialita' del feto. Eppure il tema del dolore non e' mai diventato un discorso condiviso. Su un sito inglese di libera discussione ho trovato un dialogo del 2003 che si potrebbe intitolare "sensibilita' e solitudine". - This may sound somewhat blunt, but I'm pressed for time. Why, in your opinion, is an abortion justifiable in early pregnancy but not in the later stages? - In the early stages of development there is no significant brain function. In later stages there is, enough to produce suffering in the foetus. - Suffering in what sense? Do you have any links or references for evidence that brain function is necessary for suffering? And lastly, why does the foetus' inability to suffer mean that early-term abortion can be justified? Again, excuse the blunt tone, but I've been trying to come to a decision about abortion, and I'm trying to understand how other people have come to theirs. Forse un pensiero di donne sull'aborto non puo' esistere, se non come fattispecie della riduzione del danno, e anche cosi' sconta incertezze e silenzi. Ma mi sembra che non si sia ancora diffusa la disponibibilita' a riconsiderare quei temi, e lo sguardo affettuoso e coraggioso di cui ci sarebbe bisogno diventa piu' difficile via via che gli anni passano, e il tempo delle omissioni si allunga. Puo' nascere anche da qui la renitenza a fare la storia del decennio; in questo caso lo specchio ci rimanda una sagoma sfuocata e esitante, ci fa sospettare di non aver osato (e di non osare) abbastanza proprio sul piu' specifico dei problemi che possono toccare a una donna - e su un esempio aggrovigliatissimo delle questioni lasciate in eredita' dal '900, il secolo dei Lager e del Gulag, e nello stesso tempo delle maggiori lotte per i diritti connessi al corpo. In futuro sara' sempre piu' difficile distinguere non tanto fra persona e non persona, ma fra persona e persona (le manipolazioni genetiche e estetiche, il trapianto del volto e delle mani e cosi' via), fra vivente e non ancora o non piu' vivente, fra umano e tecnologico, fra natura e tecnonatura. Sventagliata in una costellazione dove genere, generazione, etnicita' sono intersecate da variabili sempre nuove, la differenza e' diventata una categoria nomade , e chissa' che non la si scopra anche nel modo di soffrire del feto. Troppo complicato? La complicazione non ci ha generalmente fatto paura, e nessuna ha mai sostenuto che le sole domande da porre fossero quelle ragionevoli, piane, rispettabili, a risposta garantita. * L'embrione cittadino, il feto abortibile A quasi trent'anni dalla lotta per la depenalizzazione, sembra ne siano passati molti di piu'. Tutto o quasi quel che concerne i modi di essere donna e uomo, la maternita' e la paternita', il nesso sessualita'/riproduzione e quello corpi/tecnologia, e' cambiato e promette di cambiare. Di fronte allo scivolamento in avanti dell'eta' media al primo figlio e all'aumento dell'infertilita', la ricerca e il mercato della fecondazione assistita si sono attrezzati per affrontare/stimolare una domanda in espansione. Nel frattempo e' cresciuta una nuova mistica della maternita', spettacolarizzata e sacralizzata piu' di ogni altra esperienza (eccetto, forse, la guerra). Ho nostalgia di un vecchio numero di "Via Dogana", dove alla affermazione che diventare madri ha a che fare con la vita e con la morte, si rispondeva che si', ma che lo stesso vale per l'attraversamento di una strada. Di procreazione assistita si e' cominciato a discutere negli anni '80, fra molte contraddizioni. Sui media, donne e uomini di spettacolo, di politica, di cultura, parlano di miracolo del concepimento e della maternita'; ma a compierlo e' chiamata la tecnoscienza nella persona del medico (se fossi credente, lo troverei un po' blasfemo), mentre il corpo femminile e' sempre piu' oggettificato e parcellizzato, sempre piu' luogo pubblico. C'e' chi mette l'accento sulla liberta' delle donne, ma rivendicandola come diritto a carico della collettivita'. La medicina affina le tecniche per rimediare all'infertilita', e intanto buona parte dell'opinione comune stigmatizza la bramosia di un figlio, il volere tutto e subito - retaggio del sessantotto del femminismo dell'emancipazione della modernizzazione. Ci vorrebbe uno sguardo lungo, a cominciare dalla leggenda di Sara e Agar; che in questo caso sia cruciale il bisogno di discendenza non e' dirimente, il desiderio di un figlio (e del resto ogni desiderio) e' sempre mediato da altri. Solo che oggi ci sono infinitamente piu' mezzi a disposizione. In compenso, ricordo discorsi precoci di donne in cui si insisteva sulla delicatezza del problema, si illustravano le tecniche, si chiarivano i rischi e le basse percentuali di successo, si invitava a non criminalizzare la maternita' surrogata, perche' dove la logica mercantile vede una compravendita puo' invece esprimersi lo spirito del dono. Le proposte di legge si sono trascinate attraverso due legislature, e hanno visto in primo piano il fronte ampio e trasversale dei "difensori della vita" senza se e senza ma, unito nell'affermazione che l'embrione e' da subito una persona, un soggetto, un cittadino che va protetto anche dalla madre - come se fosse possibile farlo contro la volonta' di lei. Nella relazione Bianchi proposta nel 2002 al parlamento dalla maggioranza di centro-destra, si colloca il diritto a nascere del concepito fra quelli inviolabili citati all'art. 2 della Costituzione. Nella legge n. 170/1999 della Regione Lombardia, si fa specifico riferimento alla vita prenatale "in tutte le sue fasi", in palese contraddizione con il quasi 70% di no al referendum abrogativo della 194. Il record dell'estremismo spetta alla proposta di modifica dell'art. 1 del codice civile avanzata dal Forum delle Famiglie (l'ex Movimento per la Vita): qui la capacita' giuridica viene retrodatata al momento del concepimento, rendendo soggetto di diritti propri ogni embrione, compreso quello in utero, che non sarebbe una "pertinenza della madre", ma "un valore meritevole di tutela". Anche con la maggioranza di centro-sinistra, alla Camera era passata una legge che garantiva i diritti del concepito, contrapponendoli di fatto a con quelli della madre - se no, che senso avrebbe avuto enunciarli? La legge 40 e' un manifesto di queste ideologie. Messo da parte il gradualismo suggerito dai cambiamenti di cui e' punteggiata la gravidanza, si nega ogni soluzione di continuita' fra embrione, feto, neonato, e in nome dei diritti del concepito si invade la sfera personale, disciplinando, invece delle procedure, i soggetti ammessi a usufruirne, cioe' uno - la coppia stabile eterosessuale in eta' riproduttiva e geneticamente sana. Escluse le singole e le piu' che cinquantaduenni, le coppie omosessuali, quelle giudicate non abbastanza solide, quelle fertili ma portatrici di malattie ereditabili. Piu' che ignorato, il desiderio femminile e' combattuto. Sempre in nome di quei diritti, e' proibita la ricerca sulle cellule staminali degli embrioni sovrannumerari, principale speranza per i malati di forme degenerative. Alla tesi della personificazione fanno drasticamente barriera le dottrine giuridiche e gli ordinamenti, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, secondo cui tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali, ai sistemi legislativi, che fanno riferimento al soggetto dotato di potenziale raziocinio e volonta', parte e espressione del consorzio civile. Mentre la ricerca storica ha documentato l'avvicendarsi di posizioni diversissime in materia. Ma nei discorsi dei "difensori della vita" ricorre un argomento - esistono diritti che precedono il loro riconoscimento legale - cui il discorso giuridico non da' risposte. Un argomento che regge anche se si mette fra parentesi il suo principio ispiratore, secondo cui quei diritti riguardano la persona, e si e' persona dal primo istante del concepimento. Anzi, regge meglio, e oltrepassa l'ambito cattolico. E' lo stesso criterio caro a gran parte del pensiero femminista, che radica la loro legittimita' nel coinvolgimento personale e nel sentire sociale, e li ancora alle relazioni fra individui - uno spartiacque sul piano giuridico, molto meno su quello etico/emotivo; si possono avere obbligazioni e responsabilita' anche verso chi non e' persona, chi non lo e' ancora e non lo diventera', chi neppure sa di esserci. Qui la questione del dolore puo' avere un suo spazio di parola, smarcato dalla disputa su vita o non vita, soggetto o non soggetto. Se si crede che dove c'e' un corpo (o un abbozzo di corpo), il primo imperativo sia proteggerlo dal dolore, l'embrione fa storia a se'; non e' un corpo, non e' materia senziente, si puo' insignirlo del soffio divino e della piena cittadinanza, non si puo' sostenere che sia in grado di patire o di gioire. Se poi lo si vuole considerare il futuro di un corpo, la priorita' diventa impedire il futuro del dolore. La domanda "Fara' male?" avrebbe una risposta univoca; solo che nessuno l'ha formulata, almeno a giudicare dai dibattiti riferiti dai media. In confronto alla pesantezza secolare delle questioni di principio, la tutela dal dolore (come la riduzione del danno) puo' sembrare un criterio troppo leggero e terreno, troppo piattamente pragmatico. Io lo sento piu' nostro del richiamo ai codici, che pure e' essenziale; lo vedo come un buon strumento per svelare la crudelta' irriflessa di una normativa che, mentre colpisce il nemico principale (le donne, la coppia "imperfetta"), non risparmia affatto il feto. Finora si e' insistito sul primo versante, ma la violenza sul corpo femminile prefigura quasi immancabilmente la violenza sul concepito - almeno cosi' mi pare, per quanto ancora una volta mi manchino gli strumenti. Azzardo qualche esempio. Il divieto di crioconservazione degli embrioni costringe la donna a reiterare le stimolazioni ormonali, sicuramente pericolose, e le stimolazioni possono portare a gravidanze naturali plurigemellari, quindi alla necessita' della "riduzione fetale", eufemismo per indicare l'eliminazione selettiva di alcuni embrioni o feti. L'esclusione delle persone fertili ma geneticamente a rischio predispone la sofferenza di eventuali figli. L'impossibilita' di revocare il consenso all'impianto, salvo circostanze eccezionali, imprigiona la madre e puo' innescare inimicizia verso il figlio. La proibizione della diagnosi genetica pre-impianto le impone di aspettare settimane in compagnia del fantasma di Rosemay's baby, e criminalizzando il prelievo di una cellula dall'embrione che ne conta 6-8, impone di sottoporre il feto all'amniocentesi, praticata fra la 17esima e la 21esima settimana, o all'appena meno invasivo esame dei villi coriali. E all'aborto quando sia accertata la presenza di malattie genetiche. Che la cifra della legge sia la disumanita' e' opinione cosi' diffusa da spingere persino alcuni dei suoi fautori a ventilare modifiche. Ha ragione chi dice che la diagnosi preimpianto, del resto ancora complessa da eseguire, e' un dono avvelenato. Dalla possibilita' di scartare l'embrione portatore di patologie gravi si puo' scivolare nella scelta di quello giudicato piu' sano, o piu' desiderabile, e in futuro nella programmazione di un figlio su misura. Non c'e' bisogno di pensare al nazismo, e' gia' abbastanza preoccupante la prospettiva di un mondo in cui nascere o non nascere dipenda dall'esito di esami sempre piu' dettagliati sul patrimonio genetico, alla ricerca di anomalie lievi o della semplice probabilita' di ammalarsi. Ambizione scientista di eliminare il rischio del vivere - patetica, se si guarda ai pericoli che incombono dall'esterno, prometeica se si pensa allo sviluppo dell'ingegneria genetica e dell'immunologia. Tutto vero. Non mi sembra pero' che ne esca rimpicciolito il problema del dolore e del suo disconoscimento normativo e sociale. Vale in particolare per il divieto alla diagnosi pre-impianto, che procrastina ogni decisione al momento in cui si sia formato "qualcosa", una materia vivente forse capace di soffrire, sicuramente permeabile agli ormoni "dello stress" secreti dal corpo della madre e alla sua angoscia. Oggi a godere del beneficio del dubbio non sono il feto ne' la donna, e' la tecnoscienza. * Una vecchia idea della violenza Nel 1977 a Torino, un ginecologo che era stato accusato in un volantino del movimento dei consultori di aver provocato la morte di una paziente, viene ferito a colpi di arma da fuoco in un agguato terroristico. Da allora non ci saranno piu' denunce pubbliche. In una sua componente fra le piu' atttive, il femminismo sperimenta un'impasse simile a quella vissuta dagli operai di fabbrica nella seconda meta' del decennio, quando si rendono conto che attaccare apertamente un capo puo' avere come conseguenza la sua aggressione, e la propria incriminazione come brigatista o fiancheggatore, e che gli slogan minacciosi dell'autunno caldo sono diventati impronunciabili dopo che il terrorismo li ha realizzati alla lettera. Solo 62 operai Fiat passano alla lotta armata, ma "l'ombra della clandestinita' di alcuni fini' per rendere ognuno clandestino a ogni altro". In quegli anni si era nel pieno dell'offensiva terrroristica e delle sue ricadute sulla politica, compresa quella delle donne. Ma a intersecare piu' a fondo le vicende dei femminismi e' stata la violenza dei movimenti, per vari aspetti una storia altra, diversa da gruppo a gruppo della nuova sinistra, da citta' a citta', da fase a fase. Come per l'aborto, mi limito ad abbozzare alcuni scenari: le radici storiche e le forme della violenza, le voci alternative non ascoltate, i punti di vista in materia di responsabilita'. Che negli anni settanta sia mancato un pensiero originale sulla questione e' da tempo un'ovvieta'. Gia' nel '67-'68, ci si accontentava di distinguere tra offesa e difesa, tra exploit individuali e azioni tendenzialmente di massa - era una semplificazione, ma anche la realta' era piu' semplice. Ai suoi inizi, il movimento degli studenti sceglie forme di lotta nonviolente, sit-in, manifestazioni all'insegna del gioco e della provocazione verbale, happening, resistenza passiva. Il "non siamo scappati piu'" della canzone di Paolo Pietrangeli su Valle Giulia, primo marzo 1968, debuttto del confronto fisico con la polizia, fotografa retrospettivamente una parte del movimento: non sapevamo resistere alle cariche, e neppure ci si pensava, nei cortei abbondavano giacche e loden, mocassini e gonne a pieghe, piccoli simboli di una inermita' che conviveva misteriosamente con il sogno della rivoluzione. E di rivoluzione si parlava "come se dovesse avvenire il giorno dopo, si guardavano i trentini normali come fossero dei pazzi: 'questi continuano a comprare l'automobile, a arredare la casa, e non sanno che domani scoppia la rivoluzione'. Poi quando tornavo a casa mi rendevo conto che il mondo era rimasto come prima, erano bagni di concretezza terribili". Quadro realistico. Nella vita di allora la "normalita'" stava ai margini, al centro scorreva un flusso di speranze, passioni, illusioni che ci trascinava verso la politica - qualcosa di diverso dal contesto come lo si intende comunemente, piuttosto un impulso collettivo a precipitarsi alla festa. Che di ciclo in ciclo, di luogo in luogo, sembrava un continuo ricominciamento. Festa a puntate, festa mobile. Ma il "non siamo scappati piu'" indica soprattutto una svolta, almeno in alcune citta' e nell'immaginario degli studenti. Da allora in poi si comincia a mettere in conto un numero piu' o meno alto di fermi e arresti, di attacchi subiti e ricambiati - non si puo' parlare del '68 come di un'eta' dell'oro, tradita dai movimenti degli anni settanta. Cio' nonostante, si e' ancora lontani dall'idea di attrezzarsi per l'uso della "forza", come si diceva all'epoca, a conferma che non la si considera un dato costitutivo della politica e un terreno di organizzazione specialistica. E si e' lontani dalla deriva piu' desolante del decennio, la disumanizzazione della parte avversa, la perdita di ogni compassione verso le sue vittime. Il movimento sta pero' andando incontro alla violenza per molte strade. Avola, con i suoi morti per mano della polizia. Valdagno, feudo tessile dei conti Marzotto, dove nell'aprile '68 gli scioperanti invadono la cittadina e abbattono la statua del fondatore dell'azienda. La rivolta della poverissima Reggio Calabria. I cortei operai, che nel '69 riempiono Mirafiori del frastuono di tamburi improvvisati; e' la clamorosa entrata in scena di quella classe operaia dequalificata, giovane, del sud, che le analisi sociologiche avevano data per irrecuperabile alla politica. Nel frattempo circolano potenti messaggi a distanza, il Vietnam, la Cina, Guevara, le rivolte dei ghetti neri, la guerriglia latinoamericana, il maggio francese, il massacro degli studenti in piazza delle Tre Culture a Citta' del Messico. Nel biennio '68-'69 si ha davvero l'impressione di trovarsi alla vigilia di un rivolgimento radicale, di cui la violenza (di polizie e eserciti, dei movimenti) e' il sintomo e lo strumento. Dalle ceneri ormai freddissime del '68, nasce nel '69 la nuova sinistra. Attori minoritari e significativi del panorama politico, i gruppi extraparlamentari si distinguono per l'assolutizzazione della crisi italiana e dell'antagonismo sociale, che li mette in grado di cogliere le esplosioni di lotta improbabili e improvvise, da cui la "vecchia" sinistra si e' fatta prendere di sorpresa; ma faticano a misurarsi con la situazione che si crea a partire dal '71-'72, quando le lotte, anche se piu' estese, sono meno dirompenti. In una prospettiva che all'inizio del decennio resta di attesa dello "scontro generale", e che vede i primi sequestri della Br, nuove stragi della destra eversiva, una gestione dell'ordine pubblico costellata di omicidi, si costituiscono le strutture specializzate e separate dei servizi d'ordine. Ora i discorsi sulla violenza mostrano tutta la loro poverta'. Resta la vecchia distinzione fra azioni difensive e offensive, fra le incursioni di piccoli gruppi e lo scontro di massa, considerato un passaggio legittimo e necessario perche' si esprima in tutta la sua forza l'antagonismo fra le classi. Ma non e' affatto chiaro dove passi il confine tra l'una e l'altra modalita', e fra risposte modulate sulla gravita' del momento o deliberatamente fuori misura, fra l'esigenza di autoproteggersi e la bellicosita' come valore; infine, fra avversari diversamente responsabili e pericolosi. Servirebbe una politica autoprotettiva, capace di bloccare iniziative "estreme" decise magari per tacitare o conquistare frange impazienti, di non cedere alla competizione con le sigle armate in materia di reclutamente, ne' alla gara di visibilita' ingaggiata fra i partitini extraparlamentari. Che non sempre sia andata cosi' non cancella lo scarto fra la violenza terroristica e quella della nuova sinistra. E' vero che anche nella seconda area lo scontro veniva dato per scontato, pianificato, se non addirittura perseguito; che a parlare di lotta armata erano in molti, mentre il rifiuto, almeno teorico, delle pratiche di mediazione e del gradualismo, dava alla violenza la connotazione di uno sbocco naturale. E' vero che fra l'aggressione verbale e simbolica e il passaggio all'atto esiste un legame - se la campagna di Lotta Continua contro Calabresi non e' la causa del suo omicidio, ne e' uno dei contesti; ma c'e' anche un salto. Una cosa e' battersi con la polizia a colpi di molotov e di manici di picconi, tendere agguati a capi, quadri di fabbrica, esponenti della destra estrema, ma tenendo ferme nei fatti la priorita' del "lavoro di massa", l'eccezionalita' del ricorso alle armi e la tesi foucaultiana del potere disseminato nei gangli della societa'. Altra cosa e' pensare a un centro unico e indiviso (il "cuore dello stato"), autoproclamarsi avanguardia armata del proletariato, vedere nell'atto esemplare la sola strategia efficace, ridurre le persone a simboli, e assassinarle. Molti ritengono anzi che la nuova sinistra abbia fatto in parte argine al terrorismo, offrendo con la sua stessa presenza organizzativa un sbocco diverso e esercitando un certo controllo sui militanti. Infatti alcune formazioni armate nascono in coincidenza con la crisi e lo scioglimento dei gruppi extraparlamentari. Il confine non era impermeabile, ma esisteva. Con il che il discorso non si chiude. Essersi distinti dal terrorismo e' un blasone microscopico, e non significa affatto che all'epoca ci si sia sforzati di contrastare altri aspetti di imbarbarimento della politica, un processo che non ha aspettato i primi omicidi delle Brigate rosse per manifestarsi. * Non era detto che andasse cosi' Imputare alla nuova sinistra di non aver scelto la nonviolenza avrebbe poco senso; ne ha invece molto mostrare che le cose non dovevano necessariamente andare come sono andate. C'erano pezzi di mondo in cui il conflitto aveva preso o prendeva forme diverse. Penso - anni cinquanta/sessanta - al movimento di distacco dei giovani americani dalla societa' adulta, alla Beat Generation, al pacifismo e all'anticonsumismo del movimento hippie, all'underground. Quella secessione, la prima e temo l'ultima estranea a etnie e localismi, non era nata all'insegna della violenza militante e della lotta per la presa del potere; al contrario, cercava di costruire negli interstizi dell'organizzazione sociale qualcosa di interamente diverso, basato, anziche' sul lavoro e sull'integrazione, sulla solidarieta' e sull'uguaglianza. Per questo e' importante non solo come antefatto del '68, ma in se'. Penso alla fase iniziale del movimento degli studenti americani, in cui prevaleva la disobbedienza civile, e a quanti fra loro hanno continuato a praticarla in seguito; alla lunga marcia attraverso le istituzioni teorizzata da Rudi Dutschke, che non implicava affatto metodi violenti. Penso soprattutto agli otto mesi della primavera di Praga, all'occupazione sovietica, con ragazzi e ragazze in prima fila nella resistenza civile che lavorava per isolare gli occupanti; al suicidio testimoniale di Jan Palach, eroe disarmato agli antipodi di Mao e Guevara. Ma anche in Italia, sarebbe bastato guardarsi intorno per incontrare teorie e pratiche altre da quelle del marxismo ortodosso o critico, per scoprire le opere di Gandhi, Thoreau, del nostro Capitini, la disobbedienza dei radicali, e La banalita' del male di Hannah Arendt, dove si racconta come in Danimarca migliaia di persone, in genere senza alcuna esperienza di clandestinita', si fossero mobilitate, nel 1943, per traghettare in Svezia i loro concittadini ebrei, facendo meglio e di piu' di qualsiasi organizzazione armata. Preti operai e comunita' di base testimoniavano la vitalita' dell'universo cattolico, che in parte coincideva con quello nonviolento. Mentre nel 1961 si organizzava la prima marcia della pace Perugia-Assisi, singoli militanti digiunavano per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, padre Balducci e don Milani prendevano le difese degli obiettori attaccati da alcuni cappellani militari. Non solo: nei decenni cinquanta e sessanta si era affacciata anche da noi una generazione - la prima - che rifiutava di crescere sana, solerte, ben disposta verso il mondo dei padri, e che tendeva a costituirsi in universo separato e antagonista. Se non avesse guardato con qualche sospetto all'insofferenza giovanile, il movimento studentesco avrebbe potuto incontrarsi con un quantita' di coetanei, e da "Mondo Beat", la rivista di quelli che i media chiamavano capelloni, teddy boys, lolite, gioventu' bruciata, avrebbe avuto qualcosa da imparare. "Siamo accusati di pacifismo generico", scriveva nel '67 "Mondo Beat", che stava conducendo una campagna per la nonviolenza e contro il militarismo, "perche' siamo contro l'aggressione americana in Vienam, ma siamo anche contro l'aggressione sovietica in Ungheria, l'aggressione cinese in Tibet (...) il nostro atteggiamento riguarda e interessa ogni aggressione, da qualsiasi parte provenga, perche' la priorita' dell'ideologia sulla vita degli uomini mena dritto a Auschwitz, e alla Siberia, al Vietnam e a Budapest". Peccato che nel rapporto con i giovani, il '68 italiano abbia funzionato come una rete a maglie larghe: ha fatto proprie alcune tendenze politicizzandole, altre - il rifiuto dei blocchi, il pacifismo, la diffidenza verso ogni politica, il rapporto con la musica rock - gli sono rimaste estranee, e continueranno a esserlo per i gruppi extraparlamentari, interessati piuttosto alle manifestazioni di aggressivita' giovanile. Sarebbe futile dirottare ogni responsabilita' sulla tradizione rivoluzionaria, marxista, comunista, della violenza, su quegli intellettuali maturi e autorevoli che condividevano le aspettative palingenetiche, su quell'unico partigiano che dichiarava in interventi pubblici di aver consegnato dopo la liberazione soltanto i "ferrivecchi". Ci siamo scelti determinati maestri e compagni di strada (e per alcuni di loro i movimenti sono stati a loro volta maestri) perche' ci riconoscevamo profondamente nell'ideologia della violenza rifondatrice, fatta uomo nella figura del partigiano, del combattente di Spagna, del comunardo, del ribelle risorgimentale, del cittadino in armi della rivoluzione francese - un condensato di combattentismo maschile vissuto come cifra naturale della lotta. Si puo' pero' rimpiangere di non aver colto certe sfumature interne al nostro micromondo. Fra gli studenti esistevano gruppi programmaticamente miti - alcuni clan amicali torinesi, gli "uccelli" della facolta' di architettura romana, che nelle assemblee facevano la parodia degli interventi piu' rituali, dipingevano sui muri immensi affreschi, si autoinvitavano nelle case degli intellettuali di sinistra. E' una cifra che resta inascoltata, come sara' inascoltato l'invito di Carla Lonzi a stringere un'alleanza donne/giovani contro il patriarcato. Persino fra gli slogan piu' bellicosi passava qualche differenza, come nel caso di "Vietnam vince perche' spara" e di "Agnelli l'Indocina ce l'hai in officina": massima astratta l'uno, che scavalca il qui e ora e vincola il riscatto alle armi; voce dell'orgoglio di classe l'altro, che usa il Vietnam per dare un nome al sovvertimento attuato in prima persona e senza armi. (Parte seconda. Segue) 3. INCONTRI. L'ARTE DELLA NONVIOLENZA. UN CORSO A VERONA [Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo questo comunicato] Anche questíanno il Movimento Nonviolento propone un corso di formazione sulla nonviolenza. Le edizioni precedenti hanno affrontato prima i nomi della nonviolenza, (Gandhi, Capitini, don Milani, King, Lanza del Vasto, Langer) poi le parole della nonviolenza (coscienza, amore, bellezza, giustizia, liberazione, festa, potere di tutti...) e quindi i luoghi della nonviolenza, (Israele-Palestina, Cecenia, Tibet, Brasile). L'arte, che e' comunicazione, espressione, interazione, dialogo, e' parte dell'essenza stessa della nonviolenza. Lo e' stata anche nei secoli in molti dei contenuti che nelle sue diverse modalita' espressive ha portato avanti. La danza, il teatro, la musica, la pittura, la scrittura e il cinema, che sono la tappe del percorso proposto, usano mezzi, quali il corpo, l'immagine, il suono, la parola, che hanno un grande potenziale di sviluppo di un potere nonviolento cui ciascuno di noi puo' dar vita dentro e intorno a se'. Un potere creativo e trasformativo della violenza stessa ed in grado di rompere e de-costruire i "linguaggi" che sostengono tale violenza. Per questo si vuole offrire la possibilita' di mettersi in gioco, di "fare esperienza concreta" di queste potenzialita', in un libero confronto con gli altri e in uno spirito di mutuo apprendimento. * Mercoledi' 16 marzo, ore 21, presentazione del corso e proiezione del video La forza della nonviolenza. Iscrizione ai sei laboratori: 50 euro, comprensivi delle cene-rinfresco e dei materiali didattici (sconto 50% per giovani fino ai 25 anni). * Programma dei laboratori Danza e nonviolenza: mercoledi' 23 marzo, ore 20-22,30, conduce il gruppo "Danzare la pace" di Rovereto. Teatro e nonviolenza: mercoledi' 30 marzo, ore 19-22,30, conduce Francesca Pompeo, teatro del Montevaso, Livorno. Musica e nonviolenza: mercoledi' 6 aprile, ore 19-22,30, conduce Paolo Predieri, musicista e musicologo, Brescia. Pittura e nonviolenza: mercoledi' 13 aprile, ore 19-22,30, conduce Loretta Viscuso, insegnante e pittrice, Verona. Scrittura e nonviolenza: mercoledi' 20 aprile, ore 19-22,30, conduce Elena Buccoliero, giornalista e narratrice, Ferrara. Cinema e nonviolenza: mercoledi' 27 aprile, ore 19-22,30, conduce Mario Guidorizzi, docente dell'Universita' di Verona. Tutti i laboratori pratici si svolgono presso la Casa per la nonviolenza, via Spagna 8, 37123 Verona (vicino alla Basilica di San Zeno); per informazioni: tel. 0458009803, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 4. TESTIMONIANZE. ANTONIO PAPISCA: TESTIMONIANZA AL PROCESSO PER IL BLOCCO NONVIOLENTO DEL TRENO DELLA MORTE [Riportiamo il testo della testimonianza del professor Antonio Papisca al processo di primo grado tenutosi a Verona il 27 gennaio 1997 per il blocco nonviolento del "treno della morte" che recava armi per le stragi nel Golfo Persico nel 1991. La sentenza di assoluzione delle persone amiche della nonviolenza che il blocco nonviolento effettuarono, emessa allora dal tribunale di Verona, ha ricevuto conferma definitiva, passando cosi' in giudicato, con la sentenza della corte d'appello di Venezia del 24 febbraio 2005. Antonio Papisca, docente all'Universita' di Padova, promotore e direttore del Centro di studi e formazione sui diritti dell'uomo e dei popoli, direttore del periodico "Pace, diritti dell'uomo, diritti dei popoli", e' una delle figure di piu' grande prestigio internazionale sui temi della pace e dei diritti umani. Tra le molte fondamentali opere di Antonio Papisca segnaliamo almeno Democrazia internazionale, via di pace, Angeli, Milano 1986] La guerra del Golfo e' avvenuta nel momento in cui, crollati i muri e finita la contrapposizione ideologica e militare dei blocchi dell'Est e dell'Ovest, alta e diffusa era l'aspettativa dell'opinione pubblica in ordine al rilancio e al potenziamento del ruolo delle Nazioni Unite in materia di sicurezza e di pace internazionali. Nel famoso rapporto "Un'agenda per la pace", elaborato nel 1992 su richiesta del Consiglio di sicurezza, Boutros-Ghali asserisce, con estrema chiarezza, che e' venuto meno l'alibi del bipolarismo dietro cui si erano fino ad allora trincerati gli Stati per non mettere l'Onu nella condizione di operare tempestivamente ed efficacemente. Per il combinato disposto degli artt. 1, 2, 42, 43, e ss. della Carta delle Nazioni Unite e richiamando i principi di ius cogens che sottendono il diritto internazionale dei diritti umani - le cui fonti principali sono, oltre che la Dichiarazione universale del 1948, i due "Covenants" del 1966 rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, ratificati dall'Italia nel 1977 -, la guerra e' in quanto tale vietata, anzi proscritta quale "flagello". A conferma di questo sta anche, specificatamente, l'art. 20 del citato Covenant sui diritti civili e politici, che stabilisce che "qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge". Ai sensi della Carta delle Nazioni Unite gli stati possono ricorrere, in via d'eccezione, a misure di "autotutela individuale e collettiva", quale risposta immediata ad una aggressione armata in atto, "fintantoche' il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale" (art. 51). Dunque, per il vigente ordinamento giuridico internazionale, l'autotutela armata, oltre che successiva, temporanea e proporzionata, e' legittimata soltanto fino a quando il Consiglio di sicurezza non abbia avuto il tempo di attivarsi in prima persona com'e', d'altronde, suo preciso obbligo istituzionale. Il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite e' concepito in riferimento al principio di "autorita' sovranazionale" delle stesse Nazioni Unite e comporta che gli stati adempiano all'obbligo giuridico, stabilito dall'art. 43 della Carta, di devolvere in via permanente all'Onu parte delle forze armate nazionali. La fine del bipolarismo, come prima ricordato, rende ineludibile e urgente l'attuazione di quest'obbligo e quindi insostenibile il perdurare di comportamenti statuali non conformi alla legalita' internazionale. * Quanto e' avvenuto nel Golfo, in risposta all'aggressione armata perpetrata da Saddam Hussein ai danni del Kuwait, non risponde allo schema di uso della forza militare stabilito dalla Carta. All'invasione del Kuwait ha infatti immediatamente fatto seguito l'attivazione del Consiglio di sicurezza, culminata nella comminazione di pesanti sanzioni ai sensi dell'art. 41 della Carta. Il successivo, spettacolare intervento bellico della coalizione comandata dagli Usa non risponde quindi ai requisiti dell'autotutela consentita, in via eccezionale e in termini di immediatezza, dall'art. 51. Dal punto di vista della vigente legalita', il respingimento armato delle truppe di Saddam Hussein al di la' dei confini del Kuwait avrebbe dovuto avvenire soltanto ad opera di una forza armata sotto comando diretto delle Nazioni Unite, per il perseguimento degli obiettivi consentiti alle Nazioni Unite che, giova ribadirlo, non possono essere di guerra (distruzione di territorio e di popolazione, il "nemico indistinto" da "debellare"), ma esclusivamente di polizia militare internazionale (cioe' azione contro il "criminale" individuato in determinate persone e gruppi). Il Parlamento italiano autorizzo' la partecipazione armata dell'Italia alla coalizione comandata dagli Usa nell'assunto che si trattasse di "azione di polizia delle Nazione Unite". Invece fu guerra, non gestita dalle Nazioni Unite e senza, per parte italiana, la "dichiarazione di guerra" prescritta dall'art. 78 della Costituzione. Il movimento per la pace italiano si mobilito' capillarmente, insieme con numerosissimi enti locali, facendosi appassionato assertore della legalita' stabilita dalla Carta delle Nazioni Unite e quindi chiedendo a gran voce che l'Italia e gli altri stati adempissero agli obblighi a suo tempo sottoscritti con la ratifica della Carta. Tutti ricordiamo il clima belligeno, angosciante, violento instauratosi nel paese con l'ausilio dei mass-media, in particolare della televisione: ci fu una vera e propria propaganda di guerra, nonostante l'esplicito divieto del citato art. 20 del Covenant internazionale sui diritti civili e politici. Nei dibattiti televisivi non fu consentita, come da molti richiesto, l'interpretazione puntuale della Carta delle Nazioni Unite e dei pertinenti articoli della Costituzione italiana, in particolare degli artt. 11 e 78. Si attento' flagrantemente alla salute mentale e alla coscienza dei bambini e dei giovani e, piu' in generale, alla morale pubblica. Giova ricordare che Giovanni Paolo II insorse contro questa illegalita', gridando, con esteso seguito popolare, che la guerra e' "avventura senza ritorno". Dal canto suo in "Un'agenda per la pace" il Segretario generale delle Nazioni Unite scrive che l'art. 42 della Carta, che prevede le operazioni militari direttamente gestite dall'Onu, non ha finora trovato attuazione in nessuna occasione, con cio' smentendo autorevolmente e definitivamente quanti sostennero che nel Golfo si realizzo' una "operazione di polizia delle Nazioni Unite". * Negli anni successivi al 1991, il movimento per la pace italiano ha continuato nell'impegno teso a elucidare la Carta delle Nazioni Unite e le convenzioni internazionali sui diritti umani e a diffonderne i valori e i principi. A dimostrazione di questo importante impegno civile, giuridico e politico di societa' civile, sta la grande mobilitazione popolare del 1995 - cinquantesimo anniversario delle Nazioni Unite - culminata nella marcia della pace Perugia-Assisi all'insegna di "Noi popoli delle Nazioni Unite" (24 settembre 1995). In questa occasione sono state avanzate al governo italiano puntuali proposte per il potenziamento e la democratizzazione delle Nazioni Unite. Si e' in particolare chiesto che l'Italia adempia a quanto previsto dall'art. 43 e devolva quindi all'Onu una parte delle proprie forze armate perche' siano definitivamente riconvertite in forze di polizia militare delle Nazioni Unite. In data 18 ottobre 1995, e' stata presentata in Parlamento, per iniziativa di esponenti dei vari gruppi politici, una mozione parlamentare che recepisce, per esplicita dichiarazione, le principali proposte della "Perugia-Assisi". Il 24 ottobre del 1996, in occasione della celebrazione della giornata delle Nazioni Unite svoltasi nella Sala del Cenacolo (Camera dei Deputati) su iniziativa del movimento pacifista, il Presidente della Commissione Esteri della Camera ha dichiarato che il futuro dell'Onu e' oggi al centro della politica estera italiana e che l'Italia e' pronta a dare adempimento a quanto previsto dall'art. 43 della Carta. In questo stesso senso si e' dichiarato il Ministro degli Esteri Dini, pronunciando il suo discorso alla cinquantunesima sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. * Dunque, quanto oggi ufficialmente perseguito dallo Stato italiano, fu chiesto dai pacifisti all'epoca della guerra del Golfo. Sicche' le dimostrazioni nonviolente di allora devono, per verita' storica, essere intese non solo come affermazione di legalita' internazionale, non solo come feconda lezione di etica universale, ma anche come illuminata anticipazione politica dei legittimi comportamenti governativi ora richiamati. 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 863 del 9 marzo 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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