La domenica della nonviolenza. 11



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 11 del 6 marzo 2005

In questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo: Un'altra visione e' possibile?
2. Giuliana Sgrena: La risposta
3. Anna Santoro: Sull'attualita' delle "Tre ghinee" di Virginia Woolf
4. Sabato, a scuola

1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: UN'ALTRA VISIONE E' POSSIBILE?
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza; e' coautrice
dell'importante libro: Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di),
Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003]

Al campo internazionale della gioventu' a Porto Alegre, durante l'ultimo
forum sociale mondiale (26-31 gennaio 2005) sono passate circa 35.000
persone di tutti i tipi: studenti e artigiani, femministe e musicisti, gay e
lesbiche, venditori di cibo ed acqua, cd, incensi, tamburi e collane, e
cosi' via. Camminando per il parco in cui si teneva il campo, si potevano
notare le immagini piu' ripetute su striscioni, bandiere, cartelli e
magliette: Guevara, Marx e Bob Marley. Si potevano anche notare le mostre di
pittura e gli spazi culturali, o le persone che prendevano il sole o
meditavano all'aria aperta.
L'apertura e l'accoglienza di questo spazio erano la facciata: all'interno
di esso giovani uomini hanno stuprato donne.
Sembra che a questi Guevara del XXI secolo manchi la capacita' di connettere
le proprie azioni personali alla politica che professano, di vedere la
relazione fra la militarizzazione ed il controllo della sessualita'
femminile, o di capire come le loro azioni o il loro silenzio perpetuino i
privilegi di genere.
Il campo avrebbe dovuto, nelle intenzioni, essere un microcosmo socialmente
progressista in cui i valori del Forum venivano messi in pratica, ed ha
prodotto 90 casi denunciati di violenza contro le donne. I casi hanno
incluso molestie, intimidazioni, esibizioni sessuali nei bagni (con uomini
che si masturbavano in pubblico ed altri che filmavano le donne nude),
stupri.
La sera del 29 gennaio, un gruppo di giovani femministe presenti al campo ha
organizzato una marcia contro la violenza: donne, ed uomini in solidarieta',
portavano cartelli con le scritte: "Non vogliamo violenza contro le donne
nel nostro mondo" ed anche "Lottiamo ogni giorno: siamo donne, non merce".
La marcia non ha ispirato solo sostegno, negli uomini al campo; parecchi
hanno ritenuto di dover reagire con minacce e scherno, tanto che le
organizzatrici hanno dato vita il giorno successivo alle "Brigate Lilla": un
gruppo di donne che portava una fascia di color lilla sul braccio,
identificandosi come volontaria pronta ad offrire aiuto alle ragazze che
avevano subito abusi. In contemporanea, il Laboratorio d'azione femminista
metteva in moto un processo di facilitazione per la denuncia degli abusi
stessi.
La mancanza di un'analisi di genere nella progettazione del campo ha creato
quello spazio come "non sicuro" per le donne. Inoltre, la loro protesta e'
stata presa ben poco sul serio, e uno solo degli stupratori e' stato
arrestato. Le donne che partecipavano al campo hanno reagito nelle
interviste con tristezza, frustrazione e rabbia: hanno detto che uno spazio
in cui si permette o tollera la violenza contro le donne non e' in grado di
lottare per "l'altro mondo possibile". Erano indignate dal fatto che gli
stupratori fossero a piede libero, e hanno testimoniato di sentirsi in
quello spazio invase, non rispettate, abusate. Molti uomini hanno professato
solidarieta' con le donne che erano state attaccate e con la lotta
femminista in generale, ma altri hanno detto che era responsabilita' delle
donne prevenire le aggressioni: avrebbero dovuto sapere che era rischioso
condividere i bagni pubblici con gli uomini (al campo, peraltro, non erano
stati predisposti bagni o docce per sole donne).
E' urgente che il Forum sociale mondiale riveda non solo le proprie
metodologie, ma la propria visione dell'altro mondo possibile: il sessismo
contraddice in pratica la visione comune. Finche' non si smantella il
patriarcato, nella teoria e nella pratica, l'oppressione e la
discriminazione continueranno. Per esempio, il "Manifesto di Porto Alegre",
che sintetizza in 12 punti cio' che il Forum propone a livello globale, e'
stato scritto da 18 uomini e una donna. Il Forum e' un momento d'incontro
fra persone e gruppi, non e' rappresentativo dell'intera societa' civile
globale, e percio' nessuno puo' assumersi la responsabilita' di parlare in
nome di essa, come invece coloro che hanno scritto il Manifesto fanno:
questo modo di procedere e' asimmetrico, antidemocratico, sessista e ben
lontano dagli sforzi per creare un modello di societa' alternativo. Il
Manifesto dichiara di voler sostenere politiche che avversino ogni forma di
discriminazione; include anche la cancellazione del debito nel Sud, il
raggiungimento di piena occupazione e protezione sociale, lo smantellamento
dei paradisi fiscali, l'adozione di un commercio piu' equo, il diritto
all'informazione, la lotta contro i brevetti su esseri viventi e conoscenza;
l'abolizione della privatizzazione dell'acqua, la democratizzazione degli
organismi internazionali, lo smantellamento delle basi militari straniere,
l'arresto della distruzione ambientale: niente di tutto cio' e' stato
articolato da una prospettiva di genere. E non ci sono state richieste di
inserirvela, il che suggerisce la comune credenza che esse siano
indipendenti dalla subordinazione delle donne, sebbene le donne siano meta'
della popolazione mondiale (la meta' piu' povera) e siano quelle che
suppliranno con il loro lavoro ovunque i servizi vengano privatizzati.
Riconoscere che "l'altra" esiste e' un primo passo (sui 570 eventi della
prima giornata del Forum, 25 erano direttamente correlati ai diritti delle
donne) ma non puo' essere sufficiente per un movimento sociale; e'
necessario che si giunga ad una visione condivisa e all'accordo su quali
tipi di azione nonviolenta ci porteranno verso di essa. Mi pare ovvio che
sessismo e violenza debbano stare fuori dal quadro. E' ovvio solo per me?

2. RIFLESSIONE. GIULIANA SGRENA: LA RISPOSTA
[Da Giuliana Sgrena, Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002, pp.
173-174. Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista
tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi
e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande
importanza (tra cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma
1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei
taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma
2004); e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante
la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad
e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo. Dal sito
del quotidiano "Il manifesto" riprendiamo, con minime modifiche, la seguente
scheda: "Nata a Masera, in provincia di Verbania, il 20 dicembre del 1948,
Giuliana ha studiato a Milano. Nei primi anni '80 lavora a 'Pace e guerra',
la rivista diretta da Michelangelo Notarianni. Al 'Manifesto' dal 1988, ha
sempre lavorato nella redazione esteri: appassionata del mondo arabo,
conosce bene il Corno d'Africa, il Medioriente e il Maghreb. Ha raccontato
la guerra in Afghanistan, e poi le tappe del conflitto in Iraq: era a
Baghdad durante i bombardamenti (per questo e' tra le giornaliste nominate
'cavaliere del lavoro'), e ci e' tornata piu' volte dopo, cercando prima di
tutto di raccontare la vita quotidiana degli iracheni e documentando con
professionalita' le violenze causate dall'occupazione di quel paese.
Continua ad affiancare al giornalismo un impegno anche politico: e' tra le
fondatrici del movimento per la pace negli anni '80: c'era anche lei a
parlare dal palco della prima manifestazione del movimento pacifista"]

La risposta data dall'occidente agli attentati dell'11 settembre ha ridato
paradossalmente fiato a un movimento fondamentalista che sembrava minato
nella credibilita' e nel consenso dalle azioni aberranti dei fautori del
jihad, che si erano ovunque tradotte in puro terrorismo (come ad esempio il
Gia algerino). Proponendo uno "scontro tra civilta'" basato sul fanatismo
religioso, sia Osama bin Laden che Bush alimentano le reazioni piu' estreme,
una contrapposizione frontale che nel mondo islamico si traduce in
talebanizzazione, supporto ideologico al jihad globale, e nel mondo
occidentale nell'intolleranza sempre piu violenta verso l'altro, il diverso,
soprattutto l'arabo, ma non solo. In realta', uno scontro tra incivilta', o
"tra ignoranze", come sostiene Assia Djebar, richiamando anche Edward Said,
in una intervista a Toni Maraini. Un'intolleranza senza mediazioni che
schiaccia sempre di piu' anche le aspirazioni alla liberta', alla
democrazia, alla secolarizzazione che vengono da paesi islamici governati da
regimi autoritari. La campagna contro il terrorismo avalla repressioni e
guerre, la guerra diventa sempre piu' globale. E in questo circolo vizioso
la reazione al terrorismo riproduce il terrorismo come forma di
destabilizzazione globalizzata.

3. RIFLESSIONE. ANNA SANTORO: SULL'ATTUALITA' DELLE "TRE GHINEE" DI VIRGINIA
WOOLF
[Ringraziamo Anna Santoro (per contatti: e-mail: info at arabafelice.it, sito:
www.arabafelice.it) per averci messo a disposizione questo suo saggio.
Anna Santoro e' nata nel 1945 a Napoli, citta' in cui vive; femminista,
scrittrice, docente, operatrice culturale. "Come studiosa di letteratura
italiana, mi sono interessata inizialmente alla letteratura meridionale tra
'700 e '800 (narrativa, saggistica, teatro), ma sin dai primi anni '70, ho
cominciato a lavorare alla storia delle donne e a meta' degli anni '70 ho
avviato una ricerca tesa a ricostruire i segni della presenza delle donne
nella scrittura, partendo dai 'luoghi' della memoria della produzione
letteraria, cioe' dalle biblioteche". Socia fondatrice della Societa' delle
letterate Italiane; nel 1985 ha fondato a Napoli l'associazione culturale
"L'Araba Felice" di cui e' presidente.
Virginia Woolf, scrittrice tra le piu' grandi del Novecento, nacque a Londra
nel 1882, promotrice di esperienze culturali ed editoriali di grande
rilievo, oltre alle sue opere letterarie scrisse saggi di cui alcuni
fondamentali per una cultura della pace. Mori' suicida nel 1941. E' uno dei
punti di riferimento della riflessione dei movimenti delle donne, di
liberazione, per la pace. Opere di Virginia Woolf: le sue opere sono state
tradotte da vari editori, un'edizione di Tutti i romanzi  (in due volumi,
comprendenti La crociera, Notte e giorno, La camera di Jacob, La signora
Dalloway, Gita al faro, Orlando, Le onde, Gli anni, Tra un atto e l'altro)
e' stata qualche anno fa pubblicata in una collana ultraeconomica dalla
Newton Compton di Roma. Tra i saggi due sono particolarmente importanti per
una cultura della pace: Una stanza tutta per se', Newton Compton, Roma 1993;
Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano 1987. Numerosissime sono le opere su
Virginia Woolf: segnaliamo almeno Quentin Bell, Virginia Woolf, Garzanti,
Milano 1974; Mirella Mancioli Billi, Virginia Woolf, La Nuova Italia,
Firenze 1975; Paola Zaccaria, Virginia Woolf, Dedalo, Bari 1980. segnaliamo
anche almeno le pagine di Erich Auerbach, "Il calzerotto marrone", in
Mimesis, Einaudi, Torino 1977]

Il saggio Le tre ghinee (1938), soprattutto se inquadrato all'interno
dell'itinerario politico-poetico di Virginia Woolf, e cioe' come seguito di
Una stanza tutta per se' (1929), e accolto all'interno delle sue magnifiche
opere di poesia (nell'ampia accezione usata dalla stessa Virginia: "perche'
le donne scrivevano romanzi e non poesia?"), offre molteplici spunti di
approfondimento su questioni ancora aperte.
Come sappiamo, Virginia, ne Le tre ghinee, parte col porsi una domanda piu'
che mai attuale: "Cosa si potrebbe fare per fermare la guerra?" e risponde
che bisognerebbe sapere tante cose che lei non sa, perche' la scarsa
educazione ricevuta non l'ha preparata a questo. In verita', per lei la
difficolta' maggiore (e la questione che le interessa) sta nell'intendere la
guerra come "risultato di forze impersonali", mentre c'e' qualcuno che la
pensa, la prepara, la immagina come possibilita', la da' per scontata, ne
calcola freddamente i costi (in danaro e vite umane) e la dichiara. Qualcuno
che sa di poterlo fare, che sa di essere ascoltato e ubbidito. Che sa di
andare incontro a un sentire diffuso riguardo l'evenienza bellica, sia pure
quando fosse critico. Qualcuno che abbia questo potere.
Questo potere non appartiene a lei ne' a nessuna altra donna, lo Stato che
ha dichiarato guerra e' uno Stato che non ha mai dato peso alle donne e che
dunque Virginia non riconosce come suo: "Combattere e' sempre stata
un'abitudine dell'uomo", sottolinea, e aggiunge che poco importa se sia un
fatto dovuto alla natura o alla cultura, certo e' che la maggioranza dei
cacciatori, dei criminali, dei soldati, e' fatta di uomini.
Prende cosi' il via questo saggio interessantissimo che, alla pari di Una
stanza tutta per se',  mette in campo una serie di riflessioni importanti e,
come l'altro, dovrebbe essere necessariamente studiato a scuola. Perche' il
ragionamento di Virginia, sottile e sofferto, logico e ironico, sostenuto da
opportune citazioni, dimostra che la guerra nasce dalla mentalita' e dalla
cultura, e precisamente dalla mentalita' e dalla cultura maschile, e che gli
uomini stessi la rivendicano come momento di "verita'", di "unica gloria",
di "realizzazione virile". (Ricordiamo che siamo in Inghilterra, patria
dell'imperialismo. Tantissimi film e romanzi hanno svelato la mentalita'
grottesca di quel periodo, senza pero' inquadrarla come propria della
cultura maschile. Ricordo anche, tra parentesi, come tanti scrittori
italiani, e non solo Marinetti e D'Annunzio ma anche alcuni insospettabili,
perfino Gadda, abbiano nutrito un fascino particolare per la guerra in se',
scrivendone perfino nei Diari).
E dunque, Virginia si chiede come possano gli uomini (che nella loro
tradizione hanno sempre dato un posto tanto importante alla guerra, al
valore in campo, alle medaglie, alle tradizioni legate a un malinteso senso
dell'onore, eccetera, e che inoltre hanno oppresso popoli ed escluso e
privato le donne dei diritti elementari, conducendo dunque contro di esse
una vera e propria guerra), qualora si proclamino pacifisti, non
approfondire essi stessi una critica alla propria cultura, prima di
rivolgersi alle donne per chiedere appoggio.
Ma Virginia sa anche, lo dimostrero' andando avanti, quanto sia difficile
per gli uomini, anche per quelli che singolarmente e sinceramente vogliono
opporsi alla guerra, riuscire a farlo, proprio perche' essi sono cresciuti
in quella cultura che, assieme all'educazione alla pratica bellica, offre
loro una serie di privilegi. Ma su questo tornero' piu' avanti.
Alla guerra, come alla politica, alla cultura, alla mentalita' maschile, le
donne sono estranee (la "societa' delle estranee"). E questa "estraneita'"
e' segnalata gia' nella scrittura di Virginia: "cosa vi spinge a farvi fare
la guerra...", oppure: "come aiutarvi a prevenire la guerra...".
Eppure non basta dichiarare l'estraneita': Virginia ha davanti delle
fotografie di guerra, bambini straziati. E comprende che la guerra la
invade, sebbene non sia "in suo nome".
Virginia ha ricevuto anche altre lettere che le chiedono sostegno.
La prima e' quella da parte di un College femminile, la seconda da parte di
un'Associazione per la libere professioni delle donne. Dopo lunghi e
articolati ragionamenti, Virginia decide di aderire a tutte le richieste che
chiedono sostegno, perche' le donne devono avere diritto a esercitare le
libere professioni e ad accedere alle Universita', proprio perche' la loro
cultura e la loro liberta' e' in contrasto con la cultura di guerra. E' su
questo che insiste: ve la do, la ghinea, ma promettete di non diventare mai
come gli uomini.
Virginia promette sostegno anche all'Associazione antifascista, ma le si
sottrae, non entra in quella organizzazione, sottolineando: "Il modo
migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non e' di ripetere le vostre
parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare noi nuove parole e inventare
nuovi metodi". Anche perche' quei modi e quei metodi fino ad allora non
hanno dato, non avrebbero potuto dare, risultati, appunto perche' ancora non
c'e' stata da parte degli uomini l'assunzione del fatto che la loro e' una
cultura di genere e che ha preso quella strada.
Va notato, a questo proposito, come Virginia accenni tra le righe, senza
soffermarsi troppo perche', appunto, non le interessa e "rispetta"
l'alterita', alla possibilita' che anche gli uomini "di buona volonta'" in
qualche modo prendano coscienza di una perversita' della propria cultura e,
sia pure con le difficolta' sopra segnalate, operino per una profonda
revisione.
Sembra, cosi', tutto molto semplice e lineare, e invece questo saggio
presenta una serie di nodi che e' necessario, indispensabile affrontare.
Cosi', cerchero' di fermarmi su quelli che mi appaiono nodi forti per noi.
Vorrei commentarli dal mio punto di vista, cioe' da quello di una donna di
questi tempi, che e' andata piu' volte, come tutte noi, a rileggere Virginia
in cerca di risposte, suggerimenti, turbata oltre misura dal disagio di
vivere che ora le sta addosso.
*
La cultura della differenza
La guerra non e' solo quella guerreggiata. Uno degli strumenti di guerra
strisciante e' l'esclusione sistematica di chi venga qualificato come
"diverso". Secondo Foucault, tramite scuola, tv, giornali, riviste,
l'assoggettamento da parte della cultura dominante (realizzato attraverso
meccanismi sociali, di controllo e di esclusione, basati su ripetuti
dualismi: noi e gli altri, i buoni e i cattivi, i giovani e i vecchi, i
belli e i brutti, i sani di mente e i folli, gli eterosessuali e gli
omosessuali, eccetera), volutamente tende a creare dei non-soggetti, che
spesso finiscono per scegliere forme di violenza sempre piu' distruttiva e
autodistruttiva.
Come la guerra non pone fine ai conflitti tra i popoli, cosi' la repressione
e l'emarginazione non fa che radicalizzare questa condizione di
non-soggetti. Dunque, la cultura dell'esclusione, cioe' di uno strumento
"bellicoso" usato dai poteri forti per tenere sotto controllo il resto del
mondo, e' parte fondante della cultura di guerra.
Anche le donne sono state tenute a lungo in condizione di esclusione e di
assoggettamento, per quel che riguarda le leggi economiche, politiche,
sociali; e a mio avviso lo sono tuttora, sia pure attraverso forme piu'
subdole. Ma da sempre esse hanno espresso una propria cultura, sfuggendo
cosi' al rischio di costituirsi anch'esse come "minoranza risentita" e
dunque evitando distruttivita' e autodistruttivita'.
Nelle Tre ghinee corrono due discorsi, che si intersecano continuamente pur
svolgendosi autonomamente: il primo sottolinea l'esclusione delle donne
dalla cultura, dalla economia eccetera (e mostra come la guerra sia un fatto
degli uomini), l'altro sottolinea e valorizza la differenza della cultura
femminile, che comporta una "capacita'" dello sguardo femminile idoneo a
leggere il mondo da un punto di vista altro, con differenti modalita',
differenti obiettivi e differenti motivazioni. E a operarvi in maniera
differente.
In qualche modo, cioe', Virginia cerca di relazionare la nozione di
liberazione (la differenza), intesa come liberta' di essere, con quella di
emancipazione, di visibilita' "ora e qui", richiamata dalle condizioni reali
delle donne. Cosi' prende forma nel saggio una riflessione che pare
oscillare tra la rivendicazione di diritti (e memoria e denuncia di quelli
calpestati) e la piena coscienza dell'esercizio della differenza, che
implica la liberazione dal risentimento e l'assunzione della forza
straordinaria, da sempre operativa, che e' la cultura delle donne.
Cio' che mi sembra particolarmente importante e' il fatto che Virginia
colleghi l'esclusione alla differenza. E' grazie all'esclusione che le donne
hanno elaborato la propria cultura. Ed e' lo sguardo "da fuori", estraneo,
che permette a Virginia di cogliere cio' che gli uomini, da dentro, non
possono vedere: per esempio, l'orrore, la miseria, il ridicolo della cultura
di guerra. Gli abiti dei militari, soprattutto di grado, pieni di lustrini,
pennacchi e medaglie, sono brutti, ridicoli, i nastrini e le onorificenze
date agli uomini di cultura sono volgari. La ricercatezza dell'abbigliamento
maschile costituisce il loro status civile, economico, politico, militare.
Culturale.
Pensiamo anche alla biblioteca dei college maschili, da cui le donne sono
escluse: gia' in Una stanza tutta per se', Virginia annota quanto sia
pericolosa tanto la "mancanza di tradizione" (delle donne) quanto "le
conseguenze della tradizione" (degli uomini): e' brutto essere chiuse fuori
dalla biblioteca, ma anche l'esservi chiusi dentro. A riprova, Virginia
riconosce solo pochi grandi scrittori -come ha riconosciuto poche grandi
scrittrici-, perche' l'essere chiusi dentro e' stato nocivo per la loro arte
quanto per le donne l'essere chiuse fuori. Le donne, dell'essere fuori,
hanno fatto cultura: una cultura piu' aperta, ricettiva, ricca.
Ancora: Perche' le donne scrivevano nell'800 soprattutto romanzi e non
poesia (intesa come opera pienamente riuscita e libera)? si chiede Virginia,
e si risponde: perche' avevano un salotto in comune con gli altri della
famiglia, mentre per scrivere poesia e' indispensabile il raccoglimento. Le
interruzioni impediscono la poesia. Da qui l'esigenza della stanza tutta per
se'.
Eppure, la stanza in comune ha insegnato alle donne a cogliere le figure
umane per cio' che sono, a osservare come si muovono, l'atmosfera che
creano: "I sentimenti delle persone rimanevano impressi su di lei; aveva
costantemente sotto gli occhi i rapporti umani".
Ne Le tre ghinee, Virginia e' ancora piu' esplicita: annota come le donne,
prive di danaro, di riconoscimento, di potere, abbiano accudito i parenti,
fatto battaglie grandiose, soprattutto siano state "esseri umani civili".
Dunque, "l'educazione gratuita", al di la' delle imposizioni e delle
discriminazioni, ha di buono che le donne sono migliori degli uomini, e
dunque sarebbe sciocco "buttare via i risultati di quell'educazione... o
rinunciare... al sapere che in tal modo abbiamo accumulato".
Torna quanto annotavo prima sulla relazione tra esclusione e differenza.
"(Questa educazione gratuita) deve avere grandi virtu', oltre che gravi
difetti, perche' non si puo' negare che quelle donne, se pure non erano
istruite, erano tuttavia donne civili. Non possiamo, quando prendiamo in
esame la vita delle nostre incolte madri e nonne, giudicare la loro
educazione semplicemente in base alla capacita' di ottenere un impegno, di
conseguire onori, o di fare quattrini".
Ma cosa e' l'istruzione universitaria, quella negata alle donne, alla quale
le donne vogliono accedere? Deve essere un gran bene, visto che gli uomini
di potere e cultura se la sono tenuta stretta, eppure quell'istruzione ha
avuto pessimi effetti. Non e' un valore assoluto. In piu' il rischio e' che
le donne, acculturandosi all'interno di quella cultura portatrice di guerra,
di quella quotidiana nutrice della guerra guerreggiata, possano diventare
come gli uomini. Presuntuose, avide di potere, gelose dei propri privilegi,
violente: "I fatti riportati non dimostrano forse a sufficienza che
l'istruzione, la migliore del mondo, non insegna a odiare la violenza,
bensi' a farne uso? Che, ben lungi dall'insegnare la generosita' e la
magnanimita', essa rende la gente cosi' ansiosa di tenersi stretti i propri
privilegi, la grandezza e il potere, da essere disposta a usare sistemi ben
piu' subdoli della violenza quando le si chiede di farne partecipi altri? E
non sono forse la violenza e il senso del possesso due sentimenti connessi
molto da vicino con la guerra? (...) Come puo' l'istruzione educare a non
amare la guerra se si usano sistemi di violenza, se si ha senso del possesso
dei propri privilegi eccetera che sono alla base della guerra?". E ancora:
"Cosa ci fa credere che l'istruzione (...) faccia odiare la guerra?".
E dunque il punto e': se le donne entrano nel mondo degli uomini non
diventano come loro? Vogliamo forse educare le figlie degli uomini colti a
diventare come i loro fratelli, cioe' a farsi la guerra e a preparare la
guerra?
Anche per le libere professioni le contraddizioni sono analoghe:
"Incoraggiando le figlie... a intraprendere le libere professioni non
incoraggiamo proprio le qualita' che vogliamo estinguere?". Il punto e' che
chiunque acquista privilegi diventa possessivo, geloso degli altri,
aggressivo eccetera. "Non abbiamo dunque ragione di pensare che se anche noi
eserciteremo le stesse professioni acquisteremo le stesse qualita'? E non
sono proprio queste qualita' a provocare le guerre? Tra un paio di secoli,
se eserciteremo le professioni allo stesso modo, non saremo anche noi
possessive, gelose, aggressive (...) come sono oggi questi signori?".
E insomma, riflettendo sul corteo dei figli degli uomini colti, dei fratelli
privilegiati: "Abbiamo voglia di unirci a quel corteo, oppure no? A quale
condizione ci uniremo a esso? E dove ci conduce il corteo degli uomini
colti? C'e' poco tempo; cinque anni, dieci o forse puo' essere questione di
pochi mesi ancora. Ma bisogna trovare risposta a quelle domande...".
E' a questo che le donne devono pensare, insiste. E se le si obietta che non
hanno tempo tra le tante incombenze, lei risponde che le "figlie degli
uomini colti hanno sempre pensato i loro pensieri cosi' alla buona; non a
tavolino, nel proprio studio, nella solitudine tranquilla di un chiostro di
universita'. Hanno pensato mentre rimestavano la minestra, mentre
dondolavano la culla (...) E' nostro dovere ora continuare a pensare; come
la spenderemo quella moneta? Pensare, pensare, dobbiamo. In ufficio,
sull'autobus, mentre (...) Non dobbiamo mai smettere di pensare: che
civilta' e' questa in cui ci troviamo a vivere?".
Le donne sono dunque tra l'incudine e il martello: da una parte il sistema
patriarcale e "le pareti domestiche, con il loro nulla, la loro immoralita',
la loro ipocrisia, il loro servilismo", e dall'altra "il mondo della vita
pubblica, con la sua ossessivita', la sua invidia, la sua oppressivita', la
sua avidita'".
Al centro loro, alle quali allora, come oggi a noi, si pone il problema di
cosa sia vivere, di cosa vogliamo fare della nostra vita.
(Quando frequentavo l'Universita', era ancora in uso quella stupida
abitudine del "papiello": i veterani fermavano in strada le matricole e,
nelle migliori delle ipotesi, le obbligavano a offrire dolci e paste. Allo
stesso modo, in caserma, i "nonni" maltrattavano le reclute. Quando ero
molto giovane mi chiedevo perche', chi aveva subito, una volta "emancipato",
non ricordasse piu' il profondo senso di ingiustizia presente in quegli
eventi, e pensasse unicamente a sostituirsi nel ruolo di oppressore. Secondo
lo stesso principio, sia pure con diverso impatto, i bianchi maltrattavano i
neri, i nazisti sterminavano gli ebrei, e cosi' via. L'unica, mi dicevo, e'
combattere contro l'ingiustizia, la prevaricazione, la violenza. Questo ci
siamo dette e detti in tante, tanti: cosi' oggi non c'e' piu' il papiello,
il nonnismo, ma per il resto abbiamo scoperto che il potere e' di per se'
oppressivo, ingiusto, violento. Il potere trasforma. Percio' crea dei
non-soggetti, opera sui "soggetti emergenti" cercando di portare divisione,
classificazione: perche' non vuole essere attaccato).
La differenza, sebbene si paga con l'avere minori privilegi, se, come notavo
all'inizio, si e' data una forma, un linguaggio, una cultura, e' preziosa,
e' ricchezza, e' forza, etica ed estetica, possibilita' di mettere di nuovo
e al nuovo le questioni. Anche questa del potere.
*
Il percorso di Virginia
Il percorso di Virginia, lo annotavo prima, va su due binari: pensando ai
vantaggi dei college maschili, per esempio, guardando il corteo dei figli
degli uomini colti, riflette che anche le donne un giorno potrebbero
guadagnare soldi, avere potere, fare buone leggi per le donne, eccetera
ma... ma c'e' la lettera sul pacifismo e ci sono le foto. E vengono le
considerazioni sopra segnalate (a cosa e' servita l'istruzione se non a
formare una cultura di guerra?, e poi: e' vero, con le libere professioni si
fanno soldi ma "fino a che punto il danaro (...) e' in se stesso un bene
desiderabile?".
Arriviamo per questa via a una sorta di decalogo per le donne, cioe' a un
elenco che sostanzia la differenza. Che si identifica con l'elenco che
enumera gli elementi della "educazione non pagata", e cioe': poverta',
castita', derisione, e "liberta' dai fittizi legami di fedelta'". Ma che si
preoccupa anche di come avere peso, senza rinunciare a cio' che si desidera
e a cio' che si e'.
Il punto e' che Virginia non parte astrattamente o intellettualmente dalla
differenza, arriva alla nozione di differenza.
Parte dai desideri condivisi: di liberta', di sperimentarsi, di muoversi in
uno spazio largo, non oppressivo, chiuso. Quando, piu' avanti, sempre ne Le
tre ghinee, tratta del rapporto con i padri, sottolinea che essi si
scontrarono con una forza indistruttibile, non contro il femminismo, non
contro l'emancipazione, ma contro qualcosa che e' poco chiamare antifascismo
o liberta' di pensiero o desiderio di liberta': le donne volevano viaggiare,
amare, lavorare, imparare la musica o la pittura non come esercizio alla
moda ma come arte. Volevano, "come Antigone, non violare le leggi, ma
trovare la Legge". E' il desiderio di essere, e' ancora pia' che ribellione.
E' la scelta di vivere, di avere il proprio spazio, di crescere usandosi.
E' questa cosa la differenza. Le donne si misero insieme perche' avevano
un'idea di mondo cosi' bella e a quell'idea non potevano rinunciare. Perche'
era gia' nella loro pratica, non era un'astrazione, era qualcosa che gia'
possedevano, elevata all'ennesima potenza.
Per questo Virginia non lascia altra via che nutrire la differenza, non si
puo' tornare indietro ma non si puo' entrare in una modalita' che non ci
piace, ora. E dunque l'unica e' riuscire a non disgiungere emancipazione da
liberazione. L'unica e' riuscire a trovare un altro modo.
E va detto tra parentesi che riuscire a trovarlo e a sostenerlo significa
anche che le critiche al sistema patriarcale, alla tipologia della societa'
maschile, non escludono che gli uomini che lo volessero avrebbero potuto,
potrebbero, trovare un altro modo. Cioe' se le donne hanno scelta tra
l'imitare il mondo dei potenti o creare un mondo loro, significa (cosa del
resto sostenuta da tanti intellettuali) che la strada per lo "sviluppo"
scelta dalla civilta' maschile avrebbe potuto essere altra. Cioe' che anche
gli uomini avrebbero potuto scegliere in modo diverso, dunque ci si puo'
alleare (con quelli che rimettono in discussione la propria cultura, che
comprendono che anche quella e' di parte, e che siano capaci di leggerne le
derive).
*
La scrittura delle differenza e' contro la guerra
La passione con la quale Virginia difende la differenza e' la stessa che
abbiamo posseduto noi e che ci ha fatto forti. E' quella che ci ha portato a
studiare la storia delle donne, le scritture delle donne, e' quella che fa
si' che molte di noi guardino con antipatia ogni tentativo di creare un
canone femminile, sia in letteratura sia comportamentale, proprio perche' la
ricchezza delle differenza e' tale da superare l'essere semplicemente
antitesi e contrappeso del canone maschile. La cultura della differenza non
ha canone ne' canoni.
Le scrittrici, le artiste, che amo, sono quelle che hanno rappresentato lo
spazio, il momento, la percezione di cio' che il corpo era capace in quel
momento di accogliere.
E questo introduce un tema importantissimo. Che e' la nozione di letteratura
per Virginia, il senso dello scrivere.
Gia' in una stanza tutta per se' Virginia aveva scritto: "Datele altri cento
anni... datele una stanza tutta per lei e cinquecento sterline l'anno,
lasciatele dire quello che pensa... e sara' una poeta".
Nelle Tre ghinee, a proposito della guerra guerreggiata e di come
prevenirla, scrive: "(Bisognera') sottoporre la sua richiesta
(dell'avvocato) alle figlie degli uomini colti, chiedendo loro di aiutarvi a
prevenire la guerra non con consigli ai fratelli su come difendere la
cultura e la liberta' di pensiero, ma semplicemente leggendo e scrivendo la
propria lingua in modo tale da difendere direttamente quelle divinita' cosi'
astratte".
Ma cosa significa "semplicemente leggendo e scrivendo la propria lingua",
per difendere cultura e liberta' di pensiero? Significa che la differenza si
da' forma nella scrittura, e anche che la scrittura nutre la differenza. Se
intendiamo il rapporto scrivere-vivere, scrittura-vita.
La scrittura e' liberta' (dalla condizione materiale e dai condizionamenti
di pensiero) e gli steccati, le proibizioni, come gli "imperativi
categorici", nuocciono alla scrittura. E dunque le donne, che volevano
scrivere, che scrivevano, furono attaccate o cancellate proprio quando
davano forma a se stesse. Erano eversive e pericolose prima ancora di sapere
di esserlo. Lo hanno appreso proprio a causa di quelle esclusioni.
Per fare poesia, per scrivere, c'e' la necessita' di liberarsi dal
risentimento e di possedere serena consapevolezza di se' e del mondo. (E non
cio' che oggi, anche in tv viene chiamato "autostima e sicurezza di se'").
Significa che l'identita', una volta riconosciuta e posseduta, va
dimenticata.
Virginia, continuando a ragionare su "immediato bisogno di emancipazione e
validita' delle denunce" e "necessario farsi della differenza (poiein)", pur
comprendendo e sottolineando le difficili condizioni di lavoro delle donne
(l'indigenza, l'essere attaccate, poco stimate), nota come le scrittrici,
che abbiano portato nelle proprie opere odio e rivendicazioni, siano state
distratte dall'oggetto del loro lavoro che e' la realta' attorno. L'odio ha
impedito loro di essere grandi. E invece: "(Jane Austen) scriveva senza
odio, senza amarezza, senza paura, senza protestare, senza far prediche".
Jane Austen scriveva esprimendo la propria soggettivita', per questo e'
stata una grande scrittrice.
Bisogna "scrivere da donna (valorizzazione della differenza) ma da donna che
ha dimenticato di essere donna (la piena liberta')". E' questo il segreto:
la naturalezza della coscienza di se' e del proprio sguardo sul mondo, la
relazione col mondo grazie alla capacita' percettiva e all'accoglienza dei
suoi segni, che permettono di accogliere l'incanto, l'assunzione della
scrittura come linguaggio del corpo, le problematiche inerenti il
linguaggio, il rapporto tra estetica e etica.
Il punto e' che la poesia e' nelle cose e si rivela quando riusciamo a
vederle (e loro riescono ad essere) nella loro interita'. Nella poesia
l'etica e l'estetica trovano finalmente la propria relazione. La bellezza,
la grazia di cio' che e' attorno, la sua autenticita', ci permette, se ne
siamo capaci, di cogliere la grazia dell'essere: quella cosa e'. E' nel
pieno di se'. E' questa l'etica della grazia, ed e' anche la grazia
dell'etica.
Per cogliere cio', serve che lo sguardo di chi guarda incontri lo sguardo
della cosa guardata, cioe' che ci sia relazione. Da qui nasce l'incanto che
e' il primo germe della poesia. La grazia c'e' quando lo svelamento e
l'essere si esplicano, si mostrano, sono. E dunque sono anche buone, nel
senso che sono. La bellezza sta nell'essere, che e' predisposizione alla
grazia. Questo intendo per relazione tra estetica e etica.
Le persone, la politica tradizionale, le nazioni che si scannano, sono cose
prive di grazia e di etica, perche', invece di essere libere, sono
schiacciate dalle sovrastrutture della cultura, degli interessi privati,
della deformazione della cultura di violenza, della mentalita' diffusa ad
arte, della paura.
Una volta certe della propria liberta', la sperimentazione del linguaggio e
del discorso permette di riuscire a dire il non ancora pensato.
Virginia cerca di dare forma al balbettio. Che e' tale perche' si inventa un
modo che prima non c'era, perche' e' fuori da canoni e non li cerca.
(Virginia ci autorizza, ci obbliga e ci aiuta, a leggere allo stesso modo
altre scrittrici e a riconoscere, grazie a questa "griglia", quelle che
possano insegnarci qualcosa).
Tutto cio' che Virginia scrive nei suoi saggi, capolavori del genere (e di
genere), lo rappresenta nelle sue opere di poesia. Le quali sono esattamente
il mondo visto da lei, sono anche la spiegazione del perche' lo vede in quel
modo. Sono "quella cosa che prima non c'era e poi c'e'", come un fiore, un
albero, una citta', una guerra. Sono parte dell'esistente.
E' in questo senso che la poesia e' "fare il mondo", perche' e' creatrice.
Non si scrive per cambiare il mondo. Non si scrive per, non si legge per.
Scrivere e' fare, e' essere (nel) il mondo. Chi scrive e' nel proprio
sguardo, e' il mondo che rappresenta.
Virginia questo lo sa. Percio' afferma che "leggendo e scrivendo la propria
lingua si salva la liberta'".  Perche' conosce la forza creatrice.
Ne Le tre ghinee, ma anche in Una stanza tutta per se', Virginia, grazie al
linguaggio che usa, alle modalita' che persegue, da' forma all'immagine che
nasce dalla relazione con lo spazio che la circonda.
Ma possiamo anche dire che la forma che si da' il pensiero di Virginia e' il
contenuto piu' importante, e' il pensiero essenziale, e' la rappresentazione
del pensiero, che nel farsi tale dice anche di piu' dei proponimenti,
diciamo, del pensiero. (Scrivere il non ancora pensato,
indicibile-detto-nuovo indicibile).
Quell'io, novita' assoluta nella saggistica, e' la dichiarazione di un
centrale corpo femminile che guarda, si presenta anima e corpo, diciamo,
tasta il territorio, lo spazio: in Una stanza tutta per se' era il college,
la biblioteca, i libri che aveva attorno, ne Le tre ghinee ancora la stanza,
la scrivania, cio' a cui arriva il suo sguardo: le foto di guerra, le
lettere, le relazioni affettive, i ricordi, i pensieri. Lei tocca le cose.
Non e' teoria. Il ragionamento nasce dalla percezione del corpo. E si muove
come in un dialogo interno. Virginia pensa mentre scrive, fa ricerca,
sperimenta. E' fuori canone: fa uso del massimo impegno di sincerita', di
autenticita'. Tasta lo spazio interiore, lo esplora. Dialoga con se stessa.
Il gioco della sua scrittura continuamente dice e torna indietro, si mette
dal punto di vista della mentalita' corrente e poi dal suo, femminile e
personale. E' come un grande quadro, o un prodotto multimediale che apre
continue finestre con differenti linguaggi: seri, ironici, rivendicativi,
superiori, utopistici, etici...
*
E ora?
Che sensazione di freschezza che ricavo da questa lettura. Virginia non
smette mai di darmi un senso intimo di pace, sia pure cogliendo il dolore
della coscienza che essa possedeva.
Queste cose che noi "femministe" abbiamo scoperto tanti anni fa, in cui
abbiamo creduto e poi rivisitato e poi articolato, queste cose che penso
tuttora, le ha pensate Virginia, la grande. E dunque, possiamo ricominciare
a farci queste domande, perche' siamo in un momento in cui dirci: tra
cinque, dieci anni, tra mesi, sara' veramente tardi.
Il punto e' che ora alcune cose sono cambiate. E siamo cambiate anche noi.
E' cambiata la vita delle donne e l'immaginario sulle donne. E' cambiata
l'insoddisfazione che viviamo, il dolore che percepiamo, l'urgenza degli
eventi.
Che cosa e' per noi oggi la nozione di differenza? Meglio ancora: voglio
partire, come fece  Virginia, non da una nozione astratta di differenza, ma
dai desideri: che cosa vogliamo noi? a che cosa ci ribelliamo? Cosa ci e'
insopportabile? Grazie a quale sentimento siamo (possiamo essere) una forza
invincibile? Cosa vogliamo costruire? Com'e' il mondo che vediamo?
Serve prima qualche riflessione su cui confrontarci. Ma il mio (il nostro)
e' un balbettio confuso. So che stiamo cercando altro, anche quando parliamo
di cio' che abbiamo capito.
*
Le donne non sono piu' invisibili
Virginia scrive in un periodo (la cultura dell'imperialismo inglese, la
guerra, i grandi nazionalismi) in cui avvenivano trasformazioni, era lei la
trasformazione. Le donne erano "fuori" e ci si interrogava su come essere
libere di vivere, di significare cultura, punti di vista, autorevolezza. Le
donne erano madri, moglie, sorelle, chiuse nelle case e nel ruolo assegnato,
e le visibili (che davano scandalo) erano, diciamo, le progressiste, quelle
che sfidavano il silenzio, la clausura delle menti e dei corpi.
Virginia e le donne che si sono ribellate, volevano viaggiare, scrivere,
essere libere e non sopportavano l'esclusione che impediva loro di essere
(ma e' l'esclusione che ha contribuito alla differenza, ricordo).
Oggi, c'e' un nuovo immaginario femminile che la societa' sta costruendo. La
pericolosita' di questo nuovo immaginario sta nel fatto che il corpo
femminile, restituito alla liberta' e alla dignita' come essenza della
differenza di genere, punto di vista da cui parte lo sguardo sul mondo, la
percezione, la relazione con l'altro, e introdotto in letteratura proprio
dalle donne (come oggetto-soggetto e come linguaggio), oggi ci viene
mostrato essenzialmente come strumento di seduzione pubblicitaria e
commerciale sempre piu' volgare, luogo di dolore e di sevizie, artefice esso
stesso di torture e di disastri, soggetto di distruzione e di
autodistruzione, potere politico magari speculare a quello maschile (e non
c'e' niente di peggio del fatto che vinca l'idea della specularita').
La visibilita' che, nei mezzi di comunicazione (che hanno ora un potere
maggiore di quello di ieri, anzi: assoluto, visto che non ci sono piu' altre
forme di confronto e di relazione e cioe' le assemblee, i collettivi, le
riunioni...), si da' al femminile (a un certo femminile), e che e' tanta, e'
fatta proprio per sottolineare una pretesa raggiunta uguaglianza.
La differenza e' unicamente nell'aspetto fisico (la superfetazione di labbra
e seni, l'odiosita' di voci sempre sopra le righe, i bisticci patetici) e
neanche piu' nella grazia o nella bellezza, perche' ci raccontano e ci
mostrano che i due sessi sono sempre piu' vicini.
Ci assalgono immagini nuove di corpi di donne, immagini che attraverso
questa guerra hanno segnato e sottolineato una realta' in trasformazione che
non possiamo non cercare di decifrare. Perche', accanto ai corpi distrutti
delle donne, accanto ai volti delle donne che lottano per la pace, ci sono i
volti, i corpi di donne militari torturatrici, di politiche fredde autrici
di azioni di guerra, di intellettuali "intelligenti e sfrontate", di
guerriere, terroriste, suicide e portatrici di morte, ci sono madri che
uccidono figli, madri che prostituiscono le figlie; volti e corpi ampiamente
sfruttati dai mezzi di informazione, con una logica terribile che sta a noi
leggere e smascherare.
Non si tratta piu' di cancellazione della cultura delle donne, ma di una
strisciante operazione di omologazione. C'e' l'adescamento a uno slittamento
minimo progressivo, alternato con scatti distruttivi.
Il mondo dell'immaginario femminile, fatto dagli sguardi delle donne, dalle
relazioni che esse creano o alle quali tendono, quel mondo della differenza,
viene messo in crisi da parte del mondo "ordinario", che pretende di
renderci a se' interne, che, mistificando, sottolinea la non-differenza, la
ormai avvenuta integrazione (cioe' omologazione), in piu' pretendendo di
rendere oggettive, inevitabili, la guerra e le guerre, le miserie e le
catastrofi, presentandosi di nuovo  comprensivo anche di noi. Neutro.
Quando le donne aderiscono alle modalita' maschile, finiscono per dover
fingere (o convincersi di possedere) un rapporto con questo istinto di
guerra (o di competizione, o di egoismo, o di violenza) che non hanno
(Virginia: "non riesco a capire"), e cosi' facendo prostituiscono il loro
corpo e la loro mente, diventano schiave - vedi le torturatrici, ma anche le
terroriste che si fanno raccontare favole riguardo il mondo che verra'.
C'e' anche un'altra ipotesi: che appartenga anche al femminile, sia pure a
suo modo, la possibilita' del ricorso alla morte e alla distruzione. Che
certi gesti (le torturatrici, le terroriste, le politiche "guerrafondaie",
le intellettuali fuori di testa, le "madri assassine"...) non siano corpi
estranei a noi, ma siano dentro di noi, cioe' dentro il nostro mondo. E'
possibile che il femminile contenga come espressione di soggettivita' anche
quella suicida violenta crudele. Che sia dentro di noi. Come abbiamo
scoperto che l'invidia, la gelosia, l'ambizione, la menzogna, appartengono
al genere femminile come a quello maschile, sia pure sempre a suo modo.
Puo' darsi, ma, appunto, sta a noi affrontare questo nodo nostro interno, e
leggerlo a nostro modo. Perche' in tal caso, il "femminile" dovra' essere
sottoposto a una lettura critica e analitica che preveda di nuovo le
"classi", le ideologie, i percorsi individuali o di gruppo, eccetera.
Perche' una cosa e' certa: nel mio quotidiano quella "educazione gratuita",
quella "differenza", la presenza di quegli "esseri umani civili", nei
comportamenti, nelle relazioni, nei ragionare, mi manca. E ho molta paura.
Sta di fatto che abbiamo perduto la verginita': sappiamo troppo.
Siamo in guerra, siamo in posizioni che comportano competitivita', siamo
torturatrici, terroriste, e siamo protagoniste di film, romanzi, e anche
veline, ragazze da calendario, e non piu' passive ma soggetti. E' vero, non
siamo piu' "figlie degli uomini colti", siamo noi le "donne colte". Ma certo
non siamo piu' quelle madri per le nostre figlie.
*
Mi chiedo: quali soggetti siamo? (Parlo di noi, non delle "donne")
Virginia ha riflettuto: se l'istruzione e' quella cosa che comporta una
mentalita' di guerra, di presunzione, carrierismo, egoismo... vogliamo
davvero seguire i nostri fratelli? E se invece, come abbiamo sempre detto,
non vogliamo seguirli e crearci una nostra strada, essa deve significare una
qualita' differente nella modalita', nel linguaggio, nel suo farsi, nel
poiein. Ecco perche' Virginia conclude che per fermare la guerra basta
scrivere.
Virginia da' le tre ghinee perche' pensa che esse aiutino le donne a essere,
cioe' a perseverare nella differenza (quello che ho chiamato il decalogo),
ad articolarla, a diffonderla tra le altre donne, a esercitare una critica
nei riguardi del maschile che faccia spostare e dividere lo stesso maschile
(Virginia chiede all'avvocato di riflettere "sulle ragioni per cui quelle
scuole e quelle universita' hanno fallito"), senza entrare nella sua logica
che per Virginia e' incomprensibile. Se si accetta la logica di qualcuno ci
si muovera' con la stessa logica.
Dobbiamo riflettere se, quelle tre ghinee, le abbiamo usate nel migliore dei
modi, se non abbiamo accolto quegli elementi che giustamente Virginia
leggeva come, anch'essi, "cultura di guerra".
Vorrei che tornassimo a interrogare il nostro quotidiano, i nostri
atteggiamenti, la nostra difficile strada che si muove sempre in quel "campo
di ambiguita'" (come chiamai lo spazio letterario delle scritture di donne)
e che ora si riveste di nuove articolazioni.
Se le politiche donne assomigliano sempre piu', nei modi e nei procedimenti,
cioe' anche nei linguaggi, ai loro colleghi, se le imprenditrici, le
accademiche, le scrittrici, le dottore, le avvocate, le architette,
eccetera, accolgono e usano le modalita' e i comportamenti maschili, quale
meraviglia se le soldatesse torturano, le consigliere militari mentono, le
terroriste uccidono? E se le ragazze vogliono fare le veline non e', sia
pure su un piano differente, la stessa cosa? Si tratta di un processo di
omologazione, di espropriazione, che prende forme diverse, ma che certo ha
sempre meno a che fare con quella differenza grazie alla quale abbiamo
iniziato il nostro viaggio.
Vorrei che ci fermassimo a ridiscutere noi stesse, ad analizzare di nuovo
come uscire dalla contrapposizione tra esercizio della differenza e
assunzione di ruoli e di responsabilita' in una societa' che non alle donne
ha pensato quando ha creato la griglia di valori che permette l'entrata in
quegli stessi ruoli e l'esercizio di quei ruoli.
Se torno a fatti piccoli e grandi, piu' sopra citati, dal nonnismo al
papiello universitario, dalla fatica di salire in cattedra di tanti che nel
'68 hanno lottato contro i baroni e ora lo sono essi stessi baroni ed
esercitano allo stesso modo il potere, se penso ai giovani poeti e ai
giovani artisti di una volta, alle sperimentazioni in arte poi assorbite a
canoni, se penso ai giovani nei confronti degli adulti, alla sinistra nei
confronti della destra, agli onesti e ai disonesti, ai popoli oppressi, alle
donne, mi rendo conto che il modo con cui si esercitano le cose, una volta
che sia stato permesso solo di annusare qualche parvenza di potere, e'
sempre lo stesso.
E questo non e' questione che astrattamente possa impensierire, e' che porta
le guerre, le distruzioni, il terrorismo, la fame e la violenza, e porta
superficialita', volgarita', apparenza, porta un mondo doloroso e cinico che
a volte la fantascienza ha disegnato. Porta infelicita'. Porta
autodistruzione.

4. EDUCARE ALLA PACE. SABATO, A SCUOLA
La mattina del 5 marzo, al liceo scientifico di Tuscania, con i ragazzi
della quinta B e della quinta A, in piedi in silenzio rendiamo omaggio a
Nicola Calipari.
Il volto di quest'uomo che salva le vite, il volto di quest'uomo
assassinato, dico, questo e' il volto della nonviolenza. E questa e' scuola
vera, la sola che vale.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 11 del 6 marzo 2005