La domenica della nonviolenza. 7



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 7 del 6 febbraio 2005

In questo numero:
1. Giuliana Sgrena: Florence e gli altri
2. Giuliana Sgrena: Una donna torturata a Abu Ghraib
3. Rosangela Pesenti: Pensieri da un anno con troppe guerre
4. Tiziana Plebani: Corpi di pace, corpi di guerra

1. DOCUMENTI. GIULIANA SGRENA: FLORENCE E GLI ALTRI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 gennaio 2005. Giuliana Sgrena,
intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e'
tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e
islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di,
La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma; Kahina contro i califfi,
Datanews, Roma; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma); e' stata
inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu'
ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005. Dal sito del quotidiano "Il manifesto"
riprendiamo, con minime modifiche, la seguente scheda: "Nata a Masera, in
provincia di Verbania, il 20 dicembre del 1948, Giuliana ha studiato a
Milano. Nei primi anni '80 lavora a 'Pace e guerra', la rivista diretta da
Michelangelo Notarianni. Al 'Manifesto' dal 1988, ha sempre lavorato nella
redazione esteri: appassionata del mondo arabo, conosce bene il Corno
d'Africa, il Medioriente e il Maghreb. Ha raccontato la guerra in
Afghanistan, e poi le tappe del conflitto in Iraq: era a Baghdad durante i
bombardamenti (per questo e' tra le giornaliste nominate 'cavaliere del
lavoro'), e ci e' tornata piu' volte dopo, cercando prima di tutto di
raccontare la vita quotidiana degli iracheni e documentando con
professionalita' le violenze causate dall'occupazione di quel paese.
Continua ad affiancare al giornalismo un impegno anche politico: e' tra le
fondatrici del movimento per la pace negli anni '80: c'era anche lei a
parlare dal palco della prima manifestazione del movimento pacifista".
Florence Aubenas, giornalista francese, e' stata rapita in Iraq alcune
settimane fa]

"Non andate in Iraq", ha detto Chirac ai giornalisti francesi. Gli ha fatto
eco Fini da Roma. Le varie ambasciate, sotto pressione Usa, avevano gia'
intimato ai giornalisti presenti a Baghdad prima dell'inizio dei
bombardamenti, il 20 marzo 2003, di abbandonare il campo. L'intimazione non
ha pero' avuto successo e la guerra e' stata rappresentata, bene o male, sia
da chi doveva subire il controllo del ministero dell'informazione iracheno
che da chi, "embedded", era censurato dal Pentagono.
L'ulteriore deterioramento della situazione irachena ha reso ancora piu'
difficile fare informazione. I giornalisti sono ostaggio di tutti gli
effetti perversi provocati dall'occupazione militare e dalla privatizzazione
della guerra. L'ostilita' degli iracheni verso l'occupazione si e' ampliata
fino a coinvolgere tutti gli stranieri: contractor, giornalisti o lavoratori
umanitari. Non basta piu' essere francesi - per la posizione della Francia
verso la guerra e l'occupazione - per avere un trattamento diverso. Del
resto, quando si spaccia un intervento militare per "missione di pace" (come
ha fatto il governo italiano), non si puo' pretendere che dall'altra parte
si facciano distinzioni sottili. E purtroppo in questa spirale perversa Enzo
Baldoni ha pagato di persona.
Ora anche l'esercito italiano ha "aperto" a corsi per i nostri aspiranti
"embedded". Peggio: e' arrivata alla camera, ed e' gia' passata al senato,
la revisione del codice penale militare che prevede l'applicazione della
legge marziale nello "stato di pace" anche ai civili, giornalisti compresi,
per "illecita raccolta, pubblicazione e diffusione di notizie militari".
Naturalmente il riferimento immediato e' alla "missione di pace" a
Nassiriya.
L'informazione si e' dunque militarizzata: a volte, come e' successo a
Falluja, e' impossibile seguire quel che accade senza essere al seguito di
un esercito. Ma la prospettiva resta esclusivamente militare, anche se
qualche volta sfuggono immagini scioccanti come quella del marine che spara
sul ferito disarmato dentro la moschea di Falluja.
Ribellarsi a questi schemi e' rischioso, ma e' un rischio che bisogna
correre per fare informazione, per fare conoscere una realta' che altrimenti
finirebbe solo nei bollettini di guerra o nei pamphlet di propaganda. Sempre
di guerra.
Florence Aubenas ha sempre corso il rischio di informare: in Ruanda, Kosovo,
Algeria, Afghanistan e Iraq. Anche per questo ci sentiamo al suo fianco.

2. DOCUMENTI. GIULIANA SGRENA: UNA DONNA TORTURATA A ABU GHRAIB
[Dal quotidiano "Il manifesto" del primo luglio 2004]

Il primo appuntamento con Mithal al Hassan era in albergo: "Preferisco
parlare in un luogo neutro. In casa mia, con i miei figli, mi sento
imbarazzata". Ma l'incontro e' saltato: entrata di soppiatto nel Palestine,
di fronte all'omerta' degli impiegati dell'albergo e alla presenza dei
soldati americani, lei - che e' ancora senza documenti - si era spaventata e
se n'era andata in fretta come era venuta. L'abbiamo rincorsa per mezza
giornata e poi un nuovo apputamento, a casa sua.
Un appartamento confortevole (soprattutto quando torna l'elettricita'), in
una zona residenziale, con televisione, compact disc, computer. Ad
accoglierci e' la figlia piu' piccola, quattordici anni, che poi ricompare
solo per portarci bibite, cioccolatini e uva. Mithal e' completamente
avvolta nella sua baya, che non e' pero' quel mantello nero informe usato
dalle donne sciite nei quartieri popolari, ma un abito nero, velo compreso,
tutto ricamato. L'ombra nera di kajal fa risaltare il color grigio-verde dei
suoi grandi occhi.
Mithal e' divorziata da otto anni - il marito si e' risposato e si e'
trasferito in Libia -, da allora ha dovuto mantenere da sola i suoi sette
figli, lavorando in una panetteria e poi come taxista: "Saddam ci ha
insegnato solo a lavorare sodo", dice. La sua forza e orgoglio emergono
anche quando entriamo nel merito dei dolorosi fatti che l'hanno tormentata
negli ultimi mesi, nel carcere di Abu Ghraib.
La storia e' lunga, i particolari dolorosi, ottanta giorni di inferno.
*
Nella notte, giu' la porta
"Erano le 2,30 di notte del 28 febbraio, quando i soldati americani hanno
sfondato la porta. Anche ai tempi di Saddam ogni tanto il mukhtar
(formalmente 'rappresentante del popolo') veniva con i suoi uomini a
controllare quello che facevamo, ma almeno suonavano alla porta. I soldati
entrati in casa hanno cominciato a buttare tutto per aria e mi hanno portato
via, oltre a tutti i documenti e le chiavi, 7 milioni di dinari (circa 4.000
dollari), ricavati della vendita di due macchine, che dovevano servire per
pagare dei debiti" (il fatto e' stato riportato anche dal giornale "Zaman",
di cui ci mostra il ritaglio). "Mi hanno chiesto se conoscevo Hassib, in
realta' un nostro vicino si chiama Hassib anche se tutti lo chiamano Abu
Aya, e i soldati americani stavano cercando un certo Hassib, commerciante di
armi, ma poi avrei scoperto che si trattava di un ufficiale siriano e non
del mio vicino".
A portare gli americani a casa di Mithal era stata una vendetta, ovvero le
"informazioni" fornite da alcuni occupanti di quelli che una volta erano i
locali del ministero dell'informazione i quali avevano rubato dei
generatori, e gli abitanti della zona li avevano denunciati. Mithal
partecipo' alla denuncia. Cosi' la donna e il figlio maggiore, di 38 anni,
sono stati arrestati. "Sono stata trascinata giu' per le scale (cinque
piani), con la camicia da notte, riuscendo a malapena a recuperare la mia
baya prima di uscire", racconta la donna. E continua: "Mi hanno portata al
Sujud palace, dal nome della moglie di Saddam, Sajida. A un certo punto mi
hanno mostrato un uomo con jellaba e un sacco in testa, legato a un albero.
Era mio figlio, l'avevo riconosciuto dai calzoni. L'hanno trascinato vicino
a me, gli hanno tolto il sacco, era orrendamento torturato, con profonde
ferite in testa, e gli hanno detto: di' addio a tua madre, prima di
rimettergli il sacco e legarlo nuovamente al palo. Poi un soldato ha
cominciato a trascinarmi via di corsa: io avevo il capo coperto, le mani
legate dietro la schiena, la baya non essendo abbottonata mi scendava sotto
i piedi e mi faceva inciampare. Non ce la facevo a correre, faceva freddo,
tremavo, allora mi ha buttata per terra, ho cercato di scaldarmi i piedi
scalzi affondandoli nella sabbia. Alla fine mi hanno portato in una stanza e
mi hanno avvolta tutta in una coperta, mi mancava l'aria, battevo i piedi
per terra per farmi sentire. Allora sono arrivati con le foto dei miei
figli. Vedendoli, ho cominciato a piangere, mentre loro mi urlavano: dove
hai messo la forza che ti ha dato Saddam? E poi, buttando le foto per terra:
'saluta i tuoi figli, non li vedrai per trent'anni'. Non ci credevo: ho
letto di psicologia e so che questi metodi vengono usati per spaventare. Mi
hanno riportata da mio figlio, ci hanno lasciati soli. Mio figlio mi ha
chiesto se ero veramente un agente di Saddam. Come era possibile che mio
figlio mi chiedesse questo con tutti i sacrifici che ho fatto per crescerli?
Sono una povera donna di Najaf, sciita, e Saddam non amava certo gli sciiti,
come avrei potuto essere un suo agente? Avevano anche detto a mio figlio di
confessare che conosceva Hassib e l'avrebbero liberato. Poi l'hanno
riportato via. Io non ho saputo piu' niente di lui, finche' sono tornata a
casa: era stato rilasciato il giorno dopo".
*
La soldatessa gentile
Mithal si massaggia le mani ricordando che per il laccio troppo stretto le
erano diventate tutte nere, non riusciva piu' a muoverle quando una
soldatessa gliele aveva slegate per permetterle di andare in bagno. "La
prima persona gentile che ho incontrato, mi ha anche aiutata a raccogliermi
i capelli e poi mi ha nuovamente legata ma in modo allentato, allora io le
ho dato i miei orecchini. Caricata su un furgoncino, stesa a terra perche'
nessuno mi vedesse, mi hanno portato all'aeroporto. In una stanza grande
c'era un dottore, che voleva che mi spogliassi. Mi sono rifutata, dicendo
che sono musulmana e non lo potevo fare, lui mi minacciava di tagliarmi i
vestiti addosso. Alla fine gli ho chiesto di poter almeno tenere la
biancheria intima e lui ha accettato. Comunque mi ha controllato solo i
polsi. Poi mi hanno trasferito in un'altra stanza, enorme, per
l'interrogatorio. A farlo era una donna in abiti civili, mentre due uomini
erano seduti in un angolo. Da casa mia avevano portato via tutti i documenti
e la prima cosa che mi hanno contestato era il numero di documenti: oltre
alla carta di identita', la tessera per le razioni di cibo e il certificato
di residenza compilato dalla polizia e firmato da un luogotenente. La donna
sosteneva che quel luogotenente ero io. Se lavorassi per la polizia sarei
almeno un colonnello, vista la mia eta', avevo risposto. Poi la scritta
'mutallaka' (divorziata) sul mio documento. Secondo l'interprete, di origine
irachena ma che aveva vissuto 45 anni all'estero, si trattava invece di
'mutlak' che vuol dire assoluto, quindi sicuramente doveva trattarsi di un
permesso o riconoscimento di Saddam. Urlavano. Alla fine mi hanno portata in
una cella: un metro per un metro e mezzo con una bottiglia d'acqua e mi
hanno lasciata li' per sei notti. Un giorno mi hanno fatta appoggiare al
muro con le mani alzate, ma io non ce la facevo a restare cosi', cosi' e'
arrivata la soldatessa nera che mi urlava in continuazione, ma visto che non
mi spaventava, alla fine si e' scusata: 'sei coraggiosa', mi ha detto".
Questo era solo l'inizio del calvario di Mithal: "A volte alzavano il
riscaldamento al massimo e per dormire dovevo buttarmi addosso quella poca
acqua che mi davano. A volte non mi davano ne' acqua ne' cibo. E poi dalle
celle accanto arrivavano le urla degli uomini torturati, pianti e grida, che
venivano registrate e ritrasmesse tutta la notte ad alto volume, insieme ad
altri suoni di passi sulla ghiaia che si avvicinavano, ma li' c'era solo
sabbia. Non c'era modo di dormire. Io odiavo il loro cibo. Non ne potevo
piu', alla fine ho chiesto di poter scrivere qualcosa ai miei figli, perche'
mi sarei suicidata".
Le torture psicologiche continuavano. A questo punto le hanno detto che
stava sulla lista dei prigionieri che dovevano essere liberati, le hanno
fatto raccogliere le cose, ma non sarebbe stata la liberta'.
"Mi hanno portata in uno stanzone gelato, io battevo i denti, in bella
mostra c'erano tutti gli strumenti della tortura, poi mi hanno messo un
nastro adesivo sugli occhi e, insieme a tredici uomini, mi hanno caricato su
un elicottero. Il volo e' stato breve, meno di un'ora". La destinazione era
Abu Ghraib. "Arrivati, prima di tutto ci hanno esaminato il corpo, i
capelli, i denti, registrando tutto su computer. Io stavo male, avevo
un'allergia, non riuscivo piu' a mangiare, allora Um Iraq, una delle
interpreti, un'irachena venuta da fuori, mi dava qualche banana. Mi
servivano medicine ma dicevano di non averne".
Ma era sempre sola? "No, a quel punto mi hanno messa in cella con altre
donne, eravamo due per cella. C'erano tredici donne, erano soprattutto mogli
di uomini del passato regime, e sette bambini. C'era anche la moglie di
Sabah Merza, una guardia di Saddam negli anni '70, che teneva le mani nel
ghiaccio per lenire le pene delle torture, un'altra aveva il corpo rovinato
perche' veniva sbattuta contro il muro, un'altra e' stata rinchiusa in una
piccola gabbia per sei giorni, non poteva nemmeno muoversi. Una delle
prigioniere, costretta a camminare a quattro zampe, aveva ginocchia e gomiti
completamente rovinati. A un'altra hanno fatto separare la merda dall'urina
con le mani. Eravamo spesso costrette a bere l'acqua del cesso. Una donna di
sessant'anni, che aveva detto di essere vergine, veniva sempre minacciata di
stupro".
*
Degli stupri non voglio parlare
Ha saputo anche di casi di stupro? "Si', ma di questo non parliamo, nella
nostra societa' non si puo' fare". Qual era l'eta' delle prigioniere? "Dai
40 ai 60 anni". E i bambini come venivano trattati? "Li sentivamo urlare,
anche loro venivano torturati, soprattutto venivano fatti assalire dai
cani". Quando e' stata rilasciata? "Alla fine, penso anche per la pressione
della resistenza, sono stata rilasciata e mi hanno anche restituito gli
orecchini. Volevano portarmi a casa, mi sono rifiutata, dopo tutto quello
che avevo passato non volevo rischiare di essere presa per una
collaborazionista. E siccome mi sono rifiutata, invece di uscire il 21
maggio, sono stata trattenuta fino al 23, altri due giorni sotto una tenda
schifosa, dove sono collassata". Ha visto le immagini delle torture, ha
riconosciuto qualcuno? "Si', le ho viste su internet. Ho riconosciuto alcuni
detenuti, come Abdul Mudud che era il cognato di al Duri, al quale erano
state rotte le mascelle e tolto un occhio. Ho riconosciuto anche alcuni
soldati. A volte facevano mettere un centinaio di prigionieri per terra e
poi vi passavano sopra". Cosa pensa della resistenza? 'Gli Stati Uniti hanno
occupato il nostro paese, abbiamo il diritto di difenderci. La resistenza e'
autodifesa. Ma uccidere gli iracheni non e' resistenza". Non ha paura a
parlare di quello che ha visto? "Io non ho fatto nulla di male, perche'
dovrei avere paura?".

3. POESIA E VERITA'. ROSANGELA PESENTI: PENSIERI DA UN ANNO CON TROPPE
GUERRE
[Ringraziamo Rosangela Pesenti (per contatti: rosangela_pesenti at libero.it)
per averci messo a disposizione queste soavi pagine dal suo diario.
Rosangela Pesenti e' una delle figure piu' autorevoli e prestigiose del
movimento delle donne in Italia]

Il velo rosa dell'alba
fluttuava all'orizzonte stamattina
sorgeva lentamente il sole
alla mia finestra orlata di brina.
Il tempo di raccogliere i pensieri
spogliati la sera prima
e sono pronta a riprendere il cammino.
i passi nell'impronta lasciata ieri
i giorni segnati sul calendario
l'elenco dei doveri
infilato in un libro mai cominciato
non so se si conserva la visione a sera
o se precipita nel vuoto
come tutto il tempo passato

*

La pace e' una bandiera sdrucita
penzola dal mio balcone
sbiadita nella nebbia mattutina
che confonde prati e cielo
precisi i tagli degli strappi
contro l'orizzonte incerto
sembra vibrare lenta
nel gelo dell'inverno
forse ha un brivido di nostalgia
per i bei colori sfavillanti
e pensa col suo strano circuito neuronale
al tempo passato, a quello che deve passare
prima che davvero tutto tutto scolori
e la pace finalmente sia.

*

L'estremo orizzonte della pianura
che amavo un tempo,
confine mobile ai miei sogni,
e' solo un colore stinto
dietro gli alberi cresciuti
a misura
di una strada campestre
che percorro piano.
Stabile sembra il paesaggio
(si fa breve il sogno)
circondato dai miei passi
e un sasso
e' l'infinito
e un punto dentro nel profondo
e' tutto il mio mondo.

4. RIFLESSIONE. TIZIANA PLEBANI: CORPI DI PACE, CORPI DI GUERRA
[Ringraziamo Tiziana Plebani (per contatti: plebani at marciana.venezia.sbn.it)
per averci consentito di riprodurre questo suo saggio apparso nel bel libro
di Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne disarmanti, Intra
Moenia, Napoli 2003, pp. 35-52 (per richiedere il libro alla casa editrice:
e-mail: awander at tin.it, sito: www.intramoenia.it). Tiziana Plebani,
bibliotecaria e storica, e' attiva nella Rete di donne per la pace di Mestre
e Venezia; tra le sue opere: Il genere dei libri; Corpi e storia]

La patria dei corpi
Qual'e' la nostra prima dimora, la prima casa che appartiene anche all'uomo
e alla donna piu' nomade, prima patria comune a tutti perche' di tutti
esperienza universale, se non il nostro corpo? Luogo dal quale nessuno ci
puo' scacciare, esiliare o sfrattare, anche se vi sono modi e tempi per
rendere inabitabile pure quello. Chi parla spesso di patria, nei discorsi
che, non solo oggi, riempiono di vuoto tante bocche spalancate, spesso non
conosce il rispetto di questa prima casa, di questa patria che non e' terra
del padre, come spiega l'etimologia, ma e' terra di vita.
I bisogni del corpo, dei corpi - statuti dell'anima - non hanno
rappresentanti ufficiali nei parlamenti e quelle patrie non hanno confini
sicuri poiche' si confondono negli abbracci e si rinsaldano nei silenzi.
Tante patrie quanti sono gli esseri viventi, tante alleanze e trattati di
cooperazione, quanto e' grande per ognuno la possibilita' di far nascere
amore, amicizia, stima. Noi siamo ferite o feriti nel corpo e nei sentimenti
da gesti concreti di violenza ma anche dalle parole o dall'indifferenza,
dalla mancanza di vicinanza o, al contrario, dall'impossibilita' di una
distanza.
Chi ha parlato spesso di patria, spesso per raggiungere la terra dei padri,
ha umiliato, scacciato, esiliato per sempre e senza ritorno, altri uomini e
donne dalla prima e irrinunciabile dimora. Il Fine - si e' detto -
giustifica i mezzi. Assumere come valore fondante nelle relazioni il
principio dell'inviolabilita' del corpo, di ogni singolo corpo, che non e'
un solo un involucro ma disegna l'intreccio di pensieri e di sentimenti del
corpo/pensante, segna una strada della possibilita', verso il rispetto di
queste patrie mobili.
La violabilita' del corpo femminile e' al centro del discorso, del nostro
comune orizzonte: come avere patria se nemmeno il mio corpo di donna, prima
dimora, e' libero di scegliere il piacere, se e' ancora un corpo rapinato o
tenuto in ostaggio da altri. Dunque parlare di patria e' per me nominare la
mia sessualita' di donna, il mio contatto fisico con gli altri, prima
identita' di scambio che fa nascere emozioni e desideri e che, attraverso il
contatto, traccia i confini propri e quelli dell'altro - volta per volta
differenti - e puo' decidere di abbandonarli, inoltrandosi in territori
sconosciuti. Chi non ha questa liberta' non ha patria, non ha cittadinanza.
Il corpo pensante ha bisogno di terra, di un luogo dove stare. Cosa vuol
dire, per me, abitare un luogo e amarlo, sentirlo proprio? Chi parla spesso
di terra-patria, spesso per ottenerla o possederla e' disposto a bruciarla,
a lacerarla e a cancellare la traccia dell'esistenza altrui. Ma cosi' la
terra, per chiunque la pretenda, diviene inospitale, corpo anch'esso violato
che rende visibili i segni dell'ostilita', dell'indifferenza, delle ferite
non sanate. Chi parla spesso di patria ha costruito citta' come luoghi
inabitabili e ostili, luoghi che celano scelte solo di alcuni, dove gli
altri non possono riconoscersi e cosi', sovente, come risposta
all'esclusione, scelgono la strada dell'ulteriore saccheggio, in una catena
di continuo smarrimento ed esilio. Ma la cura del luogo e' l'altra
indispensabile istanza per una strada della possibilita', proseguimento
della cura di se' e degli altri, attenzione alla terra che rende possibile
la vita e il divenire, pur nelle sue leggi, che prevedono anche la morte dei
corpi-pensanti, di cui si deve conservare memoria.
La cura del luogo e' per me amore per l'abitabilita' reale dei luoghi,
affettuosa e costante attenzione per la materialita' concreta della vita e
della sua qualita': aver spazio per se' e spazi da condividere, luoghi
privati e luoghi pubblici, luoghi della bellezza, dove e' possibile
l'incontro e la mescolanza. Tempi per se' e tempi per gli altri, cura delle
nostre relazioni. Tempi per costruire quei fili sottili ma tenaci che ci
legano alle altre e agli altri, diversi per ognuna/o di noi, fili che
intrecciano trame di tessuti. Tessuti come terreni. Ognuno di noi come
granello di terra, singolo e irripetibile, che, insieme agli altri, forma
zolla compatta, abitabile e, nello stesso tempo, soffice. Cura di se', cura
dei legami e cura del luogo, che accoglie la solidarieta' come atto non
gratuito perche' inserita nella trama della reciprocita', cura da tramandare
alle nuove generazioni perche' conoscano i saperi e le necessita' della
vita.
*
Chi cura la vita e chi la distrugge? La realta' e i simboli
Possiamo pensare che le cause delle guerre, dei grandi squilibri di risorse
nei vari paesi del mondo, delle discriminazioni di sesso, razza, censo,
insomma di tutte le storture di questo nostro mondo globalizzato dipendano
dagli interessi di pochi, dalla malvagita' e brama di potere e denaro solo
di alcuni. Se pensiamo che sia cosi', ne consegue che abbiamo dei nemici che
devono essere sconfitti e che sara' facile, nell'unione degli sforzi dei
piu', neutralizzare i pochi. Se pensiamo che sia cosi' tuttavia non potremo
trovare una spiegazione al fallimento di tanti movimenti che avevano gli
stessi obiettivi e tali fallimenti non si giustificano solo con la
repressione, con la violenza degli stati e degli apparati di polizia.
Chiunque, se interrogato, risponde di essere in favore della pace, della
liberta', dei diritti. Queste grandi parole rischiano di divenire nella
realta' dei contenitori vuoti, come si vede in questi nostri giorni; le
parole in astratto non hanno la capacita' di garantire nulla, noi possiamo
firmare appelli e dichiarazioni (ed e' giusto fare tutto cio') ma il
problema fondamentale riguarda la relazione che ognuno di noi ha non colle
parole, che a forza di astrazioni perdono pure l'adesione alla realta', ma
colle pratiche reali, con le nostre relazioni quotidiane con gli altri e con
le cose, con l'ambiente, con i luoghi che ci permettono la vita.
Sulla nostra aggressivita', certo diversa negli uomini e nelle donne, noi
possiamo dividerci facilmente, come si sono divisi filosofi, sociologi,
psicanalisti ecc.; possiamo pensare, insieme a Jean-Jacques Rousseau, che
l'uomo nello stato di natura e' buono e sono le storture della societa' e
dell'educazione a renderlo egoista, violento; possiamo invece ritenere, come
Thomas Hobbes, che tanta influenza ha avuto sulla costruzione del nostro
mondo moderno, che gli uomini di per se' sono in guerra ognuno contro
l'altro e solo un'azione interessata e mediata dallo stato, che e' in grado
di assorbire la violenza dei singoli, esercitandone il monopolio, ci mette
al riparo dallo scatenamento della violenza.
Sono molte le teorie sulla violenza ma tutto cio' non ci fa fare un passo
avanti, se davvero lo vogliamo fare, e vogliamo che questa affermazione
"Fuori la guerra dalla storia" divenga realta'. L'unica chance, l'unica leva
e' agire su noi stessi, dato che gli uomini e le donne sono "animali
simbolici" e non sono immodificabili, come dimostra la nostra stessa storia
e la nostra continua modificazione anche fisica, anche del nostro cervello.
Dobbiamo e possiamo lavorare sulla modificazione culturale degli immaginari,
del linguaggio; agire sul simbolico, sugli apparati di decodificazione e
rappresentazione della realta' prima di tutto all'interno di noi stessi,
mettendosi in gioco. Si tratta certamente di una strada piu' impegnativa,
proprio perché impegna il se' e ci costringe ad aderire alle nostre parole,
ma io credo sia l'unica davvero fruttuosa.
*
Corpi maschili di guerra e di pace
Uomini e donne su questo piano hanno cose diverse da esplorare, da indagare,
a partire dalla relazione del corpo con le dinamiche aggressive e violente
che coinvolgono l'uso del corpo e il modo di percepire piacere.
Possiamo iniziare a domandarci, ad esempio, quanto l'accettazione o meno
dello scenario della guerra dipenda dalle caratteristiche dell'immaginario
maschile, quanto il desiderio maschile ancora pulsa nel contatto con le
armi, con lo scontro diretto, con il dominio su corpi inermi?
Si tratta di un nodo simbolico centrale di cui non si parla, di cui poco,
pochissimo, la "differenza" maschile parla e si interroga, a partire dalle
proprie strutture simboliche e dalla propria sessualita'.
Su questo aspetto un libro importante e illuminante rimane ancora Il demone
amante. Sessualita' del terrorismo, di Robin Morgan, che ha messo a nudo le
connessioni simboliche tra una cultura virilista, patriarcale, e la mistica
del guerriero, dell'eroe. Tuttavia mi piacerebbe davvero interrogare piu' a
fondo questa differenza e vorrei scorgere al di la' di questa lucida
analisi, che rischia di rendere tutti gli uomini apparentemente eguali,
decontestualizzati e astoricizzati, qualcosa di piu' vero, di piu'
comprensibile. Ho cercato un percorso di senso nella mia storia personale e
nella diversita' che scorgevo, pur con occhi di bambina, nei due maschi
adulti della mia famiglia. I racconti del nonno materno sulla guerra, pochi,
reticenti, ricordavano prevalentemente le fughe con il cuore in gola sotto i
bombardamenti e non si soffermavano mai in alcuna descrizione del fronte di
guerra, provocando una sottile derisione di mio padre, che invece sovente
narrava della sua esperienza di "guerriero"; in questi suoi racconti io
sentivo che le emozioni, le paure, erano filtrate attraverso un'esigenza di
traduzione attraverso le categorie di virilita' e di eroismo. Ben a parte si
situavano le descrizioni molto piu' coinvolgenti e stupefacenti, perche'
dense di vita materiale, di ricerca del cibo, di strategie di sopravvivenza,
di incontri, di mia nonna, sfollata con la mamma e i fratelli dal loro
paesino trevigiano dopo la rotta di Caporetto in terra pugliese. Poco tempo
fa cercando di ricostruire le storie di mia nonna, che da bambina mi
parevano piu' avventurose di quelle di Robinson Crusoe, ho cominciato a
documentarmi su Caporetto e, squarciato il velo della retorica di guerra, mi
sono imbattuta in un'altra realta': non tanto vinta dai tedeschi la rotta
del Piave e dell'Isonzo era avvenuta anche per interi reparti in diserzione,
per vari momenti di alleanze tra "nemici" e forse per dare un diverso senso
a cio' che si stava vivendo: vicende testimoniate largamente dalle tante
esecuzioni di fuggitivi o di uomini considerati traditori della patria. Un
bellissimo libro mi ha fatto da guida nel cercare di ricostruire cosa era
avvenuto nella testa di tanti uomini al fronte, con le armi in mano, in
battaglia, uomini che per lo piu' non avevano avuto alcuna reazione di
"guerrorgasmo", di cui il libro di Robin Morgan ci offre invece notevoli
esempi, ma che avevano vissuto quell'esperienza come una ferita esistenziale
profonda, come un'espropriazione del tempo e della vita che vuole abituare
all'obbedienza e che, scardinando la consueta gestione del corpo, rende
possibile l'abbrutimento. L'officina della guerra, di Antonio Gibelli, ha
dato cosi' voce al silenzio di mio nonno, alle fughe e alle diserzioni dei
suoi compagni e mi ha spiegato l'orrore che istintivamente mi provocava da
bambina la vista delle buche da mortaio, delle camminatoie nelle montagne
venete, terre della mia infanzia.
Un quadro assai diverso, che sembra mettere in campo altri uomini, e' quello
presentato dalla storica inglese Joanna Bourke che ha indagato sull'oscura
fascinazione della guerra, ma piu' precisamente proprio sull'esperienza
dell'uccisione. Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in
battaglia, narra proprio il godimento, l'euforia, l'eccitazione, la gioia
nell'uccidere. Le testimonianze della Bourke sono agghiaccianti, e cio'
conduce Bourke ad affermare che uccidere aveva per molti una risonanza
spirituale, legata in qualche modo a un godimento di tipo estetico inscritto
nel nostro immaginario. Bourke non ne fa una questione di genere sessuato,
anche se la sua documentazione riguarda esclusivamente uomini, e uomini
americani, nelle due guerre mondiali e in Vietnam. La memoria raccolta da
Henry de Man, memorialista della Grande Guerra - "Vidi corpi e parti di
corpi saltare in aria e udii le urla disperate dei feriti e dei fuggiaschi.
Dovetti confessare a me stesso che fu uno dei momenti piu' felici della mia
vita"- e' ben diversa dalle testimonianze raccolte da Gibelli. Bourke ne
offre una giustificazione nella necessità di rispondere a un'esperienza che
sfida il senso comune, una strategia per superare il trauma dell'uccisione.
In questo stato d'animo, ci spiega, gioca un ruolo fondamentale l'influenza
della letteratura e dei film di guerra, ma anche i racconti fatti da padri e
nonni, spesso caratterizzati da una memoria selettiva, eroicizzante.
Dunque piu' che strutture inconsce prive di storicita' possiamo intravedere
l'influenza di culture visive, di trasmissioni di contenuti, di contesti
storicizzabili.
Un saggio di Lucia Beltrami, Periculum iniuriae muliebris. Il rispetto delle
donne del nemico nella cultura romana, ci aiuta a comprendere quanto
incidano le rappresentazioni culturali: Tito Livio narra come Scipione dopo
la conquista di Cartagine Nuova non solo trattasse bene i prigionieri ma
dava ordini di proteggere con rispetto e col massimo riguardo le donne,
ribadendo che tali erano i principi e il costume del popolo romano, "perche'
nulla sia presso di noi oggetto di offesa, di cio' che in ogni luogo e'
considerato inviolabile". Sia il valore attribuito al nemico, l'interesse
all'alleanza e alla costruzione di una civilta' di relazioni, non permise
l'accadere di alcuno stupro di guerra ne' di episodi di umiliazione dei
vinti.
Bourke ora sta raccogliendo le testimonianze sulle ultime guerre, e in una
intervista ha riportato le parole di un soldato sovietico durante
l'invasione dell'Afghanistan: "Tu pensi che uccidere sia spaventoso e
sgradevole, ma presto ti rendi conto che cio' che veramente trovi
problematico e' uccidere qualcuno a bruciapelo. L'uccisione di massa,
compiuta in un gruppo, e' eccitante e anche - ho avuto modo di provarlo di
persona - divertente". L'elemento chiave in questo racconto e' il rapporto
con la dimensione di massa, con la capacita' della moltitudine di scatenare
energie e potenze, in questo caso negative, che tendono a giustificare e
assolvere l'individuo rispetto alle proprie singole responsabilita'. Anche
in questo caso, piu' che un uso del corpo virile e uno scatenamento di
pulsioni elementari, siamo in un territorio culturale e simbolico non
sconosciuto nella storia ma che e' certo piu' presente in societa' e culture
come l'odierna che hanno enfatizzato la dimensione di massa, in cui
l'anonimato e' condizione sovrana dell'individuo, ben diversamente dal mondo
antico, medievale e dell'eta' moderna.
Torniamo agli uomini del nostro tempo e chiediamoci quindi qual'e' la
distanza esistente tra gli uomini descritti da Gibelli, e simili a mio
nonno, e quelli americani guerrorgasmici  della Bourke stile Rambo? Dove si
collocano gli uomini, quelli che conosciamo e quelli di cui ignoriamo tutto?
Esistono differenze radicali oppure gradazioni di predisposizione al piacere
violento? Le diversita' di culture, di contesti storici e geografici sono in
grado di fornirci alcune chiavi di lettura? L'immaginario americano meno
avvezzo alla guerra subita e piu' spinto all'avventura, alla conquista,
attraverso una realta' filtrata dai film e dai mass-media e dalla retorica
bellica, e' solo uno dei racconti possibili, che tuttavia grazie
all'invasione e all'assorbimento di quei modelli ha permeato anche le piu'
giovani generazioni? Non lo so, ma forse l'indagine di Bourke ci consegna
un'immagine parziale che restituisce solo la parola di chi ha voluto
comunicare e non di coloro che sono stati resi silenti da questa esperienza,
non degli uomini che hanno reagito ed elaborato in maniera differente.
Penso dunque che la "differenza" maschile sia varia e non univoca ne' eguale
nella storia, e vada maggiormente indagata sia sulle tracce che gli studi
recenti sulla mascolinita' condotti da alcuni storici stanno indicando, sia
come dimostrano le esperienze di autocoscienza come quella del Gruppo Uomini
di Pinerolo.
*
I corpi degli uomini del movimento antiliberista
Nel linguaggio e nella simbologia e' presente dunque un conflitto di genere,
non tanto basato sulle diverse nature dei due sessi ma sul lavoro simbolico
che ne hanno fatto, oltre che sulla diversa tradizione e storia. Il
movimento politico delle donne ha privilegiato lo studio e la pratica
dell'empatia, la misura nei conflitti, ha sottolineato il bisogno
dell'altro/a, ricordando l'origine della vita nella relazione. Porre al
centro la nascita in relazione, come lo straordinario libro di Adrienne
Rich, Nato di donna, ha esplorato con pienezza di significati, implica
l'accettazione del bisogno dell'altro e della propria fragilita', la
valorizzazione delle materialita' che sostengono la vita, elaborando, di
conseguenza, un diverso rapporto con il proprio corpo e l'altrui e dando un
fondamento al legame collettivo e societario nella relazione.
Nel movimento politico maschile, nell'attuale "movimento dei movimenti"
sembra invece ancora persistere in alcuni settori un immaginario dello
scontro, un simbolico maschile basato sull'antagonismo, sul rituale
offensivo, sull'uso del corpo esposto, forte, coraggioso e indipendente, che
andrebbe radicalmente ripensato; la diversita' dei linguaggi che le varie
componenti della galassia "un altro mondo e' possibile" hanno messo in scena
nelle recenti manifestazioni - dai corpi rilassati e totalmente privi di
alcuna retorica dell'appartenenza, ai comportamenti dei disobbedienti che
evocano, al contrario, una disciplina militare -  indicano la necessita' di
un fitto dibattito, dell'emergere di nodi di senso e di consapevolezza.
Partire dai corpi di questi uomini giovani, dal piacere e dalle simbologie,
dalla relazione di dipendenza o dalla presunzione di autosufficienza, dai
residui di militarismo, e' una strada da percorrere interrogando anche le
giovani donne che condividono i percorsi, le scelte di questo movimento.
*
Corpi di donne: Pacifiste per natura? Apolidi e senza terra?
L'orizzonte femminile tuttavia non e' privo di contraddizioni ne' di
immagini, simbologie problematiche: credo che Robin Morgan abbia giustamente
segnalato il rischio di associare alle donne un pacifismo di natura: "fare
delle donne le depositarie degli ideali pacifisti (anche se poi nella
corporazione politica non viene dato loro il potere di incarnarli) ha
permesso agli uomini di accasarsi in uno stato di barbarie politica via via
negata o dichiarata".
Il movimento politico ha scelto volutamente e criticamente di distanziarsi
da una visione "essenzialista" del pacifismo delle donne come ha ricordato
di recente Ida Dominijanni: "Ci sono donne guerriere da ogni parte del
pianeta, e sotto ogni latitudine politica, etnica e religiosa. Donne che da
decenni combattono e vincono Meglio stare a questo, che e' un dato del
nostro tormentato presente, piuttosto che rompersi la testa su quanto il
segno della pace sia inscritto nel corpo e quanto nella testa delle donne.
E' inscritto nella politica che le donne hanno messo al mondo, che non e'
solo un'altra politica possibile ma un'altra politica già all'opera. Prova
lampante, testimonianza viva, che sui conflitti del mondo globale e sui loro
micidiali ingredienti - identita', fondamentalismi, esclusioni,
risentimenti - non sono bandiere, eserciti e confini a poter mettere ordine,
ma solo aperture, scambi, differenza, contaminazioni".
Ma c'e' anche un altro aspetto che vale la pena di indagare rispetto alle
problematiche e alle contraddizioni presenti nel pensiero femminista sui
temi della guerra, della pace, delle pratiche nei conflitti e di cui ho
fatto esperienza con il gruppo di Donne in Nero di Venezia-Mestre tra il
1990 e il 1995. Si tratta di alcuni temi ricorrenti che tuttavia
costituiscono un cattivo punto di partenza e un ostacolo soprattutto nelle
relazioni tra donne di diversa provenienza
 "Non ho patria, la mia patria e' il mondo, potrei essere nata da qualsiasi
parte": quante volte ho ascoltato queste parole da donne che come me si
incontravano con donne della ex Jugoslavia in un percorso di "pace". Anche
se afferravo che queste affermazioni potevano rappresentare una strada per
la conquista di una distanza dal terreno della guerra e degli stati in
guerra, attraverso una lontananza del sentimento, vi ho sempre intravisto un
pericolo ed avvertito un mio personale disagio nel confrontarmi con altre a
partire da tali affermazioni, che sembravano poter costituire la "naturale"
base comune. Per me quelle parole nascondevano e nascondono una rimozione
insidiosa, una ostentata cancellazione di cio' che e', che esiste, della
realta' che non e' proiezione di questo generico desiderio di non avere
patria, di non riconoscersi in alcun confine. Dire di essere senza luogo -
che trascina con se' l'idea conseguente di poter essere dovunque -,
affermare di non avere legami con la terra in cui si e' nate o in cui si
vive ogni giorno, con il paesaggio cosi' differente per chi abita una valle
od una montagna, oppure in riva al mare, vicino a un fiume o in campagna,
sostenere un'indifferenza all'etnia o alla storia di identita' di popolo che
nel tempo si e' sedimentata, tutto questo costituisce una terribile
presunzione. Presunzione di aver origine dal nulla, orgoglio di un vivere
svincolato che nega i mille fili che ci nutrono e possono anche soffocarci
ma esistono. Una presunzione che dimentica che non e' sufficiente affermare
che l'unica appartenenza e' quella al genere femminile poiche' tale
appartenenza non si  realizza in astratto ma si incarna in donne e figure
concrete, rapporti reali con la genealogia, donne e uomini che calpestano
strade, piazze e sentieri reali, attraverso le esperienze quotidiane segnate
da luoghi e paesaggi e dai loro sapori, profumi e colori significate.
Allora prima di tutto e' bene che ogni donna si soffermi sul suo rapporto
col luogo ed i luoghi di vita e il senso dell'origine che ha ricevuto gia'
con la nascita e le relazioni che ha saputo imbastire, il nutrimento, o la
poverta', che ha tra le mani. Credo che sia di vitale importanza saper
distinguere il nostro rapporto con tutto cio', di cui ogni giorno abbiamo
esperienza e su cui possiamo dire parola di donna, e l'idea di patria,
nazione, popolo che sono categorie storiche collettive. Dal nostro rapporto
di attenzione ai luoghi, alla vivibilita' dei luoghi, alle relazioni di
nutrimento, reale e metaforico, puo' nascere una diversa pratica e sapere di
comunita' con la vicina ed il vicino e di appartenenza ai luoghi, che niente
ha da spartire con l'indifferenza che la guerra, e chi la vuole,  esprime
nei confronti della vita concreta degli individui e dei luoghi di vita. La
guerra e' innanzitutto la distruzione dell'opera quotidiana delle donne, il
bombardamento di un ordine simbolico femminile che man mano prende parola e
si legittima piu'  viene attaccato da alcuni settori del mondo maschile che
praticano una cultura e una politica di spaesamento. I rapporti
internazionali tra donne non possono quindi avvenire nella rimozione e
nell'indifferenza delle terre di provenienza e del significato che per la
singola donna, e sottolineo singola, assume: nulla si scambia altrimenti e
negheremmo proprio cio' di cui ora abbiamo coscienza ed esperienza: la
pratica delle relazioni tra noi che se si arricchiscono di parole di donne
autorevoli e lontane, nella realta' e necessita' di ognuna si alimentano
(uso volutamente parole che richiamano al cibo) delle donne vicine, quelle
che abitano la stessa via o lo stesso paese, le donne che sono raggiungibili
e che sono quelle che possono restituire ad ognuna il senso del suo stare
nel mondo.
E' chiaro che la rete delle nostre relazioni non e' solo legata alla
geografia politica e alle sue suddivisioni, anch'esse tutt'altro che neutre,
e costituisce una diversa cartografia che tuttavia intrattiene con il
territorio, i suoi abitanti e la sua storia, contatti e legami profondi e
riconoscibili. E del resto quante volte nei nostri discorsi facciamo uso di
termini geografici che si riferiscono al posizionamento nello spazio: mappe
delle donne in citta', percorsi, sentieri e anche, perche' non ammetterlo,
confini. Le donne non vivono fuori dallo spazio e dal tempo, all'interno di
una dimensione fantastica: se pensiamo alla dimensione del volontariato
femminile, sia laico che religioso, all'aggregazione femminile e agli stessi
nostri gruppi di donne non potremmo che scorgervi una grande mappa
topografica che riuscirebbe ad aderire alle carte geografiche che
corredavano le nostre aule scolastiche, senza percio' appiattirvisi e
rivelando anche disparita'. Sarebbe un modo diverso di leggere le distanze e
i meridiani, lettura che gli storici ed i geografi non sono stati finora in
grado di compiere a causa di una lente uguale per tutti, mentre in realta'
le donne e gli uomini si posizionano in maniera differente nello spazio.
Se del resto riflettiamo sull'importanza che attribuiamo, nel preparare i
nostri incontri, al luogo e alla sua cura, alla sua bellezza o alla nostra
capacita' di renderlo tale o accogliente, pensiamo anche alle nostre case
offerte al lavoro e al piacere condivisi con le altre o ai nostri Centri, e
alle regole che abbiamo imparato a darci per vivere questi nostri momenti e
spazi, ci accorgiamo che tutto questo non e' altro che una modalita' di
governo e signoria del territorio nel profondo rispetto del contesto. Il
fatto che tale modalita' non sia moneta corrente nei commerci del mondo non
toglie nulla alla sua necessita' e al suo straordinario valore, anche nei
termini di una diversa economia che deve costituire un tassello dell'ordine
simbolico femminile che si va a delineare.
*
Avere una "matria"
Non possiamo dunque accontentarci di affermare che non abbiamo patria e che
il confine e' brutto; se, come e' accaduto nei nostri incontri, abbiamo
scelto di avere una "matria", bisognera' comprendere quali rapporti essa
delinea con il territorio e con chi vi abita. Essa avra' comunque una
cartografia, dei riferimenti, delle postazioni; avra' montagne e fiumi,
citta' e campagne, territori affollati e altri piu' solitari. La matria non
puo' costituire in alcun modo un orizzonte piatto ed io mi battero' perche'
non lo sia.
Inoltre chi di noi afferma "che avrebbe potuto nascere dovunque" dimentica
il suo debito con la lingua materna, lingua della madre appunto, con le
radici linguistiche che le permettono di poter aver parola nel mondo; come
e' possibile pensare che parlare una certa lingua o un dialetto sia
indifferente: la voce che risuona dentro o crea estraneita' e distanza se
sconosciuta, il suono ed il calore dell'infanzia oppure il silenzio della
parola sono tutti elementi fondanti dell'identita' e del nostro profondo.
Dimentica il lavoro sulla lingua svolto da tante donne affinche' essa possa
piu' compiutamente rispecchiare la realta' dei due sessi, quasi un nascere
alla lingua una seconda volta; opera indispensabile per l'irrinunciabilita'
del terreno della lingua, terreno di vita e di posto nell'universo dei
segni.
Qualcuna potrebbe obiettare con ragione che esiste anche il nomadismo delle
donne ed infatti io non voglio indicare un'unica strada, quella del
radicamento nel luogo di vita e  in un unico luogo. Ho sempre sentito una
forma di attrazione per le senza tetto, le barbone o, in un altro senso, le
girovaghe, ma credo non vi sia persona piu' attenta al contesto, alle sue
possibilita' di riparo, nutrimento e risorse di chi rifiuta il vivere
stanziale, tutt'altro dunque che indifferente a dove si trova. Chi davvero
pratica ogni giorno lo sradicamento sapra' su questo dire parola, mentre per
noi, che ci nutriamo dei nostri rapporti e dei legami con i luoghi, gia'
mentre pronunciamo queste affermazioni non facciamo altro che far risuonare
tra noi un'ideologia e non una verita'. E' necessario e urgente sgombrare il
campo da cio' che fa confusione. Il nostro vivere nei luoghi e averne cura,
il costruire bellezza e felicita' del vivere, l'esperienza reale della
"vicinanza" o della distanza, la conoscenza dell'equilibrio tra risparmio e
spreco delle risorse materiali e degli affetti, tutto questo non e' che il
governo quotidiano della vita, la modalita' di tessere societa' che e' altro
dai discorsi e dalle azioni sui luoghi, e sui requisiti di chi li puo'
abitare, fatti a partire da idee, siano esse di popolo, etnia o nazione.
Sgombrare il campo mi sembra vada nella direzione di comprendere che la
parola "governo" fa parte della nostra vita e della nostra esperienza di
ogni giorno, altra cosa dal governo degli stati, ne' di minore importanza e
sullo stesso piano, mentre spesso chi ci governa non sa neppure governare la
propria vita ( pensiamo alle vite squilibrate - tutto potere e aridita' dei
sentimenti - della maggior parte dei politici di professione). Il passaggio
che io penso dobbiamo fare, soprattutto dentro di noi, e' dare statuto di
governo a cio' che viene considerata un'attivita' naturale delle donne e del
resto, nel lessico comune, alle donne e' attribuito il "rigovernare".
Passaggio da un'attivita' considerata naturale e privata, senza valore
sociale riconosciuto, che in realta' tutti conoscono, ad una signoria che
rispecchia un altro ordine simbolico. Signoria innanzitutto della propria
vita, che puo' avvenire solo quando la cura dei luoghi e della loro
abitabilita' diviene cittadinanza femminile ed esce dai registri
dell'obbedienza ad un ordine dato.
Le affermazioni di non avere un posto nel mondo nell'incontro con le donne
della ex Jugoslavia non sono state senza conseguenze: offrendo questo punto
di partenza si chiedeva loro in maniera implicita di dichiararsi nello
stesso modo, cioe' senza appartenenze di terre od etnie e cio' rendeva
invece piu' forte la necessita' per alcune di nominare il loro
posizionamento rispetto alla loro provenienza. Le donne dell'area croata,
macedone, albanese partivano dalla loro appartenenza che sentivano
minacciata, mentre le donne dell'area serba riuscivano solo ad esprimere
spaesamento e distacco, schiacciate dal peso di una colpa commessa dal loro
governo. Paradossalmente, chi non si schierava, dichiarandosi estranea ad
ogni appartenenza, costringeva in qualche modo le altre a farlo; solo la
dichiarazione congiunta di non riconoscersi in una patria, da parte di tutte
le donne dei paesi in conflitto, per molte "italiane" pareva costituire la
soglia per un discorso comune, ed invece si andava a ridisegnare, tra donne,
il fronte della guerra. Cosi' l'affermazione di alcune - sia chiaro solo
alcune - di essere prima di tutto cittadine croate, piu' che richieste di
chiarimenti e di racconti individuali, lasciava sgomente ed impreparate; per
alcune inoltre la paura di un conflitto tra le donne e il mito, davvero un
mito, di una generica cultura di convivenza e di una presunta armonia delle
donne di tutto il mondo in quanto donne, rendeva questa situazione, gia'
assai difficile, inaffrontabile.
Un ostacolo da eliminare al piu' presto, e mi pare che molte tra noi inizino
a farlo, e' questo pensare che sia sufficiente mettere insieme le differenze
perche' esse siano scambiabili, in una sorta di pluralismo selvaggio. Ognuna
di noi sa, nella pratica di tutti i giorni, quanta fatica comportino le
differenze, che sanno divenire ricchezza solo attraverso un grande lavoro di
mediazioni, al riparo tuttavia dalla facilita' dell'omologazione; inoltre
alcune differenze possono anche essere irriducibili e non devono essere
costrette in un unico percorso. Una societa' in cui si giocano le diversita'
non equivale ad un insieme pacificato, da cui e' bandita la lotta, il
confronto, la possibilita' di affrontarsi simbolicamente. I contenuti non
sono uguali e la "convivenza", come sappiamo bene, e' una continua
negoziazione, non solo e non tanto sul piano dei diritti, ma soprattutto
sul piano della  qualita'.
Perche' poi chiedere alle donne della ex Jugoslavia di essere
necessariamente tutte d'accordo? Perche' sentirci sgomente se vi sono tra
loro conflitti, tensioni? Noi ne siamo forse immuni? Pensiamo forse che la
guerra avrebbe dovuto creare una grande necessita' di uniformita' tra donne?
Questo bisogno di ascoltare solo certe parole ha ostacolato l'emergere di
cio' che era realmente in gioco nelle loro parole e nelle loro pratiche, ha
reso meno visibile il lavoro di tutte loro contro lo spaesamento quotidiano
della guerra: la cura dei rapporti tra donne, l'attenzione alla qualita'
della vita e all'inviolabilita' delle donne e dei bambini, l'impegno verso i
profughi, un'opera comune, operosita' cosi' femminile, di argine alla
disgregazione della vita sociale e di ricucitura di un tessuto lacerato.
Far cadere degli ostacoli e dei motivi di confusione potra' permetterci di
affrontare meglio cio' che abbiamo definito, spesso con troppa
superficialita' e con timore, il "nazionalismo delle donne" o l'attuale
appartenza ai fondamentalismi: si tratta davvero di nazionalismo, di amor
patrio o e' questo legame con i luoghi di vita e la cura di chi vi abita,
attivita' ancora non politica, che trascina alcune donne a sovrapporre la
propria esperienza con quella della patria? Se infatti tutta questa opera
delle donne di cura della vita non assume la qualita' del politico, che
restituisce valore, significato  e posto nel mondo, si rischia, ed e' gia'
avvenuto ed avviene nelle guerre, che siano le donne stesse a recintare la
loro opera nei confini del gratuito, di cio' che non entra negli scambi del
mondo, o che alcune cerchino un posto ritenuto migliore, a fianco dell'eroe.
Cosa puo' interessare realmente ad una donna di tutta questa storia del
nazionalismo o dell'integralismo religioso? Discorsi che si basano sulla
stirpe, su genealogie solo maschili, matricidi reali o metaforici.
Forse solo da questo passaggio da un'attivita' segnata dal "naturale" ad una
riconoscibile autorita' delle donne sulla vita potremo avere una leva per
negoziare anche sulla guerra e sulla sua scomparsa dall'orizzonte della
Storia.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 7 del 6 febbraio 2005