La nonviolenza e' in cammino. 831



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 831 del 5 febbraio 2005

Sommario di questo numero:
1. Giuliana
2. Daniela Padoan: Donne nel cuore di tenebra
3. Daniela Coccolo e Sabina Baral: Giovani donne nei tempi bui
4. Per una bibliografia sulla Shoah (parte undicesima)
5. Enrico Peyretti: Iraq: tacciano le armi e cessi il dominio armato
6. Ali Rashid: La democrazia: un cammino di liberta' con al centro l'essere
umano
7. Farid Adly: Le elezioni irachene sulla stampa araba
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. PERSONE. GIULIANA
E' stata rapita in Iraq la nostra amica Giuliana Sgrena, persona buona,
costruttrice di pace. Chiunque puo', faccia tutto il possibile affinche'
torni libera, incolume, al piu' presto.

2. RIFLESSIONE. DANIELA PADOAN: DONNE NEL CUORE DI TENEBRA
[Da "Via Dogana" n. 70 del settembre 2004 riprendiamo questo articolo di
Daniela Padoan. Ringraziamo le amiche della Libreria delle donne di Milano
per averci messo a disposizione testi che contengono riflessioni che
sentiamo decisive. Per richiedere "Via Dogana" (rivista la cui lettura
vivamente raccomandiamo) e per contattare la Libreria delle donne di Milano:
e-mail: info at libreriadelledonne.it, sito: www.libreriadelledonne.it. Dalla
stessa rivista riprendiamo la seguente breve nota di presentazione
dell'autrice: "Daniela Padoan collabora con la televisione e la stampa, in
particolare con "Il manifesto". Nel pensiero della differenza ha trovato un
tassello mancante, degli elementi in piu' per la lettura di avvenimenti
attuali e storici come la vicenda delle Madres de la Plaza de Mayo ("la
lotta politica forse piu' radicale di questi decenni"), o la Shoah, che
Daniela ha indagato, nel suo ultimo libro, attraverso tre conversazioni con
donne sopravvissute ad Auschwitz (Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano
2004)"]

Nelle esistenze capitano rari momenti che squarciano il velo delle nostre
certezze, che ci dicono non tanto della nostra fragilita', quanto
dell'irrompere di una realta' che non avevamo previsto ma che pure c'era,
che ci aveva dato segni inequivocabili e che tuttavia non avevamo voluto
vedere. Momenti che, togliendoci il terreno sotto i piedi, ci danno la
straordinaria possibilita' di rigiocare tutto quello che sappiamo, mettendo
in discussione le nostre traiettorie. Momenti destabilizzanti e preziosi che
subito richiudiamo, noi che, come diceva Rilke, sprechiamo i dolori. E un
dolore ci e' entrato nel corpo, inaccettabile, vedendo quelle immagini di
donne che dileggiano, che violano corpi di altri esseri umani. Pantomime di
sesso sadico, piramidi umane, uomini al guinzaglio, feste nere, godimento
del male inflitto. Che tra le figure spavaldamente in posa davanti ai
cadaveri di prigionieri iracheni vi fossero anche delle donne, belle,
giovani, sorridenti di uno di quei sorrisi che nelle pubblicita' degli anni
Cinquanta si usavano per convincere a comprare un detersivo, e' cosi'
sconcertante da lasciare muti, con uno stupore sordo che da' la misura del
troppo, e che come ogni troppo si vorrebbe negare.
Un sentimento soverchiante per una donna che in quel volto di donna si
rispecchia. Quello che stiamo provando adesso e' il lutto di una retorica?
Avevamo creduto di essere altro. Dobbiamo dunque dirci che non e' vero, che
la realta' ci mostra di aver sognato? Perche' quelle immagini affermano che
le donne non sono altro, quando si tratta del potere che viola i corpi.
Basta aver visto l'inizio di Full Metal Jacket per sapere cosa il potere,
nella sua perversa onnipotenza militare, fa degli individui: costruisce
persone addestrate a vedere l'altro come cosa, come non-uomo, come
Untermenschen. Nell'addestramento militare il sadismo, come manifestazione
di potere e addirittura come educazione al potere, e' moneta corrente; passa
per l'umiliazione del corpo delle reclute, proprio perche' a loro volta
dovranno umiliare, e addirittura annientare il "nemico". Annientare e' un
verbo terribile, che rimanda a un far essere niente che non e' prerogativa
umana. Le donne, che invece fanno essere (qualcosa, una singola vita, non un
assoluto) finora ne erano rimaste estranee. Pensavamo fosse piu' difficile
non vedere il corpo dell'altro come proprio, per una donna che quel corpo
genera. Eppure, in un rovesciamento paradossale, la soldatessa torturatrice
torna negli Stati Uniti incinta.
Dobbiamo allora abbandonare, come balocchi rotti, le parole di Virginia
Woolf sull'estraneita', sulla resistenza passiva delle donne? Guardare con
sospetto tutti i nostri discorsi sul materno, sulla differenza, sulla cura,
e attagliarci, mute, a non avere piu' parole che ci aiutino a dipanare il
mondo? Non credo. Credo pero' che dobbiamo chiederci che cosa ci e' successo
attorno, mentre restavamo chiuse nei nostri discorsi e nelle nostre
relazioni. Mentre parlavamo della differenza e praticavamo relazioni
improntate dal sapere politico della differenza, il potere imparava a
praticare l'uguaglianza, usando un femminismo dell'emancipazione e i suoi
sviluppi post-femministi, che mettono in campo il desiderio di un guadagno
per se', di forza, di potere, di rivalsa.
*
Le immagini di Abu Ghraib riconducono inesorabilmente al potere, e alla
sessualita' connaturata al potere, come dominio dei corpi. Un dominio
fallico. E' la prima volta che uso questo termine. Mi pareva abusato e
desueto, e invece - proprio come il termine "imperialismo", un vecchio
arnese concettuale che poi e' tornato necessario - mi pare adesso che
contenga qualcosa di indispensabile per tentare di leggere il mondo. In
particolare il nostro. La societa' fallica (e imperialista) ha fatto dello
stupro la cifra del suo dominio: stupro di continenti, di popolazioni, di
ecosistemi e di esseri umani. Un dominio violentemente maschile che il
femminismo della differenza ha nominato con chiarezza e a cui adesso,
invece, il femminismo della parita' sembra aderire. Nel potere americano,
l'"altro" e' sempre piu' chiamato a omologarsi alle logiche del potere: a
incarnarle o, specularmente, a fare da "carne da cannone", in una dimensione
che anche semanticamente ha a che fare con il corpo. Nel primo caso, Colin
Powell e Condolezza Rice, donna e nera; nel secondo, la green card offerta
agli ispanoamericani per andare a morire in Iraq.
L'emancipazione delle donne sembra andare in questa direzione, eppure,
nonostante le consigliere di Bush, nonostante le soldatesse torturatrici, il
numero delle donne implicate in azioni di guerra e' straordinariamente
basso. In fin dei conti c'e' da stupirsi che siano ancora cosi' poche, e
forse c'e' da pensare che le donne continuino a custodire quell'estraneita'
che finora le ha tenute lontane dai luoghi dove si esercita davvero,
pienamente, il potere. Lontane anche dall'emancipazione. Un'estraneita', un
riserbo, che viene prima del fatto che il potere abbia finora tenuto chiuse
le sue porte. Un non voler avere a che fare, piu' che una resistenza.
Persino durante il nazismo, le donne SS erano poche. Ce n'erano, invece, e
molte, nella "zona grigia", tra quelli che non hanno preso posizione, che
hanno accettato supinamente, tra i conniventi; ma non erano tra i gerarchi,
non erano tra chi pianificava lo sterminio. Le pochissime donne che, nella
storia del secolo appena trascorso, hanno preso parte ad azioni militari,
hanno prodotto nell'immaginario comune un alone di sabba. Marina Rossi ha
scritto un libro in cui ricostruisce la storia delle aviatrici russe del
588esimo reggimento da bombardamento che nel 1943 assedio' la Wehrmacht dal
cielo di Stalingrado. Si intitola Le streghe della notte, ed e' infatti
cosi' che le chiamavano i tedeschi, con disprezzo misto ad ammirazione.
Erano volontarie provenienti dagli aeroclub del tempo di pace, equiparate
agli uomini e impiegate "alla pari" su tutti i fronti dal 1941 al 1945. E'
solo una suggestione, ma vedere in sequenza le "streghe della notte"
sovietiche, Lady Macbeth che invoca gli spiriti della notte per istigare il
marito a uccidere il re Duncan, e il giocoso slogan del femminismo "le
streghe son tornate", produce un rovesciamento simile a quello a cui ci
costringe la torturatrice incinta. Perche', se e' vero che le femministe
degli anni Settanta avevano trovato nella strega la figura della donna
"altra", messa al bando, bruciata in roghi sacrificali, e' anche vero che
l'immaginario legato alla strega e' connotato dal far paura, dall'usare un
potere piu' potente di quello umano.
Credo che l'immagine della donna torturatrice sia la manifestazione piu'
estrema, piu' visibile, ma per cio' stesso piu' icastica, del potere; che ne
sia la sua migliore rappresentazione. Il potere ha reso simile a se stesso
chi ne era piu' lontano, dimostrandosi con cio' enormemente potente.
Siamo abituati a pensare che, a torturare, siano i regimi, e che siano gli
uomini. Ma cosa cambia quando sono le democrazie, e quando sono le donne?
Eduardo Galeano - in un articolo pubblicato da "Il Manifesto" con il titolo
La confessione del torturatore - sostiene che la tortura non dice del
torturato, che e' indotto dal dolore a raccontare qualsiasi cosa, vera e non
vera, ma dice molto del torturatore. Se il sistema del potere confessa la
sua vera identita' attraverso le torture che infligge, il fatto che le
torture siano state in parte agite da donne ci dice - piu' che delle donne -
del potere e del modo in cui le donne ne fanno parte.
Forse il femminismo, se ha senso usare questa parola, dovrebbe andare nel
senso di un ripensamento del dominio occidentale, ovvero del capitalismo, e
della presenza delle donne nelle sue pieghe, ed essere antagonista (uso
questo termine, rischioso, nel senso in cui lo fanno le Madri argentine di
Plaza de Mayo, del contendere al potere la scena simbolica, forti del loro
essere radicalmente altro) assumendo un'estraneita' detta fino in fondo alla
cultura dominante, proprio nel momento in cui ci apre le porte. Torno alle
Madri di Plaza de Mayo non per fissazione, ma perche' mi pare che li' ci sia
un'indicazione su come usare l'autorita', la capacita' di ordine materno,
per far diventare il proprio essere donna qualcosa che, mantenendosi
estraneo al potere, indica una possibilita' di rapporti segnati non da una
cultura di prevaricazione, di dominio sui corpi, ma piuttosto da
un'assunzione di responsabilita' in cui la politica si declina come amore
dell'altro.
Nei giorni in cui alle immagini delle torture si sono succedute le immagini
dei prigionieri sgozzati, c'e' stato un fiorire di discorsi che avevano due
parole ricorrenti: civilta' e barbarie. Dopo la decapitazione del
prigioniero americano, Bush ha dichiarato: "e' barbarie". Da dove parlava?
Cosa e' barbarie, e cosa e' il suo opposto, civilta'? Dove siamo noi? E' una
domanda banale. Tutti noi ce la siamo gia' posta, e abbiamo gia' le
risposte. Eppure, a volte, ripercorrere le domande delle quali abbiamo gia'
archiviato le risposte fa l'effetto che capita quando si rilegge un libro
amato, convinti di saperne ogni riga, ma che improvvisamente ci dice
dell'altro, perche' nel frattempo anche noi siamo diventati, in parte,
altro.
*
E' quello che mi e' capitato con Cuore di tenebra, di Joseph Conrad. Un
titolo molto citato, in questo periodo, e la maggior parte delle volte a
sproposito. Ma uno sproposito del tutto parlante. Cuore di tenebra era il
titolo, per esempio, di un articolo di Vittorio Zucconi pubblicato in prima
pagina da "La Repubblica", dove il riferimento veniva preso a metafora della
"guerra insensata" che sta producendo le sue devastazioni in Iraq.
"L'abominio delle torture americane scatena il rilancio bestiale del
sacrificio umano", vi si leggeva. Credo che scegliere proprio l'aggettivo
"bestiale" per dire l'orrore davanti allo scatenamento delle ritorsioni,
implichi l'accettazione logica di un crinale in cui dall'altra parte c'e'
comunque l'umano, per quanto segnato dall'"abominio". Cosi' come usare la
categoria della "barbarie" implica il convincimento che vi sia una civilta'
positiva a cui fare riferimento. Ma la capacita' di Conrad e' stata proprio
quella di additarci nel "cuore di tenebra" la cifra per comprendere il mondo
che Kurtz - lo spietato protagonista del libro, simbolo dell'Europa, della
brama di possesso insita nella sua Kultur - rappresenta. Conrad, nel 1902,
usa quell'immagine per dire che alla fine del viaggio di Marlow lungo il
fiume Congo, l'oscurita' della natura selvaggia, della wilderness che la
"civilizzazione" vuole illuminare, si rivela come l'ombra, il rimosso del
buio, della darkness che sta dentro la civilta' stessa, e che da li' si
espande sull'altro da se', distruggendolo. La tenebra appartiene alla
civilta' e nulla, in essa, si puo' salvare; ne' la sua pretesa di dominio,
ne' la sua copertura ideologica, ne', infine, il suo linguaggio. Per quanto
scritto un secolo fa, questo libro continua a parlare della sorda volonta'
di stupro della civilta' alla quale apparteniamo, rendendo l'elemento
fallico del potere la chiave di comprensione dell'espansione violenta
sull'altro da se'.
"Marlow (Conrad)", scrive Giuseppe Sertoli nella nota introduttiva voluta da
Calvino per l'edizione Einaudi del 1984, "incomincia a compiere un atto di
conoscenza che pone in crisi la 'luce' della civilta', mostrando come dietro
il potere economico e politico stia qualcosa che non solo l'ideologia
giustificatrice di tale potere, ma il potere stesso nelle sue espressioni
piu' dirette, non riconosce: la sessualita'. (...) Marlow (Conrad) scopre
che la volonta' di potenza economica e politica e' una 'trasformazione'
della volonta' di potenza sessuale". C'e', si', una realta' sordida e
brutale del guadagno, ma dietro c'e' la realta', ancor piu' brutale e
sordida per un uomo dell'Ottocento, del sesso, inteso come cruda volonta' di
potenza sui corpi. "Ecco quanto Heart of Darkness denuncia contro la sua
medesima cultura. Nella forma che tale cultura consente e anzi esalta, esso
fa vedere che si ricerca e si pratica proprio cio' che, invece, quella
cultura non consente e anzi proibisce. Il potere e' ammesso dalla civilta',
ma il potere persegue occultamente cio' che la civilta' vieta. (...) La
civilta' e', e si vuole, copertura - rimozione - della sua propria verita'.
Kurtz invece e' tale verita'".
Trascrivo cosi' abbondantemente queste frasi perche' mi hanno colpito nella
loro attualita' (non c'e' anche oggi un dominio sessuale che continua a
corrispondere a un rimosso?) e nel loro indicare che vent'anni fa correvano
pensieri condivisi da uomini ma pensati dalle donne, e che questi pensieri
si sono arenati, non hanno condotto alle conseguenze che essi stessi
promettevano. A quei pensieri sento la necessita' di ritornare, in un sapere
femminile della differenza che e' prima di tutto differenza dal potere.
Quella realta' - brutale e sordida non solo per un uomo dell'Ottocento, ma
anche per un uomo (per una donna) del nuovo millennio - sembra invocare
nuove forme di rimozione, nella sovrabbondanza di immagini e di emozioni che
alla fine si elidono portando alla saturazione, all'indifferenza, come segno
di resa al senso di impotenza. Quando l'occultamento e' svelato, gli autori
dell'"ignominia" vengono respinti dalla stessa civilta' che li ha generati e
che essi hanno servito: i torturatori diventano "mele marce", le donne sono
altro dalla nostra immagine delle donne; come Kurtz, destinato a divenire un
outcast, un reietto, un rimosso, per non vedere che egli incarna la verita'
del potere. Marlow, invece, che scopre che la "degradazione" e l'"orrore"
sono dentro di se', deve riconoscere nel gesto di Kurtz il proprio gesto
come integralmente parte della civilta' di cui condivide la cultura e il
linguaggio. Cosi', credo, guardando quelle immagini di torture, e quelle
donne ilari, sventate, capaci in altre foto di abbracciare maternamente un
bambino iracheno, dobbiamo rivolgere lo sguardo a noi, al nostro mondo, e
domandarci che cosa e' la civilta' che condividiamo, e fino a che punto ne
siamo, in qualche modo, solidali.

3. RIFLESSIONE. DANIELA COCCOLO E SABINA BARAL: GIOVANI DONNE NEI TEMPI BUI
[Da "Via Dogana" n. 69 del giugno 2004 riprendiamo questo intervento di
Daniela Coccolo e Sabina Baral. Ringraziamo le amiche della Libreria delle
donne di Milano per averci messo a disposizione testi che contengono
riflessioni che sentiamo decisive. Per richiedere "Via Dogana" (rivista la
cui lettura vivamente raccomandiamo) e per contattare la Libreria delle
donne di Milano: e-mail: info at libreriadelledonne.it, sito:
www.libreriadelledonne.it. Dalla stessa rivista riprendiamo la seguente
breve nota di presentazione delle autrici: "Sabina Baral e Daniela Coccolo
sono due giovani donne di Torino. Sabina e' laureata in lingue e letterature
straniere e attualmente lavora per la segreteria del Moderatore della Tavola
Valdese, mentre Daniela, prossima alla laurea in lettere, sta svolgendo uno
stage presso la Fondazione Grinzane Cavour. Eredi "consapevoli" del
femminismo, si stanno interrogando attivamente sulla loro collocazione
rispetto all'eredita' ricevuta e sulle difficolta' del tradurre pratiche,
pensieri e percorsi"]

"Guerra preventiva", "scontro di civilta'", "la forza della ragione"... La
narrazione del mondo torna a fondarsi sull'opposizione binaria amico/nemico
e per farlo piega il linguaggio con violenza semplificatoria e paradossale,
generando inaudibili mostri, pronti a far leva sulle angosce e sulle nevrosi
dell'occidente post-11 settembre.
Si moltiplicano i dibattiti, i confronti/scontri, le ricostruzioni, le
testimonianze, ma la sensazione e' quella di un inutile accumulo di immagini
e di discorsi che maldestramente nascondono un'opprimente senso di afasia e
di paralisi.
Eppure sento che "bisogna avere parole", trovando il coraggio di raccontare
come patiamo e come sopravviviamo (o resistiamo) a questa palude del
presente. Sono questi tempi in cui il "trovare parole", operare le giuste
distinzioni che sfuggano alla logica dicotomica su cui si sta costruendo la
narrazione del presente e che raccontino un diverso modo di stare al mondo,
rappresentano un irrinunciabile atto politico.
Rendere diversamente narrabile il presente e' un modo per restituire quella
complessita' perduta in slogan guerrafondai che ci costringono, spalle al
muro, a schierarci e a contrapporci. Narrare, dunque, come pratica della
contiguita', dell'ascolto, per fare spazio ad altro, all'altro/a.
Una diversa narrazione del mondo si configura, allora, come presupposto
all'atto di responsabilita' di cui Sabina parla e che io condivido. Abitare
responsabilmente i contesti e le relazioni che viviamo e' sicuramente oggi
piu' che mai necessario... ma sento che non mi basta.
Pur riconoscendo l'urgenza e l'ineluttabilita' del "rispondere a..." sento,
in qualche modo, di doverla anche trascendere per arrivare in prossimita'
dell'altro/a.
Gli strumenti e le pratiche per tentare di andare oltre all'atto di
responsabilita', mi sono ben chiari perche' altre donne, molto prima e molto
meglio di me, li hanno nominati ed agiti, pagando, spesso, per questo, un
tributo molto alto. Penso ad Edith Stein, la quale, indicandoci nell'empatia
l'atto che "costruisce l'esperienza ontologica dell'alterita'", rese
liberamente evidente una pratica oggi piu' che mai conflittuale con il
codice culturale dominante: l'esperienza di essere in relazione con altro da
se', in contiguita', facendo del "patire" la vita altrui e la propria un
potenziale strumento di comprensione ma soprattutto di autentica relazione
tra gli individui.
Credo, allora, che le parole da trovare siano parole di compassione per
gli/le altri/e e per noi stessi/e; parole di pieta' per il nudo fatto di
stare in vita e ancor piu' per il fatto di starci in tempi cosi' dolorosi.
Pietas non gia' come virtu', ovvero come un dover essere, ma semmai  come
sentimento che ci riconduce ad una dimensione relazionale e di reciprocita'.
Non possono esserci, infatti, parole di pieta' che non vogliano essere
ascoltate, gesti di compassione che non vogliano essere ricevuti.
La pieta', allora, laddove si configuri come "saper trattare adeguatamente
con l'altro" (Maria Zambrano) diventa misura della convivenza, strumento di
mediazione, cifra di uno diverso modo di stare al mondo, segnato
dall'effettivo riconoscimento dell'alterita' e dalla com-partecipazione
nella libera differenza.
(Daniela Coccolo)
*
Viviamo tempi bui, segnati dalla guerra, dalla brutalita' delle armi, dal
sentimento di vendetta. Cio' tende a farmi sentire fortemente impotente
minacciando l'efficacia della mia politica di donna fatta di parole e gesti
spesso invisibili, di pratiche che nel loro piccolo tentano di smascherare
la violenza di chi sceglie la morte come metodo di azione, di chi fonda la
sua identita' sulla soppressione dell'altro. Davvero ogni tanto mi chiedo se
sono in grado di sopportare, di reggere conflitti in cui una parte adopera
il registro della forza mentre l'altra (la mia) continua a tessere con una
certa fatica legami tra il personale e il politico. Eppure riconosco che la
politica delle relazioni con la sua capacita' di reinventarsi ogni volta, di
produrre sempre nuovi atti e parole per risignificare se stessi e il mondo
e' l'unica strada che mi sento di percorrere. L'unica via per accedere a un
orizzonte di senso riappropriandomi del mio sguardo sul mondo, per
trasformare veramente la realta' in un momento di palude della politica, di
tremenda miseria simbolica o (non so cosa sia peggio) di forte disordine
simbolico.
In questa crisi, in questo vuoto di senso, mi sento piu' di altre volte
chiamata a lavorare affinche' narrazioni differenti permeino il mondo,
indagando i linguaggi e le categorie concettuali che lo imbrigliano,
provando a sgretolare le astrazioni mortifere con spazi di relazione e vita.
Mi sento chiamata a sporcarmi le mani non solo con la lingua corrente ma
anche con le figurazioni, gli schematismi facili della realta' corrente.
Questo perche' spesso vengo chiamata in causa con la mia politica di donna e
preferirei rispondere in prima persona, senza che fossero altri a pretendere
di spiegarmi come dalle donne che fanno politica ci sia molto da imparare.
Secondariamente perche', pur portando, come donna, uno sguardo trasversale s
ul mondo, pur distanziandomi criticamente dal patriarcato impazzito, non mi
ritengo del tutto innocente. Per molti versi, infatti, mi sento figlia di
queste nostre democrazie difettose e delle aberrazioni prodotte
dall'occidente capitalistico. L'estraneita', insomma, mi e' concessa quel
poco che basta per guadagnarmi un pensiero autonomo. E in effetti
quell'atopicita' che ci ha sempre caratterizzate come donne, piu' che
condurmi a sentirmi o ritenermi "fuori da" (da un luogo, da un sistema, da
un modo di pensare...), piu' che spingermi alla sottrazione di me, si e'
sempre manifestata come uno stare ai margini, un saggiare i confini tra le
cose, tra le esperienze, tra il dentro e il fuori, dove la semplificazione e
l'ideologia difficilmente trovano posto. In ultimo perche' la mia identita'
protestante mi chiama proprio ad abitare quei luoghi in cui le
contraddizioni sono piu' accese per provare a comprendere cosa sono chiamata
a fare nel mondo oggi e domani.
Questo senso di responsabilita' non va confuso con l'ansia dell'azione
facile o del protagonismo a tutti i costi. Sono infatti consapevole che le
mie non saranno mai parole ultime, conosco l'importanza di una perdita di
controllo su cio' che ci circonda capace di favorire l'ascolto, di lasciare
che la vita accada; ho sempre trovato profondamente liberanti le ultime
righe de La passione secondo G. H., quando Clarice Lispector scrive "il
mondo indipendeva da me", evidenziando un'accettazione serena che non e'
rassegnazione ma capacita' di lasciare spazio all'imprevisto, al non ancora
dato.
Eppure qui vorrei provare ad insinuarmi tra le lievi sfumature di
significato che attribuisco alla parola responsabilita', la quale ha prima
di tutto a che fare con l'atto del rispondere mettendo in moto il nostro
essere e il nostro esserci. Una responsabilita' che e' in primis una
responsabilita' verso se stessi e non verso principi assoluti, premessa
fondamentale per avere "uno sguardo semplice e saggio" sul mondo come
scriveva Dietrich Bonhoeffer, pastore protestante e filosofo vittima del
nazismo. Questo atteggiamento responsabile mi sembra capace sia di rifuggire
l'entusiasmo dei fanatismi sia il rischio di abbandonarsi all'individualismo
o al relativismo politico. In qualche modo esso permette di non soccombere
di fronte alla brutalita' dei fatti ne' di cedere ad imprese prometeiche,
volte a rovesciare le sorti del mondo; semplicemente suggerisce di restare
ancorati alle situazioni concrete abitandole e trovando in esse spazi di
senso e di azione.
Quegli stessi spazi in cui noi donne intessiamo legami significativi con
cose, persone, poteri in modo fluido e mai concluso, riscrivendoli ogni
volta, prestando ascolto al contesto, alla parzialita' della realta' data.
Madri, figlie, cittadine impegnate a costruire legami autentici e non
strumentali, situati all'interno di una genealogia contro il presente del
tutto subito, ipnotico e persuasivo come le parole e le immagini
accattivanti che adopera per fare presa sugli individui. Donne responsabili
che provano a fare chiarezza riguardo al proprio io per acquisire maggiore
chiarezza anche rispetto alla loro storia, strappandola alla fragilita'
dell'improvvisazione insensata.
E allora credo che la responsabilita' di cui sopra possa facilmente
accordarsi con la politica delle donne. Il radicamento nella concretezza dei
nostri vissuti e dei nostri tessuti di relazione ci permettono di
appartenere veramente a noi stesse e al mondo senza tentare facili fughe da
esso o, peggio ancora, senza guardare ad esso con lenti ideologiche, con
l'astrazione dei paradigmi o delle appartenenze a tutto tondo che non fanno
che alimentare guerre e fondamentalismi.
(Sabina Baral)

4. MATERIALI. PER UNA BIBLIOGRAFIA SULLA SHOAH (PARTE UNDICESIMA)

AGNES HELLER
Agnes Heller, filosofa ungherese, nata a Budapest nel 1929, allieva e
collaboratrice di Lukacs, allontanata dall'Ungheria, ha poi insegnato in
Australia e in America. In Italia e' particolarmente nota per la "teoria dei
bisogni" su cui si ebbe nel nostro paese un notevole dibattito anche con
riferimento ai movimenti degli anni '70. Su posizioni democratiche radicali,
e' una interlocutrice preziosa anche laddove non se ne condividessero alcuni
impianti ed esiti teorici. Opere di Agnes Heller: nella sua vastissima ed
articolata produzione segnaliamo almeno La teoria dei bisogni in Marx,
Feltrinelli; Teoria dei sentimenti, Editori Riuniti; Teoria della storia,
Editori Riuniti; Etica generale, Il Mulino; cfr. anche Apocalisse atomica
(con F. Feher), Sugarco; ed il volume-intervista Morale e rivoluzione,
Savelli. Opere su Agnes Heller: la rivista filosofica italiana "aut aut" ha
spesso ospitato e discusso la riflessione della Heller; cfr. in particolare
gli studi di Laura Boella.

GUSTAW HERLING
Scrittore e testimone della dignita' umana, nato in Polonia nel 1919,
deceduto a Napoli nel luglio 2000. Critico letterario in Polonia alla fine
degli anni trenta, fu arrestato dai sovietici nel 1939 mentre cercava di
espatriare in Francia per combattere contro i tedeschi. Deportato in un
gulag sul Mar Baltico, fu liberato nel 1942 e si uni' alle truppe polacche
del generale Anders che combatterono, assieme agli inglesi, nel Norafrica e
in Italia. Dal 1950 si trasferisce a Napoli. Ha collaborato con riviste e
quotidiani, ha scritto saggi e opere narrative. I suoi libri, per molti anni
vietati in Polonia, sono oggi tradotti e pubblicati con successo nelle
principali lingue. Opere di Gustaw Herling: Diario scritto di notte,
Feltrinelli, Milano 1992; Un mondo a parte, Feltrinelli, Milano 1994, 2003;
Ritratto veneziano e altri racconti, Feltrinelli, Milano 1995; Don
Ildebrando, Feltrinelli, Milano 1999.

WERNER HERZOG
Nato a Monaco nel 1942, inquieto viaggiatore, regista cinematografico,
personalita' controversa, ha realizzato opere abbaglianti per profondita' ed
enigmaticita' di sguardo, con cui ha sondato dolori abissali. Opere di
Werner Herzog: sulla follia della guerra, del potere, del colonialismo, del
militarismo cfr. almeno Aguirre, furore di Dio (1972), Woyzeck (1978),
Apocalisse nel deserto (1991-92); sulla violenza del potere, e sulle
condizioni di vita di esclusione ed emarginazione molti film di Herzog
apportano descrizioni ed analisi fin terribili. Taluni suoi film sono
sguardi e rappresentazioni di una violenza e di un dolore intollerabili,
tali che crediamo che sarebbe stato giusto non realizzare simili opere.
Opere su Werner Herzog: Fabrizio Grosoli, Elfi Reiter, Werner Herzog, Il
Castoro Cinema.

ABRAHAM JOSHUA HESCHEL
Nato a Varsavia nel 1907, scomparso a New York nel 1972, teologo illustre,
successore di Buber alla cattedra di Francoforte, deportato dai nazisti a
Varsavia, riusci' a mettersi in salvo emigrando dapprima a Londra e poi in
America dove fu per molti anni docente di etica e misticismo ebraico. Opere
di Abraham Joshua Heschel:in traduzione italiana si vedano almeno Chi e'
l'uomo, Rusconi, Milano 1971; L'uomo alla ricerca di Dio, Qiqajon, Comunita'
di Bose 1995; L'uomo non e' solo, Rusconi, Milano 1970; Il Sabato, Rusconi,
Milano 1972; I profeti, Borla, Roma 1972; Passione di verita', Rusconi,
Milano 1977. Opere su Abraham Joshua Heschel: F. A. Rothschild (a cura di),
Between God and Man: an interpretation of judaism from the writings of
Abraham J. Heschel, 1965.

RAUL HILBERG
Nato a Vienna nel 1926, esule negli Stati Uniti con la famiglia dal 1939,
nel 1944 come volontario nell'esercito americano combatte' in Europa nella
guerra contro il nazismo. Allievo di Franz Neumann, docente universitario,
storico, e' il piu' autorevole studioso dello sterminio degli ebrei compiuto
dai nazisti. Opere di Raul Hilberg: la sua opera fondamentale e' La
distruzione degli Ebrei d'Europa, Einaudi, Torino 1995, un libro che e'
indispensabile leggere. Cfr. anche Carnefici, vittime, spettatori,
Mondadori, Milano 1994.

ETTY HILLESUM
Nata nel 1914 e deceduta ad Auschwitz nel 1943, il suo diario e le sue
lettere costituiscono documenti di altissimo valore e in questi ultimi anni
sempre di piu' la sua figura e la sua meditazione diventano oggetto di
studio e punto di riferimento per la riflessione. Opere di Etty Hillesum:
Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985, 1996; Lettere 1942-1943, Adelphi,
Milano 1990, 2001. Opere su Etty Hillesum: AA. VV., La resistenza
esistenziale di Etty Hillesum, fascicolo di "Alfazeta", n. 60,
novembre-dicembre 1996, Parma. Piu' recentemente: Nadia Neri, Un'estrema
compassione, Bruno Mondadori Editore, Milano 1999; Pascal Dreyer, Etty
Hillesum. Una testimone del Novecento, Edizioni Lavoro, Roma 2000; Sylvie
Germain, Etty Hillesum. Una coscienza ispirata, Edizioni Lavoro, Roma 2000;
Wanda Tommasi, Etty Hillesum. L'intelligenza del cuore, Edizioni Messaggero,
Padova 2002.

ERIC J. HOBSBAWM
Storico inglese, nato ad Alessandria d'Egitto nel 1917, docente,
intellettuale impegnato per la democrazia. Ha dedicato libri fondamentali
alla rivoluzione industriale, alle rivoluzioni borghesi, all'età dell'
imperialismo e del colonialismo, al movimento operaio, alla storia del
Novecento. Opere di Eric J. Hobsbawm: segnaliamo particolarmente le tre
vivaci raccolte di saggi su I banditi, I ribelli, I rivoluzionari, edite in
italiano da Einaudi, Torino; le grandi ricostruzioni Le rivoluzioni
borghesi, L'eta' degli imperi, Il trionfo della borghesia, edite in italiano
da Laterza, Roma-Bari; ed i più recenti Nazioni e nazionalismo, Einaudi,
Torino; Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1997, 2000; De historia, Rizzoli,
Milano 1997; Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Roma-Bari 1999;
l'autobiografia Anni interessanti, Rizzoli, Milano 2002, 2004.

PETER HOFFMANN
Storico e docente universitario, docente di storia alla McGill University di
Montreal, specialista di storia della Resistenza tedesca. Opere di Peter
Hoffmann: Tedeschi contro il nazismo. La Resistenza in Germania, Il Mulino,
Bologna 1994.

HELENE HOLZMAN
Helene Holzman (1891-1968), pittrice, libraia, insegnante di storia
dell'arte e di tedesco. Subito dopo la guerra scrisse in piu' di 700 pagine,
raccolte in tre quaderni, tutto cio' che le accadde e che dovette subire in
uno dei luoghi piu' bui dell'Olocausto: Kaunas, in Lituania. Opere di Helene
Holzman: Questa bambina deve vivere, Marsilio, Venezia.

MAX HORKHEIMER
Filosofo nato a Stoccarda nel 1895, direttore dell'"Istituto per la ricerca
sociale" di Francoforte, esule antinazista, muore nel 1973. E' una delle
figure di spicco della "scuola di Francoforte". Opere di Max Horkheimer: tra
esse segnaliamo Crepuscolo, Dialettica dell'illuminismo (con Adorno),
Eclisse della ragione, e gli studi raccolti in Teoria critica, tutti presso
Einaudi, Torino. Opere su Max Horkheimer: Antonio Ponsetto, Max Horkheimer,
Il Mulino, Bologna; Alfred Schmidt, Oltre il materialismo storico, Laterza,
Bari; sulla scuola di Francoforte si vedano le monografie introduttive di
Assoun (Lucarini), Bedeschi (Laterza), Jay (Einaudi), Rusconi (Il Mulino),
Therborn (Laterza), Zima (Rizzoli).

DANIELE HUILLET
Nata a Parigi nel 1936, cineasta francese, autrice in collaborazione col
marito Jean-Marie Straub di film imprescindibili. Opere di Daniele Huillet e
Jean-Marie Straub: tra i film: Machorka-Muff, 1962-63; Non riconciliati,
1964-65; Lezioni di storia, 1972; Mose' e Aronne, 1974-75; Fortini/Cani,
1976; Dalla nube alla Resistenza, 1978; Rapporti di classe, 1983; Sicilia!,
1998. In volume: Testi cinematografici, Editori Riuniti, Roma 1992.

JOHAN HUIZINGA
Illustre storico olandese, nato nel 1872 a Groninga, docente a Groninga e
Leida, nel 1942 fu imprigionato dai nazisti, e dal 1943 confinato come
ostaggio a de Steeg, dove mori' il primo febbraio 1945. Opere di Johan
Huizinga: cfr. almeno L'autunno del Medio Evo, Sansoni, Firenze; Crisi della
civilta'; Homo ludens; Erasmo; La civilta' olandese del Seicento; tutti
presso Einaudi, Torino; La mia via alla storia e altri saggi, Laterza, Bari.

EDMUND HUSSERL
Edmund Husserl (1859-1938) e' il grande filosofo fondatore della scuola
fenomenologica. Opere di Edmund Husserl: a nostro avviso occorre leggere
almeno Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica,
Einaudi, Torino, e La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale, Il Saggiatore, Milano. Opere su Edmund Husserl: alcune agili
introduzioni sono Renzo Raggiunti, Introduzione a Husserl, Laterza,
Roma-Bari 1970; Stefano Poggi, Husserl e la fenomenologia, Sansoni, Firenze
1973; Renato Cristin, Invito al pensiero di Husserl, Mursia, Milano 2002 (a
questa recente monografia si rinvia anche per una bibliografia aggiornata).
Ovviamente sono fondamentali gli studi husserliani di Enzo Paci.

JULES ISAACS
Opere di Jules Isaacs: L'antisemitisme a-t-il des racines chretiennes?,
Paris 1960; L'enseignement du mepris, Paris 1962; Verita' e mito. Il dramma
ebraico al vaglio della storia, Roma 1965; Gesu' e Israele, Firenze 1976;
Genese de l'antisemitisme. Essai historique, Paris 1985.

5. EDITORIALE. ENRICO PEYRETTI: IRAQ: TACCIANO LE ARMI E CESSI IL DOMINIO
ARMATO
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo
foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace
e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella rete telematica la
sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia
storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente
edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha
curato la traduzione italiana), e una recentissima edizione aggiornata e'
nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei
siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei
principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di
questo notiziario]

Sicuramente, e' un vero bene che un popolo possa votare. Non e' bene
dimenticare in quali limiti e condizioni hanno votato gli iracheni.
Di fronte alle violenze e minacce contro candidati ed elettori, da parte dei
terroristi e dei fanatici demonizzatori della democrazia (diversi dai
legittimi resistenti), il popolo ha avuto coraggio. La domenica del voto in
Iraq dimostra, come gia' in vari casi precedenti, che il coraggio e una
certa unita' del popolo pu' battere il terrorismo, o almeno sottrargli
spazio, molto meglio della violenza oppressiva e repressiva, che causa e
imita il terrorismo stesso, in un rapporto di nemici-complici.
In un paese occupato militarmente, governato dai delegati degli occupanti,
sotto stretto controllo di questi, le elezioni non sono quella esperienza di
liberta' a cui inneggiano gli occupanti e i loro complici. Quante liste e
candidati potevano proporre il pronto ritiro degli americani e alleati? O
rivendicare all'Iraq il petrolio dell'Iraq? O escludere basi americane in
Iraq? O annullare le privatizzazioni a tappeto e l'invasione economica
dell'Iraq subito compiuta dalle corporations statunitensi?
Scriviamo questo primo commento a due giorni dal voto. Quanto sono vere le
percentuali sbandierate? L'assenza totale di osservatori indipendenti e la
mancanza di contraddittorio tra i partecipanti non consente di accertarne la
veridicita'. Nelle prime ore, le agenzie internazionali e le televisioni
davano il 72% di affluenza: strano, era questa esattamente la previsione
fatta da Bush una settimana prima del voto. Rimane il fatto positivo che gli
iracheni votanti sono stati comunque tanti, in quelle condizioni. Rimane
anche la diversissima partecipazione di sciiti e sunniti, grave problema.
L'informazione piu' corriva parla di vittoria di Bush. L'espressione era
gia' risuonata quando, abbattuta la solitaria statua di Saddam, stava per
cominciare il peggio per l'Iraq. Semmai, e' un parziale iniziale rimedio al
crimine di Bush, senza alcun rimedio dei dolori e dei danni inflitti
all'Iraq. Vittoria, semmai, della volonta' popolare di vita e liberta',
nonostante le condizioni ristrette.
La stampa di destra infierisce su chi non esalta la giornata elettorale,
come ostinati nemici della democrazia portata dai cingoli dei carriarmati.
Anche le piu' perfette elezioni democratiche non cancellerebbero il crimine
di questa guerra. Abbattere un dittatore con la dittatura delle armi e' una
sostituzione, che invoca ancora una vera liberazione.
Oggi il compito fondamentale per chi ama la pace giusta in Iraq e' - come
scrive con buone ragioni un comunicato di "Un Ponte per..." -  la ricerca
del dialogo tra le componenti della societa', della conciliazione e
dell'unita' del paese nelle sue molteplici componenti, che scongiuri la
guerra civile e permetta all'Iraq di riconquistare la sua indipendenza nella
comunita' dei popoli. Sapra' la piccola e pavida Europa farsi carico di
questo compito, contro gli interessi strategici della guerra e dell'economia
bellica di Bush? Sapra' l'America civile orientare cosi' il suo rapporto col
mondo? Sapra' l'Islam genuino resistere civilmente, culturalmente,
spiritualmente alla barbarie capitalista?
Nulla esclude che anche l'Iraq, domani, ceda (come altri paesi "liberati")
al tipo di democrazia liberista, centrato sulla violenta liberta' di
possesso privato, antisolidale. Che tacciano anzitutto le armi, e il dominio
armato, e si potra' e dovra' discuterne, come dappertutto.

6. RIFLESSIONE. ALI RASHID: LA DEMOCRAZIA: UN CAMMINO DI LIBERTA' CON AL
CENTRO L'ESSERE UMANO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 febbraio 2005. Ali Rashid e' il primo
segretario della delegazione palestinese in Italia. Fine intellettuale di
profonda cultura, conoscitore minuzioso degli aspetti storici, politici,
economici e culturali della situazione nell'area mediorientale, esperto di
questioni internazionali, ed anche acuto osservatore della vita italiana. E'
figura di grande autorevolezza per rigore intellettuale e morale, ed e' una
delle piu' qualificate voci della grande tradizione culturale laica
palestinese. Suoi scritti appaiono sovente nel nostro paese sui principali
quotidiani democratici e sulle maggiori riviste di cultura e politica]

Non vorrei sorprendere negativamente chi mi legge, ma sbaglia chi riduce
l'importanza dell'esito positivo delle elezioni in Iraq. Non basterebbe un
articolo per mettere in luce la loro portata, ma non bisogna lasciarsi
confondere dal disperato grido di vittoria lanciato a squarciagola
dall'amministrazione americana e dei suoi partners della "Coalizione dei
volenterosi".
Questo successo e' un esclusivo merito degli iracheni che vorrebbero vivere
finalmente in democrazia e liberarsi, dopo la dittatura, anche dagli
americani. La vera lotta inizia adesso e sigillera' il definitivo fallimento
della spedizione americana partita alla ricerca di materie prime, mercati,
risorse da saccheggiare e popoli da schiavizzare.
Da queste elezioni nascera' un'Assemblea generale, che deve dare vita ad una
Costituzione, un governo transitorio ed un assetto definitivo del paese che
ancora e' tutto da scrivere e da fare. Ma oggi gli amici degli eserciti
d'occupazione sono una esigua minoranza, e forse saranno costretti a partire
ancora prima dei soldati stranieri. Insieme al loro tramonto, tramonteranno
anche i progetti di privatizzazione del petrolio, di dominio statunitense
sul destino della regione. Di loro rimarra' solo uno sgradevole ricordo: le
stragi d'innocenti, la "liberazione" di Falluja e le lezioni di "democrazia"
di Abu Ghraib sono ben presenti nella nostra coscienza collettiva di popoli
del vicino oriente che piano piano stanno trovando la loro via per
l'emancipazione.
Questione di settimane e quelli che si erano opposti alla resistenza armata
contro l'occupazione, insieme a Moqtada al Sadr ed a tutti i sunniti,
saranno compatti nel chiedere la partenza degli americani dall'Iraq dove la
lotta per la liberta' e' appena iniziata.
Bush sta cercando ancora conseguenze storiche dell'elezione, mentre Blair
parla di un colpo inferto al cuore del terrorismo. Anche io sono d'accordo
che e' un colpo al cuore del terrorismo, quel terrorismo che hanno
fomentato, che insieme a loro sara' sconfitto per mano di milioni di donne e
uomini che con la scheda elettorale si sentono padroni del loro destino.
*
Il "fatto storico" invece e' gia' avvenuto in Palestina con le ultime
elezioni che stanno creando un vero terremoto nei paesi limitrofi ed
incoraggiando molti a rivendicare i loro diritti di cittadinanza, e di
liberta' dalla corruzione e dal dominio americano e dalla prepotenza
israeliana nella regione. Queste elezioni danno un sbocco democratico alla
questione del ruolo e della presenza delle forze islamiche nelle societa',
non solo come presunti o potenziali forze terroristiche. Uno sbocco che sta
avvenendo in Palestina ed ha un valore storico che va al di la' della
Palestina stessa. La democrazia e' ormai un processo inarrestabile, e non
mancheranno tra non molto i segni di non tollerabilita' a questo processo da
parte di chi ha voluto strumentalizzarla per giustificare la sua avventura
imperialistica.
Siamo ormai giunti ad imboccare una via autentica che fa emergere,
finalmente, un'idea di sovranita' assoluta, libera dai vincoli soffocanti
delle religioni, nel quadro di un'idea dell'ordine politico integralmente
umana.
La scomparsa del presedente Arafat, la guerra dell'Iraq, porteranno effetti
inimmaginabili, che sono l'esatto opposto di quelli sperati da chi ha voluto
la sua scomparsa ed ha fatto quella guerra sciagurata. E' un risultato
inevitabile, perche' se chi ha il monopolio della macchina di guerra ha
dimostrato la sua capacita' incontrastata di distruzione, ha reso evidente a
tutti la totale incapacita' di gestione e di dominio. E' un quadro inedito,
dove anche le religioni potranno iniettare valori, di liberta' e non di
dominio, che la politica ha smarrito, una sorta di teologia di liberazione
islamica, che non e' estranea ai concetti dell' Islam sciita. E' una sfida
difficile, entusiasmante, che avra' esiti positivi se si mettera' al centro
dell'attenzione la centralita' dell'essere umano e del suo futuro in questo
trapasso che deve portare l'umanita' oltre la modernita'.
Dalla Terra Santa, dalla grande Siria e dalla Mesopotamia si riprendera' il
cammino, e nessuno dira' grazie agli americani.

7. DOCUMENTAZIONE. FARID ADLY: LE ELEZIONI IRACHENE SULLA STAMPA ARABA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 febbraio 2005. Farid Adly (per
contatti: anbamed at katamail.com), autorevole giornalista e prestigioso
militante per i diritti umani, e' direttore di "Anbamed, notizie dal
Mediterraneo"]

La stampa araba si e' divisa sulle elezioni irachene, non sulla loro piu' o
meno legittimita' - questione scontata, dal momento che per molti regimi
arabi il voto e' soltanto una fastidiosa "rogna". La maggior parte degli
editoriali si e' concentrata invece sugli effetti che avranno i risultati
sul futuro assetto dell'Iraq e di tutta la regione.
I dibattiti in diretta su Al Jazeera hanno ospitato interventi di esponenti
iracheni ed arabi di diverse posizioni. Il filo conduttore degli interventi
pero' e' quello di respingere la divisione etnico-confessionale
kurdi/arabi - sunniti/sciiti. Mohammed Addoury, ex rappresentante dell'Iraq
all'Onu, ha affermato: "Non possiamo non notare le interferenze esterne dai
paesi vicini, in particolare l'Iran. L'insicurezza e' figlia
dell'occupazione e il paese sara' sicuro soltanto quando le truppe straniere
se ne saranno andate. Non ci sono pero' prospettive per una richiesta del
ritiro delle truppe da parte del futuro governo. Gli americani si sono
assicurati la vittoria di un gruppo dirigente a loro favorevole. Altrimenti
non avrebbero permesso le elezioni. In tutte le dichiarazioni ufficiali
Bush, Rice e Rumsfeld sostengono che il ritiro delle truppe avverra' nel
2006, soltanto quando il paese sara' sicuro, ma aggiungono che loro sono
sicuri che gli iracheni chiederanno loro di rimanere ancora. Gli americani
hanno speso centinaia di miliardi di dollari in questa guerra per garantire
i loro interessi strategici e non lasceranno militarmente l'Iraq".
Su "Al Hayat" un editoriale di Sharbal: "Queste elezioni hanno la loro
importanza al di la' dei confini dell'Iraq. Porteranno ad un Iraq nel quale
la componente sciita arriva al potere politico con il voto democratico: si
pongono questioni di democratizzare i paesi della regione da una parte, ma
anche di dover convivere con un governo molto vicino a Tehran. Reggera'
l'Iraq la nuova situazione interna o si trasformera' in una scintilla di
guerra civile che rischia di divampare in tutta la regione?".
Su "Al Watan" del Qatar: "Le elezioni irachene rischiano di aprire la strada
alla secessione. Le premesse di queste elezioni non danno la sicurezza di un
epilogo felice. La costituzione federalista e il diritto di veto garantiti
ai kurdi hanno aperto la strada alle rivendicazioni confessionali. Come
quelle avanzate da Ahmed Chalabi che vorrebbe una entita' autonoma per gli
sciiti nel Sud... Se lo sbocco e' lo smembramento dell'Iraq, queste elezioni
saranno state un evento nefasto".
"Ad-dostur" di Amman e' piu' cauto: "Ci chiediamo sinceramente: quali
possibili sbocchi politici avrebbe avuto la situazione irachena se non ci
fossero state queste elezioni? Quale salvezza del paese da una guerra civile
se non ci fosse stato il ricorso allo strumento del voto? Gli iracheni hanno
fatto la loro parte, adesso tocca anche agli arabi dare loro una mano per
mantenere l'unita' del loro paese, per mettere fine all'occupazione
straniera, per ricostruire il paese e difendere la sua integrita' da
interventi e mire espansioniste".
L'autorevole "As-safir" di Beirut in un editoriale del direttore e fondatore
Talal Salman: "Sarebbe facile ironizzare su questa democrazia importata sui
cannoni dell'occupazione. Sarebbe facile criticare la retorica di coloro che
strillano sul 'nuovo e luminoso Iraq'. Ma non possiamo non riconoscere che
queste elezioni hanno segnato un punto a favore dell'occupazione americana.
Il carro armato e' diventato, in questi nostri tempi duri, l'urna dove i
nostri cittadini, privati per decenni dai loro diritti elementari, vanno ad
esprimere la loro volonta', anche quella di dire no alla dittatura... Queste
elezioni non cambieranno il fatto oggettivo che l'Iraq e' sotto occupazione
straniera. Potrebbero anche aprire la strada alla secessione ed alla guerra
civile. Nessuno potra' pero' negare che queste elezioni rappresenteranno per
gli iracheni, provati da anni di repressione della dittatura che li ha
ridotti al silenzio o cacciati in esilio, uno sviluppo peculiare di valori
che li immette in un processo politico, che non tardera' a lasciare le sue
impronte anche su altre realta' del mondo arabo".

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 831 del 5 febbraio 2005

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

Per non riceverlo piu':
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su
"subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).