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La nonviolenza e' in cammino. 810
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 810
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 15 Jan 2005 00:21:49 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 810 del 15 gennaio 2005 Sommario di questo numero: 1. Enrico Peyretti: Liberi dall'uccidere 2. Maria G. Di Rienzo: La citta' dei diritti umani 3. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte quinta) 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. MEMORIA. ENRICO PEYRETTI: LIBERI DALL'UCCIDERE [Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo dono grande e luminoso. Il testo che segue era stato dapprima scritto come contributo per il libro Lotte nonviolente nella storia. Questo libro, di vari autori, non e' mai uscito. Doveva contenere, sotto il titolo qui sopra indicato, i risultati di un gruppo di lavoro e di ricerca che ha operato, negli anni '90, nel Centro Studi "Sereno Regis" (per contatti: via Garibaldi 13, 10122 Torino, tel. 011532824, e-mail: regis at arpnet.it). Il testo e' stato successivamente rivisto dall'autore il 15 marzo 1998, poi il 30 gennaio 1999, poi il 19 marzo 1999, poi il 5 gennaio 2005. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recentissima edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario] Liberi dall'uccidere. Memorie di liberazione dalla mimesi omicida Questo scritto e' un rifacimento e ampliamento della seconda parte ("Storie di resistenza alla guerra", pp. 64-67) del mio intervento "Memorie di liberazione dall'uccidere" (pp. 53-67) nel convegno romano "La Resistenza nonarmata", del 24-25 novembre 1994, i cui atti sono pubblicati, con lo stesso titolo, da Sinnos editore, Roma 1995. * I. Nel capitolo "Quelli dell'ultima ora" di questo volume, vediamo uomini che combattevano dalla parte ingiusta compiere, anche a prezzo della vita, atti di riscatto umano dalla violenza. D'altra parte, ci fu anche chi, combattendo dalla parte giusta, fu travolto dalla propria violenza ingiustificabile (diro' piu' avanti come simili episodi non permettono di infangare la Resistenza). Ma e' spesso possibile rintracciare, accanto a questi comportamenti, atti umani che restituiscono speranza di umanizzazione. E' quello che vorrei leggere in un episodio di guerra vissuto personalmente. Come altri della mia eta', io ho visto uccidere prima che morire di morte naturale. L'unico episodio di sangue a cui mi trovai presente da bambino, durante la guerra, cresce di significato nella mia memoria. Erano tre nemici, soldati dell'esercito tedesco che aveva occupato anche il nostro paese, aveva compiuto violenze sui civili e omicidi gratuiti, aveva deportato cittadini inermi, fatto stragi di cui gia' si sapeva (Vinca, Sant'Anna di Stazzema non erano lontane). Quei tre uomini avevano perso il contatto coi loro reparti sconfitti e fuggitivi, erano ormai disarmati e inoffensivi. Catturati, passavano ora sotto le nostre finestre, circondati da uomini armati, col capo chino di chi sa che va a morire. Ero un bambino di nove anni, ma capivo i loro sentimenti. Li vedo ancora, dopo sessant'anni, con la morte sul capo, camminare i loro ultimi passi, verso la piazza del paese e verso la morte. Sono tornato recentemente su quella piazza e tutta la presenza di quel ricordo e' venuta per l'ennesima volta, con la forza profonda di un giusto appello, che chiede di essere ritrasmesso. Avevamo tutti festeggiato il 25 aprile - quello originale, il primo - per le strade, dove bandiere rosse e cavalli nel sole splendente eccitavano la nostra fantasia di bambini. Ero passato per tutte le osterie del paese, dove tanta gente mescolata brindava alla fine della lunga guerra. Ero piccolo, vedevo i grandi dal basso in alto. Ricordo il contatto freddo col calcio tutto metallico di un fucile chiamato "sten". Forse e' stata, grazie a Dio, l'unica arma che ho toccato nella mia vita. Era finita la guerra! La presenza di un ospedale militare tedesco aveva protetto dalle bombe il paese in cui eravamo, Bagnone, in Lunigiana, paese nativo di mia madre Luisa (1904-1990). C'erano state alcune scaramucce nei dintorni, non grossi fatti di guerra. Gli anglo-americani non erano ancora arrivati. In paese non c'era alcuna autorita' costituita. Sulla piazza, il parroco don Aurelio Filippi, riusci' a far sospendere l'esecuzione dei tre soldati tedeschi e fece appello al popolo presente, unica autorita', chiedendo che alzasse la mano chi approvava la loro fucilazione. Il rapporto della popolazione con gli occupanti tedeschi non era certo stato tranquillo. L'ospedale aveva protetto il paese, si', e anche curato la popolazione, ma c'erano pure stati rastrellamenti degli uomini: nel luglio 1944 furono presi tutti, dai 14 ai 60 anni, anche i medici e i preti. C'erano stati episodi atroci: una madre era andata a richiedere il suo ragazzo quattordicenne, i tedeschi avevano finto di accontentarla, avevano accompagnato entrambi verso casa, poi, mandata avanti la madre, le avevano ammazzato il ragazzo sulla strada. In alcuni casi avevano sparato a donne al lavoro nei campi. Un giovane studente, di nome Botero, che veniva in casa nostra a dare lezioni di matematica ad una mia cugina liceale, accusato di contatti coi partigiani, era stato torturato dai tedeschi, sballottato in motocarrozzetta da una frazione all'altra, infine fucilato davanti alla gente nella frazione di Lusana. In quei giorni, a guerra appena finita, molti uomini deportati erano ancora in Germania, molti soldati erano dispersi in Russia, perduti nel gorgo della guerra nazista, non si sapeva se erano ancora vivi. Aldino, l'autista del paese, non sarebbe mai piu' tornato. Eppure nessuno, in piazza, dopo la festa per la pace, eccetto (forse, secondo una testimonianza recente, di cui allora non ebbi notizia) una sola voce isolata e nessun altro, si dichiaro' per la morte, per approvare che si compisse ancora un triplice omicidio, a guerra finita (1). Credo proprio che, in quel popolo in piazza, nessuno conoscesse il concetto di nonviolenza, ne' avesse letto Gandhi, che era gia' edito in italiano. Probabilmente nemmeno il parroco. Molti avranno pensato al perdono cristiano. Altri al fatto che la fine della guerra faceva finire l'orrenda necessita' o spinta ad uccidere. Col passare del tempo, mi cresce nella memoria, tra i personaggi del triste episodio, quella gente di paese, che, in tutta semplicita', non alzando la mano, alza tutta se stessa al di sopra della vendetta, del sangue per sangue. Amo registrare questo fatto, ad onore del paese di mia madre e di tanti simili comportamenti dimenticati. Il capo impreco', definendo "pecoroni" i bagnonesi e ordino' il fuoco. Una donna della banda diede ai tre il colpo di grazia. Da casa nostra, a breve distanza, sentimmo le raffiche. In questa casa, qualche mese prima, i miei avevano aiutato un bersagliere repubblichino (milanese, di nome Vismara) a disertare e passare ai partigiani. Le donne in casa piangevano. Noi bambini, ammutoliti, mettevamo in cuore queste cose, senza ancora sapere che le avremmo ricordate per sempre. * Vidi tornare i tre uccisi, dopo pochi minuti, ammucchiati come sacchi su un carretto tirato da un asino, rossi di sangue, che colava ancora sulle lastre di pietra della strada centrale del paese. Li ho sempre davanti agli occhi. Ho impresso nel ricordo il contrasto impensabile tra quell'asino in cammino, vivo, la poca gente attorno, e quei tre poveri uccisi. Venivano portati nel cimitero di guerra tedesco, sotto i castagni, accanto a quello civile, a monte del paese. Ho una fotografia di quel cimitero, grigio come le divise tedesche, scattata nel 1953, prima che tutte le salme, una dopo l'altra, fossero riportate in Germania. Dopo oltre cinquant'anni ho saputo, tramite amici tedeschi che si sono informati presso le apposite organizzazioni statali, che i tre uccisi di quel giorno sono ora sepolti, senza nome, nel cimitero militare tedesco di Costermano, presso il lago di Garda. Avrei voluto, se fosse stato possibile, comunicare alle loro famiglie i miei sentimenti di bambino per i loro morti. Un giorno vorro' visitare la loro tomba. Mi pare di vederli ora, su quel carretto, i tre uccisi. In essi vedo tutta l'infinita moltitudine degli uccisi di tutte le guerre. Continuano a sanguinare su tutta la terra. Su tutte le strade del mondo c'e' un asino paziente, piu' buono degli uomini, che accompagna al riposo nella terra i poveri uccisi, piangenti lacrime esauste di sangue. E c'e' anche, dappertutto, un popolo che non condanna a morte neppure i nemici, ma che non sa come fermare la catena della violenza. Quei tre nemici uccisi, di cui non ho mai saputo il nome, sono i miei primi maestri della necessita' della pace. C'era un quarto militare tedesco, che assistette alla fucilazione dei tre dal palazzo del Municipio, dove era trattenuto, col terrore di venire poi ucciso anche lui. L'ho conosciuto esattamente cinquant'anni dopo, nel marzo 1995, stringendo poi con lui una calda amicizia: e' il signor Josef Schiffer, oggi novantenne, di cui ho scritto piu' volte (per esempio, Piu' uomo che soldato, in "Rocca", 15 aprile 1995). Non conosceva i tre fucilati, che erano di un altro reparto, dislocato altrove. Fu salvato dalle testimonianze spontanee di molti che sapevano in quanti modi, a suo rischio, aveva protetto la popolazione civile, gia' durante l'occupazione. Ne' allora, ne' da testimonianze successive, mi e' mai risultato che i tre tedeschi uccisi fossero personalmente accusati di crimini. Furono uccisi in quanto nemici, per vendetta impersonale, oggettiva. Ma se anche fossero stati molto colpevoli, era ormai l'ora di smettere. Furono uccisi, quando la furia doveva finire. Anche se fossero stati Caino, che Dio protegge anche piu' di Abele (cfr. Genesi 4, 15), il loro sangue sparso a terra grida, grida, da quella piazza e da quella via di paese lastricata di antiche pietre, e da ogni angolo della terra. La guerra e' questo, per me. Ho conosciuto anche la paura del bombardamento, ma per me la guerra e' soprattutto quella fucilazione, l'animo che la produsse. Nessuna causa al mondo puo' giustificare queste cose. So bene che la guerra partigiana aveva grandi ragioni, e se racconto questo episodio non e' certo per disconoscerle ne' per fare uguali tutte le parti e tutte le violenze, come oggi qualcuno fa insensatamente. Sappiamo che allora non c'era una cultura della nonviolenza, anche se molta parte della Resistenza fu condotta nello spirito e coi mezzi della nonviolenza. So bene che, se mai ci fu una guerra giustificabile, questa e' stata la resistenza al nazifascismo. So anche, pero', che la causa piu' giusta, difesa con la violenza omicida, ne viene facilmente snaturata e rischia di diventare irriconoscibile e irraggiungibile. Proprio una guerra "giusta" dimostra l'ingiustificabilita' della guerra: l'arma trascina l'uomo alla brutalita' gratuita, rende ingiusto e piu' difficile il cammino verso lo scopo giusto. Giuliano Pontara ha esaminato nel dettaglio il processo corruttore degli uomini e anche dei loro scopi giusti che la violenza opera quasi fatalmente (cfr. Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1974). I sapienti ce lo dicono. Pascal: "E' necessario uccidere per impedire che ci siano malvagi? Ma cio' e' farne due invece di uno" (Pensieri, edizione Brunschvigc, n. 911). Kant: "La guerra e' un male perche' fa piu' malvagi di quanti ne toglie di mezzo" (Per la pace perpetua, 1795). Primo Mazzolari scriveva gia' nel 1952: "Se facessimo la resistenza come l'abbiamo fatta ieri con l'animo di oggi, saremmo in peccato" (Tu non uccidere, La Locusta, Vicenza, varie edizioni dal 1955, p. 86 dell'edizione 1965, p. 81 dell'edizione San Paolo 2002). Giovanni XXIII: "E' fuor di ragione pensare che la guerra possa essere strumento di giustizia" (Pacem in terris, 1963). Quella gente in piazza entrava in questi pensieri, anche senza saperli dire. Era la liberazione. C'era chi intendeva che la liberazione dai tedeschi consistesse nell'ucciderli, nel vendicarsi, anche ora su quei tre, ridotti inoffensivi. Ma c'era chi intuiva che ci si poteva liberare dall'uccidere. Lo intuiva debolmente, senza la consapevolezza e la preparazione sufficienti a sostenere questa ragione e renderla efficace nei fatti. In Italia in quel momento Aldo Capitini, da solo, diceva questa idea di liberazione. * Torno a guardare i protagonisti di quel fatto emblematico. I tre uccisi; la gente del paese, che fu per i fucilati l'ultima scena di questo mondo, nell'atto umano di non condannarli, di guardarli con pieta' sia pure impotente, atto che forse richiamo' nei condannati tutta l'umanita' dimenticata e fu forse redenzione dai loro eventuali delitti; gli uomini e la donna che spararono, armati per una causa giusta e resi ingiusti dal contagio del potere mortale delle armi, che non sentirono ne' leggi di limite alla guerra ne' pieta' del nemico disarmato, e forse sono invecchiati pensando come me a quel giorno di aprile, o forse l'hanno dimenticato tra le altre durezze della guerra. Ecco i protagonisti di quel fatto emblematico, simile a mille e mille altri, ma unico per chi vi muore e per chi ne e' toccato. Vorrei che tutte queste persone passassero un poco nella testimonianza di questa pagina, come vivono nella mia coscienza, a ripetere non un messaggio morale o ideologico, ma la parola che, prima, sopra e contro tutte le teorizzazioni, da ogni volto umano, dice con la semplice forza della presenza: tu non uccidere, non uccidere piu', non uccidere mai. Tu, anche tu solo, non uccidere. Chi accoglie questa parola e la vive, entra in una liberta', conduce il mondo verso la liberta' dalla morte. La vita senza morte comincia dalla vita senza uccidere. * II. Ho un altro ricordo successivo: due racconti dalla campagna dell'Armir in Russia, ascoltati negli anni '60, il primo di un anarchico carrarese (di cui conservo un grande dono, le Ultime lettere da Stalingrado), il secondo di un prete, un monsignore di qualche notorieta', che era stato cappellano militare. I due non si sono mai conosciuti. Raccontavano due episodi di guerra identici. Entrambi, nella ritirata, si erano trovati di fronte ad un partigiano russo armato: se non sparavano venivano uccisi. Entrambi spararono ed uccisero. L'anarchico mi confido' il fatto con grande vergogna, mi disse che non aveva mai osato confessarlo a sua moglie (che pure non trattava con molta delicatezza) e che di notte quel rimorso lo svegliava: vedeva davanti a se' gli occhi dell'uomo da lui ucciso. Il monsignore mi racconto' un fatto identico per dire che in guerra e' cosi', non puo' essere diverso, e per ridimensionare le mie giovanili idee pacifiste: "Io ho ucciso. In quella situazione o si muore o si uccide. Cosa ci vuoi fare?". Grazie a Dio, in quelle idee pacifiste sono cresciuto e invecchiato. Non so cosa farei in un caso simile, che Dio me lo eviti. Ma spero che almeno sentirei il tormento inconsolabile di quell'anarchico, per poter essere perdonato. Il prete si sentiva giustificato dalla morale: in quella situazione, la legittima difesa mi autorizza ad uccidere. E' brutto, ma non ne ho colpa. Cosi', il monsignore era tranquillo. L'anarchico invece continuava, dopo molti anni, ad essere tormentato dal rimorso e nascondeva anche alla moglie quel pesante segreto. Il primo era tutelato dalla morale, posta di mezzo tra lui e la realta' dell'uomo ucciso; compiangeva la propria vittima, ma era a posto con la legge; la sua coscienza non "sentiva" piu' quel fatto. Il secondo, uomo senza Dio ne' morale, era nudo, scoperto di fronte alla propria azione, di fronte al morto ucciso da lui, che tornava nel sonno ad interrogarlo; tra lui e l'altro uomo, cui l'aveva opposto in uno scontro mortale l'istinto di sopravvivenza, non c'era alcun riparo. Una cosa straordinaria era avvenuta, lo capisco adesso: la guerra, che oppone mortalmente uomini che non hanno motivo di odiarsi, che percio' e' opera sommamente dia-bolica (dia-bolos, diavolo, e' colui che divide calunniando), aveva opposto in una orrenda gara ad uccidersi quattro uomini (ed infiniti altri alle spalle di quelle due scene arrivate a me); due furono uccisi, due uccisori; di questi due, uno aveva trovato il modo per non essere piu' turbato dal volto giudicante del suo morto, mettendo tra se' e lui, tra il proprio cuore e i suoi occhi, un argomento, una regola, uno schermo; l'altro uccisore non aveva a disposizione nessuna di queste belle e sottili armi della mente e dello spirito, e percio' continuava ad incontrare il suo morto. Nel primo la guerra diabolica, che divide gli uomini, continuava la sua opera. Nel secondo la guerra, dopo averlo usato, aveva perso il potere su di lui, perche' i suoi strumenti di divisione erano caduti, vinti da cio' che un volto sa dire ad un volto, spezzati dal raggio unico che unisce due sguardi umani, anche se si incontrano una sola volta nell'istante estremo di uno che uccide per paura e dell'altro che non riesce ad uccidere e muore nella stessa paura. Nel tormento notturno del mio amico anarchico, affratellato per sempre al suo povero nemico, vedo i dolori del parto che genera la liberazione dalla guerra, le slogature lasciate dalle convulsioni del demonio bellico che una forza buona ha cacciato via da un cuore umano. * Mi verrebbe, a questo punto, una domanda come quella che conclude una parabola evangelica: "Dei due, chi pensate che sia giustificato?". In quale di quei due sopravvissuti il diavolo della guerra e' stato vinto e legato? In quale dei due e' ancora in agguato pronto a ripetere l'omicidio giustificabile? Il confronto tra i due e' analogo a quello tra il fariseo e il pubblicano nel capitolo 18 del vangelo di Luca. Chi e' "persuaso di essere giusto" non e' giustificato, mentre lo e' chi si sente peccatore. Il monsignore crede di avere staccato la morte dalla sua mano, ma, giustificando quell'atto mortale, non rinnegandolo, se la tiene attaccata. L'anarchico sente e soffre quell'atto di morte, ma non lo accetta, e giudicando se stesso, ne e' libero. E' lui che la compassione per il suo ucciso rende libero dall'uccidere. Il primo, all'occasione, potrebbe anche uccidere di nuovo. Il secondo e' preparato a resistere al potere della guerra. Devo aggiungere un particolare. Diversi anni dopo il racconto che ho riferito, quel monsignore malato e vicino a morire mi scrisse chiedendomi di vederci e parlarci. Non seppi trovare il modo e il momento, e ne ho rimorso. Voglio immaginare, senza alcun indizio reale, che volesse scusarsi per lo scandalo dato ad un giovane che condannava la guerra. Vorrei tranquillizzarlo: le vicende umane si completano una con l'altra. L'anarchico ha ben rimediato allo scandalo del monsignore. Del resto, i miei due personaggi, come i due partigiani russi loro vittime, sono, tutti insieme, vittime di chi architetta le guerre, vero demonio umano che condanna gli uni a morire, gli altri ad uccidere, uno a giustificare questo uccidere, uno a patirne la pena in cuore per tutta la vita. Se qualcosa puo' insegnare questa storia vera, e' che alla guerra si deve disobbedire per tempo, ripudiarla dal principio, prima che ti afferri nella sua trappola mortale, che ti condanni come un gladiatore ad un gioco di schiavi, tutti perdenti, per il piacere e il potere di qualche padrone. La testimonianza del mio vecchio amico anarchico mi dice che in ogni uomo c'e' un cuore sensibile all'altro uomo e a tutto cio' che vale. Certamente, il costume e la cultura dominanti migliorano o peggiorano, con la loro pressione, quella sensibilita', e di cio' dobbiamo molto curarci. Certamente, la ricerca morale umana ha bisogno anche di formularsi in principi di valore e in regole di esperienza, senza cessare di essere ricerca. Ma non sono i moralisti che danno il cuore, ne' gli immoralisti che lo tolgono. E' il volto dell'altro, l'alto abisso del suo sguardo, il tu incontrato apertamente, che sveglia e chiama il cuore. Se non si pone alcuno schermo tra noi e l'altro, questo appello puo' liberare le persone dalla violenza e la storia dalla guerra. Puo'. Quanto tardera' a farlo? Ma - gente di poca fede che noi siamo! - non ci sta gia' liberando? Non ho forse qui raccontato di segni ed annunci che, in mezzo alla zizzania delle contraddizioni, sono cresciuti nei pochi anni di una memoria attenta? * Nota 1. Dopo la stesura di questi vivi ricordi, avvalorati da quelli di una testimone piu' diretta di me, allora giovane ragazza presente nella piazza stessa, la signora Anna Agnetti Belforti, che ricorda con precisione (e mi riferisce intorno al 1990) le parole del parroco e la risposta della gente, vedo un vecchio articolo In memoria di don Aurelio Filippi, su "Il Corriere Apuano" (settimanale della diocesi di Pontremoli, in cui rientra Bagnone) del 23 marzo 1974. Tra i meriti di don Filippi e' ricordato l'episodio di cui parlo, ma con particolari che mi hanno sorpreso. L'articolo parla di "folla inferocita" e calca molto le tinte, probabilmente per esaltare un po' retoricamente l'azione del parroco. Ho sentito di nuovo la testimone suddetta ed ho appurato: non e' esatto e non corrisponde al vero il particolare della "folla inferocita"; la gente era non inferocita ma spaventata e disapprovava l'azione; e' esatto e corrisponde al vero che quella del parroco fu l'"unica voce" levatasi, ma ebbe subito l'appoggio manifesto della popolazione presente; nessuno dei civili infieri' sui corpi degli uccisi. Secondo il mio ricordo di allora, si diceva che una donna partigiana diede il colpo di grazia ai condannati. Versioni simili a quella citata e similmente romanzate appaiono alle pp. 26, 28, 43 dell'opuscolo Josef Schiffer, il Tedesco Buono, l'uomo che salvo' Pallerone, pubblicato dall'Amministrazione Comunale di Aulla, a cura di Giulivo Ricci, Tipografia Artigianelli, Pontremoli 1999. Tali versioni citano in modo assai impreciso ricordi miei, che qui esprimo nel modo piu' accurato che mi sia possibile. Su Josef Schiffer si veda il capitolo a lui dedicato in questo stesso libro. L'opuscolo citato di Giulivo Ricci e' stato tradotto in tedesco a Duesseldorf. 2. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: LA CITTA' DEI DIRITTI UMANI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza; e' coautrice dell'importante libro: Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003] Thies, in Senegal, con una popolazione 250.000 persone, grazie a un programma facilitato da "Tostan" e "The People's Movement for Human Rights Education", e' divenuta "la citta' dei diritti umani". All'inizio, negli anni '80, Tostan era un programma per l'istruzione di base nei linguaggi locali, che usava la tradizione orale africana servendosi di canzoni, poesie, teatro e musica. Nel 1994 furono aggiunti moduli basati sulla cornice dei diritti umani: il successo che essi incontrarono fini' per trasformare Thies ne "la citta' dei diritti umani". Il processo era cominciato nel 1998, quando dieci villaggi si dichiararono "villaggi dei diritti umani": anni di intervento basati sulla filosofia ed i principi del diritto umano, in questi villaggi, hanno condotto alla trasformazione dei conflitti fra le persone, all'abbandono della pratica delle mutilazioni genitali femminili ed alla ormai famosa "Dichiarazione di Malicounda" (una dichiarazione che appunto spiega perche' e come fermare le mutilazioni genitali femminili). Dal 1998, piu' di 280 villaggi hanno aderito alla dichiarazione. Uno dei primi effetti del diventare "villaggi dei diritti umani" e' stata la presa di posizione delle donne riguardo alla terra: "La terra e' un diritto umano", hanno proclamato, ed hanno ottenuto appezzamenti in cui coltivare cio' che desiderano. * La prima fase dello sviluppo di Thies in "citta' dei diritti umani" inizio' nel 1999, e coinvolse 11 dei 56 quartieri della citta'. Ognuno dei quartieri seleziono' un facilitatore/facilitatrice che avrebbe partecipato al programma seminariale su diritti umani e organizzazione della comunita'. L'effetto immediato fu che numerose azioni furono intraprese, in ogni quartiere, per venire incontro ai bisogni dei suoi membri. Alcune di esse meritano particolarmente di essere ricordate: 1) i bambini e ragazzi fra i 9 e i 18 anni, dopo aver appreso che l'istruzione e' un diritto umano, e constatato che moltissimi loro amici ed amiche non andavano a scuola perche' la loro nascita non era stata registrata, hanno creato piccole squadre che sono andate casa per casa, hanno raccolto le informazioni necessarie e registrato 2.745 bambini e bambine; dopo di che, i giovani attivisti si sono recati dal sindaco della citta' affinche' venissero predisposte piu' aule scolastiche per i nuovi alunni; 2) membri dei vicinati, agendo sulla convinzione che il lavoro e' un diritto umano, hanno identificato l'estrema poverta' delle vedove come un problema che andava risolto, hanno raccolto fondi per acquistare macchine per cucire e macine per il miglio che sono state consegnate a queste donne, oltre ad aver offerto loro training e piccoli prestiti affinche' avviassero un'attivita' economica. Quattro centri di formazione professionale furono aperti per le centinaia di donne giovani che non erano mai andate a scuola: ogni centro ha un piccolo negozio dove sono in vendita gli abiti, gli oggetti e il cibo preparati dalle giovani; 3) donne ed uomini in numerosi quartieri, in nome del diritto umano alla salute, hanno cominciato a ripulire dai rifiuti le discariche abusive, fatto informazione al proposito in citta', e chiesto all'ufficio del sindaco la predisposizione di un piano rifiuti. * Il programma sui diritti umani include ora altri 26 quartieri, per un totale di 37. Due terzi della seconda piu' grande citta' del Senegal sta in questo momento impegnandosi per trasformare la vita di donne, uomini e piccoli. I facilitatori/le facilitatrici convocano periodicamente i vicinati per discutere ed identificare le violazioni dei diritti umani nelle rispettive comunita'. Questo ha condotto gruppi di uomini e donne ad interrogarsi ed intervenire sulle istanze di successione e sulla violenza contro le donne. In ogni quartiere cittadino coinvolto, si e' chiesto ai partecipanti agli incontri di sviluppare una visione collettiva per la comunita', e di identificare il ruolo dell'istruzione ai diritti umani come strumento per realizzare tale visione. I quartieri hanno discusso della responsabilita' personale, del bisogno di rispetto per la dignita' umana, della necessita' di uno sviluppo sostenibile che vada a beneficio di tutti; hanno appreso tecniche di dialogo e mediazione. I leader religiosi locali, compresi sacerdoti e imam, partecipano attivamente agli incontri ed hanno dichiarato i diritti umani del tutto coerenti con le loro religioni. Il 9 dicembre scorso i 26 quartieri hanno festeggiato, con una partecipazione di oltre mille persone, il cinquantaduesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. 3. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE QUINTA) [Ringraziamo di cuore Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci permesso di riprodurre sul nostro foglio ampi stralci dal suo utilissimo libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, la cui lettura vivamente raccomandiamo. Riportando alcuni passi di esso abbiamo omesso tutte le note, ricchissime di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali ovviamente rinviamo chi legge al testo integrale edito a stampa. Bruno Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, si e' occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del Movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano; dal 1991 presiede l'Associazione italiana "Amici di Neve' Shalom / Wahat al-Salam"; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet" (e-mail: segreteria at keshet.it, sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno Segre: Gli Ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003] La trappola mortale Cresciuta in misura significativa nell'atmosfera di panico seguita alla "Notte dei cristalli", l'emigrazione degli ebrei tedeschi costituisce, almeno per il momento, l'obiettivo dichiarato dei nazisti, e per gestirla viene creato nel gennaio 1939 un ufficio centrale ad hoc. Lo scoppio della guerra (primo settembre 1939) non sembra modificare quest'obiettivo, ma modifica radicalmente le possibilita' della sua realizzazione. La conquista fulminea, a opera della Wehrmacht, della maggior parte della Polonia (le regioni rimanenti del territorio polacco, in virtu' del patto Ribbentrop-Molotov, 23 agosto 1939, passano sotto il controllo dell'esercito sovietico le cui truppe si attestano lungo il corso del fiume Bug, che diventa cosi' la provvisoria linea di frontiera tra le due zone d'occupazione) conferisce alla "questione ebraica" connotazioni e proporzioni assolutamente inedite. L'emigrazione forzata degli ebrei comincia a presentarsi come un'opzione problematica, mentre diventano difficilmente praticabili, per esempio, i piani di quei gerarchi nazisti che pensano di "vendere" gli ebrei tedeschi in cambio di valuta estera. Dopo avere accarezzato l'idea di rendere il territorio germanico "Judenrein" ("immune da ebrei"), i nazisti si trovano ora a fare i conti con circa due dei tre milioni e mezzo di ebrei complessivamente stanziati, prima della guerra, in Polonia (dove costituivano attorno al 10 per cento dell'intera popolazione). D'altro canto, non essendovi piu' a questo punto seri motivi per preoccuparsi delle reazioni straniere, il trattamento che i nazisti riservano agli ebrei polacchi raggiunge livelli di barbarie molto superiori a tutto cio' che si e' visto sin qui in Germania o in Austria. Gli ebrei polacchi hanno infatti il torto d'essere "ebrei orientali": donne e uomini spogliati della dignita' di esseri umani, fatti oggetto di un disprezzo speciale in quanto ritenuti la piu' bassa forma d'esistenza all'interno di un paese nemico vinto, gia' di per se' disprezzato. In Polonia, inoltre, al pari che nelle altre regioni dell'Europa centro-orientale, gli ebrei vivono concentrati in vaste comunita', facilmente identificabili per la lingua (lo yiddish), le abitudini, la foggia del vestire. In piu', la professione religiosa costituisce un dato dello stato civile. Rispetto all'Europa occidentale, percio', la persecuzione dei nazisti, favorita anche dal radicato sentimento antiebraico di ampi strati delle popolazioni locali, non richiede ne' un lavoro particolarmente gravoso di censimento delle vittime designate, ne' lunghe operazioni di "cosmesi" volte ad "anestetizzare" la sensibilita' generale. Con la capitolazione di Varsavia (27 settembre 1939) i tedeschi riguadagnano la loro frontiera orientale anteriore al 1914 annettendosi, nel quadro del Reich della Grande Germania, la Prussia occidentale, Posen, Lodz e parti della Galizia occidentale: territori che ora i nazisti chiamano Warthegau, e dai quali intendono espellere entro una precisa scadenza tutta la popolazione non tedesca, ossia piu' di otto milioni di persone. Quel che resta del territorio polacco occupato dai tedeschi viene chiamato "Governatorato generale", con Cracovia come capitale, e affidato all'amministrazione di Hans Frank (che finira' giustiziato a Norimberga il 16 novembre 1946). Le zone di confine della Prussia occidentale, il Warthegau e la Slesia nordorientale devono ospitare una popolazione tedesca pura, e cio' attraverso l'espulsione di tutti i polacchi, gli ebrei e gli zingari, e attraverso il reinsediamento di gruppi etnici tedeschi, o Volksdeutsche, dall'Europa orientale. I polacchi devono essere deportati piu' a oriente, in quello che diventa il "Governatorato generale", e privati delle loro potenziali elite politiche per mezzo di esecuzioni sistematiche. Quanto agli ebrei, essi devono essere deportati nelle aree piu' lontane dell'impero germanico, nella regione di Lublino, tra i fiumi Bug e Vistola, predisponendo per alcuni di loro l'espulsione oltre la linea di confine con l'Unione Sovietica. Il piano nazista prevede dunque - in progressione da occidente a oriente - tre fasce di popolazione: tedesca, polacca, ebraica. * Sin dall'inizio delle operazioni belliche, l'obiettivo dei nazisti e' l'annullamento dell'identita' politica e culturale dei polacchi, ossia la progressiva "germanizzazione" anche dei territori nei quali per il momento i polacchi andranno concentrati. Questi sudditi "alieni" vengono trattati alla stregua di "Untermensche"n ("sottouomini"), che e' lecito spostare o eliminare senza remore. Gia' vari mesi prima di scatenare la guerra, Hitler indica senza mezzi termini gli scopi che intende perseguire: annessione e germanizzazione di almeno una parte della Polonia, distruzione della nazione polacca. Nei deliranti disegni del dittatore, i polacchi devono fornire al Reich le braccia di cui esso ha bisogno, e quindi sono votati al destino di manodopera non qualificata, in grado appena di leggere e scrivere. Vanno pertanto privati di una coscienza nazionale che, nella visione hitleriana, trova sostanza soprattutto nell'influenza delle classi dirigenti. Diversamente dalla modalita' che adotteranno in altri paesi occupati, i tedeschi non insediano qui un governo-fantoccio, ma procedono alla liquidazione brutale di una parte della classe dirigente locale, assumendo direttamente le redini dell'amministrazione civile. Cosi', ancora prima della conclusione della campagna di conquista, Hitler inizia a realizzare nel paese invaso l'apparato esteriore del suo progetto razzista. La missione viene affidata a Heinrich Himmler, il quale crea nel settembre 1939 l'Rsha (Reichssicherheitshauptamt, Ufficio centrale del Servizio di sicurezza del Reich), riunendo sotto la direzione di Reinhard Heydrich (1904-1942) la Sicherheitspolizei (Polizia di sicurezza), organo dello Stato da cui dipende la Gestapo, e l'SD (Sicherheitsdienst, Servizio di sicurezza), organo del partito. Heydrich (lo stesso gerarca che, in veste di "protettore del Reich" in Boemia e Moravia, cadra' in un agguato dei partigiani boemi a Lidice, il 29 maggio 1942), mette in piedi delle Einsatzgruppen, come ha gia' fatto in occasione dell'invasione dell'Austria, dei Sudeti e poi delle rimanenti regioni della Cecoslovacchia. Avanzando al seguito della Wehrmacht, tali gruppi hanno il compito di catturare le personalita' ostili al Reich e, in generale, di eliminare fisicamente i nemici ideologici del nazismo. Muniti di elenchi preparati in precedenza, gli uomini di Heydrich arrestano e fucilano a migliaia le persone appartenenti alle elite polacche. E sui circa 16.000 civili polacchi giustiziati nelle sei settimane che seguono l'attacco tedesco, si stima che almeno 5.000 siano ebrei. Un decreto amministrativo del 21 settembre 1939, in cui Heydrich fissa le linee generali della persecuzione antiebraica in Polonia, distingue tra un Endziel ("obiettivo finale") di lungo periodo, non ulteriormente specificato e da tenersi rigorosamente segreto, e "misure preliminari" di breve periodo. Lo scopo di tali misure di pronta applicazione e' quello di concentrare gli ebrei il piu' rapidamente possibile nei centri urbani maggiori, attorno ai nodi ferroviari, onde poterli agevolmente controllare nell'immediato e poterli in seguito deportare in vagoni-merce, come le stesse istruzioni di Heydrich ai capi delle Einsatzgruppen precisano. Il 23 novembre 1939, in tutto il "Governatorato generale" gli ebrei sono obbligati a portare il contrassegno distintivo: un bracciale alto 10 centimetri su cui e' montata una stella gialla a sei punte. Si tratta di una sorta di marchiatura, della quale molte testimonianze parlano (soprattutto in Germania, ove il distintivo verra' imposto soltanto nel 1941) come del provvedimento piu' infamante e degradante, per quanto ancora fisicamente indolore. La politica di concentramento provvisorio degli ebrei in vista di un'ulteriore deportazione (forse verso qualche regione-riserva posta ai margini del costituendo Grande Reich, o addirittura nel Madagascar, come ipotizzano dalla primavera del 1940 diversi gerarchi del regime) conduce alla creazione di ghetti, il primo dei quali viene istituito a Piotrkow il 28 ottobre 1939. Gli ebrei che vivono nella citta' sono costretti ad abbandonare le loro case e a trasferirsi nell'area assegnata, che risulta subito tragicamente sovraffollata; da parte dei tedeschi, ci si preoccupa di mantenere i rifornimenti di cibo e medicinali al livello minimo. Un'identica sorte tocca agli oltre 200.000 ebrei che abitano a Lodz, la citta' piu' industriale della Polonia, dove il ghetto viene istituito l'8 febbraio 1940. Piu' o meno nello stesso periodo, tutti gli ebrei presenti nel "Governatorato generale" (compresi quelli trasferiti in territorio polacco dalla Germania, dalla Cecoslovacchia, dall'Austria) sono assoggettati al lavoro obbligatorio. I due momenti congiunti, della ghettizzazione e del lavoro coatto, prefigurano parte della dinamica che contrassegnera' piu' tardi la "soluzione finale". * Nel settembre 1940 il quartiere ebraico di Varsavia, che di li' a poco sara' trasformato in ghetto, e' posto in quarantena. Ubicato a nord della citta', nella zona industriale, esso copre un'estensione di circa quattro chilometri quadrati, pari al 2,4% della superficie urbana complessiva. Vi si trovano 240.000 ebrei e 80-90.000 polacchi cristiani. A questi ultimi, il 16 ottobre viene intimato di sloggiare entro due settimane per fare posto ad altri ebrei, costretti ad abbandonare, sotto pena di morte, le loro abitazioni dislocate in zone diverse della citta' e della provincia. Il filo spinato e lo steccato che, sin dai primi mesi dell'occupazione tedesca, delimitano il quartiere vengono progressivamente sostituiti dalla piu' solida costruzione di un muro; e con il 15 novembre 1940 entro quel perimetro viene ufficialmente istituito il ghetto, in cui finisce concentrata e rinchiusa tutta la popolazione ebraica del territorio varsaviano composta per lo piu' di piccoli artigiani, venditori ambulanti, commercianti, operai e professionisti con le loro famiglie. Nel ghetto si trovano in tal modo insediate poco meno di 400.000 persone che nel maggio 1941, con i nuovi arrivi, diventeranno oltre 430.000, di cui 50.000 bambini. All'esterno del recinto il controllo e' esercitato dal comando militare tedesco, mentre all'interno viene imposta un'"autogestione" ebraica affidata a uno Judenrat di 24 membri e a un corpo di circa duemila poliziotti ebrei dotati di soli randelli. Come altri Consigli ebraici istituiti dai nazisti per amministrare ghetti e comunita', lo Judenrat di Varsavia persegue a lungo l'illusorio obiettivo di rendere meno brutale la realta' della progressiva liquidazione. In pratica, esso funziona soltanto da strumento passivo d'esecuzione delle direttive tedesche. Se altri ghetti della Polonia sono dichiarati "aperti", nel senso che da essi ci si puo' allontanare quotidianamente per ragioni di lavoro con regolari lasciapassare, il ghetto di Varsavia e' "chiuso", cioe' non offre alcuna possibilita' di uscire. Gli ebrei che vi sono ammassati, percio', sono condannati a un assoluto distacco dal mondo esterno, senza alcuna possibilita' di partecipare alla vita economica della citta' e del paese. In queste condizioni la maggioranza degli abitanti, gia' costretta a confrontarsi con tassi di sovraffollamento inverosimili (in alcune fasi, 10-12 persone per locale), cade ben presto sfinita dalla fame e dagli stenti. Tra il gennaio e il giugno 1941, oltre 13.000 persone soccombono per fame. La vita in comunita' di coabitazione promiscua, l'insufficiente alimentazione, la sporcizia e il freddo fanno rapidamente registrare i primi casi mortali di tifo. Nell'aprile 1941 i decessi superano di sette volte quelli del novembre 1940. Gli abitanti cominciano ad abituarsi passivamente alla morte: "Quasi ogni giorno per le strade c'e' gente che sviene o stramazza morta" annota nei suoi appunti Emmanuel Ringelblum (1900-1944), l'impavido organizzatore degli "archivi" del ghetto di Varsavia. "La cosa non fa piu' tanto effetto. Le strade sono sempre piu' affollate di nuovi profughi. I carri e i camion carichi di materassi degli ebrei poveri costituiscono una scena impressionante". Il 5 luglio 1942 cosi' riassume la situazione il giornale clandestino "Sturme": "Siamo stati rinchiusi fra le mura soffocanti dei ghetti, spesso non sappiamo che cosa accade ai nostri vicini e i nostri vicini non sanno come noi veniamo assassinati". Per la gran massa di questi sventurati, lo Judenrat e' un'istituzione decisamente impopolare che, oltre a non combattere efficacemente il mercato nero, le speculazioni e la corsa agli accaparramenti, non riesce a risolvere neppure in parte i vari problemi che affliggono il ghetto, e tanto meno ad alleviare la disastrosa situazione sanitaria e alimentare. Ma soprattutto il Consiglio ebraico, il cui presidente Adam Czerniakow morira' suicida nel luglio 1942, si rende odioso poiche' e' ritenuto colpevole di favorire i benestanti e discriminare i meno abbienti. Il danaro diventa infatti l'arbitro sovrano di una lotta sempre piu' angosciosa per la sopravvivenza. Chi dispone di un po' di danaro o di situazioni facilmente sfruttabili trova il modo di individuare, tra i funzionari dello Judenrat, alleati condiscendenti; tutto allora puo' risolversi con la corruzione, con il patteggiamento: si puo' comprare, per esempio, l'accesso a una fabbrica, a uno di quei tanto ambiti posti di lavoro, erroneamente ritenuti la piu' sicura difesa contro qualsiasi deportazione da cui sono esenti gli addetti alle industrie legate all'economia di guerra. E, sempre dietro compenso, si evitano la requisizione della propria casa, i campi di lavoro coatto, la possibilita' di cadere in uno dei continui rastrellamenti condotti con il sistema "a pettine" (Durchkammung) "per il trasferimento a Est". Tuttavia, dopo l'aggressione tedesca all'Unione Sovietica nel giugno 1941, le retate di giovani da avviare ai lavori di fortificazione sul nuovo fronte diventano ormai una consuetudine quotidiana. E poco piu' di un anno dopo, tra il 22 luglio e il 3 ottobre 1942, ossia nel breve spazio di settantuno giorni, a Varsavia verra' messa in atto la cosiddetta "grande azione", cioe' la deportazione, mascherata da "trasferimento a scopo di lavoro", di 310.000 ebrei a Treblinka, nelle cui camere a gas saranno eliminati al ritmo di 5-7 mila al giorno. E' abbastanza straordinario che, pure in questo contesto di disumana ferocia, per un paio d'anni un pugno d'esseri umani oppressi, cenciosi, umiliati e votati allo sterminio si riveli ancora capace di iniziative comunitarie di rilievo: scuole clandestine, primarie e secondarie, o addirittura corsi universitari, conferenze, assistenza sociale, stampa e vita politica clandestina. Nel perimetro maledetto del ghetto si riesce ad allestire un'orchestra sinfonica, si mettono in scena alcune rappresentazioni teatrali in yiddish e in lingua polacca, vi sono pittori che continuano a produrre, viene raccolta una documentazione d'archivio di grande importanza per gli storici di domani. Janusz Korczak, un'eccezionale figura di educatore, fa in modo che la vita dei giovanissimi ospiti dell'orfanotrofio da lui diretto continui a svolgersi in un clima il piu' possibile sano, libero e normale. Tutte queste iniziative devono considerarsi autentici momenti di autodifesa spirituale e costituiscono, in embrione, le occasioni di aggregazione attiva e responsabile da cui trarranno alimento le sparute forze che, all'inizio del 1943, daranno vita alla rivolta disperata del ghetto di Varsavia contro i tedeschi. Dopo la "grande azione" dell'estate 1942, rimangono nel ghetto 50-60.000 persone, di cui una parte vive nascosta, nella clandestinita', mentre l'altra viene impiegata nel "ghetto industriale", cioe' nelle fabbriche dirette dai tedeschi. E "sinche' le fabbriche hanno ordinazioni" annota Ringelblum "gli ebrei hanno diritto di vivere". Ma gli operai ebrei sono in balia degli imprenditori che, facendosi forti di avere loro salvata (provvisoriamente) la vita, si sentono autorizzati a ogni sopruso, specialmente in fatto di alimentazione, taglieggiando sulle assegnazioni annonarie. E non v'e' dubbio che i principali gruppi industriali del Terzo Reich sono piu' che disposti ad approfittare della concentrazione della manodopera ebraica nei ghetti polacchi, e ben lieti di avere carta bianca per un'utilizzazione a costi irrisori di un lavoro servile che il regime offre loro con straordinaria generosita'. * Per quanto concerne, in termini piu' generali, il programma del lavoro coatto, non v'e' dubbio che esso costituisca una forma di sfruttamento che sfocia nell'assassinio di massa, e che tale sia considerato dalle gerarchie naziste. L'espressione "Vernichtung durch Arbeit" ("annientamento tramite il lavoro") ritorna varie volte durante gli incontri che il dottor Otto Thierack, il ministro della Giustizia che morira' suicida nel 1946, ha con Goebbels e Himmler nel settembre 1942. Fritz Sauckel, il plenipotenziario del Lavoro che sovrintende alla distribuzione della manodopera, ordina che gli ebrei siano "trattati in modo da sfruttarli al massimo con la minima spesa". E una volta che questi schiavi potenziali siano stati deportati da ogni angolo d'Europa e concentrati nei campi di lavoro del "Governatorato generale" (il territorio che Hitler definisce "un grande campo di lavoro polacco"), il programma del lavoro forzato puo' essere messo in atto. Coperti di stracci e alimentati con pane, una sbobba acquosa e patate condite talvolta con avanzi di carne, gli ebrei vengono fatti lavorare dall'alba al tramonto per sette giorni la settimana. La prima grande opera realizzata mediante il lavoro coatto e' la costruzione, nel febbraio 1940, di un enorme fossato anticarro costeggiante la nuova frontiera orientale. Da quel momento il sistema si diffonde in ogni ramo della produzione. Le grandi imprese industriali germaniche, che partecipano senza riserve allo sforzo bellico del regime, sfruttano nella maniera piu' selvaggia le risorse sia umane che materiali dei territori conquistati. Heinrich Himmler, nel corso della sua prima ispezione al campo di concentramento di Auschwitz, il primo marzo 1941, decide di destinare all'IG Farben, il colosso dell'industria chimica, 10 mila detenuti per la costruzione di una zona industriale a Dwory (un sobborgo di Auschwitz) in cui si produrranno metanolo (carburante surrogato) e caucciu' artificiale. La stessa IG Farben riesce a farsi spedire su carri-merce, proprio come se si trattasse di inerti materie prime, 250 ebree olandesi da Ravensbrueck a Dachau, mentre gli stessi carri-merce riportano 200 polacche da Dachau. Le vittime del lavoro coatto sono costrette a tenere ritmi doppi rispetto alla norma, anche quando il compito sia quello, per esempio, di trasportare sacchi di cemento che pesano cinquanta chili. A Mauthausen, non lontano da Linz, nell'Alta Austria, dove Himmler fa apprestare un campo di lavoro nei pressi della cava di pietra municipale, i lavoratori, dotati soltanto di picconi e asce, devono cavare pesanti blocchi di granito che poi sono tenuti a sollevare dalla cava al campo su per centottantasei ripidissimi gradoni. Il tasso di sopravvivenza di questa manodopera servile oscilla tra le sei settimane e i tre mesi, senza tenere conto dei decessi da imputarsi a punizioni, incidenti o suicidi. Il programma del lavoro coatto e' dunque una fase, un primo momento della "soluzione finale", giacche' l'uccidere tramite il lavoro costituisce il fondamento stesso del sistema concentrazionario creato dai nazisti. 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 810 del 15 gennaio 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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