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La nonviolenza e' in cammino. 806
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 806
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 11 Jan 2005 00:23:41 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 806 dell'11 gennaio 2005 Sommario di questo numero: 1. Vandana Shiva: Un avviso 2. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte prima) 3. Ileana Montini: Sul futuro dell'Europa 4. Giancarla Codrignani: Senso e nonsenso del vincere 5. Lidia Ravera: Siamo donne o caporali? 6. Franca D'Agostini ricorda Eugenio Garin 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. VANDANA SHIVA: UN AVVISO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 gennaio 2005. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003] Una lezione fondamentale che il mondo deve trarre dallo tsunami del 26 dicembre e' che dobbiamo prepararci ad altri disastri ambientali in arrivo, ivi compresa un'anticipazione degli effetti del cambiamento climatico. Quando le acque, sollevatesi, hanno sommerso le Maldive, ho sentito che la natura ci stava dicendo: ecco come si presentera' l'innalzamento del livello del mare, ecco come intere societa' saranno private del loro spazio ecologico per vivere in pace sul pianeta. Mentre l'amministrazione Usa e gli scettici dell'ambiente come Bjorn Lomberg continuano a sostenere che il ricco Nord non puo' permettersi di intervenire per ridurre le emissioni di Co2 e impegnarsi a ridurre gli effetti del cambiamento climatico, lo tsunami ci dimostra quanto potranno essere alti i costi se si andra' avanti con il business as usual. Lo tsunami dovrebbe risvegliare Lomberg dal torpore dell'autoprodotto "Copenhagen Consensus", secondo cui gli effetti del cambiamento climatico non saranno cosi' gravi da richiedere un cambiamento della politica economica e dei paradigmi economici. Lomberg dovrebbe chiedere agli abitanti delle Maldive se accettano l'inevitabilita' di un innalzamento irreversibile del livello del mare indotto dal cambiamento climatico, dovuto al combustibile fossile. * Oltre a mobilitarci in massa per soccorrere le vittime dello tsunami, dobbiamo agire immediatamente per rendere giustizia in futuro alle future vittime del cambiamento climatico. Come un leader della Alliance of Small Island States ha detto durante i negoziati sul trattato Onu sui cambiamenti climatici: "L'istinto umano piu' forte non e' l'avidita'. E' la sopravvivenza, e noi non permetteremo a qualcuno di barattare la nostra terra, la nostra gente, e la nostra cultura per interessi economici a breve termine". Alla luce dello tsunami, il lavoro incompleto della giustizia del clima deve essere accelerato. I paesi dell'Oceano Indiano subiranno le conseguenze dei dislocamenti dovuti all'inondazione delle coste per l'innalzamento del livello del mare. Lo tsunami ci dice di prepararci per avere un futuro basato sulla giustizia della terra, non sul calcolo ristretto ed egoistico del mercato. Il prossimo disastro non sara' necessariamente uno tsunami. Esso potrebbe consistere, ad esempio, in un'inondazione causata da un terremoto originato da una diga sul Gange, la diga di Tehri, che e' in costruzione su una faglia sismica. Dalla diga, l'acqua viaggera' per centinaia di miglia fino a Delhi per essere privatizzata dalla Suez, il piu' grande rivenditore d'acqua al mondo. La diga, alta 260,5 metri, raccogliera' 3,22 milioni di metri cubi d'acqua, che si estenderanno fino a 45 chilometri nella valle del Bhagirathi e fino a 25 chilometri in quella del Bhilangana. Se la diga facesse da detonatore a un terremoto, in meno di un'ora e mezza un muro d'acqua alto 260 metri - venti volte piu' alto dello tsunami - spazzerebbe via le citta' sacre di Rishikesh e Haridwar; in otto ore, un muro d'acqua alto dieci metri si abbatterebbe su Meerut, 214 chilometri a valle; e in dodici ore, un'onda alta 8,56 metri colpirebbe Bulanshahar, a 286 chilometri di distanza. * Le lezioni dello tsunami sulla necessita' di prepararci ai disastri devono riguardare tutti i disastri che possono verificarsi in conseguenza di modelli di sviluppo che ignorano i costi ecologici e la vulnerabilita', a favore della crescita a breve termine. Essere veramente preparati ai disastri significa ridurre la vulnerabilita' ambientale e aumentare la resistenza ecologica, invece che aumentare la vulnerabilita' ambientale e i rischi esternalizzando i costi ambientali dal calcolo della crescita economica. Il bene pubblico e la responsabilita' sociale dei governi non possono essere sacrificati per il profitto privato e l'avidita' delle corporations. Cibo, acqua e medicine sono i bisogni piu' urgenti dei sopravvissuti allo tsunami. Mentre i sistemi pubblici devono mobilitarsi per distribuire questi beni essenziali, la globalizzazione delle corporations sta facendo una corsa in avanti con le corporatizzazioni e le privatizzazioni. Mentre l'India e altri paesi necessitano di farmaci generici a basso costo per affrontare l'emergenza di sanita' pubblica che lo tsunami ha lasciato dietro di se', il governo ha emesso un decreto sui brevetti che impedira' la produzione di medicine a basso costo dal primo gennaio 2005. Ironicamente, lo tsunami ha fatto emergere l'incongruita' tra il mondo della globalizzazione delle corporations e il pianeta delle persone. Il decreto indiano sui brevetti e' stato approvato lo stesso giorno in cui il disastro colpiva le nostre coste, dimostrando che la globalizzazione delle corporations e' guidata da forze incapaci di dare una risposta a cio' che accade alle persone e alle loro vite. Lo tsunami e' un campanello d'allarme per l'umanita': non possiamo continuare a dormire a occhi aperti, nella folle corsa alla privatizzazione dei beni pubblici. Se tutto il cibo e tutta l'acqua saranno ridotti a merci controllate e soggette al libero mercato dalle corporations globali a fini di profitto, come fara' la societa' a nutrire gli affamati, come fara' a dare l'acqua agli assetati? * La vulnerabilita' di milioni di persone richiede che robusti sistemi pubblici forniscano cibo e acqua, assistenza sanitaria e medicine. Le esigenze di beni e servizi pubblici per l'assistenza e la riabilitazione ci portano in una direzione completamente diversa dalle pretese di privatizzazione del Wto e della Banca mondiale. Lo tsunami ci ricorda che non siamo meri consumatori in un mercato che tende al profitto. Siamo esseri fragili e interconnessi, e abitiamo un pianeta fragile. Questo e' un richiamo alla responsabilita' e al dovere nei confronti della terra e di tutte le persone. Lo tsunami ci ricorda che sulla terra siamo tutti interconnessi. La compassione, e non il denaro, e' la valuta del nostro essere uniti. Soprattutto, esso ci richiama all'umilta', ci ricorda che davanti alla furia della natura siamo impotenti. Lo tsunami ci invita ad abbandonare l'arroganza e a riconoscere la nostra fragilita'. Con lo tsunami, non solo le onde del mare sono entrate in collisione con la costa. Sono entrate in collisione due visioni del mondo: quella del libero mercato e della globalizzazione delle corporations, impotente e inutile per affrontare i disastri ambientali a cui ha contribuito; e quella di una democrazia della terra in cui le persone di mondi diversi si incontrano a formare una sola umanita', per ricostruire la propria vita e prepararsi per un futuro incerto vivendo nella piena consapevolezza delle nostre vulnerabilita'. Mentre facciamo tutto il possibile per aiutare le vittime del disastro, il piu' importante contributo a lungo termine che possiamo offrire e' ridurre l'impronta ecologica sul nostro fragile pianeta e ridurre le nostre vulnerabilita' ecologiche. La resilienza ecologica, e non la crescita ecologica, saranno la vera misura della capacita' umana di sopravvivenza in questi tempi incerti. 2. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE PRIMA) [Ringraziamo di cuore Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci permesso di riprodurre sul nostro foglio ampi stralci dal suo utilissimo libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, la cui lettura vivamente raccomandiamo. Riportando alcuni passi di esso abbiamo omesso tutte le note, ricchissime di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali ovviamente rinviamo chi legge al testo integrale edito a stampa. Bruno Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, si e' occupato di sociologia della cooperazione e di educazione delgi adulti nell'ambito del Movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano; dal 1991 presiede l'Associazione italiana "Amici di Neve' Shalom / Wahat al-Salam"; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet" (e-mail: segreteria at keshet.it, sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno Segre: Gli Ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003] Il campo di Buchenwald. Un prologo Il campo di Buchenwald occupa uno spazio seminascosto su una collina boscosa che si affaccia sopra il romantico panorama della citta' di Weimar. Dove lo sguardo di Goethe si poso' innumerevoli volte, i nazisti incarcerarono duecentocinquantamila persone, in grandissima maggioranza ebrei ma anche zingari e oppositori politici, come il leader comunista Ernst Thaelmann (1886-1944). Assieme a lui morirono di fame, di stenti, di malattia, o furono uccisi in vario modo sessantacinquemila prigionieri, compresi molti bambini, vittime di esperimenti medici compiuti senza anestesia. A oltre mezzo secolo di distanza dalla Shoah, i Lager non sono solo entita' statiche, museali, che vengono conservate per tramandare il ricordo degli orrori nazisti e delle loro vittime. I Lager continuano a condurre una vita che si connette in termini dinamici alle svolte della storia, ispirando sentimenti variabili, cioe' influenzando e subendo i mutamenti ideologici, le vilta', gli sdegni, gli smemoramenti, i calcoli opportunistici, i travagli delle societa' e delle generazioni che si succedono. L'universo dei Lager resta ad ogni modo una macchina infernale che puo' sfuggire di mano: mai come in questo caso la percezione-interpretazione del passato proietta la sua ombra sull'avvenire. Nei decenni che precedettero la riunificazione della Germania, i campi della morte situati sul territorio tedesco vennero presentati in modo diverso. Nella Germania occidentale (dove c'e' per esempio Dachau, in Baviera), l'immagine dei Lager risenti' dell'agitato rapporto della Repubblica federale con la storia del nazismo. Spesso le autorita' locali resistettero alla richiesta di dare a quei luoghi di morte un adeguato significato, promovendo cosi' nella popolazione un diffuso processo di rimozione. Piu' in generale, le generazioni che alla guerra e alla Shoah avevano preso parte, o avevano assistito, conservarono per oltre vent'anni su questa pagina infame della storia tedesca un silenzio al limite dell'omerta'. Soltanto dopo il cambio di generazione, simbolizzato dal '68 e dall'avvento al potere (1969) di un antinazista come il socialdemocratico Willy Brandt (1913-1992), caddero molte reticenze ad affrontare il passato. Nella Germania orientale, cioe' nella defunta Repubblica democratica a regime comunista, la storia venne trattata con disinvoltura persino maggiore. Lo sterminio di massa soleva essere presentato come un crimine del nazismo capitalista: cosi' la responsabilita' ereditaria della Shoah veniva scaricata sull'altra Germania, quella federale, in virtu' della sua "continuita' capitalista" con il Terzo Reich, e la Ddr traeva la sua illibatezza dalla sua identita' comunista. * Con la caduta del Muro di Berlino e il crollo del comunismo storico, sul piano politico e anche su quello storiografico si sono riaperti, com'era inevitabile, i conti con le principali vicende che hanno contrassegnato il secolo mortifero da poco terminato. Cosi', nel modo piu' doloroso, sono riemersi (favoriti anche dai frequentissimi "corti circuiti" tra vedute storiografiche e opinioni politiche) i dilemmi irrisolti, le ambiguita', le doppiezze del rapporto della Germania (e del resto d'Europa) con il periodo nazista. In particolare alcune scuole di storici (in Germania ma anche in altri paesi, comprese la Francia e l'Italia), ponendo gli orrori perpetrati dai regimi nazifascisti a confronto con quelli dei regimi comunisti, si sono adoperate a sottolineare le analogie, che innegabilmente vi furono, tra le azioni delittuose ascrivibili ai due grandi totalitarismi del XX secolo. Ma per questa via hanno perseguito anche una progressiva "normalizzazione" del nazismo, relativizzando i crimini della Germania hitleriana sino al punto di rimettere in discussione la singolarita' perversa della Shoah e giustificare, in termini neppure troppo velati, lo sterminio di sei milioni di esseri umani innocenti. Nell'antiebraismo nazionalsocialista, sostiene per esempio lo storico Ernst Nolte (celebre per le sue tesi "revisioniste"), era presente un "nucleo razionale" che "consistette nella realta' fattuale del grande ruolo che un alto numero di singole personalita' di origine ebraica - spesso non in ultimo a causa delle tradizioni universalistiche e messianiche dell'ebraismo storico - giocavano nel movimento mondiale socialista e comunista". Noncurante del fatto che il genocidio ebraico era inscritto in profondita' nell'ideologia e nei programmi politici di Adolf Hitler, Nolte ravvisa nello sterminio di sei milioni di ebrei niente piu' che l'imitazione e quasi la prosecuzione di altri eccidi di massa, e di classe, compiuti dopo la Rivoluzione d'ottobre dal potere bolscevico. "Se qualcuno" sentenzia lo studioso tedesco "si riproponeva veramente di contrapporre al bolscevismo un regime 'di eguale fermezza e coerenza', allora doveva esservi anche un'analogia con quell''annientamento di classe' cosi' palese a tutti e cosi' chiaramente richiesto dall'ideologia, e il cui oggetto principale poteva difficilmente essere un altro gruppo che non gli ebrei". Come si vede, la storiografia della Shoah e' chiamata a misurarsi con un'insidiosa politica di "alterazione della memoria", attivamente presente su diversi fronti. E' una politica che, passando attraverso un surrettizio uso di criteri analogici e l'annullamento di varie contrapposizioni del passato, puo' arrivare a un inaccettabile azzeramento della storia; e' una politica i cui sostenitori piu' estremi (mi riferisco in particolare ai cosiddetti "negazionisti") non esitano a dichiarare che i crimini contro l'umanita' commessi dal regime nazista non hanno mai avuto luogo, e che a null'altro essi si riducono se non a un fantasioso parto della propaganda fatta circolare subito dopo la guerra dai vincitori del '45, con la complicita' dell'"internazionale giudaica". Ma oggi, a oltre cinquant'anni dagli eventi che sono sfociati nella Shoah, la diffusa impazienza con la quale ci si sforza di mettere in circolazione una cultura con connotazioni, insieme, "postfasciste" e "postcomuniste" reca in se' qualcosa di piu' pericoloso delle stesse argomentazioni confezionate dagli storici "revisionisti". Il rischio maggiore e', a mio avviso, quello della banalizzazione storiografica, ossia della facilita' con cui vasti settori della coscienza europea (e cristiana), per costruirsi una sorta di "rete di protezione" dai fantasmi inquietanti di un passato che si vuole rimuovere, elaborano modelli di interpretazione storica nei quali gli esiti piu' tragici dell'antisemitismo vengono isolati dalla loro lunga preistoria, fatti oggetto di una generalizzata semplificazione e infine relegati entro i confini dell'"episodio" odioso, ma ormai concluso, del nazionalsocialismo. La Shoah, insomma, come mero incidente di percorso. * La brutale e irreparabile scomparsa dall'Europa centro-orientale dei grandi focolari tradizionali dell'ebraismo aschenazita e la successiva fondazione in Palestina di un nuovo e vitale Stato ebraico hanno segnato nel destino degli ebrei una cesura senza precedenti. Le comunita' stanziate nel vecchio continente, che sino alla fine degli anni Trenta erano maggioritarie rispetto alla totalita' degli ebrei nel mondo, dopo la fine della seconda guerra mondiale costituiscono poco piu' che un'esigua rimanenza, con un peso e un rilievo ben scarsi a fronte dei due poli principali della vita ebraica che oggi si trovano in Israele e negli Stati Uniti. Ma anche l'Europa, e in particolare la Germania come centro geopolitico e problema storico dell'Europa, sono uscite irrimediabilmente segnate dalle tragiche vicissitudini del XX secolo. Dopo avere scatenato due guerre mondiali la Germania, lanciata in una folle conquista del potere planetario, riusci' solo nell'impresa di distruggere l'Europa come potenza e cancellare se stessa (per quasi cinquant'anni) come Stato nazionale unitario. Cosi', mentre l'Europa cessava nel 1945, dopo molti secoli, d'essere l'ombelico del mondo, l'eredita' dello spirito europeo veniva raccolta al di la' dell'Atlantico, dove gli Stati Uniti assunsero la custodia dell'identita' occidentale. Abraham B. Yehoshua, uno degli scrittori israeliani piu' noti, ha asserito che "'normalita'' non e' una parola spregevole ma, al contrario, l'ingresso in un'epoca nuova e piena di possibilita', in cui il popolo ebraico potra' (...) associarsi alla formazione dell'umanita' come un membro di pari diritti nella comunita' internazionale. Si dimostrera' il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari (come lo e' ogni popolo) senza preoccuparci continuamente di perdere l'identita'". Ansia di normalita' e bisogno di chiarire sempre meglio a se stessi la propria identita'. Su questo duplice terreno, ritengo che da parte degli ebrei (tanto nella diaspora quanto in Israele) vi sia modo oggi di incontrarsi e di avviare un dialogo proficuo con i cittadini della vecchia Europa: anch'essi alla ricerca di una nuova normalita' e alle prese con una diffusa crisi d'identita'. Comune agli uni e agli altri e' il bisogno di prendere le distanze da una storia densa di sciagure e di liberarsi delle scorie del passato: per puntare non gia' al riconoscimento o al recupero di improbabili innocenze, bensi' a forme responsabili e finalmente decenti di coesistenza, all'interno di un mondo sempre piu' simile a un multicentrico villaggio planetario. Delle scorie del passato, tuttavia, non ci si libera illudendosi di "superarle", giacche' il passato, proprio perche' e' passato, non e' purtroppo superabile. Il modo forse piu' giudizioso per fare davvero i conti con il passato e' quello di accostarsi a esso con studio e con pazienza, e tentare di capire. * Sono convinto che la Shoah rappresenti un fenomeno troppo complesso perche' sia possibile racchiuderlo in un giudizio sintetico. Il genocidio ebraico non e' certo l'unico inferno cui il secolo scorso abbia dato luogo (anche se non mi sembra casuale il fatto che il termine "genocidio" sia stato coniato dal giurista americano Raphael Lemkin nel 1943). Pur senza risalire nel tempo sino all'eccidio degli armeni (1894-1918), rammento che nei Lager nazisti furono sterminati anche gli zingari, i testimoni di Geova, i malati mentali, gli omosessuali. E poi ci furono gli inferni comunisti dei Gulag, ci furono i genocidi nell'Ucraina collettivizzata, ci furono le stragi perpetrate in Cambogia dai khmer rossi di Pol Pot. E poi, in tempi piu' vicini a noi, l'Europa e' stata il teatro delle ignobili "pulizie etniche" inscenate dai popoli balcanici, condannate retoricamente da tutti e ben presto dimenticate dai piu'. Ancora una volta, "pulizie etniche" quali semplici incidenti di percorso. Ancora una volta, come gia' negli anni della Shoah, eventi catastrofici lasciati accadere in un clima di diffusa apatia e insensibilita'. Detto cio', a mio parere il genocidio ebraico, compiutosi nel cuore stesso di quella cultura europea che era stata la culla della modernita', e' e continuera' a essere la matrice fondamentale per la comprensione del nostro tempo storico. Evento rivelatore del contrasto tra il potere spaventoso degli uomini e la loro inettitudine a crescere e maturare sul terreno della civilta', si porra' per sempre quale paradigma e testimonianza della millenaria follia del mondo. Come ha scritto Gershom G. Scholem (1897-1982), "per quanto sublime possa essere l'arte di dimenticare, noi non possiamo praticarla". Queste parole sono un monito a non lasciare che le memorie dello sterminio si inabissino nel rimosso della storia. Ne accolgo la necessita', insieme con l'auspicio e la convinzione che "solo conservando la memoria di un passato che peraltro non potra' mai essere compreso veramente fino in fondo, potremo coltivare la speranza (...) di una riconciliazione tra coloro che sono stati separati". 3. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: SUL FUTURO DELL'EUROPA [Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia' insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per "L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain" di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle" insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne". Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa, scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani, Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani, Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha redatto il progetto e curato la supervisione delle operatrici: titolo: "... ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione, insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir". Su Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia Menapace e Rossana Rossanda] Bernard Lewis, professore emerito dell'Universita' di Princeton, tra i massimi studiosi di storia mediorientale, e' stato intervistato dal quotidiano "La Repubblica" (7 gennaio 2005) sul futuro dell'Europa. Lo studioso ha dipinto un futuro (fra cento anni) a dominanza islamica per il vecchio continente. Secondo lui, se questo trend immigratorio e demografico continuera', la maggioranza sara' presto islamica con prevedibili conseguenze. Puo' darsi che gli immigrati di religione musulmana e i loro figli diventino la maggioranza, ma come si fa a dire che la loro religiosita' e cultura in generale, resteranno intatte, ovvero non assumeranno valenze ibride, mescolanze variegate come quasi sempre succede quando si entra in contatto con altre? Difficile prevedere quale sara' l'evoluzione interiore degli individui, anche perche' si tratta di appartenenti a una religione monoteista, in grado piu' che altre di conferire il sentimento dell'identita' e dell'appartenenza. Comunque sia, ne veniamo interrogati; e certamente non ha torto il professore americano nell'affermare che "il problema della donna" e' forse il piu' spinoso. Sembra, per esempio, che l'immigrazione rilanci l'istituto della poligamia, perche' avere fino a quattro mogli e' segno di una buona riuscita del progetto migratorio. "Poco tempo fa - afferma Lewis - ho letto su un giornale saudita un pezzo in difesa della poligamia; chi scriveva diceva che l'uomo ha un istinto sessuale piu' forte di quello delle donne, e che per di piu' la donna e' indisponibile per lunghi periodi, o per via delle mestruazioni o delle gravidanze. L'Occidente, asseriva l'autore dell'articolo, affronta la questione con l'adulterio e la promiscuita', l'Islam con la poligamia, che e' migliore perche' rispetta la donna". Questa cosa dell'istinto sessuale che sarebbe piu' forte negli uomini, non ci e' del tutto estranea. Fa parte anche del nostro dna culturale cattolico, come e' stato dimostrato nel corso di focus group con giovani studenti italiani per una ricerca sul tema dell'identita' femminile e maschile (AA. VV., Il desiderio e l'identita' maschile e femminile. Un percorso di ricerca, Franco Angeli, Milano 2004). E come risulta anche nella lettera del cardinal Ratzinger sulla donna. * Insomma, le tre religioni "del Libro" si basano sul concetto di una natura immutabile perche' creata da dio. Le differenze tra uomo e donna avrebbero cosi' origine nell'anatomia. Si legge in un sito islamico in lingua italiana: "Iddio ha assegnato alla donna musulmana un ruolo specifico, nell'ambito dell'ordine islamico". Le donne occidentali sarebbero ree di avere abbandonato l'ordine naturale: e anche alcuni Paesi islamici, come il Marocco e la Tunisia, seguirebbero l'Occidente: "In esse si e' fatto strada il concetto che 'maggiore liberta' significa maggiore occidentalizzazione', e di cio' ne fanno le spese proprio le donne, che finiscono per essere strumentalizzate da dittature sanguinarie ma 'liberali perche' laiche' e perdono cosi' la maggior parte dei diritti che Dio ha loro concesso". Mentre l'Iran (sic) viene citato come un Paese che permette alle donne i giusti cambiamenti. Quindi sembra che chi si trova nell'immigrazione non apprezzi i mutamenti legislativi e di costume in atto nei paesi del Magreb. I dettami del Corano prescrivono alle donne come non diventare un oggetto della concupiscenza maschile mediante l'osservanza della "modestia dell'abbigliamento" (velo e altre coperture), il cui compito e' proprio quello di preservarne "l'integrita'". E' evidente il sentimento di stare di piu' dalla parte di dio, cioe' della natura: "L'Islam si adatta perfettamente, e con garbo, alle naturali inclinazioni dell'animo umano, maschile e femminile. (...) L'uomo non ha potere sulla donna, tranne che nello specifico contesto delle relazioni familiari". In un altro sito si scrive esplicitamente che le "sacri leggi del Libro della natura, sulla condizione e sui compiti assegnati alle donne sono validi come pilastri fondamentali di una societa' sana e costruttiva. L'Islam ha imposto obblighi e diritti ad entrambi i sessi, secondo la natura e il fine della creazione dell'umanita'. Secondo la legge coranica, Dio assegna ad ogni uomo ed ogni donna compiti differenziati; l'uomo e la donna nell'Islam sono posti sullo stesso piano, ma non sono confrontabili, in quanto sono stati creati da Dio con finalita' diverse. La donna e' libera di lavorare e di avere una giusta equiparita' nel mondo del lavoro, ma per l'assunzione, a parita' di curriculum, e' da preferire sempre un uomo ad una donna, non perche' l'uomo sia migliore della donna, ma per il semplice motivo che in una famiglia musulmana e' l'uomo che ha l'obbligo di lavorare e portare i soldi a casa, a meno che la situazione famigliare della donna non sia precaria e non sia meglio un lavoro alla donna. La donna non puo' rinnegare i suoi compiti di moglie, madre, tutelatrice dei beni del marito in sua assenza". Quindi, il lavoro della donna inteso come ambizione professionale di una donna non e' consentito nell'Islam. * I siti in lingua italiana, rivolti ai non musulmani per spiegare e affermare la propria identita', o per i musulmani stessi, sono molti e in crescita. Segno di un bisogno chiaro di coesione e affermazione del senso di appartenenza, ma forse anche di difesa (maschile?) rispetto a spinte innovatici (di sottrazione alla tutela maschile paterna o maritale) di cui soprattutto le donne giovani sono portatrici. Forse il problema non e' tanto quello intravisto da Lewis, quanto piuttosto di una sorta di lenta e progressiva saldatura sotterranea tra spinte alla regressione, o mantenimento della tradizione, da parte nostra, e paura della perdita dei privilegi da parte maschile musulmana. Una perdita di prerogative e privilegi che nell'immigrazione generano un surplus di sofferenza perche' fanno risaltare il distacco dalla terra d'origine. Le difficolta' d'inserimento fanno sentire i maschi meno virili e la misura della virilita' sta nella capacita' di imporsi alle donne, in tutti i sensi. D'altronde, appunto, l'idea che ci sia una differenza naturale dei ruoli permane nel nostro tessuto culturale connettivo, in particolare italiano. Basta guardare la tv degli spot dove il ruolo di cura della casa e' ancora svolto esclusivamente dalla donna. Ma si potrebbe anche fare riferimento al mondo psicoterapeutico e psicoanalitico, soprattutto junghiano, per scoprire che l'idea di un femminile modellato sull'utero che contiene, riceve, cura, trattiene, o imprigiona, risucchia, ingoia, e' ancora alla base della teorizzazione e pratica clinica. Mentre il pene indicherebbe la polarita' attiva, penetrativa, forte e dura. Sono le donne, le giovani immigrate dai paesi musulmani, a costituire la forza del cambiamento. Ma allora, a cominciare dalla scuola, dovrebbero trovare stimoli e sostegno. 4. RIFLESSIONE. GIANCARLA CODRIGNANI: SENSO E NONSENSO DEL VINCERE [Ringraziamo Giancarla Codrignani (per contatti: giancodri at libero.it) per averci messo a disposizione questo suo intervento. Giancarla Codrignani, presidente della Loc (Lega degli obiettori di coscienza al servizio militare), gia' parlamentare, saggista, impegnata nei movimenti di liberazione, di solidarieta' e per la pace, e' tra le figure piu' rappresentative della cultura e dell'impegno per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Giancarla Codrignani: L'odissea intorno ai telai, Thema, Bologna 1989; Amerindiana, Terra Nuova, Roma 1992; Ecuba e le altre, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1994] Non sono sicura di trovare consenso se dico che, quando ci si trova in mezzo alle tempeste, importa soprattutto cercare di prevedere gli esiti delle tempeste che non si e' stati capaci di prevenire. Insomma:mettiamoci a ragionare per non cedere alle paure (indotte). Dal secolo scorso, breve o lungo che lo si giudichi, abbiamo ereditato sia la tensione verso ulteriori grandezze dell'ingegno (abbiamo frantumato l'atomo, siamo andati sulla luna, abbiamo forzato la genetica), sia la coscienza del fallimento (due guerre mondiali, la terza copertamente in corso contro i poveri della terra, la priorita' data alle armi rispetto alla salute umana e all'ambiente). Molti e molte di noi accusano il modo capitalistico in cui si organizza il sistema umano, ormai obbligato a contarsi globalmente e ancora diviso solo nelle abitudini tradizionali della mente. Ma molti e molte riconoscono che si tratta di un modo ineludibile: chi non vi si rassegna e' un perdente. Forse e' proprio qui, nei meccanismi che inducono a giudicare che c'e' chi vince e chi perde anche tra chi sta da una parte sola o da nessuna, che si deve indagare per capire come siamo fatti. Non in tutto siamo fatti bene. Tra uomo e donna, anche quando c'e' amore, c'e' chi gioca la parte del vincitore, anche solo per riflesso condizionato e fa la donna "oggetto". Non mi riferisco ai fenomeni piu' eclatanti e, purtroppo, piu' diffusi, dell'uomo che manca di rispetto, che offende o picchia; e tanto meno al Sud del mondo, dove non c'e' uomo cosi' povero che non abbia al suo fianco un essere piu' povero di lui che comunque gli "appartiene". Penso all'uomo fine, intelligente, fedele, che presume di conoscere il bene della sua compagna e decide per lei anche quando e' il tempo di fare l'amore. A noi non e' dato, perche' per secoli non ci e' stato affidato il compito di difendere o di tutelare qualcuno, ma di dedicarci alla cura del difensore. E, infatti, nei secoli e nei luoghi, la difesa e la giustizia sono rette da regole solo apparentemente neutre. Per questo le donne che si emancipano senza partire da se' aspirano a diventare soldate o giudici sotto queste regole. * Alla radice non ci dovrebbe essere la contrapposizione latente di un nostro individualismo onnipotente, bensi' la coscienza profonda che per conoscere il bene dell'altro bisogna essere in grado di conoscere in qualche modo se stessi. Mi danno molto da pensare i moniti non certo femministi che stavano incisi sul frontone del tempio di Apollo: "conosci te stesso" e "attenzione al limite". Disattesi e distorti nel tempo antico, come oggi. Anche noi donne, per essere andate a scuola, diamo loro un significato mediato attraverso una filosofia della razionalita' che ignora la difficile, complessa interezza non dell'essere piu' o meno in se', ma dell'essere persone singole e singolari nelle infinite differenze che connotano i loro luoghi e modi di esistere. Se si parte da un se' integro e - almeno vagamente - conosciuto, si potrebbe essere piu' attenti/attente nel considerare gli altri, che, proprio per essere diversi, possiamo aiutare, ma non espropriare dalla responsabilita' di conoscere il loro bene. La relazione, allora, sarebbe non per vincere, ma per con-vivere in senso umano. Un senso umano che impedirebbe di realizzare scelte comuni sulla base di principi di autorita' e competenza (la mamma sceglie il frigorifero e il babbo l'automobile), o di comando (a casa di tizio "comanda la Francia") o di presunto amore (lo-faccio-per-lui/per-lei). Vincere o perdere servono a poco anche fuori dalle relazioni familiari. La democrazia non ha ancora esplorato tutta la sua forza/debolezza di essere un sistema "di concertazione" e non "d'imperio", di diritti da definire e rispettare nell'equita' e non nella potenza di armi, ricatti, vendette. La storia studiata e' tutta una sequela di vittorie/sconfitte che, prive dell'analisi di merito, sembrano poco sensate perche' anche scambiando i termini non si sarebbe mutato di molto la sostanza del mondo. Vi si puo', tuttavia, leggere un percorso ben preciso: siamo andati avanti lottando per difendere non solo il nostro essere, ma il nostro avere, e per acquistare anche l'avere degli altri. Un sistema fondato sulla dialettica interessata di difesa e guerra, che ha creato vincitori e vinti per definizione piu' che per virtu'. Oggi quel sistema e' arrivato al capolinea: per non parlare dell'imprevedibilita' del terrorismo, abbiamo a disposizione arsenali nucleari, chimici, batteriologici e perfino virtuali, addirittura a buon mercato e capaci di annullare ogni rapporto di potenza. Eppure tutti/tutte stiamo a guardare l'indice che ci indica il pericolo di diventare "perdenti" e non vediamo che il problema e' chiedersi che senso ha, perfino nelle gare sportive e nelle lotterie, vincere. C'e' stato un tempo in cui amiche femministe di Milano si erano proposte "la voglia di vincere". Io allora vedevo altre amiche, che, per essere parlamentari e avere una "dignita'" superiore a quella del loro uomo e per non essere piu' disponibili in casa a tempo pieno, hanno perduto l'unita' familiare. Probabilmente se la politica accettasse la voce - quella autentica e non condizionata - delle donne, si capirebbe di piu' che cosa costa pensare in termine di "chi vince" e " chi perde". E si farebbe meno fatica a pensare al futuro in termini di vita comune nella difficile difesa della liberta' di tutti e non solo di utopie scollate dal realismo delle azioni di guerra. Cioe' di sconfitte. 5. RIFLESSIONE. LIDIA RAVERA: SIAMO DONNE O CAPORALI? [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "L'Unita'" del 24 dicembre 2004. Lidia Ravera e' nata a Torino e vive a Roma; scrittrice, giornalista, sceneggiatrice per il cinema e la televisione; tiene abitualmente corsi e laboratori di scrittura. Il linguaggio di questo articolo e' particolarmente crudo e mimetico [riproducendolo qui una parola irriferibile abbiamo sostituiito con altra meno turpe], chi legge sapra' cogliere quanto vi e' di eccesso, di riuso di forme della cultura di massa e di gesto letterario espressionistico, e sapra' non perdere di vista il fondo amaro e dolente e ortativo della riflessione entro quegli stilemi immerso, ad un tempo nascosto per pudore, e per contrasto rilevato] Rischia tre anni di carcere, la caporala R. per aver preso a calci un soldato gia' sottoposto a sevizia ginnica senza giusta causa, posto che una causa giusta esista, per punire fisicamente qualcuno, intendo dall'eta' della pietra in avanti e nella civilissima Europa. Nonnismo, hanno detto, e, subito dopo, "toh, guarda, bizzarro: anche il nonnismo ha il suo femminile, e non si tratta di ferri da calza e nipotini, bensi', come nel simpatico box maschile, di sopraffazione e violenza". Immagino schiere di fotografi pronti a immortalare l'energica ventiquattrenne con il compiacimento che si riservo' alla prima donna pilota, la prima cardiochirurgo, la prima primo ministro e che si riservera' alla prima donna prete, se mai ci sara'. Toh, guarda, la prima donna-deiezione. Non e' rassicurante, consolante, moderno e postmoderno? No, e' soltanto triste. * Nessuno, fra quanti - donne e uomini - hanno letto la cara vecchia Elena Gianini Belotti nel suo famoso Dalla parte delle bambine crede che la femminilita' (in quanto dolcezza, istinto di cura, anagressivita', voglia di relazione) sia una qualita' naturale. Sappiamo tutte che, se siamo cresciute piu' riflessive, e' perche' ci limitavano lo sfogo fisico. Se siamo invecchiate piu' belle e' perche' ci hanno devastate col mito della bellezza. Sappiamo bene che nulla e' naturale o molto poco, giusto la predisposione del corpo a ospitare e formare esseri umani, la iattura mestruale, e il non poter vedere il nostro organo sessuale, non poterci giocare, non dipendere dalle sue erezioni e defezioni. Tutto il resto e' cultura. E' cultura "belline e dolci". E' cultura "a mia mamma con l'alzheimer ci pensa mia sorella perche' sai... lei e' una donna". E' cultura "l'ha lasciata perche' sai... lui ha solo 50 anni, lei ne ha gia' 40!". E' cultura lo stereotipo dell'infermierina senza ambizioni innamorata del bullo che cammina sui cadaveri, perche' al testosterone non si comanda... La natura ci vorrebbe tutti persone, ma cio' che e' naturale fa paura, in genere si preferisce pompare modelli culturali che la ingabbino, la natura, la rendano funzionale al sistema di valori dominanti, alla filosofia di vita che si spaccia, al momento, per vincente. * E' per questo che la storia della caporalmaggiore R. mette i brividi, perche' parla di un modello culturale, non solo di una singola cretinetta senz'anima come ce ne sono tante, da Siena a Guantanamo ad Abu Ghraib. Il modello culturale, per le ragazze di oggi, sembra essere un'alternativa del diavolo: o velina o bulletto. Entrambe le soluzioni appaiono al servizio del maschio "d'antan", quello che avevamo messo fuori dalla legge dell'amore decente gia' trent'anni fa. Possibile che, in pieno duemila, o fai l'oggetto di desiderio o sei soggetto, ma ad imitazione? Forse non te ne accorgi, ma imiti l'ometto anni cinquanta andando a mettere i dieci euro nel perizoma del ragazzetto che si spoglia per te, lo imiti mettendo la carriera avanti a tutto e finendo di decidere di diventare madre quando ti e' venuto a noia sbatterti, ma a quel punto resti fregata perche' il tuo corpo porta una scadenza (in questo l'ometto e' inimitabile). Imiti l'ometto quando fremi al semaforo perche' devi conquistare mezzo millimetro (per andare dove? Fregando chi?) e gridi e ti agiti perche' tu si' che sai guidare. Imiti l'ometto quando fai la dura col soldato tanto tu sei sopra e lui e' sotto. E poi, chissa' perche', quando si imita l'altro genere e' sempre emulazione del peggiore. Alla maggior parte degli uomini, infatti, ripugnerebbe profondamente prendere a calci un ragazzo che sta facendo un centinaio di flessioni. Anche fargliele fare (e certamente farle). Ricordate il bellissimo e durissimo Full metal jacket? Era una denuncia spietata contro l'inutile violenza militare, quella che ha per obiettivo negare la dignita' umana e sfornare fantocci. L'autore era un uomo, mister Stanley Kubrick, uno dei quelli che ci piacerebbe imitare. Ma certo non e' facile, darsi modelli alti. Piu' facile abbaiare come Jo il Mastino o pizzicare glutei come Bob il Bagnino. * Con la caporalmaggiore R., siamo alla rivincita della barbarie. Il presente ritorna al passato e il futuro e' una caserma piena di donne che sembrano uomini scemi. Si continuera' a marciare indietro? E fino a dove? Dove si casca fuori dalla storia? Quando? E che rumore fa? Le piu' ingenue fra noi dimostrarono, me lo ricordo bene, una certa soddisfazione quando si aprirono, per le donne, le porte delle caserme e delle questure. Sono le stesse che ambirebbero a vescove e cardinaline e magari, perche' no, una Papessa... sono quelle che sognano l'annullamento della differenza, che aspirano all'omologazione totale fra generi fino al conseguimento di una assoluta pace sessuale e, per conseguenza, di una noia mortale. Io, lo confesso, tengo invece parecchio alla differenza fra donne e uomini, quel poco che ne resta, dovessi anche attingere al mito delle origini, quando ci chiamavano addirittura "gentilsesso"... Mi piace pensare che una sottufficiale femmina accorra, soccorrevole, a sollevare da terra il soldato pestato, e denunci, con poche fiere parole, l'eventuale violenza commessa da qualche energumeno borioso e villoso come da copione. Se "Siamo donne o caporali?" e' la domanda sottesa al triste episodio della signorina R., mi piacerebbe poter rispondere con un chiaro e forte: donne, naturalmente. Almeno finche' quelle di noi che si comportano male, faranno notizia, invece di essere - come i nonnisti maschi - routine. 6. MEMORIA. FRANCA D'AGOSTINI RICORDA EUGENIO GARIN [Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 dicembre 2004 riprendiamo questo articolo. Franca D'Agostini e' autrice di fondamentali ricognizioni sulla riflessione filosofica contemporanea europea ed americana, ed ha particolarmente tematizzato la differenza di approccio tra "continentali" (area europea) ed "analitici" (area angloamericana). Eugenio Garin e' stato un immenso maestro per molti di noi, anche chi scrive queste brevi notizie introduttive e' cresciuto sui suoi libri] Con Eugenio Garin, morto nella sua casa di Firenze mercoledi' scorso all'eta' di novantacinque anni, scompare uno degli esponenti piu' autorevoli di un modo di concepire e praticare la filosofia che puo' dirsi tipicamente italiano: non soltanto perche' Garin e' stato un insigne storico dell'Italia filosofica, in particolare del Rinascimento e del neoidealismo, ma anche e soprattutto perche' nella sua ricerca si esprimeva uno stile di lavoro che al di fuori del nostro paese non ha avuto grande seguito e fortuna. Alla base di questo stile e' l'idea del "fare teoria con la storia": un programma che si tende per lo piu' a riportare all'hegelismo, ma che percorre tutta la nostra tradizione da Machiavelli a Vico, da Croce a Gentile, da Labriola a Gramsci, fino ad Abbagnano. Gli italiani, si dice, eccellono nella cosiddetta "ricostruzione storico-critica": sono maestri nell'affrontare i fatti storici con l'occhio di una prospettiva progettuale, che scopre il fascino e il risalto della storia rilevandone l'aggancio con il presente e con il futuro. Oggi questa combinazione di teoria e storiografia non gode di molta fortuna. Con il diffondersi dell'antistoricismo strutturalista e poi di quello analitico le tendenze in direzione anti-storica sono diventate agguerrite e attive anche in Italia, e a volte vengono difese con ottime ragioni. Spesso si dimentica pero' che l'idea di usare la storia per la teoria o per la vita, o anche piu' specificamente per la politica, come riteneva Garin seguendo Gramsci, puo' avere molte accentuazioni diverse, alcune delle quali sono molto meno discutibili di altre. In particolare la scuola di Garin ha portato innovazioni decisive nella tradizione dello storicismo o del quasi-storicismo italiano. * Anzitutto, alcune delle sue tesi sono diventate punti di non ritorno nella storiografia filosofica. Con Il Rinascimento italiano (1941), Medioevo e Rinascimento (1954) e gli scritti su Pico della Mirandola, Garin si distanziava dalla visione semplicistica del Rinascimento come un rilancio del paganesimo, contrapposto alla religiosita' medievale. Con L'umanesimo italiano (1952), ridefiniva l'Umanesimo non come una semplice tendenza filologico-letteraria (come veniva presentato da Kristeller), ma come un vero movimento filosofico, dotato di sue direttive metodologiche, tendenti a sostituire alla fondazione logica della filosofia una fondazione storico-filologica, politica e morale: da cui la continuita' con l'idealismo, il marxismo e in generale le correnti del Novecento italiano, basate su una filosofia della prassi. Allievo di Gentile e ammiratore di Croce, Garin si sottraeva alla visione dei due massimi neoidealisti come portatori di tendenze divergenti e incompatibili. Nelle sue Cronache di filosofia italiana (1955), in La cultura italiana tra Ottocento e Novecento (1962), nella Storia della filosofia italiana, in Intellettuali del XX secolo (1974), e non ultimo nella sua Intervista sugli intellettuali a cura di Mario Ajello (1997), presentava una visione chiara e penetrante dell'evolvere della cultura italiana nell'eta' contemporanea. Al centro di questa visione e' la celebre diagnosi per cui i mali del paese devono ricondursi alla "mancata modernizzazione laica" dell'Italia. Una malattia la cui cura e' gia' segnata nella nostra storia, con l'idea di "riformare il presente" rileggendo e ripensando i mali del passato. Spiace che queste cure cosi' limpidamente teorizzate siano tanto poco usate, e che in Italia si tenda a ripercorrere ossessivamente le stesse vie. Nel fondamentale scritto su La filosofia come sapere storico, del 1959, ripubblicato nel 1990 con uno schizzo autobiografico (Laterza), Garin teorizzava cio' che si e' sempre espresso nel suo lavoro: l'idea di una erudizione senza impoverimento del pensiero, di una filologia pronta sistematicamente alle nozze con la filosofia: e' di qui che emerge quel che credo sia ancora oggi il maggior interesse della impostazione di Garin. * Proprio l'attenzione alla concretezza della storia portava Garin a due conclusioni metodologiche importanti. La prima e' la visione storica come antidoto contro le universalizzazioni semplificanti. Nel suo contributo alla discussione su filosofia e storiografia filosofica, Garin partiva dal presupposto che ogni riferimento "alla Filosofia", ossia "a una filosofia intesa come unico termine di riferimento" e' una sorta di pugnalata al cuore della verita' storica. Se ci si adatta a questa visione, lo storico ha finito il suo lavoro. Ma "non esiste la Filosofia, scriveva, esistono uomini che hanno cercato di rendersi criticamente conto in modo unitario della loro esperienza e del loro tempo"; questi uomini hanno stabilito rapporti, hanno letto libri, si sono incontrati, hanno conosciuto convergenze e conflitti, hanno escogitato soluzioni e usato soluzioni altrui. Tutto questo significa che lo storico, specie lo storico della filosofia con interessi anche teorici, cioe' rivolti alla soluzione dei problemi del presente, e' un individuo sensibile tanto all'unita' quanto all'alterita', ed e' costantemente attento a rilevare l'unita' senza cadere in semplificazioni banalizzanti. Proprio l'antipatia nei confronti di un teorizzare che viola la verita' storica a vantaggio di semplicistiche simmetrie portava Garin alla seconda acquisizione metodologica, che credo abbia molto da insegnare ai dibattiti del presente filosofico. L'attenzione storica, anche e soprattutto come cura filologica, dovrebbe mettere al riparo da un tipico errore del pensiero critico: l'uso delle cosiddette "false dicotomie". Garin non apprezzava l'uso di etichette contrastive, oppositive (di marca storicista o anti-storicista). Per questo sfumo' la visione del Rinascimento come contrapposto al Medioevo, di Croce opposto a Gentile. L'uso piu' nobile di una vera storiografia filosofica e' l'insegnarci a non pensare oppositivamente, in modo parassitario rispetto a fantasmatici nemici. Quegli storici o quasi tali che oggi vedono Kant contrapposto a Hegel, e Kant e Hegel contrapposti a Hume, oppure l'ermeneutica contrapposta alla filosofia analitica, o riescono a pensare solo in termini di realismo e antirealismo, razionalismo contro empirismo e cosi' via, avrebbero dovuto andare a lezione da Garin. Il migliore risultato di chi non si inventa false contrapposizioni e' precisamente riuscire a vedere le contrapposizioni reali, i cui danni sono ogni giorno sotto i nostri occhi, e di cui la storia deve impegnarsi a dare conto. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 806 dell'11 gennaio 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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