La nonviolenza e' in cammino. 788



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 788 del 24 dicembre 2004

Sommario di questo numero:
1. Jan Oberg: Perche' Bush ha vinto? Paurologia e mancanza di alternative
2. Lea Melandri: Quando l'inconscio e' reazionario
3. Peppe Sini: Alcune note a proposito di "Pagine di storia della Polizia
italiana" di Pasquale Marchetto e Antonio Mazzei
4. Arundhati Roy: Le organizzazioni umanitarie e i pericoli della dipendenza
5. Luca Kocci: Introduzione a "Guerra e mondo. Annuario geopolitico della
pace 2004"
6. Edith Stein: L'estate e la pace
7. Simone Weil: La porta chiusa
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. JAN OBERG. PERCHE' BUSH HA VINTO? PAUROLOGIA E MANCANZA DI
ALTERNATIVE
[Ringraziamo Renato Solmi (per contatti: rsolmi at tin.it) per averci messo a
disposizione la sua traduzione di questo testo di Jan Oberg estratto dal
notiziario della Transnational Foundation for Peace and Future Research (in
sigla: TFF; sito: www.transnational.org) che ne detiene i diritti di copia.
Renato Solmi e' stato tra i pilastri della casa editrice Einaudi, ha
introdotto in Italia opere fondamentali della scuola di Francoforte e del
pensiero critico contemporaneo, e' uno dei maestri autentici e profondi di
generazioni di persone impegnate per la democrazia e la dignita' umana, che
attraverso i suoi scritti e le sue traduzioni hanno costruito tanta parte
della propria strumentazione intellettuale. Jan Oberg (per contatti:
oberg at transnational.org), danese, nato nel 1951, illustre cattedratico
universitario, e' uno dei piu' importanti peace-researcher a livello
internazionale e una figura di riflerimento della nonviolenza in cammino.
Tra le sue molte opere: Myth About Our Security, To Develop Security and
Secure Development, Winning Peace, e il recente Predictable Fiasco. The
Conflict with Iraq and Denmark as an Occupying Power. Al di la' del
linguaggio in alcuni punti forse eccessivamente brillante l'analisi qui
condotta ci sembra assai utile ed adeguata a promuovere una riflessione che
molte persone amiche della nonviolenza avvertono da tempo come necessaria e
urgente]

Ci sono buone ragioni per cui Bush ha vinto.
Circa due terzi dell'America - circa il 60% dell'elettorato abilitato al
voto  - ha votato, e circa la meta' di loro ha votato per Bush. E ora il
resto di noi deve vivere con gli effetti globali accumulati dei primi
quattro anni e per altri quattro lunghi anni della stessa roba, e
probabilmente ancora peggiore.
Poiche' nel mondo di George Bush il mandato divino proveniente dall'alto e'
stato ora confermato dal mandato del popolo americano proveniente dal basso.
Cosi' c'e' una specie di trinita' composta da Dio, da Bush e dai credenti
americani. Disgraziatamente nessuna delle sue politiche, tranne quelle messe
in opera per la sua rielezione, ha mostrato di funzionare, ma cio' non
sembra preoccupare affatto ne' Bush ne' i suoi seguaci. Possiamo almeno
sperare che Dio provi una qualche specie di senso di colpa per
l'associazione che gli viene attribuita?
*
Paurologite acuta
La ragione principale per cui Bush ha vinto e' la paurologia, la costruzione
della politica sulla manipolazione della paura e il bisogno di protezione
nel proprio interesse.
Dal punto di vista della psicologia di massa George W. Bush aveva il
programma piu' attraente: "Sono il solo che vi possa assicurare protezione
contro i mali del mondo esterno". Da quando, in seguito ai fatti dell'11
settembre, Bush ha dato inizio alla mal diretta e gia' fallita "guerra
contro il terrore", il profondo serbatoio della sua riuscita e' la sindrome
della "paurologia" condita con miti escatologici e con l'idea  della propria
elezione. Bush era il presidente eletto da Dio, l'America era il paese
eletto da Dio, e i repubblicani erano il partito eletto da Dio. Ed eccoci di
fronte a un'altra trinita'.
Chiunque cerchi di spiegare l'amministrazione Bush con le normali teorie che
si possono leggere sui manuali di scienza politica si lascera' sfuggire gran
parte di cio' di cui questa paurologia si alimenta e della direzione in cui,
di conseguenza, noi ci stiamo muovendo.
La paurologia ha funzionato: prima c'e' stato un attacco manifesto diretto
contro gli Stati Uniti che ha provveduto a Bush (che ne aveva
presumibilmente un grande bisogno) un destino personale manifesto:
combattere l'"Asse del Male", sradicare il male dappertutto, creare il
paradiso sulla terra, e diventare cosi' il Protettore del suo popolo. A
dispetto di tutti i fiaschi evidenti (vedi il pezzo di Craig Aaron
pubblicato su TFF) la maggioranza (anche se molto esigua) dei cittadini
americani hanno mostrato ora di credere in lui e di aspettare di essere
protetti da lui; ora c'e' un contratto (fra Bush e il suo popolo) che non
esisteva nel 2000. Nessun nuovo disastro paragonabile all'11 settembre ha
avuto luogo da allora negli Stati Uniti, per cui il protettore ha un punto a
suo vantaggio, che esso si possa ascrivere o meno a merito della sua
amministrazione e delle sue politiche.
Il resto e' molto semplice, ma ha bisogno di una visione audace e di
strategie e tattiche intelligenti per essere eseguito e portato avanti:
dovete dire al vostro popolo che esso versa in un pericolo mortale, e se in
effetti cio' non corrisponde alla realta', potete creare quel pericolo o
un'immagine attenuata di esso. La cortina di fumo non funzionerebbe senza il
fuoco, il fuoco che era rappresentato dall'11 settembre. Poi scegliete di
fare i conti con quell'attacco in modo che esso generi scetticismo nella
maggior parte degli amici, odio fra i nemici, una produzione di massa di
terroristi e un senso di legittimita' decrescente agli occhi degli altri.
Questa e' una politica "paurologica" molto efficace, dal momento che
accresce, ad un tempo, il sentimento di paura degli elettori e quello di
essere soli e incompresi dagli altri. Il video cosi' vistosamente tempestivo
di Osama Bin Laden a sostegno del presidente Bush e' stato il prodotto
cerebrale del manipolatore piu' dotato, di chiunque si sia trattato. Posto
che sia stato lo stesso Bin Laden, egli puo' aspettarsi di vivere in futuro
anche dopo questo episodio. "Se mi lasciate sopravvivere, vi aiutero' a mia
volta a sopravvivere...".
La protezione non e' del genere difensivo, curativo o preventivo. E' tutta
esteriore ed aggressiva. Non c'e' metro quadrato in nessun luogo della terra
dove ci si possa rilassare o sentirsi al sicuro. Il mondo e' pericoloso, i
terroristi sono in agguato dietro ogni angolo di strada. E se questo non
basta, noi procediamo nel nostro programma di difesa contro i missili
balistici per difendere l'America se qualcuno dovesse, in qualsiasi modo,
penetrare nel nostro spazio interno. Il BMD (programma di difesa contro i
missili balistici) mira ad accrescere la capacita' di combattere una guerra
nucleare; e, cosi' facendo, alimenta la (folle) percezione che si possa
sopravvivere a o trarre vantaggi da una guerra nucleare; ma questo sospetto
non si e' affacciato alla mente degli americani, e, sia detto fra parentesi,
neppure a quella di molti europei. L'ignoranza intorno alle questioni
complesse e a volte addirittura filosofiche della sicurezza e' ampiamente
diffusa.
La paurologia ha la sua propria logica; dovete provocare la gente
continuamente e dappertutto per accrescere questa minaccia autocostruita. Il
vostro potere sparirebbe se nessuno avesse paura o non pensasse di aver
bisogno della vostra protezione. Se mutaste dalle fondamenta la politica
estera degli Stati Uniti e faceste in modo che la gente vi amasse e vi
ammirasse dappertutto, perdereste subito il vostro posto in ufficio!
Perche'? Perche' non avete nulla di originale e di costruttivo da offrire al
vostro prossimo, ma solo la protezione dai cattivoni.
*
Tana (Non ci sono alternative!)
Questa e' la seconda ragione: la totale mancanza di programmi alternativi,
coerenti e costruttivi, alla politica estera di George W. Bush. Non dovrebbe
essere cosi' difficile da vedere che gli Stati Uniti sono molto vicini ad
essere un sistema monopartitico con due frazioni distinte, e che le
politiche di John Kerry sulle questioni del terrorismo e del pantano
iracheno - e anche su tutto il resto - si potevano distinguere
difficilmente, nella sostanza, da quelle di Bush.
La differenza principale potrebbe consistere nella personalita'. Kerry ha
sperimentato l'insensatezza, la crudelta' e l'assurdita' della guerra
(represse, tuttavia, come si puo' pensare, ai fini della carriera), e sembra
avere relazioni meno problematiche col passato, con Dio e con svariati
fondamentalismi. Egli e' probabilmente anche meno autistico, dal punto di
vista politico, di quanto non lo sia Bush. Comunque stiano le cose, a questo
punto, egli si presenta solo come una varieta' piu' "intellettuale" di
imperialista e di militarista, con una visione un po' meno unilaterale e
(auto)isolazionista della funzione del suo paese nel mondo. Comunque, se
fosse diventato presidente, Kerry avrebbe potuto assumere Richard Holbrooke
come segretario di stato e Wesley Clarke come segretario alla difesa; col
loro trattamento disastroso dei problemi della Jugoslavia e del Kossovo di
cinque anni fa, sotto la presidenza Clinton, sarebbe ingenuo pensare che il
militarismo e l'imperialismo siano soltanto una malattia repubblicana (e
cioe' del GOP). Entrambi i partiti scelgono l'opzione antagonistica
dell'Impero piuttosto che quella della cooperazione democratica. In una
prospettiva appena un po' piu' lunga, cio' potrebbe segnare la fine
dell'impero americano. Ma chi si preoccupa delle prospettive a lunga
scadenza (diciamo 15 o 20 anni) nella politica odierna?
Per dirla schietta, e in modo un po' brutale, gli americani hanno potuto
votare, ma non avevano effettivamente una scelta. Questa distinzione e'
vitale in un'epoca caratterizzata da un autoritarismo crescente. La
democrazia dipende da una possibilita' di scelta, e non solo dal fatto che
si voti. Inoltre, non si puo' fare a meno di contestare ogni concetto di
democrazia di cui si faccia uso a proposito di un sistema che preclude a
chiunque non possieda centinaia di milioni di dollari la possibilita' di
diventare il leader di tutto il paese.
La societa' civile - gli amanti della pace, della giustizia, dell'equilibrio
ecologico, della liberta' - possono ora decidere di continuare a limitarsi a
parlare negativamente di George W. Bush, e a promuovere gli slogan -
tradizionali al limite della noia - con cui si dichiara di essere contro la
guerra e contro l'imperialismo, e ad essere critici e contrari nei confronti
di ogni nuova piece di politica interna o di intervento militare del governo
Bush in altri paesi. Dobbiamo farlo, ovviamente, ma non sara' abbastanza. Se
queste elezioni dimostrano qualcosa, e' che una strategia che si basi sulla
sola critica e' troppo facile e non rappresenta una sfida reale al sistema.
L'incapacita' di fermare un presidente le cui politiche hanno creato un caos
cosi' estremo e prevedibile come quelli causati in Afghanistan e nell'Iraq
solleva, infatti, la questione: in che cosa abbiamo sbagliato? Ora George
Bush e' stato rieletto dopo avere tuffato non solo l'America, ma il mondo in
una serie di guerre sbagliate e senza avere ottenuto assolutamente nulla
fuorche' la distruzione fisica e culturale di un paese e la morte di 100.000
iracheni - in aggiunta al genocidio causato dalle sanzioni e appoggiato
dall'amministrazione Clinton anche dopo che l'Iraq era stato disarmato, e
che ha ucciso fra 500.000 e un milione di iracheni innocenti e l'intera
borghesia del paese.
Ma "noi" ci siamo liberati di Saddam! Benone, ma si tratta di un argomento
sbagliato. Dal momento che non sono stati mai saggiati altri mezzi che non
fossero la guerra, come si puo' dire che la guerra fosse il solo modo di
rovesciarlo? E fino a quale prezzo ci possiamo spingere, da un punto di
vista morale, nella pretesa di farlo pagare ad altri in cambio della nostra
democratizzazione, della nostra liberta' - e delle forniture di petrolio e
dei profitti che ne ricaviamo?
*
Essere contro non basta. La necessita' di programmi costruttivi
Ma e' proprio qui che si nasconde il problema  (o, come si dice, il
busillis) della resistenza globale, che e' "contro" e "anti", ma ha ben poco
di cio' su cui Gandhi insisteva continuamente, e cioe' della presenza di
programmi costruttivi.
I milioni di marciatori - come i governi di Germania e di Francia - nei
primi mesi dell'anno scorso avevano ben poco da dire che potesse suonare
come una risposta alla domanda perfettamente legittima: se non la guerra
all'Iraq, allora che cosa? Se non soffiare il petrolio a qualcun altro,
allora che cosa? Se non usare una violenza massiccia su scala globale contro
il terrore, allora come fare per combatterlo? Se Saddam e' il prodotto del
commercio mondiale delle armi, allora come fare per bloccarlo? Di quale
specie di educazione e di media abbiamo bisogno per fare si' che la gente
sia interessata alla pace invece che ai suoi computer,
all'entertainment, alla Coca Cola - e, per finire, alla violenza? Se la
guerra e' "il solo progetto disponibile sulla piazza", e' certo che ci sara'
la guerra; nella maggior parte delle situazioni difficili restare con le
mani in mano non rappresenta un'alternativa.
D'accordo, e' piu' facile combattere un nemico comune stando insieme, e
George W. Bush, la politica estera americana e tutto cio' che essa persegue,
sono un nemico agli occhi di milioni. Ma questi milioni non sono stati
capaci, per quanto legittima fosse la lotta, di sviluppare nulla di simile
ad una visione alternativa del modo in cui le cose si potrebbero fare
diversamente. Si potrebbero fare? Si', con la nonviolenza, con l'"ahimsa" e
il "satyagraha" gandhiani, attraverso tutto l'arsenale della pace con mezzi
pacifici che e' esposto nella Carta delle Nazioni Unite. Tutta l'energia si
e' rivolta ai modi in cui "combattere Bush" piuttosto che al modo in cui
sviluppare un nuovo paradigma e nuove strategie d'azione. Cosi' Bush ha
avuto la possibilita' di porre l'agenda a cui i piu' si sono limitati a
reagire.
Ma la democrazia consiste nel fatto che siano i cittadini a porre l'agenda,
"pro-attivamente", se cosi' si puo' dire, a cui i loro rappresentanti eletti
dovrebbero poi re-agire. Essa ha a che fare con una visione della buona
societa', e non e' una "paurologia" praticata all'incontrario: immagini
distopiche della guerra, annientamenti nucleari, odio e disprezzo per i
leader. La pace e' quindi molto di piu' che darsi da fare contro la guerra e
contro altri generi di violenza.
La pace ha a che fare con programmi alternativi costruiti sui valori
dell'amore e della cooperazione con tutto il resto del mondo. Abbiamo
bisogno di trarre ispirazione dalla storia della nonviolenza, e diciamo, per
esempio, da un libro come The Unconquerable World di Jonathan Schell.
Dobbiamo coerentemente dire di si' alla nonviolenza, e non serbare il
silenzio, per esempio, sulla violenza totalmente inaccettabile che e'
praticata da quella parte della resistenza irachena che si dedica al
sequestro di operatori di pace e di militanti umanitari.
La rielezione di Bush ci dice che dobbiamo cercare di usare in modo piu'
costruttivo i prossimi quattro anni. Ci saranno paure, collera e
frustrazioni enormi. Dobbiamo riuscire in qualche modo a superarle. La
paurologia e il suo partner diabolico, la disperazione, non sono che
strumenti nelle mani di dirigenti autoritari. La sfida e la resistenza, il
coraggio civile e la capacita' di ricupero, possono contribuire a far
crescere programmi di carattere costruttivo, e una serie di visioni positive
possono uccidere sia le paure da cui siamo afflitti che la disperazione che
ci attanaglia.
Che percio', forse, la rielezione del presidente Bush possa rappresentare
un'opportunita' importante, un'occasione da non perdere, per noi tutti?
Torneremo su questo argomento.

2. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: QUANDO L'INCONSCIO E' REAZIONARIO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo articolo apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 12 nov
embre 2004. Lea Melandri, nata nel 1941, fine saggista, redattrice della
rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e'
impegnata nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne.
Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L'infamia originaria,
L'erba voglio, Milano 1977, poi Manifestolibri, Roma 1997. Cfr. anche Come
nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988; Lo strabismo della memoria, La
Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli
1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996]

Quando scoppio' in America lo scandalo Clinton-Lewinsky, molti intellettuali
si chiesero come era possibile che una squallida storia privata di sesso
potesse diventare piu' importante della guerra che sconvolgeva in quel
momento i Balcani. Oggi, di fronte all'esito delle elezioni americane, lo
stupore e' analogo, anche se sono cambiati i termini della contrapposizione.
"Bush - ha scritto Rossana Rossanda (sul "Manifesto" del 5 novembre 2004) -
sta scombinando il nostro lessico e i nostri riferimenti": diventano "valori
forti e caldi" sentimenti, emozioni, fobie sessuali che avrebbero dovuto
restare dentro i confini del vissuto personale, mentre si eclissano,
facendosi "deboli e freddi", quegli "interessi materiali" che una ragione
illuminata ha considerato la struttura portante della vita pubblica (lavoro,
stato sociale, emarginazione, limitazione delle liberta', ecc.).
Un elenco di dualismi cosi' dettagliato - caldo/freddo,
materiale/immateriale, cuore/ragione, maschile/femminile, ecc. - non si
vedeva nella cultura occidentale da quando Pitagora detto' la sua famosa
"tavola" degli opposti, con la differenza che la gerarchia non e' piu' la
stessa: la viscere, il cuore, la vampa emotiva, la fragilita', l'egoismo, la
vincono oggi sull'ordine che ha istituito la polis e che ha dato poi forma
alle moderne democrazie. L'effetto di capovolgimento e' eclatante: la
provincia, la campagna, le piccole citta' trionfano sulle metropoli, le
comunita' religiose mobilitano piu' della sinistra laica, la fede fa
prendere piu' voti che il ragionamento, la paura premia le scelte politiche
che sono destinate ad accrescerla, l'aborto e i matrimoni gay spaventano
piu' della disoccupazione e del terrorismo. Osama Bin Laden, nel suo appello
alla responsabilita' dei cittadini americani, non sapeva (o forse
malignamente sapeva) che da quel "cuore" profondo dell'America si sarebbe
risvegliata una potenza a lui opposta, ma speculare: il fondamentalismo
cristiano, quel "cielo e inferno dei valori morali", per usare
un'espressione di Massimo Cacciari, a cui la sinistra ha guardato sempre con
diffidenza, tenendoli separati dalla politica.
*
La vittoria di Bush si configura in modo evidente come un terremoto la cui
faglia si e' aperta l'11 settembre 2001: l'irruzione dell'altro da se', del
lontano, del nemico sul suolo proprio. Ma quella che appare come una
regressione, un ritorno al Medioevo, a una virilita' rozza "da Frontiera",
forse ha bisogno di una lettura meno semplificatoria, fuori da facili e
tradizionali contrapposizioni.
E' vero che i cosiddetti "valori morali" sono in realta' dei "non valori",
dei "valori pessimi" e, quanto meno, contraddittori: la difesa della vita
contro l'aborto e la pena di morte, il via libera alle leggi di mercato e la
chiamata all'altruismo cristiano, il richiamo al bisogno di sicurezza e
l'uso spregiudicato di una forza militare che non ha confronto. Ma e' anche
vero che le spinte da cui questi "valori" muovono e di cui appaiono come una
risposta deformata, sono dati reali di quella vita psichica che la
razionalita' illuministica e l'economicismo di gran parte della sinistra
hanno cancellato dalla loro visione del mondo, consegnandoli di fatto alla
religione o all'interiorita'.
Penso, per nominarne solo alcune, alla paura del diverso, sentito, per un
riflesso arcaico come nemico, e, in particolare, a quel primo diverso che e'
il corpo femminile da cui l'uomo e' generato, visto come potenza capace di
dare la vita e la morte; penso all'omofobia, struttura portante di una
societa' di soli uomini che si costituisce, non solo immaginariamente, come
"fuga dal femminile"; penso al bisogno di protezione e quindi di
appartenenza, che porta ad identificarsi col piu' forte.
*
Oggi si scopre che l'inconscio collettivo, che si e' espresso
"democraticamente" nel voto di una maggioranza silenziosa, e' reazionario.
Non era poi cosi' difficile da immaginare: tutto cio' che e' stato sepolto
nella zona piu' oscura della vita dei singoli, identificato con la natura o
con la parola rivelata di un Dio, per potersi modificare ha bisogno innanzi
tutto di essere riconosciuto, narrato e analizzato, restituito alla cultura
e alla politica con cui e' sempre stato in rapporto, sia pure un rapporto
alienato, strumentale, distruttivo della politica stessa e delle sue
conquiste democratiche. L'immensa esperienza negativa che si e' accumulata
nelle viscere della storia nel corso dell'ultimo secolo, come conseguenza
del fatto che sono stati considerati condizione quasi esclusiva del
cambiamento i rapporti di produzione, oggi esce allo scoperto attraverso la
retorica populista delle destre occidentali. Ma, se non ne abbiamo paura e,
soprattutto se non abbiamo fretta di cancellarla o imitarla, forse e'
l'occasione per dare finalmente cittadinanza a esperienze essenziali del
vivere umano.
*
In una vicenda drammatica e carica di conseguenze come l'11 settembre,
quando si vanno a raccogliere le parole dei testimoni, la prima
constatazione, come ha scritto Ida Domijanni (su "Il manifesto" del 2
novembre 2004) e' che la varieta' dei vissuti non ha ne' una
rappresentazione pubblica ne' una rappresentanza politica che possano
reggere al confronto con quella ufficiale. Ma quante altre esperienze
"impresentabili" per i linguaggi codificati della politica restano sepolte
nel magma indifferenziato di pensieri e sentimenti che si e' ancora tentati
di appiattire sulle leggi immodificabili della natura, o di leggere
semplicemente come fenomeni antropologici? In tempi in cui la biopolitica
sembra voler penetrare fin dentro la cellula prima della vita - proclamando
la personalita' giuridica dell'embrione - e' quasi incredibile che chi si
batte per la giustizia sociale e per l'umanizzazione dei rapporti tra
diversi, non si renda conto che sottrarre all'insignificanza storica le
pulsioni e le componenti piu' elementari della vita psichica e' il passo
indispensabile per non esserne pesantemente condizionati e ostacolati nello
sforzo di costruire "un altro mondo possibile".
*
La giusta preoccupazione, a cui fa spesso riferimento Rossana Rossanda, di
non fare della politica una totalita' inglobante, normativa, regolatrice dei
rapporti sociali ma anche della "persona" nella sua interezza, sentimenti
compresi, non sembra tener conto che e' proprio l'idea di una politica
ristretta alla sua funzione "calcolatrice e amministrativa" a costituire una
minaccia di assimilazione, e a lasciarsi percio' ai margini una vasta area
di "impoliticita'", resistente a farsi omologare o anche soltanto tradurre
nei suoi linguaggi e nelle sue leggi.
Finche' questo "residuo" immenso di sapere, energie e risorse creative
restera' tale, le democrazie non potranno dormire sonni tranquilli e le
rivoluzioni perderanno un apporto indispensabile per togliere consenso alle
logiche del dominio e della guerra.

3. LIBRI. PEPPE SINI: ALCUNE NOTE A PROPOSITO DI "PAGINE DI STORIA DELLA
POLIZIA ITALIANA" DI PASQUALE MARCHETTO E ANTONIO MAZZEI
Per iniziativa dell'Associazione nazionale Polizia di Stato e del Centro
studi e ricerche sulla storia della Polizia di Stato, e' stato recentemente
pubblicato l'utilissimo volume di Pasquale Marchetto e Antonio Mazzei,
Pagine di storia della Polizia italiana. Orientamenti bibliografici, Neos
Edizioni, Rivoli (To) 2004, pp. 64, euro 5. Per richieste alla casa
editrice: tel. 0119576450, fax: 0119576449, e-mail:
commerciale at subalpina.it, sito: www.neosedizioni.it
Il libro reca, oltre al saggio bibliografico "Oltre 30 anni di polizie.
Indicazioni bibliografiche 1970-2003" di Pasquale Marchetto e Antonio
Mazzei, una presentazione di Paolo Valer, una introduzione "Per lo studio
delle polizie nell'Italia contemporanea" di Nicola Labanca, un saggio "Alle
origini dell'ordinamento di polizia dell'Italia liberale (1847-1868)" di
Milo Julini. Tutti pregevoli (e del resto gli autori sono studiosi egregi).
Impreziosisce la pubblicazione un ricco apparato iconografico.
*
1. Il volume colma una lacuna da tempo avvertita: ci auguriamo che questo
eccellente strumento bibliografico possa contribuire a promuovere gli studi
in materia, studi di cui vi e' grande bisogno.
Noi che redigiamo questo notiziario siamo particolarmente interessati a
questo tema e siamo assai grati agli autori per il lavoro svolto.
Siamo particolarmente interessati, come persone amiche della nonviolenza, in
primo luogo perche' riteniamo la funzione della difesa dell'incolumita' e
della dignita' delle persone, la difesa della democrazia, la difesa del
civile convivere, un compito decisivo e condiviso, una responsabilita' che -
in misura e forme certo diverse in considerazione del proprio ruolo e
attivita' - deve essere sentita come propria da ogni persona.
In secondo luogo perche' e' nella gestione della sicurezza pubblica, piu'
che in altri ambiti istituzionali e della vita associata, che si rivela
quanto una societa' sia democratica e sollecita del bene comune, rispettosa
dei diritti di ogni essere umano, quanto essa informi il suo agire ai
fondamentali principi sanciti dalle grandi carte giuriscostituenti in cui
l'umanita' ha saputo trascrivere i valori e le scelte che chiamiamo
civilta', e nello specifico costituiscono elementi portanti della civlta'
giuridica: dalla Costituzione della Repubblica Italiana alla Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo, e naturalmente molti altri esempi si
potrebbero fare.
In terzo luogo perche' e' nostro convincimento che la nonviolenza abbia
molto da proporre in questo ambito. Anzi, moltissimo. E da alcuni anni in
Italia (con una accelerazione dopo la tragedia delle orribili violenze
verificatesi a Genova) si e' avviato un percorso di riflessione, di
formazione, di proposta fin legislativa, che sta mettendo al centro
dell'attenzione dell'opinione pubblica l'inderogabile necessita' che tuti
gli appartenenti alle forze dell'ordine si formino alla conoscenza della
nonviolenza, come strumento ermeneutico ed operativo di fondamentale
importanza per l'adempimento del loro cosi' rilevante e cosi' delicato
lavoro.
*
2. Ad esempio a Palermo: dove il professor Andrea Cozzo, illustre docente
dell'Universita' di quella citta', sta gia' tenendo corsi di formazione alla
nonviolenza per appartenenti alle forze dell'ordine. Ad esempio a Milano:
grazie alla professoressa Marianella Sclavi, prestigiosa docente
universitaria in quella citta'. Palermo, Milano: in tutta Italia sarebbe non
solo cosa buona, ma necessaria e urgente, promuovere queste esperienze
formative.
E sarebbe bene che riprendesse, svolgesse e recasse a positiva conclusione
il suo iter la proposta di legge presentata a suo tempo da numerosissimi
senatori e deputati di tutti gli schieramenti politici (ripetiamo: di tutti
gli schieramenti politici), primo firmatario il senatore Achille Occhetto,
affinche' si statuisca per legge la formazione di tutti gli appartenenti
alle forze dell'ordine alla conoscenza e alla capacita' di impiego delle
straordinarie risorse che la nonviolenza mette a disposizione, massime nelle
situazioni piu' critiche e nelle incombenze piu' gravose; nel percorso
formativo curricolare di quanti devono svolgere l'impegnativa funzione della
difesa dei diritti e dell'incolumita' di tutte le persone e' indispensabile
lo studio specifico della nonviolenza come insieme di valori, come
metodologia ermeneutica, come modalita' d'intervento, come insieme di
tecniche operative.
*
3. Ma e' necessario anche che le persone amiche della nonviolenza, e piu' in
generale le persone impegnate per la pace e i diritti, comincino tutte a
riflettere su questi temi: la si faccia finita con i discorsi generici e
astratti, e si entri nel merito; innanzitutto con la conoscenza di cio' di
cui si tratta, con la comprensione, con lo studio. Che nelle forze
dell'ordine vi siano persone che non riescono a controllare le proprie
pulsioni sadiche, che vi siano irresponsabili ed energumeni che forti del
potere loro attribuito dall'indossare una divisa commettono crimini infami,
che vi siano comandi inadeguati alla gravosita' del compito, e' cosa di cui
non mancano esempi drammatici. Ma proprio per questo, a maggior ragione,
occorre che le persone amiche della nonviolenza pongano a tutta la societa'
italiana l'esigenza di un impegno corale con le forze dell'ordine contro i
poteri criminali, e con le forze dell'ordine contro quegli irresponsabili e
quei criminali che sciaguratamente si trovano all'interno di esse e che le
disonorano commettendo talora piccoli ignobili abusi, talora crimini fin
aberranti.
Proprio perche' le persone amiche della nonviolenza si oppongono all'uso
delle armi, si oppongono alla violenza dispiegata come a quella strutturale
e a quella culturale, a maggior ragione dobbiamo farci carico di offrire
strumenti e modalita' alternative di intervento nei conflitti, dobbiamo
farci carico di proporre modalita' altre e non meno ma piu' efficaci di
contrasto del crimine, dobbiamo farci carico di costruire insieme migliori
forme e migliori contenuti, migliori strutture e migliori percorsi, per
difendere la dignita' e l'incolumita' delle persone tutte, per inverare i
principi della Costituzione e delle grandi carte giuridiche che sanciscono i
fondamentali diritti umani di ogni essere umano.
E' possibile? E' necessario.
Si', e' necessario, ma e' anche possibile? Si', e' anche possibile.
*
4. E del fatto che sia possibile, prova ne e' che in un paese uscito da una
storia di oppressione tremenda, come il Sudafrica finalmente liberato dal
regime della segregazione razziale, la nonviolenza ha avuto la capacita' di
entrare nel merito nel campo apparentemente (ma solo apparentemente) ad essa
piu' estraneo: il campo penale.
In Sudafrica, con l'esperienza della Commissione per la verita' e la
riconciliazione, fortemente voluta da Nelson Mandela e autorevolmente
presieduta dal vescovo Desmond Tutu, la nonviolenza ha saputo impedire il
rischio di un bagno di sangue; ha saputo restituire dignita' umana, umana
responsabilita', riconoscimento di umanita', alle vittime e ai carnefici di
ieri; ha saputo indicare come essa, la nonviolenza, sia matura per essere
principio ispiratore fin nel campo della legislazione penale, nel campo
dell'amministrazione della giustizia, nel campo della gestione dell'ordine
pubblico, della pubblica sicurezza, della civile convivenza nell'ambito
delle istituzioni come della societa' civile.
La nonviolenza ci e' riuscita nel Sudafrica devastato da decenni di regime
dell'apartheid: puo' ben riuscire anche nel nostro paese. E il momento di
cominciare e' adesso. E' giunto il momento che la nonviolenza ispiri anche
l'attivita' legislativa, le pratiche amministrative, le funzioni dello
stato, la gestione della cosa pubblica in tutti gli ambiti di loro
pertinenza.
*
5. Molto e' da fare, e presto, e bene, anche nell'ambito specifico di cui
qui ci stiamo occupando.
Estendere le esperienze di formazione alla nonviolenza attraverso corsi di
aggiornamento organizzati prefettura per prefettura, questura per questura,
in tutti i commissariati di polizia, in tutte le stazioni dei carabinieri,
in tutti gli uffici della guardia di finanza, in tutte le strutture ove
opera la polizia penitenziaria, in tutte le articolazioni del corpo
forestale, ed in tutte le polizie locali: quelle delle amministrazioni
provinciali, quelle delle amministrazioni comunali.
Chiedere ai prefetti e ai questori, ai presidenti delle province e ai
sindaci dei comuni di promuovere iniziative in tal senso.
E coinvolgere le Universita' che gia' da anni hanno istituito dipartimenti e
corsi di peace-research e di educazione alla gestione nonviolenta dei
conflitti.
E chiedere alle agenzie formative specifiche delle varie polizie italiane,
quelle di dimensioni nazionali e quelle di dimensioni locali, di introdurre
nei loro curricula formativi lo studio della teoria, delle tecniche, delle
esperienze storiche e delle metodologie specifiche della nonviolenza.
E chiedere al parlamento di esaminare in tempi brevi e condurre a buon fine
la proposta di legge per la formazione delle forze dell'ordine alla
nonviolenza.
Tutto cio' e' doveroso fare, e farlo quanto prima.
Sarebbe un dono grande a tutti i cittadini ed in primo luogo a quei
cittadini che lavorano nelle forze dell'ordine e che hanno grande bisogno di
essere meglio addestrati, meglio sostenuti, di avere a disposizione altre e
migliori risorse: e quelle che offre la nonviolenza sono risorse
straordinarie.
*
L'appassionante lettura di questo libro ci ha condotti a riformulare ancora
una volta proposte che riteniamo di decisiva rilevanza. Anche di questo
stimolo siamo grati agli autori della meritoria opera che qui abbiamo
segnalato.

4. RIFLESSIONE. ARUNDHATI ROY: LE ORGANIZZAZIONI UMANITARIE E I PERICOLI
DELLA DIPENDENZA
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo testo (estratto da una conferenza tenuta a S. Francisco,
California, il 16 agosto 2004) apparso sulla prestigiosa rivista "Le Monde
diplomatique" (edizione italiana) nel fascicolo dell'ottobre 2004. Arundhati
Roy e' una celebre scrittrice indiana, impegnata contro il riarmo, in difesa
dell'ambiente e per i diritti delle persone e dei popoli. Opere di Arundhati
Roy: cfr. il romanzo Il Dio delle piccole cose, Guanda, Parma 1997,
Superpocket, Milano 2000; i saggi di testimonianza e denuncia raccolti in La
fine delle illusioni, Guanda, Parma 1999, Tea, Milano 2001, poi recuperati
nella piu' ampia raccolta di saggi di intervento civile, Guerra e' pace,
Guanda, Parma 2002; e Guida all'impero per la gente comune, Guanda, Parma
2003]

La globalizzazione economica ha accresciuto la distanza tra chi prende le
decisioni e chi ne subisce gli effetti. Sono gli incontri quali il Forum
sociale mondiale a consentire ai movimenti di resistenza locali di ridurre
questo divario e di fare causa comune con i loro omologhi dei paesi ricchi.
Ad esempio, all'epoca della costruzione della prima diga privata a
Maheshawar, l'impegno congiunto del Narmada Bachao Andolan (Nba),
dell'organizzazione tedesca Urgewald, della Dichiarazione di Berna
(Svizzera), e della Rete internazionale dei fiumi di Berkeley, ha indotto
varie banche e imprese internazionali a dissociarsi dal progetto. Questo
risultato non sarebbe mai stato raggiunto senza una tenace resistenza
locale; ma altrettanto indispensabile e' stato il sostegno a questo
movimento sulla scena mondiale, che ne ha amplificato la voce mettendo in
imbarazzo gli investitori e costringendoli a ritirarsi...
*
Uno dei rischi per i movimenti di massa e' quello della "ong-izzazione"
della resistenza. Non vorrei essere fraintesa: non si tratta certo di
mettere sotto accusa in blocco le organizzazioni non governative (Ong),
molte quali svolgono un lavoro di indubbia validita'. Ma altre sono
fittizie, e in quelle acque torbide c'e' chi cerca di mettere le mani sui
fondi degli aiuti o di frodare il fisco. Vale comunque la pena di esaminare
questo fenomeno in un contesto politico piu' ampio.
In India ad esempio, il boom delle Ong sovvenzionate, esploso alla fine
degli anni '80 per protrarsi nel decennio successivo, ha coinciso con
l'apertura dei mercati indiani al neoliberismo. Per conformarsi alle
esigenze dell'aggiustamento strutturale lo stato taglio' i finanziamenti che
sostenevano lo sviluppo rurale, l'agricoltura, i settori dell'energia, dei
trasporti e della salute pubblica. Fu in seguito a questo ritiro dello stato
dal suo ruolo tradizionale che le Ong incominciarono a intervenire in questi
ambiti. La differenza era ovviamente che i fondi a loro disposizione
corrispondevano a una minuscola frazione dei tagli inflitti alla spesa
pubblica.
La maggior parte delle Ong sono finanziate e patrocinate dagli organismi di
aiuto allo sviluppo, i quali a loro volta ricevono i fondi dai governi
occidentali, dalla Banca mondiale, dalle Nazioni unite e da alcune
multinazionali.Anche se non si puo' fare di ogni erba un fascio, tutti
questi organismi fanno indubbiamente parte di uno stesso contesto politico,
dai contorni indefiniti, che presiede al progetto neoliberista e impone per
prima cosa drastici tagli alla spesa pubblica.
Cos'e' che induce questi organismi a finanziare le Ong? E' possibile che
siano mossi solo da zelo missionario vecchia maniera? O magari da sensi di
colpa? Qualche altro motivo indubbiamente c'e'. Le Ong danno l'impressione
di colmare il vuoto lasciato da uno stato in via di smantellamento; e in
qualche misura lo fanno, ma non certo in modo coerente. In realta' servono a
disinnescare la protesta politica, distribuendo col contagocce, sotto forma
di aiuti o di azioni di volontariato, cio' che normalmente dovrebbe spettare
per diritto ai cittadini.
In questo modo le Ong influiscono sulla popolazione a livello psicologico,
creando una condizione di vittimismo e di dipendenza e smussando gli angoli
della resistenza politica: in altri termini, fanno da ammortizzatore tra lo
stato e la popolazione. O tra l'Impero e i suoi sudditi. Svolgono un ruolo
di arbitri, o anche di interpreti e di intermediari.
*
A lungo termine, le Ong devono rispondere ai donatori, non alla popolazione
per la quale lavorano. Sono cio' che i botanici definiscono una "specie
spia": si direbbe che la loro crescita sia direttamente proporzionale alle
devastazioni causate dal neoliberismo.
Questo fenomeno emerge in maniera particolarmente drammatica nelle
situazioni di guerra: ad esempio, gli Stati Uniti che si preparano a
invadere un paese, e sfornano simultaneamente le Ong che accorrono sul posto
per ripulirlo dalle macerie. Preoccupate di garantire la continuita' dei
loro finanziamenti e di evitare contrasti con i governi dei paesi nei quali
operano, le Ong devono presentare un basso profilo, piu' o meno neutro
rispetto al contesto politico e storico. Soprattutto quando e' scomodo. Le
descrizioni apolitiche (e in quanto tali piu' che mai di parte) delle aree
piu' povere e delle zone di guerra finiscono per presentare gli abitanti
(neri) di quei paesi come vittime patologiche. Ancora indiani denutriti,
ancora etiopi affamati, ancora campi profughi, ancora sudanesi mutilati... e
tutti bisognosi dell'aiuto dell'uomo bianco.
Cosi', involontariamente, le Ong contribuiscono a rafforzare gli stereotipi
razzisti, riaffermando le conquiste, i vantaggi e la bonta' (severa ma
compassionevole) della civilta' occidentale. Sono i missionari laici del
mondo moderno. In definitiva - su scala minore, ma piu' insidiosamente - il
capitale con cui vengono finanziate le Ong gioca nelle politiche alternative
un ruolo molto simile a quello dei capitali speculativi che entrano ed
escono dalle economie dei paesi piu' poveri.
Per prima cosa, questi finanziamenti dettano l'ordine del giorno.
Trasformano il confronto in trattativa, depoliticizzano la resistenza,
interferiscono con i movimenti popolari locali, tradizionalmente
indipendenti. Grazie ai fondi di cui dispongono, le Ong possono ingaggiare
collaboratori locali: persone che altrimenti avrebbero preso parte attiva ai
movimenti di resistenza, mentre cosi' pensano di poter fare del bene in
maniera immediata e creativa (guadagnandosi oltre tutto da vivere).
La vera resistenza politica non offre scorciatoie del genere.

5. LIBRI. LUCA KOCCI: INTRODUZIONE A "GUERRA E MONDO. ANNUARIO GEOPOLITICO
DELLA PACE 2004"
[Ringraziamo Luca Kocci (per contatti: lkocci at tiscali.it) per averci messo a
disposizione l'introduzione alla nuova edizione del prestigioso Annuario
della pace, da lui curato: Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace,
Guerra e mondo. Annuario geopolitico della pace 2004, a cura di Luca Kocci,
Altreconomia edizioni - I libri di Terre di Mezzo, Milano, 2004, pp. 302,
euro 18; il libro e' in vendita nelle Botteghe del commercio equo e solidale
(dal primo dicembre) e nelle librerie (dal primo gennaio), oppure puo'
essere richiesto all'editore: Altreconomia Edizioni, tel. 0248953031-2,
e-mail: segreteria at altreconomia.it. Luca Kocci, curatore dell'Annuario, e'
insegnante e giornalista, collabora con "Adista", Peacelink ed altri mezzi
d'informazione impegnati per la pace e i diritti umani]

Quello appena trascorso sarebbe dovuto essere l'anno della pace; invece, da
quando George Bush ha solennemente proclamato la fine della guerra in Iraq -
il primo maggio 2003 - diverse migliaia sono stati i civili iracheni uccisi
e piu' di mille i marine caduti in tempo di pace, senza contare i soldati
degli altri contingenti - italiani compresi -, i tecnici e gli operatori al
servizio delle forze di occupazione o delle multinazionali che stanno
lentamente colonizzando il Paese e, da ultimo, anche i volontari e i
pacifisti, rapiti e talvolta giustiziati dai gruppi armati.
Segno che la spirale guerra-terrorismo non fa che autoalimentarsi e
autoriprodursi, in un gioco al massacro apparentemente senza senso e di cui
si fatica a vedere la fine. "La follia di questa guerra ricade su tutti,
compreso chi non l'ha voluta", scrive Alessandro Portelli. "Quando
civilmente bombardiamo le citta' e i villaggi, non ci chiediamo se le
persone chirurgicamente ammazzate sono 'fedelissimi di Saddam' o dissidenti
che avevano invocato l'invasione o gente che voleva solo starsene per i
fatti suoi. Li abbiamo ammazzati perche' stavano nel posto sbagliato.
Ebbene, agli occhi accecati del terrorismo estremista, nel posto 'sbagliato'
ci stiamo tutti; per questo e' grande la responsabilita' di chi fra noi se
ne rende conto, e deve raddoppiare gli sforzi per non farci accecare a
nostra volta, per continuare a distinguere" (Alessandro Portelli, Asimmetria
di un omicidio, in "Il manifesto", primo settembre 2004).
Responsabile di questa sorta di accecamento collettivo e' anche il sistema
dell'informazione diventato negli ultimi anni - secondo le regole della
cosiddetta information warfare - un'arma di guerra, un campo di battaglia e
talvolta anche un obiettivo militare, quando ad essere colpiti sono i
giornalisti o certi media. Un sistema che proprio sulla omologazione, sulla
divisione manichea in "buoni e cattivi", sulla indistinzione, ha poggiato le
sue basi, spesso avvalorando la sciagurata tesi dello "scontro di civilta'".
Questo Annuario della pace - realizzato con poveri mezzi, la passione e la
buona volonta' di molti -, ormai giunto al quarto anno di vita, vuole essere
un piccolo tentativo di informazione altra, che aiuti a distinguere e a
vincere l'accecamento. La struttura, seppure aggiornata, rimane quella
consueta: le cronologie che documentano 12 mesi di attivita' del movimento
per la pace e i fatti salienti dell'anno appena trascorso; una serie di
approfondimenti su particolari situazioni di guerra e di dopoguerra del
nostro mondo (geografie); diversi contributi monografici sulle questioni
dell'anno, con particolare riferimento - in consonanza con il Salone
dell'editoria di pace - al tema degli armamenti; una riflessione sui
fondamenti filosofici, antropologici, economici e giuridici della pace e
della guerra; alcuni suggerimenti di strumenti di lavoro utili - dal cinema
ai libri, alle riviste - per gli "operatori di pace" e per tutti coloro che
sono interessanti al tema pace-guerra.
Una nota per il lettore: gli articoli, focalizzati sul periodo giugno 2003 -
maggio 2004, sono stati redatti tutti entro l'estate 2004 e quindi, se
"sforano" di qualche settimana il tempo cronologico dell'Annuario, tuttavia
non affrontano i piu' recenti avvenimenti.
A tutti i collaboratori, che hanno lavorato gratuitamente e con "spirito
militante", va un grazie vero e non di maniera. Cosi' come ringraziamenti
sentiti vanno a "Vasti" (la scuola di ricerca e critica delle antropologie
fondata e diretta da Raniero La Valle) e ai Cinecircoli giovanili
socioculturali (associazione legata ai salesiani che fa educazione e
formazione con il cinema e il teatro), che hanno messo a disposizione
preziosi materiali; ad Archivio Disarmo (ente da decenni impegnato nella
ricerca su guerre e armamenti), al settimanale "Internazionale" e all'
associazione PeaceLink, che hanno contribuito alla realizzazione di questo
Annuario con i loro documentatissimi archivi.
La diversita' di voci e il pluralismo di idee, non necessariamente fra loro
sempre e completamente concordi, che trovano spazio nell'Annuario ne
costituiscono la ricchezza. E sono un modo anche simbolico di opporsi alla
logica della guerra e della violenza che della diversita' e del pluralismo
e' l'assoluta negazione.

6. MAESTRE. EDITH STEIN: L'ESTATE E LA PACE
[Da Edith Stein, La scelta di Dio, Citta' Nuova, Roma 1974, Mondadori,
Milano 1997, p. 23. Edith Stein, filosofa tedesca, e' nata a Breslavia nel
1891 ed e' deceduta nel lager di Auschwitz nel 1942. Di famiglia ebraica,
assistente di Husserl, pensatrice tra le menti piu' brillanti della scuola
fenomenologica, abbraccio' il cattolicesimo e nel 1933 entro' nella vita
religiosa. I nazisti la deportarono ed assassinarono. Opere di Edith Stein:
le opere fondamentali sono Il problema dell'empatia, Franco Angeli (col
titolo L'empatia) e Studium; Psicologia e scienze dello spirito, Citta'
Nuova; Una ricerca sullo Stato, Citta' Nuova; La fenomenologia di Husserl e
la filosofia di san Tommaso d'Aquino, Memorie Domenicane, poi in La ricerca
della verita', Citta' Nuova; Introduzione alla filosofia, Citta' Nuova;
Essere finito e Essere eterno, Citta' Nuova; Scientia crucis, Postulazione
generale dei carmelitani scalzi. Cfr. anche la serie di conferenze raccolte
in La donna, Citta' Nuova; e la raccolta di lettere La scelta di Dio, Citta'
Nuova, Roma 1974, poi Mondadori, Milano 1997. Opere su Edith Stein: per un
sintetico profilo cfr. l'"invito alla lettura" di Angela Ales Bello, Edith
Stein, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo 1999 (il volumetto contiene un
breve profilo, un'antologia di testi, una utile bibliografia di
riferimento). Lavori sul pensiero della Stein: Carla Bettinelli, Il pensiero
di Edith Stein, Vita e Pensiero, Milano 1976; Luciana Vigone, Introduzione
al pensiero filosofico di Edith Stein, Citta' Nuova, Roma 1991; Angela Ales
Bello, Edith Stein. La passione per la verita', Edizioni Messaggero di
Padova, 1998, 2003; Angela Ales Bello, Edith Stein. Patrona d'Europa,
Piemme, Casale Monferrato (Al) 2000. Per la biografia: Edith Stein, Storia
di una famiglia ebrea, Citta' Nuova, Roma 1994, 1999; Elio Costantini, Edith
Stein. Profilo di una vita vissuta nella ricerca della verita', Libreria
Editrice Vaticana, Citta' del Vaticano 1987, 1998; Laura Boella, Annarosa
Buttarelli, Per amore di altro. L'empatia a partire da Edith Stein,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2000]

L'estate e la pace sono state per me due idee che, in quest'inverno senza
fine, si sono fuse in un'unica nostalgia.

7. MAESTRE. SIMONE WEIL: LA PORTA CHIUSA
[Da Simone Weil, Quaderni. Volume III, Adelphi, Milano 1988, p. 189. Simone
Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa, militante
sindacale e politica della sinistra classista e libertaria, operaia di
fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti, lavoratrice
agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a lavorare per la
Resistenza. Minata da una vita di generosita', abnegazione, sofferenze,
muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna come quella
che precede non rende pero' conto della vita interiore della Weil (ed in
particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora:
radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del
1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli
o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta' come
vita, Simone Weil ci commuove, ci da' nutrimento". Opere di Simone Weil:
tutti i volumi di Simone Weil in realta' consistono di raccolte di scritti
pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici
(e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti
le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu' importanti in edizione
italiana segnaliamo: L'ombra e la grazia (Comunita', poi Rusconi), La
condizione operaia (Comunita', poi Mondadori), La prima radice (Comunita',
SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni
precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta' e
dell'oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi),
Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali
i quattro volumi dei Quaderni, nell'edizione Adelphi curata da Giancarlo
Gaeta. Opere su Simone Weil: fondamentale e' la grande biografia di Simone
Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr.
AA. VV., Simone Weil, la passione della verita', Morcelliana, Brescia 1985;
Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone
Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie
Muller, Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, Edb, Bologna
1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994]

Questo mondo e' la porta chiusa. E' una barriera, e al tempo stesso e' il
passaggio.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 788 del 24 dicembre 2004

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