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La nonviolenza e' in cammino. 628
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 628
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac@tin.it>
- Date: Wed, 30 Jul 2003 19:58:08 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 628 del 31 luglio 2003
Sommario di questo numero:
1. Carlo Carretto: Francesco e il lupo di Gubbio
2. Lidia Menapace: siccita'
3. Marco D'Eramo: l'acqua merce
4. Luisa Morgantini: pane e anguria a Diyarbakir
5. Antonio Moscato: alcuni recenti libri sugli Stati Uniti
6. Riletture: Natalia Ginzburg, Lessico famigliare
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'
1. MAESTRI. CARLO CARRETTO: FRANCESCO E IL LUPO DI GUBBIO
[Da Carlo Carretto, Io, Francesco, Cittadella, Assisi, pp. 141-145.
Ringraziamo Enrico Peyretti per averci inviato questo brano, ripreso dalla
"Lettera di collegamento" dell'estate 2003 di Pax Christi e del Movimento
Nonviolento di Ferrara che cosi' lo presenta: "Come contributo alla
preparazione alla marcia per la nonviolenza Assisi-Gubbio, riportiamo questo
splendido e profetico brano di Carlo Carretto ('piccolo fratello' di Charles
de Foucauld, che ha vissuto gli ultimi anni della sua vita a Spello, vicino
ad Assisi)". Su Carlo Carretto dal sito www.diocesi.it/borgopiave/carretto
riportiamo la seguente notizia biografica: "Carlo Carretto nasce ad
Alessandria il 2 aprile 1910, in una famiglia di contadini proveniente dalle
Langhe. E' il terzo di sei figli, di cui quattro si faranno religiosi. La
famiglia si trasferisce presto a Torino, in un quartiere periferico, nel
quale si trova un oratorio salesiano che avra' molta influenza sulla
formazione di Carlo e su tutta la famiglia. Lo spirito salesiano si fara'
sentire anche nella vita professionale che Carlo inizia all'eta' di diciotto
anni, a Gattinara, come maestro elementare. Milita nell'Azione Cattolica
giovanile torinese dove entra ventitreenne su invito di Luigi Gedda che ne
era il presidente. Consegue la laurea in storia e filosofia e continua ad
insegnare come maestro elementare, prima a Sommariva del Bosco poi a Torino.
Nel 1940 vince il concorso per direttore didattico e viene assegnato come
tale a Bono (Sardegna). Dopo poco tempo viene dispensato dal suo incarico
per contrasti col regime fascista, dovuti al carattere del suo insegnamento
e per l'influsso che esso esercita anche al di fuori della scuola, e viene
inviato come confinato a Isili, poi rimandato in Piemonte. Qui gli viene
consentito di riprendere il suo lavoro come direttore didattico a Condove.
Con l'avvento della Repubblica di Salo' riceve da Roma l'incarico di reggere
le fila dell'Azione Cattolica del Nord-Italia. Non avendo aderito al regime
viene radiato dall'albo dei direttori didattici e tenuto sotto sorveglianza.
Nel 1945, dopo la caduta del regime e la fine della guerra, viene chiamato a
Roma da Pio XII e da Luigi Gedda per organizzare l'Associazione Nazionale
Maestri Cattolici. Nel 1946 diviene presidente centrale della Gioventu'
Italiana di Azione Cattolica (Giac). Nel 1948, in occasione dell'LXXX
anniversario della fondazione dell'Azione Cattolica, organizza una grande
manifestazione di giovani a Roma: e' la famosa adunata dei trecentomila
"baschi verdi". Poco dopo fonda il Bureau International de la Jeunesse
Catholique, di cui diviene vice presidente. Nel 1952 esplodono i contrasti
che covavano da tempo, in campo cattolico, riguardo ai rapporti con la
politica. Trovandosi in disaccordo con una frazione importante del mondo
cattolico che progettava un'alleanza con la destra, Carlo deve dimettersi
dal suo incarico di presidente della Giac e ricerca con altri amici nuove
strade su cui indirizzare l'azione del laicato cattolico impegnato. E' in
tale periodo di laboriosa e sofferta ricerca che matura la decisione di
entrare a far parte della congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli di
Gesu' fondata da Charles de Foucauld. L'8 dicembre del 1954 parte per
l'Algeria, per il noviziato di El Abiodh, vicino ad Orano. Per dieci anni
conduce vita eremitica nel Sahara, dove fa una profonda esperienza di vita
interiore e di preghiera, nel silenzio e nel lavoro, esperienza che
esprimera' in quello che diventera' un autentico best seller, Lettere dal
deserto, e in tutti i libri che scrivera' in seguito. La stessa esperienza
alimentera' anche tutta la sua vita e la sua azione successiva. Dopo il
ritorno in Europa, e aver trascorso alcuni periodi in diverse realta', nel
1965 va a Spello, in Umbria, per iniziare una nuova Fraternita' di preghiera
e di accoglienza. Ben presto lo spirito di iniziativa di Carretto ed il
prestigio di cui godeva, aprono la comunita' all'accoglienza di quanti,
credenti e non, desiderano trascorrervi un periodo di riflessione e di
ricerca di fede vissuto nella preghiera, nel lavoro manuale e nello scambio
di esperienze. Al convento in cui la Fraternita' risiede, si aggiungono man
mano molte case di campagna sparse sul monte Subasio che vengono trasformate
in eremitaggi. Carretto sara' per oltre vent'anni l'instancabile animatore
di questo centro, noto in Italia e all'estero. Durante questi anni continua
la sua attivita' di scrittore iniziata negli anni giovanili. Tra i libri di
quel periodo va ricordato Famiglia piccola chiesa (1949) che suscito'
contrasti nel mondo cattolico per alcune sue idee allora avanzate. Uomo
della parola e della penna, il nostro ha usato con molta efficacia questi
due mezzi per comunicare agli altri le sue "scoperte" e la sua esperienza
nella fede. I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue e gli hanno
creato una schiera di lettori e di amici in molti paesi del mondo. Spesso
veniva invitato, percio', a portare la sua parola in conferenze e incontri
spirituali. La sua profonda interiorita' non lo isolava dal mondo e dai suoi
problemi, ma anzi lo spingeva ad interessarsene in spirito di profezia e di
servizio. Fratel Carlo Carretto ha chiuso la vita terrena nel suo eremo di
san Girolamo a Spello nella notte di martedi' 4 ottobre 1988, festa di san
Francesco d'Assisi del quale era stato appassionato biografo". Su Francesco
d'Assisi fondamentale e' la lettura dell'ottimo volume delle Fonti
francescane, Edizioni Messaggero Padova - Movimento Francescano Assisi,
Padova 1983]
Si', sono stato un nonviolento (...). In fondo ognuno di noi sogna un mondo
cosi' pacificato dall'amore e dalla dolcezza dell'umilta'. Non e' cosi'?
Qualcuno di voi puo' anche sorridere davanti all'episodio del lupo di
Gubbio; ma se e' stato bambino, veramente bambino, ha certamente desiderato
di risolvere cosi' i problemi, come li ho risolti io a Gubbio in quella
mattina fredda per la neve caduta. Quanti sogni sono stati fatti
dall'umanita' dietro quel lupo braccato dalla violenza degli uomini e messo
in difficolta' dalla fame. Vi devo dire fratelli che un episodio del genere
l'avevo sognato anni prima quando ero ragazzo e mi avevano detto che sulle
montagne dell'Appennino c'erano i lupi che scendevano affamati a minacciare
i greggi. E allora non conoscevo ancora il Cristo. Mi son trovato nel sogno
ad andare incontro alla bestia armato solo di carezze. E la bestia si era
fermata. Ed ora che conoscevo le carezze di Gesu' avrei avuto paura? Mi
sarei armato di roncola? Avrei desiderato vedere il sangue, fosse anche
quello di un lupo, sulle pietre di Gubbio? No fratelli, non ebbi paura.
Io non ho piu' paura da quando ho sperimentato che il mio Dio e' anche il
Dio del lupo. Cio' che e' straordinario nel fatto del lupo di Gubbio non e'
che si sia ammansito lui, e' che si siano ammansiti loro, gli abitanti di
Gubbio, e che davanti al lupo che si avvicinava infreddolito ed affamato gli
fossero corsi incontro non con le roncole e le accette ma con pezzi di cibo
e polenta calda. (...)
Sta qui il principio della nonviolenza che io vorrei suggerirvi con tutto
l'entusiasmo di cui sono capace. Se vi ho detto di non parlare troppo di
poverta' oggi data l'ambiguita' in cui vivete e la difficolta' a spiegarvi
circondati come siete da culture borghesi e socialiste, vi dico invece con
forza: parlate della nonviolenza, siate apostoli della nonviolenza,
diventate dei nonviolenti. (...) Il discorso della nonviolenza e' oggi
percepito da tutti: e' chiaro, semplice e potreste veramente con la sua
dinamica cambiare la faccia della terra. Parlate molto oggi di diritti
dell'uomo ed e' giusto. Il primo diritto dell'uomo e' di non essere
violentato da nessuno, di essere lasciato in pace. Il discorso e' di
un'ampiezza biblica e dovete viverlo fino in fondo.
Intanto diciamo subito che comincia da lontano, molto lontano. La
nonviolenza riguarda innanzitutto la natura i cieli, i mari, le miniere, i
boschi, l'aria, l'acqua, la casa. Sono le prime cose da non violentare e
purtroppo e' un peccato che avete commesso largamente e non so se riuscirete
a salvarvi. (...)
Ma lasciamo per un momento l'ecologia e veniamo all'uomo che sul problema
della violenza e' il vero responsabile e l'unica creatura che fa problema.
Perche' la storiella del lupo di Gubbio vi interessa? Perche' l'avete
raccontata con tanta dovizia di particolari? Eppure mentre vi interessa vi
fa sorridere. In fondo non ci credete. Vedete nella storiella la soluzione
del vostro problema che vi turba ma nello stesso tempo catalogate tra le
utopie la possibilita' di vedere un lupo ammansito con una carezza. Eppure
ve l'ho detto. Il miracolo che si compi' quella mattina a Gubbio non fu la
conversione del lupo, fu la conversione degli abitanti di Gubbio che per un
istante credettero possibile la lotta col lupo armati solo di cibo da donare
invece di armi da insanguinare. Qui sta il segreto di tutto. Questo e'
addirittura il segreto nascosto in tutto il piano di Dio sull'uomo. Credere
possibile l'impossibile. Sperare nelle cose contro ogni speranza. Amare cio'
che non sembra amabile. La proposta di Dio all'uomo e' sempre avvolta nel
velo di questo mistero e sunto di questa domanda.
Puoi credere? Puoi sperare? Puoi amare? Se mi dici di si', ti regalo
l'impossibile. (...)
Il lupo di Gubbio non e' una storiella per far addormentare i bimbi, e' la
verita' piu' straordinaria per salvare gli uomini, specie oggi che sono
sistemati tutti quanti su un immenso deposito di bombe atomiche. (...) Ora
che l'uomo col suo ingegno e' giunto ad avere cio' che desiderava e che con
la tecnica ha tolto il limite in cui si trovava prima, e' affiorata la
verita', l'unica verita': il male, la violenza stanno nella paura
dell'altro. Se l'uomo fara' la guerra e' perche' ha paura di qualcuno.
Togliete la paura, ristabilite la fiducia e avete la pace.
La nonviolenza sta nella distruzione della paura.
Ecco perche' vi dico ancora, io Francesco: imparate a vincere la paura come
ho fatto io quella mattina andando incontro al lupo con un sorriso. Vincendo
me, ho vinto lui. Domando i miei cattivi istinti, ho domato i suoi,
sforzandomi di avere fiducia in lui ho trovato che lui aveva fiducia in me.
Il mio coraggio aveva stabilito la pace.
Il resto lo potete dedurre da soli. Pensate soltanto a cosa puo' capitare se
gli immensi capitali usati a difendervi dalla paura un giorno, divenuti
nonviolenti, li userete per aiutare coloro di cui avete paura. (...)
Conoscerete allora la pace. E' troppo sperarlo? Chissa' che qualcuno non mi
ascolti!
Io, Francesco d'Assisi, gli dico: coraggio!
2. EDITORIALE. LIDIA MENAPACE: SICCITA'
[Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace@virgilio.it) per
questo intervento. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla
Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra
le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti
della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli
scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e
riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a
cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani,
Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia
politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in
collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra
indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo
accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna,
Milano 2001]
Provo a fare un ragionamento anche sulla siccita' e politica dell'acqua a
partire da osservazioni dal quotidiano.
Sono materiali che volentieri vedrei considerati per il nostro seminario
"fare pace con le terra", dato che sono convinta che l'economia industriale
capitalistica e' una forma di guerra verso la natura. Ma di questo parleremo
un'altra volta.
Adesso veglio parlare del fatto che siamo usciti/e dal clima temperato e
dopo le siccita' vengono subito le alluvioni. Sappiamo il perche' e sappiamo
anche che non vi e' molto tempo per rimediare, dato che il trattato di Kyoto
sia un rimedio: sembra uno di quei rimedi che la farmacopea chiama
"sintomatici" cioe' che non sapendo come fare per ovviare alle cause
rimediano al sintomo doloroso: ma sappiamo che per guarire bisogna avere
terapie vere e non palliativi, e vite portatrici di salute non di malattie.
Comincio il racconto: un paio di giorni fa ascoltando il tg3 ho sentito uno
scienziato dire che l'acqua in verita' c'e' in Italia (cosa che infatti
tutti affermano, verso chi sostiene che dovremmo cominciare a dissalare
l'acqua di mare come fanno necessariamente in Arabia Saudita): ma che essa
e' appropriata dai bacini idroelettrici e non viene rilasciata se chi
possiede i bacini non ne ha convenienza economica; si aggiunge (notizia data
frettolosamente in qualche tg) che "per ora" i bacini rilasceranno un po'
d'acqua "gratuitamente", il che significa che in seguito la faranno pagare a
Regioni e Comuni.
Tutto queste mi ha fatto ricordare che quando nel 1967 una famosa alluvione
investi' Firenze e anche Trento, si accuso' l'Enel di avere rovesciato sulle
citta' acqua senza criterio solo quando non farla uscire dai bacini stava
per mettere a rischio le dighe. E sulle dighe dell'Enel sappiamo molto, dopo
il Vajont.
*
E veniamo all'oggi, non senza esserci annotato in testa che la gestione
privatistica di un bene pubblico e' pericolosa.
Sappiamo dunque (non da notizie motivatamente comunicate nella loro
interezza, ma da frammenti di discorsi da mettere insieme - cosa che non
potrei fare se non fossi in vacanza -, dunque da una comunicazione
reticente) che vi e' chi puo' decidere quando e quanto di acqua puo'
rovesciare sulle citta' e negare alle campagne a seconda della propria
utilita' e non per necessita' vitale.
E annotiamoci in testa che anche la comunicazione di tipo privatistico e'
reticente e soggetta ad interessi non dichiarati.
In altri termini chi possiede bacini per uso idroelettrico puo' tenersi
l'acqua per venderla a maggior prezzo d'inverno, quando e' piu' pregiata, e
lasciare che tutti i raccolti vadano a male, brucino ecc.
Per una maligna illazione mi sono convinta che arrivino anche a fare del
terrorismo psicologico continuo a proposito di black out (ieri dicevano
"dalle 9 alle 18" e credo si dovesse interpretare "tra le 9 e le 18": solo
una svista stilistica?).
*
La valle di Non in Trentino, attraversata e scavata del fiume Noce, che e'
il secondo affluente dell'Adige dopo l'Isarco, e' un biotopo alpino di
notevole importanza.
Valle popolatissima da popolazione stanziale e non turistica, per la
conformazione non impervia e l'ampiezza che consente una buonissima
insolazione e quindi adatta a colture. Era comunque povera perche
l'altitudine non consentiva ne' grano, orzo, avena, ne' produzione di vino
pregiata: vivevano fino alla meta' dell XIX secolo di pascolo, allevamento
del baco da seta e di economia di sussistenza. E di emigrazione. Poiche'
essendo sudditi dell'Impero austroungarico avevano un passaporto pregiato
migravano molto nell'America del nord e in Canada, mentre dalle valli
boschive piu' povere (dalla Valsugana) si accontentavano di migrazioni
interne e andavano ad esempio dal paese di Broz a fare i boscaioli in
Croazia, come appunto fece la famiglia d'origine del maresciallo Tito.
Quelli che migrarono in Canada videro che in territori molto simili alla
loro valle d'origine coltivavano con profitto mele originarie della Francia,
le "renette", cioe' le "reinettes", le reginette, che riportarono in Europa
e in Trentino col nome di "canada". E fecero la fortuna della valle, che
ancora produce una enormita' di mele oggi standardizzate e con modi
industriali che cominciano a fare danni non da poco: bisognera' ristabilire
una buona biodiversita'.
La valle e' molto ricca di acque e percio' negli anni cinquanta l'Enel
costrui' un bacino molto grande e profondo con una altissima diga sul fiume
Noce. Le conseguenze della appropriazione privatistica di un bene comune
furono certo un buon costo dell'energia (nella Regione Trentino Alto Adige
l'energia costa meno per statuto) e un mutamento non sgradevole del clima
reso piu' mite anche se un po' piu' umido dall'invaso (detto lago di santa
Giustina) che a lungo fu il quinto per grandezza in Europa; ma anche un
impoverimento del fiume che divento' un puzzolente rigagnolo privo di pesci
e di rive verdeggianti e di zone umide.
Qui abbiamo un buon esempio da raccontare: un po' di anni fa i comuni
rivieraschi fecero una vertenza contro l'Enel e pretesero che rilasciasse da
una bocca di sfioramento una buona quantita' costante d'acqua per
ricostruire il fiume.
Oggi e' cosi', il Noce e' tornato a scorrere e ad avere fauna e flora e
addirittura un piccolo parco naturalistico che si chiama "alle acque
ritrovate".
Tutte rose e fiori? ma no, come dicevo la produzione e' molto impoverita di
varieta'. Ma il fiume c'e' ancora e la regolazione del suo corso e' tenuta
sotto controllo dai comuni. A me pare un buon esempio di controllo pubblico
sulla gestione privatistica di beni essenziali.
*
Detto incidentalmente: la storia non sarebbe tanto piu' interessante se si
studiasse tenendo conto di produzioni, migrazioni, iniziative,
trasformazioni del territorio, invece che a furia di battaglie e sacri
confini?
Ma intanto quel che sta accadendo in questa estate tropicale ci fa capire
che cosa potra' avvenire quando l'acqua sara' privatizzata.
Non deve succedere: i beni essenziali non possono essere gestiti con criteri
privatistici.
3. RIFLESSIONE. MARCO D'ERAMO: L'ACQUA MERCE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2003. Marco D'Eramo e' uno dei
piu' acuti giornalisti e saggisti, esperto di questioni internazionali, ha
scritto e curato vari utili libri]
Chissa' quando la Banca mondiale e il Fondo monetario chiederanno agli stati
di privatizzare l'erogazione di aria? Sara' quando la mamma ricordera' al
figlio: "Non dimenticarti di comprare due bombole d'aria, che domani i
negozi sono chiusi".
Per il momento, e da piu' di 15 anni, i registi istituzionali dell'economia
globale si limitano a favorire con ogni mezzo la privatizzazione dell'altra
risorsa fondamentale per i viventi: l'acqua.
"L'acqua sara' per l'economia del XXI secolo quel che il petrolio e' stato
per il XX secolo", aveva previsto "Fortune".
Con la siccita' che incombe in Europa, con l'effetto serra che incalza, e la
conseguente tropicalizzazione dei climi temperati, questa profezia si
dimostra ogni giorno sempre piu' azzeccata. Gia' oggi piu' di 1,1 miliardi
di persone vivono in condizioni di penuria d'acqua (e nel mondo 12 milioni
di persone muoiono ogni anno per malattie derivate da problemi idrici:
mancanza o inquinamento). E si prevede che nel 2025 due terzi dell'umanita'
avranno problemi d'approvvigionamento idrico: intanto il 12% della
popolazione mondiale usa e spreca l'85% delle risorse d'acqua.
La mercificazione di questa risorsa accelera man mano che l'acqua potabile
si fa piu' rara (o perche' le falde sono sfruttate fino all'esaurimento o
perche' vengono inquinate da pesticidi e da scarti industriali). La canadese
Global Water sprona i suoi investitori a "mietere le opportunita' in via di
accelerazione, via via che le fonti tradizionali di acqua nel mondo si
esauriscono e si degradano" e dichiara che "l'acqua ha smesso di essere un
risorsa illimitatamente disponibile che puo' essere presa per garantita, per
diventare una necessita' razionata che puo' essere presa con la forza". Da
notare che la Global Water Corporation ha di recente firmato un contratto
per imbarcare per la Cina - dove saranno imbottigliati - 58 miliardi di
litri l'anno di acqua proveniente dai ghiacciai dell'Alaska. E questo
perche' in Cina il costo del lavoro e' piu' economico.
La mercificazione assume due forme.
La prima riguarda il consumo dell'acqua in bottiglia a scapito di quella del
rubinetto (ogni anno vengono venduti piu' di 100 miliardi di litri di acqua
imbottigliati) e, per esempio, il 54% degli americani beve regolarmente
acqua in bottiglia (che costa 1.000 volte di piu' di quella
dell'acquedotto).
La seconda forma appalta ai privati la gestione e distribuzione degli
acquedotti, privatizza l'acqua stessa di rubinetto. Poiche' della prima
forma in questa rubrica ci si e' occupati l'anno scorso (cfr. "Il manifesto"
del 19 agosto 2002), adesso ci concentreremo sulla privatizzazione delle
municipalizzate idriche che rappresenta di sicuro la fetta piu' succosa del
business.
Oggi le multinazionali gestiscono e distribuiscono acqua solo per il 7%
della popolazione mondiale, eppure il loro fatturato si aggira intorno ai
200 miliardi di euro e le proiezioni della Banca mondiale stimano che nel
2021 sara' di mille miliardi di euro (una somma equivalente a tutto il
prodotto nazionale lordo annuo dell'Italia).
*
Peculiarita' del mercato idrico: e' l'unico in cui l'Europa e'
all'avanguardia delle privatizzazioni. Infatti, secondo Philip Rohmer,
co-manager di un fondo d'investimento globale per l'acqua lanciato da Swisss
Pictet Funds, citato dal "Christian Science Monitor", in Europa occidentale
il 40% degli acquedotti sono appaltati ai privati mentre negli Usa sono solo
il 15%; e nel 2015 saranno privatizzati il 75% degli acquedotti europei e il
65% di quegli Usa.
L'acqua e' anche l'unico settore in cui le grandi multinazionali sono
europee. Il che produce uno strano fenomeno mediatico: la grande stampa Usa
che fa campagna contro l'imperialismo e lo sfruttamento capitalista delle
grandi multinazionali europee. Suez e Vivendi sono considerate la General
Motor e la Ford dell'acqua, seguite dall'anglotedesca Rwe/Thames Water che
hanno praticato un'aggressiva politica di acquisizioni negli Stati Uniti.
Viene quarta a ruota la Bechtel di San Francisco, compagnia di cui e' stato
amministratore delegato ed e' presidente George Schulz, che fu segretario di
stato sotto Reagan. Nel consiglio d'amministrazione della Bechtel sedeva
anche Caspar Weinberger che di Reagan fu ministro della difesa. (ma non e'
il solo caso in cui acqua e politica si trovano connesse: una ditta idrica
emergente, Azurix, faceva parte del fallito gigante energetico Enron che era
legato a doppio filo con l'attuale vicepresidente Dick Cheney).
*
La privatizzazione degli acquedotti segue una sceneggiatura immutabile.
Viene invocata in nome di una maggior efficienza rispetto alla gestione
"burocratica degli enti pubblici", come soluzione per trovare i fondi per
riparare e modernizzare acquedotti che erano stati costruiti per un numero
molto minore di utenti. Cosi', per esempio, negli Stati Uniti, l'Agenzia per
la protezione ambientale (Epa) stima che nei prossimi 20 anni i comuni Usa
dovranno spendere circa 151 miliardi di dollari per riparare o modernizzare
tubature, filtri e bacini di riserva (e i comuni dovranno spendere altri 460
miliardi di dollari per rimettere in sesto i sistemi fognari, altro settore
su cui si stanno avventando le multinazionali).
Alla privatizzazione spingono Banca Mondiale e Fondo monetario
internazionale, che ne fanno spesso una condizione per concedere i loro
prestiti. Cosi', la Banca mondiale ha posto come condizione al Cile che
fosse garantito a Suez Lyonnaise des Eaux un margine di profitto del 33%.
Stati e municipalita' firmano appalti con queste multinazionali a prezzi
bassissimi che si rivelano illusori. Per rientrare nei costi le
multinazionali licenziano il personale e lesinano sulle riparazioni. La
qualita' dell'acqua diventa sempre meno potabile, finche' si hanno casi di
epidemie, malattie. I comuni protestano. Le multinazionali dicono: "Sorry, a
questi prezzi non possiamo provvedere a tutto, dobbiamo rinegoziare il
contratto". Il contratto viene rinegoziato e le tariffe dell'acqua vengono
alzate in modo insopportabile.
Ecco alcuni sequels di questa trama immutabile:
1. Londra 1989. Margaret Thatcher privatizza l'acqua. Negli anni '90 le
bollette rincarano del 141%. Persino il conservatore "Daily Mirror" dichiara
che "le dieci maggiori compagnie idriche inglesi sono state in grado di
sfruttare la propria posizione monopolistica di fornitori per organizzare la
piu' grande rapina legale della nostra storia".
2. Buenos Aires 1992. Suez vince un appalto trentennale nella periferia
della capitale argentina per gestire acquedotti e fognature, ma poiche' la
costruzione delle fognature va a rilento, le case sono perpetuamente
inondate dai liquami. Proteste. Contratti rinegoziati decine di volte.
Infine nel 2001-2002, lavori bloccati a causa della crisi economica
argentina. Ma Suez Argentina "e' fiera di quel che ha compiuto nel paese".
3. Provincia argentina di Tucuman, 1995. Vivendi ottiene l'appalto del
sistema idrico. La bolletta dell'acqua passa da 24 a 59 pesos (aumento del
140%). La popolazione proclama uno sciopero dei pagamenti. Dopo aver
razionalizzato il sistema di fatturazione Vivendi era riuscita a farsi
pagare il 70% delle bollette, ma con lo sciopero il tasso di raccolta crolla
al 10%. Vivendi smette di effettuare le riparazioni e cosi' il manganese -
che era sempre stato presente nell'acqua - sale a una concentrazione tale
che l'acqua prese il colore della coca cola. Le proteste degli abitanti
aumentano tanto che nel 1998 Vivendi e' costretta a rescindere l'appalto.
4. Bolivia 1999, citta' di Cochabamba (800.000 abitanti). Un consorzio
controllato da Bechtel vince l'appalto per il sistema idrico. Le bollette
aumentano del 300% fino a ingoiare un quarto del reddito di una famiglia. Le
proteste s'intensificano fino a diventare una vera e propria rivolta di
massa, con centinaia di migliaia di dimostranti. Nell'aprile 2000 la polizia
spara sulla folla uccidendo una persona. Il governo rompe il contratto con
il consorzio privato e Bechtel fa causa, chiedendo 25 milioni di dollari dai
poveracci boliviani. "25 milioni di dollari sono pari allo 0,017% del
fatturato della Bechtel, ma per i boliviani con quei soldi si possono pagare
3.000 medici rurali per un anno o 125.000 nuovi allacciamenti
all'acquedotto" dice la Coordinadora che ha condotto la protesta.
5. Sudafrica, 2000. Incoraggiato dal Fmi, il governo dell'African National
Congress (Anc) lancia una politica di cost recovery dei servizi pubblici
("recupero del costi"). A Soweto questa politica ha portato a un aumento del
400% delle bollette elettriche e del sistema idrico, con l'obiettivo di
pareggiare spese e entrate. Nel settore idrico la privatizzazione ha fatto
si' che la bolletta dell'acqua assorba un quarto delle entrate di famiglie
che hanno un reddito di soli 100 dollari al mese. Il paradosso e' che
poiche' le aree residenziali bianche comprano l'acqua all'ingrosso, un litro
d'acqua di una piscina bianca costa meno della meta' di un litro d'acqua da
bere per una famiglia nera povera. I ricercatori dell'Universita' di
Witwatersrand riportano che ogni mese a Johannesburg piu' di 20.000 persone
perdono la loro acqua domestica a causa dell'aumento dei costi. Le famiglie
che non possono permettersi l'acqua di rubinetto attingono ormai l'acqua dei
fiumi che sono inquinati perche' le stesse famiglie non sono allacciate a
sistemi fognari, cosi' bevono l'acqua in cui defecano. Risultato, tra il
2000 e il 2002 gli ospedali pubblici del KwaZulu-Natal hanno riportato
114.000 casi di dissenteria, il quintuplo di quanto e' stato registrato in
quella provincia in tutti i 20 anni precedenti messi insieme.
6. Questi eventi non si limitano ai paesi sottosviluppati. In Canada, dopo
che il governo dell'Ontario ha "sregolato" il mercato dell'acqua, nel 2000
nel paesetto di Walkerton 14 persone (tra cui un bambino) sono morte dopo
aver bevuto acqua contaminata da scoli: fino ad allora Walkerton era stata
rinomata per la purezza della sua acqua. Negli Stati Uniti, ad Atlanta
(Georgia) il comune ha appaltato a United Water (di proprieta' di Suez) il
sistema idrico per 24 milioni di dollari all'anno. Dopo un anno un rapporto
dell'ispettorato comunale mostrava che l'acqua distribuita violava tutte le
regole sanitarie: tra l'altro i livelli di cloro erano sei volte superiori a
quelli consentiti.
*
In tutta questa faccenda vi sono due aspetti che sarebbero ironici se non
fossero tragici.
Il primo e' che la privatizzazione e' giustificata con la necessita' di
attirare investimenti privati. Ma in realta' le multinazionali investono
denaro preso a prestito dai governi locali. Cosi', per esempio, in Sudafrica
l'80% del denaro di un recente progetto di acquedotto veniva dalla
Development Bank of South Africa. In Peru', il 100% del denaro per un
progetto simile e' stato versato dalla Interamerican Development Bank.
L'altra ironia e' che tutte le politiche di estorsione delle multinazionali
idriche vertono sulle bollette dei privati, mentre e' noto che nei centri
urbani il consumo d'acqua e' al 70% industriale, al 20% istituzionale e al
6-10% domestico. Ma nessuno cerca di far pagare di piu' alle compagnie che
hanno sviluppato tutto un settore, e un vocabolario, per approvvigionarsi di
questa preziosa materia prima.
Cosi', a Silicon Valley il settore high tech usa immani quantita' d'acqua,
cercando di procurarsela in tutti i modi.
Ecco le diverse tecniche: water pricing, quando l'industria fa pressione
sullo stato per sussidi e aggira le strutture idriche urbane per pompare
direttamente acqua, quindi pagando molto meno di quanto la pagano gli utenti
residenziali; water mining, quando le compagnie conquistano il diritto di
sfruttare fino a esaurimento falde acquifere sbarrandone l'accesso agli
utenti minori come le fattorie familiari; water ranching, quando l'industria
compra i diritti d'acqua da contadini e rancheros; water dumping quando
l'industria contamina le fonti d'acqua e quindi scarica sulla comunita' i
costi della depurazione.
Insomma se l'acqua e' una merce, si hanno "miniere di acqua", "allevamenti
di acqua", "discariche di acqua".
*
Non si pensi che noi italiani siamo risparmiati. Anzi: nel suo bilancio per
il 2002 Vivendi annuncia tutta fiera che ha ottenuto l'appalto trentennale
per la gestione dell'acqua potabile e per il risanamento di tutto l'Ambito
territoriale di Latina, comprendente 38 comuni e 600.000 abitanti, per 64,5
milioni di euro l'anno. Fino alla prossima rinegoziazione del contratto.
*
Scheda: i tre colossi che sfruttano la sete planetaria
Si contano sulla punta delle dita le compagnie globali che dominano
l'industria dell'acqua. Le prime tre sono europee, la quarta e' l'americana
Bechtel. I dati sulle tre big europee dell'acqua sono tratti dai siti web
delle compagnie, dal dossier sulla privatizzazione dell'acqua ("Un prezzo
per ogni goccia") pubblicato nel dicembre 2002 dal magazine "Mother Jones"
di San Francisco e dal "New York Times" (22 agosto 2002).
- Suez: e' nata nel 1997 dalla fusione della Lyonnaise des Eaux (che, come
dice il nome, era stata fondata intorno al 1880 per gestire le acque della
metropoli sul Rodano) e della banca di Suez che nel 1958 aveva costruito
l'omonimo canale (poi nazionalizzato da Nasser nel 1956). La divisione acqua
di Suez, Ondeo, ha riportato per il 2001 un fatturato di 9 miliardi di
dollari, circa un quarto dell'introito complessivo di Suez (37,7 miliardi di
dollari). Negli Stati Uniti Suez ha acquisito nel 1999 per complessivi 6
miliardi di dollari Nalco, un produttore di sostanze chimiche per il
trattamento dell'acqua, e United Water Resources che gestisce i sistemi
idrici di Atalanta, Portorico, Milwaukee e Washington D. C., e briga per
ottenere l'appalto delle fognature di New Orleans. Ondeo opera in 130 paesi
incluse Francia, Gran Bretagna, Argentina, Indonesia, Filippine, Camerun;
gestisce i sistemi idrici in decine di citta', tra cui Buenos Aires,
Casablanca e Amman. Ha 120 milioni di clienti di cui un terzo in Europa e
Medio Oriente, un quinto in Sudamerica, un altro quinto in Asia e nel
Pacifico, un sesto in Nordamerica e il resto in Africa.
- Vivendi/Veolia: la Compagnie Generale des Eaux fu fondata nel 1853 quando
un decreto imperiale di Napoleone III privatizzo' il settore idrico. Negli
anni '90 (del '900) fu rinominata Vivendi divenendo un conglomerato attivo
nei media e nello spettacolo, che pero' e' crollato nel 2002. A questo punto
il settore idrico Vivendi Environnement ha ricambiato nome e si chiama ora
Veolia. Nel 2001 Vivendi acqua ha riportato un fatturato di 13,6 miliardi di
euro (e un utile di 1,1 miliardi di euro), circa la meta' del fatturato
totale dell'allora compagnia. Negli Stati Uniti nel 1999 Vivendi aveva
acquisito per quasi 8 miliardi di dollari Us Filter Corporation, la seconda
compagnia idrica Usa che gestisce acquedotti di piu' di 500 municipalita'.
Il 45% del suo fatturato e' stato realizzato in Francia, ma opera in 100
paesi tra cui Ungheria, Cina, Corea del Sud, Kazakistan, Libano, Ciad,
Romania e Colombia. Ha 113 milioni di clienti nel mondo cosi' ripartiti: 26
milioni di Francia, 32 in Europa e Medio Oriente, 19 in Asia e nel Pacifico,
11 nel Nordamerica, 9 in Africa, 7 in Sudamerica.
- Rwe/Thames Water: Thames Water fu creata nel 1989 per prendere il
controllo di quello che era stato il sistema idrico pubblico di Londra dopo
che Margaret Thatcher privatizzo' l'acqua. Nel 1999 Thames Water fu
acquistata dalla tedesca Rwe per 9,8 miliardi di dollari e ne divenne la sua
divisione idrica. Nell'anno 2001 la divisione acqua ha riportato un
fatturato di 1,4 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti ha comprato nel 2002
per 7,6 miliardi di dollari American Water Works, che gestisce acquedotti in
27 stati Usa. Opera in 44 paesi tra cui Regno Unito, Germania, Turchia e
Giappone. Ha 54 milioni di clienti cosi' distribuiti: 15 milioni in Gran
Bretagna e Irlanda, 20 nel resto dell'Europa e in Medio Oriente, 14 in Asia
e nel Pacifico, 3 in America del Nord e 3 in quella del Sud.
4. TESTIMONIANZE. LUISA MORGANTINI: PANE E ANGURIA A DIYARBAKIR
[Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini@europarl.eu.int)
per questo intervento scritto di ritorno da Diyarbakir. Luisa Morgantini,
europarlamentare e impegnata nelle Donne in nero, oltre a recarsi nel
Kurdistan turco, ha assistito ad Ankara all'udienza processuale di Leyla
Zana, Hatip Dicle, Orhen Dogan, Sedat Saddak del 18 luglio con i
parlamentari europei Felknas Uca e Luigi Vinci, le parlamentari italiane
Elettra Deiana e Silvana Pisa, Silvana Barbieri di Punto rosso e Nadia
Cervoni delle Donne in nero. Ritornera' in Turchia per assistere alla
prossima udienza del processo a Leyla Zana che si terra' ad Ankara il 15
agosto 2003]
E' davvero dolce l'anguria di Diyarbakir.
I palestinesi si offenderanno molto quando raccontando dei miei incontri nel
Kurdistan turco diro' che mi e' sembrata persino migliore di quella di
Jenin, e sara' ancora peggio per il pane che mi e' sembrato piu' buono di
quello di Nablus.
Pane e anguria, e' il pasto che ho condiviso con una decina di ex
prigioniere/i curdi, nella loro sede, dove ad una parete, dipinto da una ex
carcerata, e' appeso un quadro con una donna che guarda l'isola di Imrali,
la prigione di Ocalan.
Pane e anguria, per me un pasto eccezionale, per loro la quotidianita',
l'unico pasto che possono permettersi insieme al bicchierino di te' che si
servono dolcissimo.
Molte/i di loro hanno sguardi lontani e segnati dalla depressione, i loro
volti e corpi piagati dalla sofferenza, dalle torture, dalle privazioni.
*
Mezgin invece ha gli occhi allegri, e' bella, ha piu' di quarant'anni, si e'
sposata, come succedeva a quasi tutte le donne curde, in eta' giovanissima.
Appena la vedo e ci stringiamo le mani non penso che lei sia stata in
carcere, troppo diretta, spavalda. Invece ci e' stata tre anni, il marito
e' in carcere da piu' di 9 anni, il figlio nella guerriglia e' stato ucciso
durante un bombardamento dell'esercito turco, la figlia di 22 anni e' ancora
sulle montagne. Mezgin non sa nulla di lei da lungo tempo, spera che sia
viva e intanto organizza l'associazione dei prigionieri, perche' quelli
ancora in carcere abbiano assistenza e quelli usciti non siano soli,
abbandonati agli incubi, alla impossibilita' di trovare un lavoro, al
riadattamento alla vita "normale". Hanno aperto centri culturali,
cooperative, tutte gestite da ex-prigionieri, ma sono una goccia
nell'oceano.
*
Mohammed aveva 17 anni quando e' entrato in carcere.
E' uscito lo scorso aprile dopo 15 anni, ne ha girati parecchi di carceri.
Torturato come tutti, tenuto in piedi per giorni e notti, botte,
elettroshock, costretto a mangiare le sue feci, diversi scioperi della fame,
a volte in isolamento, una volta per giorni e giorni ammucchiato con tanti
altri in una cella di due metri per due, non riuscivano quasi a sedersi, ma
"ho studiato, ho imparato molto dagli altri compagni, e' stata la nostra
universita', e poi quando c'era una cosa per qualcuno era per tutti".
*
La prigione, come la tortura, sembrano uguali in tutto il mondo, quante
volte l'ho sentito dire da italiani antifascisti, da spagnoli, cileni,
brasiliani, argentini, sudafricani e dai palestinesi.
Penso a Nizar che si e' sposato l'anno scorso in Italia con Neta, una
pacifista israeliana. Quando lo incontrai a Nablus nel corso dell'Intifada,
nel '91, aveva 19 anni, era appena uscito dal famigerato campo di Ansar tre,
nel deserto del Negev. Non aveva perso le splendore del suo sguardo verde ma
sembrava anoressico tanto era magro. Di fronte alla mia pena per lui, mi
disse quasi la stessa cosa: "si', e' stato duro, sotto le tende caldo,
freddo e fame, ma accanto a me c'erano tutti i miei miti, leader che non
avrei mai conosciuto, si prendevano cura di me, discutevamo, di questo non
mi scordero' mai".
*
Mentre inghiotto l'anguria, faccio la solita, banale, domanda: come ci si
riadatta al fuori?
Ridono e raccontano qualche storia, per esempio di un carcerato di Mersin,
che non aveva mai visto un ascensore, quando stava per entrarci ha letto
"per tre persone", si e' fermato in attesa che arrivassero gli altri due.
Si guardano e dicono che non possono fare a meno l'uno dell'altro, solo
quando sono insieme si sentono sicuri, fuori "e' un mondo in rovina".
E poi arriva da parte loro la solita domanda-invocazione: "perche' l'Europa
ha abbandonato Ocalan, perche' non impone al governo turco la democrazia,
perche' noi dobbiamo andare in carcere solo perche' vogliamo parlare,
cantare, amare nella nostra lingua ed essere rappresentati in parlamento?".
Non sono l'Europa, rispondo, faccio parte di quell'Europa che si ribella ai
due pesi e due misure, che crede nei diritti umani per tutte e tutti, per
questo sono qui, per questo dobbiamo unire le nostre debolezze, per farci
forti.
*
Ci sono ancora piu' di ottomila prigionieri politici nelle carceri turche.
A partire dal 1999 ne sono usciti circa 3.000 e, pur restando piene di check
point militari turchi, nelle diverse province curde e' finito lo stato di
emergenza e il coprifuoco.
Ha contato la scelta di pace voluta dal presidente Ocalan ponendo fine alla
lotta armata ed hanno contato le pressioni europee sul governo turco.
Il varo di un settimo pacchetto di riforme ha visto sulla carta
l'eliminazione dell'art. 8 del codice penale per il quale migliaia e
migliaia di curdi, giornalisti, avvocati, insegnanti, donne, parlamentari
come Leyla Zana, Hatip Dicle, Sedat Sadak, Orhen Dogan sono stati
incarcerati e condannati a decine di anni di prigione.
Ma e' solo sulla carta, ripetono i curdi, come la possibilita' di parlare e
scrivere il curdo; le repressioni continuano, le sedi e i giornali chiusi, e
negli ultimi mesi riprendono le azioni di provocazione per riportare la
guerra, si paventa un accordo Usa-Turchia di cui a farne le spese saranno
ancora una volta i curdi che non possono contare su nessuno, tantomeno sul
governo curdo-iracheno.
*
L'associazione dei prigionieri, il partito Dehap, movimenti di donne e di
societa' civile mentre ribadiscono che sono le mobilitazioni pacifiche ad
aprire la strada della democrazia, hanno avviato una campagna per l'amnistia
generale per i prigionieri, per i rifugiati e per i militanti del Kadek che
sono ancora nelle montagne curde-turche o nei campi del Nord Iraq o in Siria
o nella Bekaa, e chiedono a tutti i democratici, soprattutto all'Unione
Europea, di premere sul governo turco per respingere quella che, presentata
dalla Commissione Giustizia e che dovra' essere votata il 31 luglio dal
Parlamento turco, viene chiamata legge per l'aministia parziale e
condizionata.
Infatti, malgrado il Ministro della Giustizia Cicek sostenga che non sia una
legge per i pentiti, in realta' di questo si tratta. Si esclude
dall'aministia chi ha avuto ruoli dirigenti nel Pkk, si prevede la
scarcerazione per chi non ha partecipato o aiutato formazioni militari ma
previe dichiarazioni di abiura, sconti di pena che variano per chi e' gia'
stato condannato ed ha partecipato o aiutato azioni militari ma che si mette
al servizio della polizia per collaborare, lo stesso per chi si consegna di
ritorno dalla montagna, insomma la delazione.
*
Il 15 agosto riprende il processo contro Leyla Zana e gli altri parlamentari
curdi, il processo e' stato riaperto su imposizione delle Corte di
Strasburgo, finora si e' svolto in modo arbitrario. Se nella prossima
udienza il giudice decidesse la liberta' per i parlamentari, sarebbe un
gesto, certamente dovuto al diritto, e segnerebbe una svolta politica per lo
sviluppo della democrazia in Turchia.
Non avverra' magicamente, le resistenze kemaliste e i militari
fondamentalisti sono ancora molto forti, servono tutte le pressioni della
comunita' internazionale.
5. LIBRI. ANTONIO MOSCATO: ALCUNI RECENTI LIBRI SUGLI STATI UNITI
[Dalla mailing list "Bandiera rossa news" (per contatti:
ba.ro.news@inwind.it) riprendiamo questo articolo di Antonio Moscato,
docente all'Universita' di Lecce, prestigioso studioso e militante del
movimento operaio e dei movimenti di liberazione]
Nell'ultimo anno sono usciti molti libri sugli Stati Uniti: pochissimi
apologetici o tendenti a giustificarne la politica, altri - spesso scritti
da autori di quel paese - severissimi sulle vicende piu' recenti che hanno
preceduto e seguito l'11 settembre, ma anche sulla storia piu' remota, a
partire dalla sua formazione. Ne segnaliamo tre che non si pongono solo
l'interrogativo "perche' ci odiano tanto?", ma cercano di capire dove stanno
andando a finire gli Stati Uniti.
*
Un sociologo e demografo francese, Emmanuel Todd, affronta i problemi in un
testo provocatorio fin dal titolo (Dopo l'impero. La dissoluzione
dell'impero americano, Marco Tropea, Milano 2003). Riallacciandosi a tesi di
Brzezinski, Paul Kennedy e Chalmers Johnson, Todd sostiene che il rischio
maggiore per gli Stati Uniti e' di "rimanere isolati nel loro nuovo mondo",
di fronte a "un'Eurasia riunificata dal crollo del comunismo".
Anche se alcune argomentazioni sono bizzarre (Todd ad esempio si vanta di
aver previsto nel 1976 il crollo finale del sistema sovietico basandosi su
statistiche demografiche, in particolare sul calo della fecondita', e ora
ripropone lo stesso metodo per altre previsioni, tra cui "il ritorno della
Russia sulla scena mondiale"), la tesi centrale e' che all'inizio del XX
secolo gli Stati Uniti "non avevano bisogno del mondo" mentre il mondo aveva
bisogno di loro, come si vide al momento delle due guerre mondiali.
Tuttavia, se nel 1945 il Pnl statunitense rappresentava piu' della meta' di
quello mondiale, e "l'effetto di dominazione fu automatico, immediato" anche
per il compito assuntosi (e delegato agli Usa da tutti i paesi capitalisti)
di "arginare il comunismo", nel corso degli anni "quello stesso predominio
ha colpito, ma in profondita', anche la struttura interna della nazione
dominante, indebolendone l'economia e deformandone la societa'".
Anche se all'inizio il processo ' stato lento e graduale, e l'inversione del
rapporto di dipendenza e' cominciata "senza che gli attori della storia se
ne siano resi conto", negli ultimi due decenni "il deficit commerciale
americano e' comparso come un elemento strutturale dell'economia mondiale".
Tra il 1990 e il 2000 e' passato da 100 a 450 miliardi di dollari, e "per
riequilibrare i suoi conti esteri, l'America ha bisogno di un flusso di
capitali stranieri di volume equivalente. In quest'inizio di terzo
millennio, gli Stati Uniti non possono piu' vivere della loro produzione".
La conclusione di Todd e' che "nel momento stesso in cui il mondo, in corso
di stabilizzazione educativa, demografica e democratica (sic!), e' sul punto
di scoprire che puo' fare a meno dell'America, l'America si accorge che non
puo' piu' fare a meno del mondo".
Todd descrive di fatto una superpotenza che vive alla giornata, e che vede
ridursi di anno in anno i vantaggi acquisiti in passato: ad esempio se la
produzione Usa alla vigilia del 1929 rappresentava il 44,5% di quella
mondiale contro l'11,6% della Germania, il 9,3% della Gran Bretagna, il 2,4
del Giappone, oggi il prodotto industriale statunitense e' di poco inferiore
a quelle dell'Unione Europea e appena superiore a quello del Giappone; e
cio' vale anche per le produzioni ad alto livello tecnologico, tanto e' vero
che nel 2003 l'europea Airbus produrra' la stessa quantita' di aerei di
Boeing.
Todd vede come probabile e anzi gia' annunciata da vari sintomi l'ipotesi di
un avvicinamento tra Europa e Giappone, che renderebbe piu' difficile la
"riscossione del tributo" (come Todd chiama il ruolo schiacciante degli Usa
nell'esportazione di armi, mentre ritiene che la posizione dominante delle
multinazionali americane del petrolio, se puo' spiegare la "fissazione
ossessiva della politica estera americana su questo bene particolare", non
puo' bastare "a finanziare le importazioni americane di beni di ogni
genere"). Che tuttavia vengono pagati, facendo dire ad alcuni economisti che
il "ruolo economico mondiale degli Stati Uniti non e' piu' produrre beni,
come le altre nazioni, ma moneta".
Il libro di Todd ha anche un intero capitolo sul ritorno della Russia sulla
scena mondiale, che egli ritiene possibile e necessario. Egli sostiene che
le indecisioni degli Stati Uniti hanno impedito di raggiungere i due
obiettivi essenziali indicati a suo tempo da Brzezinski: la totale
disintegrazione della Russia, e il "mantenimento di un certo livello di
tensione tra gli Stati Uniti e la Russia", che avrebbe dovuto "impedire il
riavvicinamento tra l'Europa e la Russia", di cui invece Todd scorge le
solide basi materiali (un intercambio di beni tra Russia e Europa per 75
miliardi di euro, mentre quello con gli Usa e' appena di 10 miliardi).
Emmanuel Todd ritiene che l'innegabile superiorita' militare degli Usa non
annulla gli effetti negativi della loro strategia: "Non potendo
padroneggiare le vere potenze del suo tempo - controllare il Giappone e
l'Europa in campo industriale, distruggere la Russia in campo militare
nucleare - l'America, per mettere in scena una parvenza di impero, ha dovuto
scegliere un'azione militare e diplomatica che si esercita nel campo delle
non-potenze: l'asse del male e il mondo arabo, due sfere la cui intersezione
e' l'Iraq. L'azione militare, per il suo livello d'intensita' e di rischio,
ormai si situa tra la guerra vera e il videogioco. Si mettono sotto embargo
dei paesi incapaci di difendersi, e si bombardano eserciti insignificanti".
*
Per molti aspetti il secondo libro preso in esame e' ancora piu' stimolante.
John Mearsheimer e' uno studioso della prestigiosa e "laica" Universita' di
Chicago, discepolo della scuola realista di Hans Morgenthau e convinto che
sia meglio "guardare il mondo cosi' com'e', e non come ci piacerebbe che
fosse".
Nel suo volume (La logica di potenza. L'America, le guerre, il controllo del
mondo, Universita' Bocconi Editore, Milano 2003) che nell'edizione originale
aveva il titolo piu' inquietante di The Tragedy of Great Power, si tenta un
compendio della storia mondiale dalle guerre napoleoniche a oggi,
smantellando a una a una le certezze ottimistiche e tranquillizzanti
sull'evitabilita' dei conflitti.
Identificando le varie ragioni che hanno portato alle guerre, e soprattutto
quelle che hanno determinato la vittoria di una coalizione sull'altra,
spesso contro tutte le previsioni basate solo sulla forza degli eserciti
(esempio classico i rapporti di forza tra la Francia napoleonica e la Russia
nel 1812, quando il fattore morale peso' piu' del numero dei combattenti e
della qualita' degli armamenti), Mearsheimer traccia un grande affresco a
volte prolisso, a volte perfino con affermazioni lapalissiane, ma sempre nel
complesso avvincente e utile per spazzare via illusioni infondate.
Nella prefazione Sergio Romano, uno dei piu' intelligenti e lucidi tra i
conservatori italiani (e per giunta con una notevole esperienza di storico,
oltre che di diplomatico e di politico), valorizza questa impostazione, che
riassume efficacemente cosi': "I grandi Stati - ricorda Mearsheimer - non
sono ne' buoni ne' cattivi, non perseguono la virtu' ma l'egemonia, non si
conformano alle tavole della legge morale ma alle dure regole della
sopravvivenza".
Per orientarsi, bisogna dunque "ricordare che la societa' internazionale e'
anarchica" (e a questo proposito va ricordato che solo in due pagine delle
460 del libro si fa un accenno all'Onu, ma per sottolinearne l'impotenza);
che le grandi potenze dispongono di una considerevole forza militare e sono
quindi, nei loro reciproci rapporti, potenzialmente pericolose; che nessuno
Stato puo' essere certo delle intenzioni degli altri; che la principale
preoccupazione di ogni Stato e' la sopravvivenza; che i comportamenti dei
singoli Stati sono tuttavia razionali e quindi attenti a calcolare, per
quanto possibile, le reazioni altrui".
Sergio Romano aggiunge che Mearsheimer sa bene "che la maggioranza dei suoi
connazionali non condivide queste premesse, crede ottimisticamente nel
progresso e si ostina a giudicare il mondo secondo criteri morali" ma sa
anche che il moralismo dell'opinione pubblica non ha un'influenza
determinante sulla politica estera degli Stati Uniti. Al massimo i
governanti statunitensi "sono costretti ad avvolgere le loro decisioni nelle
argomentazioni dell'ottimismo liberale e umanitario", senza che questo
impedisca loro di parlare "il linguaggio del potere" quando si riuniscono a
porte chiuse.
Sergio Romano osserva che se questo libro "fosse stato pubblicato dopo lo
scoppio della crisi irachena, Mearsheimer avrebbe constatato che gli ultimi
sviluppi della politica estera americana confermano la sua analisi. Quando
si e' accorto che il disarmo dell'Iraq non giustificava, per una parte della
pubblica opinione, il ricorso alle armi, Bush ha sostenuto che la guerra
avrebbe permesso la diffusione della democrazia nel mondo arabo", cioe' ha
"appiccicato un obiettivo ideale su un obiettivo politico-militare".
In genere l'autore si spinge piu' lontano dei suoi maestri "nel descrivere e
prescrivere comportamenti che un pacifista definirebbe probabilmente cinici
e brutali", e nella franchezza con cui afferma di non credere che gli Stati
democratici possano trovare piu' facilmente soluzioni pacifiche alle loro
divergenze.
L'ultimo capitolo su La politica di potenza nel XXI secolo abbozza alcune
previsioni sul ruolo degli Stati Uniti nel prossimo futuro, in un mondo in
cui tutte le fantasie sulla fine dei conflitti appaiono campate in aria.
Mearsheimer non cita mai Toni Negri o Michael Hardt, ma ne fa a pezzi le
teorie. Probabilmente non sa neppure chi siano, dato che frequenta altri
ambienti, ma evidentemente polemizza con gli autori statunitensi "non
realisti" che li hanno ispirati.
"Il mondo reale rimane un mondo realista", scrive polemizzando con le
fumisterie di Clinton, e osservando che "gli Stati continuano ad aver paura
l'uno dell'altro e a cercare di guadagnare potere a spese altrui, perche'
l'anarchia internazionale - principale determinante del comportamento delle
grandi potenze - non e' terminata con la fine della guerra fredda, e vi sono
ben pochi segni che un tale cambiamento si verifichi in tempi brevi. Gli
Stati restano i principali attori della politica mondiale e non c'e' ancora
nessun guardiano notturno che vigili su di essi".
Anche se e' innegabile che il crollo dell'Unione Sovietica ha provocato uno
spostamento radicale nella distribuzione globale del potere, tuttavia "non
ha dato origine ad alcun attenuamento della struttura anarchica del
sistema - semmai il contrario - e non c'e' quindi motivo di aspettarsi che
le grandi potenze assumano nel nuovo secolo comportamenti molto diversi da
quelli adottati nei due secoli precedenti". La miglior prova di cio' sta,
secondo Mearsheimer, nel fatto "che gli Stati Uniti mantengono circa
centomila soldati di stanza in ciascuno dei due continenti, l'europeo e
l'asiatico". Egli non e' sicuro che cio' sia utile oggi, e che non esistano
altri mezzi meno costosi per ottenere il risultato di mantenere l'egemonia
nell'emisfero occidentale e impedire la nascita di un rivale in Europa o in
Asia Orientale. Non c'e' dubbio che egli teme soprattutto la Cina, che
tuttavia non e' ancora un pericolo militare, e che va fronteggiata per ora
con altri mezzi: "gli Stati Uniti- dice senza reticenza - hanno un forte
interesse a determinare una minore crescita dell'economia cinese nei
prossimi anni".
*
Abbiamo gia' ricordato Sergio Romano come attento prefatore del libro di
Mearsheimer, ma va detto che in un breve e incisivo saggio (Il rischio
americano. L'America imperiale, l'Europa irrilevante, Longanesi, Milano
2003) egli ha gettato nel dibattito politico italiano le stesse tesi.
Egli spazza via tutte le ricostruzioni apologetiche del ruolo morale degli
Stati Uniti, spiegando ad esempio che gia' la dottrina Monroe non era cosi'
idealistica e anticoloniale, ma copriva la volonta' di concentrare le forze
sul proprio continente escludendone i rivali europei. Fin dai primi anni,
scrive "la giovane repubblica non fu mai ne' pacifista ne' indifferente
all'importanza delle armi nelle vicende della politica internazionale".
Uscita dalla guerra di secessione avendone ricavato, "con qualche anno di
anticipo rispetto ai grandi Stati europei, una straordinaria lezione
sull'uso di grandi masse, attrezzate con armi nuove" la "giovane repubblica"
era pronta ad altre imprese: "Frenate e assopite dalla guerra civile, le
energie imperiali si risvegliarono verso la fine del secolo. La guerra di
Cuba fu un'operazione maramaldesca, decisa con un futile pretesto
(l'esplosione dell'incrociatore americano Maine nel porto dell'Avana non fu
provocata dagli spagnoli)". Viva la franchezza!
Il libro ripercorre le varie tappe del periodico disimpegno degli Stati
Uniti in altri continenti, in genere dettato dalla speranza che i
contendenti si logorassero a vicenda. L'entrata nella Prima Guerra Mondiale
fu decisa quando emerse il pericolo per la liberta' di navigazione e di
commercio rappresentato dalla guerra sottomarina della Germania, e sorse il
timore di una sconfitta della Gran Bretagna, con cui da quasi un secolo si
era stabilita una ragionevole divisione di compiti, mentre nella Seconda, fu
decisiva la percezione della minaccia giapponese ai possedimenti diretti nel
Pacifico e agli interessi statunitensi in Cina (mentre Truman, che era
presidente del congresso, auspicava ancora il disimpegno, per lasciare che
Germania e Unione Sovietica si dissanguassero reciprocamente). Roosevelt,
come e' stato ricordato subito dopo l'11 settembre, era stato preavvertito
dell'attacco a Pearl Harbor, ma evito' di prendere misure per usare quei
morti per vincere le resistenze isolazioniste o apertamente filonaziste in
molti ambienti politici e militari.
Sergio Romano paragona poi la politica di Kissinger a quella bismarckiana
dell'equilibrio tra le potenze, basata sul rientro in gioco della Cina in
funzione antisovietica, e accenna a nuove tentazioni imperiali emerse con
l'elezione di Ronald Reagan nel 1980, ma si concentra soprattutto sul
periodo successivo al 1989: "Capimmo subito che gli Stati Uniti erano ormai,
dopo il collasso dell'impero sovietico e la disintegrazione dell'Urss, la
sola grande potenza mondiale. Ma non capimmo quale uso avrebbero fatto dello
straordinario potere che la fine della guerra fredda aveva depositato nelle
loro mani".
In tutti i capitoli successivi Romano ripercorre le scelte statunitensi
dell'ultimo decennio con inquietudine, giungendo pero' alla conclusione che
cio' e' stato facilitato dal fatto che l'Europa e' "irrilevante", perche'
divisa, non adeguatamente attrezzata sul piano militare, ecc. La tesi e'
discutibile, perche' sorvola sulle affinita' politiche e morali degli
imperialismi europei con gli Stati Uniti, ma non e' questo l'essenziale.
Sergio Romano e' fortemente preoccupato per il futuro perche', se e' vero -
come dicono i "partigiani dell'egemonia americana" - che gli Stati Uniti
"sono una grande democrazia", perche' ha una stampa vivace e un forte
associazionismo, egli sa bene che "le democrazie non sono necessariamente
sagge e la maggioranza, in molte circostanze, puo' avere clamorosamente
torto. Fu la maggioranza che linciava i neri nel Sud e voleva la
segregazione razziale, (...) che sostenne il senatore McCarthy, (...) che
sollecita il Congresso di approvare le leggi extraterritoriali con cui
l'America pretende di estendere la sua giurisdizione a qualsiasi Paese
straniero, (...) che autorizza il presidente e il Congresso a respingere i
maggiori accordi internazionali stipulati negli ultimi anni: dal trattato
contro le mine antiuomo ai protocolli di Tokyo", ecc.
"Gli errori delle democrazie non mi sorprendono e non mi scandalizzano"
scrive Romano. "Sarei sorpreso, al contrario, se il numero fosse garanzia di
verita'". Il pericolo, se mai, e' nella convinzione che "la democrazia sia
sempre virtuosa e giusta".
D'altra parte "quando fa politica estera, l'America e' la prima a non farsi
illusioni. Anche se affermano il contrario, i suoi uomini di Stato sanno che
la democrazia non e' una Gerusalemme terrestre". E a questo punto Sergio
Romano elenca tutte le dittature appoggiate dagli Stati Uniti, osservando
che "pericoloso e fuorviante e' invece (...) il sovrappiu' di miele retorico
con cui viene continuamente condita e spacciata la ricetta democratica".
"Una certa dose di retorica e' fisiologica e accettabile. I veri guai
cominciano quando l'America, trascinata dalle proprie inclinazioni morali o
dalla necessita' di meglio giustificare i propri obiettivi, pretende di
agire in nome di un principio ideale". E fa l'esempio della scelta di Bush
di "mascherare le intenzioni originali della sua politica irachena dietro un
ambizioso disegno politico-morale: la creazione di un Iraq democratico come
passo iniziale per la trasformazione democratica dell'intera regione".
Nel migliore dei casi, se tradira' la promessa, suscitera' delusioni e
critiche, ma "nel peggiore, se cerchera' di mantenerla, creera' regimi
artificiali che avranno una vita breve, un trapasso traumatico e
incalcolabili effetti sulla stabilita' del Medio Oriente. Ecco perche' il
mondo ha bisogno dell'Europa".
Probabilmente la fiducia di Sergio Romano nell'Europa non e' ben riposta, ma
la sfiducia nella capacita' degli Stati Uniti di gestire il dopoguerra in
Iraq mi sembra fondatissima. Vedremo.
*
Nessuno di questi saggi, ovviamente, ci dice davvero "dove sta andando
l'impero americano" (per parafrasare il titolo dell'articolo di Hobsbawm),
ma un po' tutti, da varie angolazioni e con metodologie a volte molto
diverse, ci dicono che questa fase della politica statunitense, pur
riallacciandosi a precedenti ben radicati nella storia del paese, si scontra
oggi con problemi nuovi e pericolosi di "sovraesposizione", e soprattutto
con difficolta' - sul terreno dell'economia - probabilmente sottovalutate
dall'attuale gruppo dirigente. Ci dicono insomma che dobbiamo seguire con
grande attenzione le vicende degli Stati Uniti, senza ignorare la
complessita' di un paese che ha saputo o dovuto mutare la sua politica piu'
volte nell'ultimo secolo, e che contrariamente a quel che puo' pensare
Donald Runsfeld, e' potente ma non onnipotente.
6. RILETTURE. NATALIA GINZBURG: LESSICO FAMIGLIARE
Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1963, Mondadori,
Milano 1974 (ma naturalmente anche successivamente piu' volte ristampato
presso entrambi gli editori), pp. XVI + 200. E' uno di quei libri che non si
cesserebbe mai di riprendere in mano e rileggere.
7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 628 del 31 luglio 2003