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Israele: l’avvocato del "nemico" intervista a Leah Tsemel



Leah Tsemel, avvocato e criminologa israeliana, ha partecipato in 
qualità di membro della Giuria alla 31ª sessione del Tribunale 
permanente dei popoli (Roma, 14-16 dicembre).

Proprio perché lo stato di Israele calpesta, sistematicamente, i 
diritti del popolo palestinese, il mio impegno ha un senso. E la mia 
presenza è necessaria.

Anche se una come me poi ce la fa a vivere, perde comunque la sua 
reputazione. Per i suoi compatrioti è una traditrice; negli arabi 
suscita sospetto.

Mai come oggi, c’è stata una convergenza di interessi così perfetta fra 
le due parti: gli americani vogliono mettere le mani sul petrolio 
iracheno; gli israeliani vogliono approfittare di questa situazione.

“No, non ho mai pensato di lasciare questo paese”. Leah Tsemel, 
avvocato e criminologa, quasi si sorprende della domanda. Una vita 
professionale e famigliare, lontano da qui, non riesce assolutamente ad 
immaginarla. Come lo scrittore David Grossman (v. MO 10/02) e 
l’antropologo Jeff Halper (v. MO 1/03), ha la percezione di essere al 
posto giusto nel momento giusto. “Proprio perché lo stato di Israele 
calpesta, in modo sistematico, i diritti del popolo palestinese, il mio 
impegno ha un senso. E la mia presenza è necessaria”, dice.
Solo due avvocati israeliani, due donne – Felicia Langer (oggi 
residente a Tübingen, in Germania, dove ha accettato una cattedra 
universitaria e si è chiusa in esilio volontario) e lei – sin dai primi 
anni ‘70 hanno accettato di rappresentare in giudizio dei prigionieri 
politici palestinesi. Il che ha significato una tensione e uno stress 
divoranti giorno su giorno, un lavoro mal pagato, una carriera 
stroncata sul nascere. “Anche se una come me poi ce la fa a vivere, 
perde comunque la sua reputazione. Per i suoi compatrioti è una 
traditrice; negli arabi suscita sospetto”. Eppure, ci sono famiglie 
palestinesi che da tre generazioni vengono difese da Leah Tsemel. Si 
deve ad israeliane/i come lei, se questo paese per certi versi può 
continuare a dirsi democratico.

Com’è lavorare come avvocato in un paese che, sistematicamente, viola i 
più fondamentali fra i diritti umani?
In un posto di questo genere, c’è bisogno di avvocati più che in 
qualunque altro... Il lavoro è molto e di grande rilevanza. Data la 
situazione, siamo continuamente coinvolti in nuove battaglie legali. 
Davanti a tribunali militari, difendiamo palestinesi come singoli 
individui. Presso la Corte suprema di giustizia israeliana, solleviamo 
questioni di principio. Infine nei tribunali ordinari, ci battiamo 
quotidianamente per controversie di ogni tipo. Quello che Jeff Halper 
(v. MO 1/2003) ha recentemente raccontato ai vostri lettori in merito 
al tentativo di difendere i palestinesi cui sono state rase al suolo le 
abitazioni, ha naturalmente un secondo capitolo, di carattere 
giudiziario: dalle strade ai tribunali, la lotta prosegue.
Le è mai capitato di difendere uno dei firmatari della petizione 
"refusenik" contro il servizio militare nei Territori occupati?
Sì, naturalmente. Ma fra le cose che faccio, questa è una delle più 
semplici. Dico “semplice”, perché l’imputato non è un arabo. E dunque 
non è qualcuno che per la lingua che parla, per il colore della sua 
pelle, per l’area culturale da cui proviene, ecc. è considerato un 
terrorista. Quando è un palestinese ad essere coinvolto, scattano 
automaticamente una serie di pregiudizi. Sin dall’inizio mi relaziono 
con qualcuno che è considerato un “nemico dello stato”; e devo 
insistere sul diritto di quel “nemico”. Che non è cosa facile.
Un refusenik è, dopo tutto, un ebreo israeliano che va nell’Esercito, 
ma consapevolmente rifiuta il servizio nei Territori. Fino a questo 
momento, la posizione dello stato è stata molto lineare. Per me, 
ripeto, sono dei casi semplici: possono andare a trovarli in carcere, 
mentre nel caso del palestinesi questo è un diritto che mi viene molto 
spesso negato. Ancora: il mio cliente, se è palestinese, è sottoposto a 
torture durante gli interrogatori; le sue condizioni di prigionia sono 
difficilissime. A confronto, un detenuto israeliano gode di privilegi.
Quanto tempo passa prima che lei possa incontrare un suo cliente 
palestinese dopo l’arresto?
Legalmente posso vederlo, nei Territori occupati, 18 giorni dopo 
l’arresto. Non è mai capitato, in tutta la mia carriera, che ciò 
avvenga prima. La famiglia deve attendere un mese.
Per quale ragione ha scelto di fare proprio la criminologa?
Risale a trent’anni fa, questa decisione. Allora pensavo (e tuttora 
penso) che i cosiddetti “criminali”, quelli che stanno peggio, che 
dalla nascita sono socialmente svantaggiati, avessero maggior bisogno 
di tanti altri di un buon avvocato. Pochissime persone, all’epoca, 
erano disposte ad assumersi casi così: era decisamente impopolare; si 
veniva attaccati in maniera pesante. Dunque, bisognava essere molto 
coraggiosi per fare i criminologi. Non è mai stato facile.
Si ricorda qualche storia in particolare?
Moltissime. Di una stessa famiglia, mi è capitato di rappresentare il 
padre, il nonno, il figlio e oggi il nipote. È una lunga lotta.
Veniamo alle elezioni del 28 gennaio. Chi pensa che le vincerà?
Molto probabilmente Sharon e, con lui, la destra. Che forse dà una 
descrizione esatta dello stato in cui ci troviamo. La maggioranza degli 
israeliani, oggi, è di destra. Si considerano dei “patrioti”. Non 
pensano ad alcuna reciprocità tra se stessi e i palestinesi. Non 
pensano ad un futuro per entrambi. Hanno invece gettato le basi per una 
relazione simile a quella che lega un padrone ad uno schiavo. Non 
riconoscono il diritto all’indipendenza, all’autodeterminazione dei 
palestinesi. E l’obiettivo principale resta quello di liberarsi del 
maggior numero possibile di loro e di occuparne i territori. Questa è 
l’atmosfera che si respira oggi in Israele.
Che cosa pensa di Ariel Sharon?
La mia opinione è molto negativa. Penso che non stia solo guidando gli 
israeliani, ma che li stia plasmando secondo il suo carattere, la sua 
natura. Intendo dire che Ariel Sharon è Israele oggi. E Israele è lui. 
Su ciò non dobbiamo farci illusioni. Questa è la vera faccia del nostro 
paese. Se si prende Sharon, l’intera storia della sua vita, è 
l’immagine reale di quello che siamo. Molto più di Rabin o di chiunque 
altro. Con questo non voglio dire che Rabin fosse un santo… Eppure, c’è 
qualcosa di positivo nel fatto che sia lì ad occupare il posto di 
premier. Perché fa esattamente ciò che Israele vuole che faccia. Lo fa 
alla luce del sole. Non so dove tutto ciò ci porterà… Ma quel che è 
certo, è che non ci sono maschere oggi sulla faccia.
Quanto l’Amministrazione americana sta influenzando quella israeliana? 
Mai come oggi Washington e Tel Aviv sembrano marciare allo stesso passo…
Innanzitutto, dovremmo stabilire chi influenza chi. Perché nemmeno 
questo è chiaro. A volte sembra che sia “la coda a muovere il cane” e 
non il contrario. Certo è che, mai come oggi, c’è stata una convergenza 
di interessi così perfetta fra le due parti: gli americani vogliono 
mettere le mani sul petrolio iracheno; mentre gli israeliani vogliono 
approfittare di questa situazione, aiutando gli Usa dietro una ricca 
contropartita. Ambiscono, infatti, a diventare la base degli interessi 
americani in Medio Oriente, o il loro ufficiale sostituto. Una nuova 
guerra contro l’Iraq, più che mai, mette Tel Aviv nella condizione di 
agire con un balzo in avanti ai danni della popolazione palestinese: 
eliminarli, occuparne le terre è di sicuro “più facile”, se c’è un 
conflitto in corso.
L’influenza americana, a suo avviso, sta in qualche modo distruggendo 
la cultura israeliana?
È molto difficile parlare di una “cultura israeliana”. Forse una 
“dis-cultura”… Quella israeliana è una cultura colonialista, fatta di 
razzismo, che ricorda da vicino il regime sudafricano ai tempi 
dell’apartheid. Dove vigeva la legge del più forte.
C’è una lotta in corso anche fra voi avvocati? La magistratura 
israeliana, come tutte le magistrature, è percorsa da correnti 
politiche di destra e di sinistra?
Naturalmente, in Israele ognuno è interessato alla politica. È come se, 
vivendo qui, fosse impossibile restarne fuori, non schierarsi. Se c’è 
però anche una lotta anche fra gli avvocati stessi? Non proprio. C’è 
chi, come me, ha scelto di rappresentare i palestinesi davanti allo 
stato; e, dunque, ha dibattiti con gli avvocati che difendono lo stato. 
Questo cerca perennemente di giustificare le proprie violazioni: dalle 
demolizioni delle case alle confische di terre, all’uso della tortura. 
E noi non siamo riusciti ad organizzare un vasto movimento d’opinione 
pubblica.
Come mai?
Non sono nella corrente di maggioranza. Non sono una sionista. Non 
posso promettere alla maggioranza sionista una soluzione per loro 
praticabile. Contemporaneamente, la gente è influenzata da ciò che essa 
chiama “terrore”: il senso di insicurezza è profondamente radicato 
negli israeliani. Di questo, essi incolpano i palestinesi; evitano di 
guardare dentro se stessi. Quindi, è difficile. Non ho una vera 
alternativa da offrire.
Qual è la reazione dell’opinione pubblica israeliana davanti all’alto 
tasso di suicidi anche fra giovanissimi, denunciato recentemente dal 
quotidiano Ma’ariv?
Sono spaventati da questa volontà di morte che pervade la società 
israeliana. Ma non riescono a capire che sono essi stessi gli artefici, 
tramite le tante rioccupazioni, le rappresaglie ai danni dei 
palestinesi, di tanta disperazione: se i teen-ager si uccidono, è 
perché il presente è un inferno. E il futuro non può essere tanto diverso.
Lei ha un sogno?
Certo, che ce l’ho. Ma sembra allontanarsi ogni giorno di più. Vorrei 
che riuscissimo a vivere nell’equanimità, senza repressione. Ma come ho 
detto: anziché realizzarsi sembra scomparire per sempre. Non so quanto 
realistico sia sognare oggi…
Ha mai pensato di lasciare Israele?
No. Il mio impegno ha più efficacia lì che altrove.

A cura di ALESSANDRA GARUSI