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Israele: l’avvocato del "nemico" intervista a Leah Tsemel
- To: news@peacelink.it
- Subject: Israele: l’avvocato del "nemico" intervista a Leah Tsemel
- From: Enrico Marcandalli <ramalkandy@iol.it>
- Date: Fri, 07 Feb 2003 12:27:48 +0100
Leah Tsemel, avvocato e criminologa israeliana, ha partecipato in
qualità di membro della Giuria alla 31ª sessione del Tribunale
permanente dei popoli (Roma, 14-16 dicembre).
Proprio perché lo stato di Israele calpesta, sistematicamente, i
diritti del popolo palestinese, il mio impegno ha un senso. E la mia
presenza è necessaria.
Anche se una come me poi ce la fa a vivere, perde comunque la sua
reputazione. Per i suoi compatrioti è una traditrice; negli arabi
suscita sospetto.
Mai come oggi, c’è stata una convergenza di interessi così perfetta fra
le due parti: gli americani vogliono mettere le mani sul petrolio
iracheno; gli israeliani vogliono approfittare di questa situazione.
“No, non ho mai pensato di lasciare questo paese”. Leah Tsemel,
avvocato e criminologa, quasi si sorprende della domanda. Una vita
professionale e famigliare, lontano da qui, non riesce assolutamente ad
immaginarla. Come lo scrittore David Grossman (v. MO 10/02) e
l’antropologo Jeff Halper (v. MO 1/03), ha la percezione di essere al
posto giusto nel momento giusto. “Proprio perché lo stato di Israele
calpesta, in modo sistematico, i diritti del popolo palestinese, il mio
impegno ha un senso. E la mia presenza è necessaria”, dice.
Solo due avvocati israeliani, due donne – Felicia Langer (oggi
residente a Tübingen, in Germania, dove ha accettato una cattedra
universitaria e si è chiusa in esilio volontario) e lei – sin dai primi
anni ‘70 hanno accettato di rappresentare in giudizio dei prigionieri
politici palestinesi. Il che ha significato una tensione e uno stress
divoranti giorno su giorno, un lavoro mal pagato, una carriera
stroncata sul nascere. “Anche se una come me poi ce la fa a vivere,
perde comunque la sua reputazione. Per i suoi compatrioti è una
traditrice; negli arabi suscita sospetto”. Eppure, ci sono famiglie
palestinesi che da tre generazioni vengono difese da Leah Tsemel. Si
deve ad israeliane/i come lei, se questo paese per certi versi può
continuare a dirsi democratico.
Com’è lavorare come avvocato in un paese che, sistematicamente, viola i
più fondamentali fra i diritti umani?
In un posto di questo genere, c’è bisogno di avvocati più che in
qualunque altro... Il lavoro è molto e di grande rilevanza. Data la
situazione, siamo continuamente coinvolti in nuove battaglie legali.
Davanti a tribunali militari, difendiamo palestinesi come singoli
individui. Presso la Corte suprema di giustizia israeliana, solleviamo
questioni di principio. Infine nei tribunali ordinari, ci battiamo
quotidianamente per controversie di ogni tipo. Quello che Jeff Halper
(v. MO 1/2003) ha recentemente raccontato ai vostri lettori in merito
al tentativo di difendere i palestinesi cui sono state rase al suolo le
abitazioni, ha naturalmente un secondo capitolo, di carattere
giudiziario: dalle strade ai tribunali, la lotta prosegue.
Le è mai capitato di difendere uno dei firmatari della petizione
"refusenik" contro il servizio militare nei Territori occupati?
Sì, naturalmente. Ma fra le cose che faccio, questa è una delle più
semplici. Dico “semplice”, perché l’imputato non è un arabo. E dunque
non è qualcuno che per la lingua che parla, per il colore della sua
pelle, per l’area culturale da cui proviene, ecc. è considerato un
terrorista. Quando è un palestinese ad essere coinvolto, scattano
automaticamente una serie di pregiudizi. Sin dall’inizio mi relaziono
con qualcuno che è considerato un “nemico dello stato”; e devo
insistere sul diritto di quel “nemico”. Che non è cosa facile.
Un refusenik è, dopo tutto, un ebreo israeliano che va nell’Esercito,
ma consapevolmente rifiuta il servizio nei Territori. Fino a questo
momento, la posizione dello stato è stata molto lineare. Per me,
ripeto, sono dei casi semplici: possono andare a trovarli in carcere,
mentre nel caso del palestinesi questo è un diritto che mi viene molto
spesso negato. Ancora: il mio cliente, se è palestinese, è sottoposto a
torture durante gli interrogatori; le sue condizioni di prigionia sono
difficilissime. A confronto, un detenuto israeliano gode di privilegi.
Quanto tempo passa prima che lei possa incontrare un suo cliente
palestinese dopo l’arresto?
Legalmente posso vederlo, nei Territori occupati, 18 giorni dopo
l’arresto. Non è mai capitato, in tutta la mia carriera, che ciò
avvenga prima. La famiglia deve attendere un mese.
Per quale ragione ha scelto di fare proprio la criminologa?
Risale a trent’anni fa, questa decisione. Allora pensavo (e tuttora
penso) che i cosiddetti “criminali”, quelli che stanno peggio, che
dalla nascita sono socialmente svantaggiati, avessero maggior bisogno
di tanti altri di un buon avvocato. Pochissime persone, all’epoca,
erano disposte ad assumersi casi così: era decisamente impopolare; si
veniva attaccati in maniera pesante. Dunque, bisognava essere molto
coraggiosi per fare i criminologi. Non è mai stato facile.
Si ricorda qualche storia in particolare?
Moltissime. Di una stessa famiglia, mi è capitato di rappresentare il
padre, il nonno, il figlio e oggi il nipote. È una lunga lotta.
Veniamo alle elezioni del 28 gennaio. Chi pensa che le vincerà?
Molto probabilmente Sharon e, con lui, la destra. Che forse dà una
descrizione esatta dello stato in cui ci troviamo. La maggioranza degli
israeliani, oggi, è di destra. Si considerano dei “patrioti”. Non
pensano ad alcuna reciprocità tra se stessi e i palestinesi. Non
pensano ad un futuro per entrambi. Hanno invece gettato le basi per una
relazione simile a quella che lega un padrone ad uno schiavo. Non
riconoscono il diritto all’indipendenza, all’autodeterminazione dei
palestinesi. E l’obiettivo principale resta quello di liberarsi del
maggior numero possibile di loro e di occuparne i territori. Questa è
l’atmosfera che si respira oggi in Israele.
Che cosa pensa di Ariel Sharon?
La mia opinione è molto negativa. Penso che non stia solo guidando gli
israeliani, ma che li stia plasmando secondo il suo carattere, la sua
natura. Intendo dire che Ariel Sharon è Israele oggi. E Israele è lui.
Su ciò non dobbiamo farci illusioni. Questa è la vera faccia del nostro
paese. Se si prende Sharon, l’intera storia della sua vita, è
l’immagine reale di quello che siamo. Molto più di Rabin o di chiunque
altro. Con questo non voglio dire che Rabin fosse un santo… Eppure, c’è
qualcosa di positivo nel fatto che sia lì ad occupare il posto di
premier. Perché fa esattamente ciò che Israele vuole che faccia. Lo fa
alla luce del sole. Non so dove tutto ciò ci porterà… Ma quel che è
certo, è che non ci sono maschere oggi sulla faccia.
Quanto l’Amministrazione americana sta influenzando quella israeliana?
Mai come oggi Washington e Tel Aviv sembrano marciare allo stesso passo…
Innanzitutto, dovremmo stabilire chi influenza chi. Perché nemmeno
questo è chiaro. A volte sembra che sia “la coda a muovere il cane” e
non il contrario. Certo è che, mai come oggi, c’è stata una convergenza
di interessi così perfetta fra le due parti: gli americani vogliono
mettere le mani sul petrolio iracheno; mentre gli israeliani vogliono
approfittare di questa situazione, aiutando gli Usa dietro una ricca
contropartita. Ambiscono, infatti, a diventare la base degli interessi
americani in Medio Oriente, o il loro ufficiale sostituto. Una nuova
guerra contro l’Iraq, più che mai, mette Tel Aviv nella condizione di
agire con un balzo in avanti ai danni della popolazione palestinese:
eliminarli, occuparne le terre è di sicuro “più facile”, se c’è un
conflitto in corso.
L’influenza americana, a suo avviso, sta in qualche modo distruggendo
la cultura israeliana?
È molto difficile parlare di una “cultura israeliana”. Forse una
“dis-cultura”… Quella israeliana è una cultura colonialista, fatta di
razzismo, che ricorda da vicino il regime sudafricano ai tempi
dell’apartheid. Dove vigeva la legge del più forte.
C’è una lotta in corso anche fra voi avvocati? La magistratura
israeliana, come tutte le magistrature, è percorsa da correnti
politiche di destra e di sinistra?
Naturalmente, in Israele ognuno è interessato alla politica. È come se,
vivendo qui, fosse impossibile restarne fuori, non schierarsi. Se c’è
però anche una lotta anche fra gli avvocati stessi? Non proprio. C’è
chi, come me, ha scelto di rappresentare i palestinesi davanti allo
stato; e, dunque, ha dibattiti con gli avvocati che difendono lo stato.
Questo cerca perennemente di giustificare le proprie violazioni: dalle
demolizioni delle case alle confische di terre, all’uso della tortura.
E noi non siamo riusciti ad organizzare un vasto movimento d’opinione
pubblica.
Come mai?
Non sono nella corrente di maggioranza. Non sono una sionista. Non
posso promettere alla maggioranza sionista una soluzione per loro
praticabile. Contemporaneamente, la gente è influenzata da ciò che essa
chiama “terrore”: il senso di insicurezza è profondamente radicato
negli israeliani. Di questo, essi incolpano i palestinesi; evitano di
guardare dentro se stessi. Quindi, è difficile. Non ho una vera
alternativa da offrire.
Qual è la reazione dell’opinione pubblica israeliana davanti all’alto
tasso di suicidi anche fra giovanissimi, denunciato recentemente dal
quotidiano Ma’ariv?
Sono spaventati da questa volontà di morte che pervade la società
israeliana. Ma non riescono a capire che sono essi stessi gli artefici,
tramite le tante rioccupazioni, le rappresaglie ai danni dei
palestinesi, di tanta disperazione: se i teen-ager si uccidono, è
perché il presente è un inferno. E il futuro non può essere tanto diverso.
Lei ha un sogno?
Certo, che ce l’ho. Ma sembra allontanarsi ogni giorno di più. Vorrei
che riuscissimo a vivere nell’equanimità, senza repressione. Ma come ho
detto: anziché realizzarsi sembra scomparire per sempre. Non so quanto
realistico sia sognare oggi…
Ha mai pensato di lasciare Israele?
No. Il mio impegno ha più efficacia lì che altrove.
A cura di ALESSANDRA GARUSI