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Israele, America e la guerra imminente
SEMINANDO TEMPESTA:
Israele, America e la guerra imminente
Roni Ben Efrat
(da "Challenge A magazine covering the israeli-palestinian conflict)
Il Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha trovato in Israele un
robusto supporto per la sua imminente guerra contro l'Iraq. La destra e la
sinistra lo esaltano entrambe. La stampa gli fa da cassa di risonanza. Le
colombe sulla questione Palestinese sono diventate falchi a proposito
dell'Iraq. L'opinione pubblica israeliana e' per il 40% favorevole all'uso
del nucleare qualora l'Iraq utilizzasse armi chimiche o biologiche contro
Israele, anche se questo fatto non rappresenterebbe in se' e per se' una
vera e propria minaccia all'esistenza dello Stato d'Israele medesimo. Ma
gli israeliani si mettono ordinatamente in fila per ricevere ognuno la
propria maschera antigas. I benefici di questa imminente guerra appaiono
loro cosi' evidenti, che l'argomento non e' stato oggetto di alcuna
discussione, ne'alla Knesset, ne'in seno al governo.
All'arrivo della guerra il paese che subira' la collera dell'Iraq sara'
Israele. Eppure, il sostegno degli israeliani alla guerra di Bush e' ancora
piu' forte di quello degli stessi americani. Questo fatto e' ancora piu'
evidente quando ci accorgiamo che nel resto del mondo, Stati Uniti
compresi, l'argomento accende dibattiti roventi. Il Cancelliere tedesco
Gerhard Schroeder ha ottenuto la ri-elezione in Germania per la sua forte
presa di posizione contro la guerra all'Iraq. Al momento della stesura di
questo articolo, Francia e Russia minacciano di porre il proprio veto in
seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nei confronti della
risoluzione statunitense che vorrebbe l'autorizzazione per un intervento
militare immediato nel caso l'Iraq si opponga all'invio degli ispettori.
Meta' della popolazione americana e' favorevole alla guerra, ma si e'
verificato un calo del 17% di questo consenso, rispetto al giugno scorso.
Il 26 ottobre circa 150000 americani hanno manifestato contro la guerra: a
Londra il 28 settembre erano in 350000 a protestare. (Secondo il Guardian
solo un terzo della popolazione britannica e' favorevole alla guerra). In
Italia un milione e mezzo di persone hanno manifestato contro la posizione
favorevole alla guerra (e la politica economica) del governo Berlusconi.
E l'opposizione israeliana? Non si sente. Yossi Sarid, il suo leader
parlamentare, ha tenuto un discorso lo scorso 14 Ottobre, per l'apertura
della sessione invernale della Knesset, nel quale e' riuscito a non dire
una parola sia sull'Iraq sia sulla questione palestinese. Si e' limitato a
parlare della poverta' in Israele. Ha raccontato di un bambino che
ricevendo il pranzo a scuola e' stato sorpreso dalla sua insegnante a
nascondere un pezzo di pollo in tasca: lo avrebbe conservato per la madre.
Si tratta certamente di una storia emblematica, ma Sarid ha omesso il
contesto: il disastroso crollo sociale di Israele e' per gran parte dovuto
al deterioramento della complessa situazione politica sia nei confronti dei
Palestinesi sia dei paesi arabi piu' in generale.
La guerra contro l'Iraq non potra' che complicare ulteriormente la situazione.
La Junta messianica
Israele e' pro-America per tradizione. Non c'e' nulla di nuovo in questo.
Ma Israele dovrebbe chiedersi se l'amministrazione Bush gli riserva la
stessa fedelta' accordatagli dai suoi predecessori. La risposta e' un
chiaro no! Il mondo si trova oggi di fronte ad un fenomeno "nuovo, ma
vecchio", le cui implicazioni si estendono ben oltre il conflitto Stati
Uniti- Iraq. In seguito a dubbie elezioni la Casa Bianca e' finita in mano
a una giunta di destra sostenuta da 70 milioni di fondamentalisti cristiani
che considerano il proprio destino legato a Sion.
Questo concetto messianico trova la sua corrispondenza laica
nell'interpretazione data alla storia dai diretti collaboratori di Bush: il
Vice Presidente Dick Cheney, il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, il
Consigliere per la Sicurezza di Stato Condoleeza Rice e i loro "dipendenti"
Paul Wolfowitz e Richard Perle. Nella visione di questi soggetti, nell'era
di Reagan l'amministrazione repubblicana sconfisse "l'impero del male"
lasciando gli Stati Uniti unica superpotenza mondiale. Bush senior
approfitto' di questa situazione ereditata dal suo predecessore e monto'
un'offensiva mondiale vincente contro l'Iraq. Poi ci fu la ritirata. Per
questioni economiche di poca importanza, gli americani elessero Bill
Clinton. Invece di condurre il paese verso il suo chiaro destino di potenza
mondiale, Clinton ha ricercato i profitti della pace. Le difese del paese
sono andate in malora. Ma alla fine, nonostante tutto, la
squadra Reagan-Bush e' tornata in auge. Per guidare gli Stati Uniti verso
l'egemonia globale.
Quanto sopra si ritrova in un lungo documento intitolato "Rebuilding
America's Defence". E' stato pubblicato nel Settembre 2000, poco prima
delle elezioni presidenziali, da un gruppo conservatore che si
autodefinisce "Progetto per un Nuovo Secolo Americano". "In senso ampio",
dicono gli stessi autori, "intendiamo il progetto come la riproposizione
del piano di difesa strategica preparato dal Dipartimento per la Difesa di
Cheney nei giorni del declino dell'amministrazione Bush. La Guida alla
Politica di Difesa (DPG), preparata all'inizio del 1992, forniva il
progetto per il mantenimento della preminenza statunitense, finalizzata ad
impedire l'insorgere di una forte potenza rivale e alla configurazione di
un ordine internazionale in linea coi principi e gli interessi americani".
(www.newamericancentury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf)
"Rebuilding America's Defence" ha rappresentato la base di partenza per la
politica estera e di difesa di George W. Bush. Il suo pezzo forte e'
l'espansione della potenza politica americana, in modo tale che gli Stati
Uniti possano restare l'unica superpotenza mondiale inviolata. A questo
scopo sostiene che l'America debba incrementare la spesa per la difesa,
sviluppare la propria potenza nucleare e riprendere i test nucleari.
Sostiene l'annullamento del Trattato per la messa al bando dei test
nucleari, firmato da Clinton (idem pp. 7-8).La sua influenza era gia'
apparsa evidente durante il primo anno della nuova amministrazione Bush,
quando furono bloccate le trattative internazionali sul controllo delle armi.
"Rebuilding America's Defence" e' stato redatto prima degli attacchi
dell'11 Settembre 2001.Questi fatti hanno poi dato un ulteriore impulso
alle iniziative americane per un controllo globale, cosi' come indicato in
un documento piu' recente, "The National Security Strategy of the United
States", pubblicato dall'amministrazione Bush il 20 Settembre 2002.
(http://usinfo.state.gov/topical/pol/terror/secstrat.htm).
Il nuovo documento sulla Sicurezza Nazionale contiene cio' che e' ormai
nota come Dottrina Bush: "Il pericolo maggiore che la nostra nazione ha di
fronte si trova la' dove si incrociano radicalismo e tecnologia". L'America
deve dimostrare la sua determinazione nell'azione. "La nostra attenzione
deve rivolgersi immediatamente verso quelle organizzazioni terroristiche di
portata mondiale e verso quei terroristi o stati che li fiancheggiano nel
tentativo di conquistare o usare armi di distruzione di massa...Mentre gli
Stati Uniti continueranno a lottare per ottenere il supporto della
comunita' internazionale, noi non esiteremo ad agire da soli, se
necessario, esercitando il nostro diritto di auto-difesa..." E ancora "Per
secoli, la legislazione internazionale ha riconosciuto ai singoli stati il
diritto a non dover subire un attacco prima di potersi legittimamente
difendere da quelle forze che rappresentavano una seria minaccia
incombente....Dobbiamo adattare il concetto di minaccia incombente alle
potenzialita' ed agli obiettivi dei nostri nemici odierni".
La conseguenza e' chiara: gli americani non si considereranno al sicuro
finche' lo zio Sam non diventera' il Grande Fratello.
Sulla New York Review of Books del 26 Settembre Frances Fitzgerald
sottolineava che Bush padre sapeva il fatto suo in tema di politica
estera. In seno ai piu' importanti consiglieri di Bush padre, il
segretario alla difesa Cheney era un falco appartenente ad una minoranza.
Oggi, alla Casa Bianca, George W. Bush dipende completamente dai suoi
consiglieri. Oggi, il Vice Presidente Cheney collabora fianco a fianco col
suo mentore e vecchio amico, Donald Rumsfeld, persona con idee nettamente
di destra, che ha scelto a sua volta di essere affiancato da Paul
Wolfowitz, co-autore del DPG, e suo vice. Nella ex posizione di
quest'ultimo al pentagono, Rumsfeld ha nominato Douglas Feith, un favorito
di Richard Perle, vecchio falco dell'amministrazione Reagan. (Oggi Perle e'
Consigliere al Pentagono). E cosi', la minoranza guerrafondaia dai tempi
del vecchio Bush padre rappresenta oggi il principale gruppo di consiglieri
che circondano quell'ignorante di suo figlio.
[......]
Esiste una "Israeli connection". Nel 1996, sempre secondo F. Fitzgerald,
Perle e Feith prepararono un documento che consigliava a Benjamin
Netanyahu, allora primo ministro di Israele, di dare un taglio netto al
processo di pace di Oslo, e di riprendere direttamente il controllo su West
Bank e Gaza. Di fronte al rifiuto di Netanyahu di fronte a tale consiglio,
Feith scrisse in un suo pezzo: " Il prezzo da pagare in sangue sara' alto,
ma sara' una necessaria forma di disintossicazione, l'unico modo per uscire
dalla trappola di Oslo" (citato da Fitzgerald, op. cit.)
Un tale consiglio, da parte di Feith e Perle, dovrebbe attirare
l'attenzione dei sostenitori degli accordi di Oslo, in seno alla sinistra
israeliana, quando sostengono la guerra contro l'Iraq credendo con
convinzione che dopo tale vittoria, con l'imposizione di un nuovo ordine in
Medio Oriente, Bush imporra' il ritiro di Israele dai Territori Occupati.
Tuttavia i fatti sembrano indicare che "lo stesso consigliere che oggi
indica la via di Baghdad difende strenuamente la conquista definitiva di
West Bank e Gaza da parte di Israele"
[......]
Rebuilding America's Defence risolve definitivamente il mistero del
perche' Bush figlio sia cosi' accanito contro l'Iraq: "Di fatto, gli Stati
Uniti hanno cercato per anni di giocare un ruolo di molto maggior peso
nella sicurezza della regione del Golfo. Se da un lato il conflitto con
l'Iraq ne fornisce una giustificazione nell'immediato, la necessita' di una
sostanziale presenza delle forze americane nell'area del Golfo travalica i
problemi legati al regime di Saddam Hussein" (Op. cit. p.14).
Ma le basi americane non si trovano nei paesi del Golfo, questo al fine di
proteggere i vicini di Saddam Hussein. "Dal punto di vista degli Stati
Uniti, l'importanza di tali basi permarrebbe anche dopo un'eventuale
uscita di scena di Saddam. Piu' a lungo termine infatti, sarebbe l'Iran a
rappresentare una minaccia verso gli interessi degli Stati Uniti nel
Golfo. E anche se le relazioni Stati Uniti - Iran dovessero migliorare, il
mantenimento di basi militari avanzate nella regione rappresenterebbe
comunque un elemento essenziale nella strategia di sicurezza degli Stati
Uniti, considerato il perdurare degli interessi americani nella regione".
(Rebuilding..., p. 17)
Non dobbiamo pertanto attenderci una connessione diretta fra cio' che gli
ispettori riveleranno sulle armi di Saddam e la decisione di Bush di optare
per la guerra.
La franchezza di una tale documento e' inusuale, ma cio' che rivela e'
sconcertante: nella sua ricerca di dominio l'America e' pronta ad andare
avanti da sola, trascinandoci tutti verso il caos. Non meno allarmante e'
la reazione in Israele, dove la stragrande maggioranza ascolta con piacere
ogni canto messianico sulla guerra tra il Bene e il Male.
I sostenitori
Il ruolo della stampa in Israele e' di netto sostegno alle posizioni
guerrafondaie, dato che non promuove dibattiti alternativi in proposito.
Persino il liberale "Ha'aretz, che si vanta della sua reputazione di
giornale per la "gente pensante", titolava cosi' l'editoriale delle scorso
11 Settembre 2002: "Affrontiamo l'asse del male". Senza particolari prove
da esibire, questo pezzo collega il disastro che ha colpito l'America con
l'imminente guerra all'Iraq. "Cosi' l'America, un anno dopo, prepara
l'attacco all'Iraq in un contesto da guerra all'ultimo sangue (milhemet
hurmah, espressione biblica qui applicata alla guerra al terrorismo - RBE).
Perche' la sfida, e la guerra, non sono limitate alle enclaves delle
organizzazioni terroristiche, per quanto ramificate e pericolose esse
possano essere. L'ambizioso obiettivo che si e' giustamente posto il
Presidente Bush, e' di annientare le medesime forze del male che hanno
colpito le Twin Towers a New York, e che nelle lor multiformi versioni
hanno dichiarato guerra alla esistenza dell'intero mondo libero. Dopo aver
ricordato Pearl Harbour, l'editoriale prosegue: "L'America ha capito [nel
1941] che la guerra non era solo contro il Giappone, ma contro l'intero
"asse del male" di quell'epoca. La lucidita', la determinazione, il
sacrificio e la capacita' di leadership dimostrata dall'America in quegli
anni sono cio' che ha salvato la nostra civilta'".
Mentre l'Ha'aretz riscrive la storia, Yediot Aharonot non e' da meno. In
tre suoi editoriali (firmati dal direttore) Sever Plotzker si scaglia
contro quanti nel mondo si oppongono alla guerra. Eccone un esempio: "In
momenti come questo bisogna essere molto chiari con tutti: il terrorismo
islamico, fascista, omicida, nutrito dal fanatismo religioso - ma anche
supportato da regimi dittatoriali come quello di Saddam Hussein, e' la
minaccia diretta alla pace, alla prosperita' ed al progresso dell'intero
mondo civilizzato.... Gli oppositori alla guerra contro Saddam Hussein
devono comprendere che, di fatto, col loro comportamento dimostrano a
favore dell'attacco terroristico a Bali, degli attacchi a Tel Aviv,
dell'attacco a Helsinki e per l'attentato che avra' luogo nel cortile di
casa loro." (Yediot Aharonot October 14). Va sottolineato che questo
crociato e' stato direttore di al-Hamishmar, un quotidiano socialista che
ha chiuso dopo essere stato privatizzato.
I giorni che ci porteranno alla guerra con l'Iraq entreranno nella storia
(se qualcuno restera' a scriverla) con la superficialita' della stampa
israeliana.
Israele nell'attesa del Day After
Dietro la cieca adulazione di Israele per l'America si cela ben altro....
La Guerra del Golfo del 1991 ha spento quanto restava della prima Intifada,
cosi' come il movimento nazionale palestinese, storica espressione
dell'OLP. Molti guerriglieri palestinesi si sono trasformati in tecnocrati.
Quanti hanno mantenuto un'uniforme l'hanno fatto in seno all'Autorita'
Palestinese, sotto la supervisione della CIA. Negli anni di Oslo, tuttavia
(1993-2000), in seguito al degrado delle condizioni di vita nei Territori,
un senso di profonda amarezza si e' diffuso sempre piu' ampiamente, sia nei
confronti di Israele, sia verso l'Autorita' Palestinese. E' infine esploso
nella Seconda Intifada, che e' rapidamente sfuggita ad ogni controllo.
Oggi, In Israele, sia la destra sia la sinistra sono convinte che una nuova
sconfitta di Saddam Hussein avra' un effetto analogo a quello scatenatosi
alla fine della precedente, quello cioe' di domare la nuova Intifada.
Questa teorica contiene due ulteriori considerazioni: la piu' semplice vede
la campagna militare finalizzata alla caduta di Saddam Hussein strettamente
collegata a quella tesa a rovesciare Arafat. La seconda, ben piu'
complessa, ha origine da alcune figure dei servizi militari israeliani e
ritiene che Israele possa da sola tener testa al terrorismo palestinese, ma
che per raggiungere una soluzione politica ci sia la necessita' di un piu'
ampio mutamento strategico in Israele..Questo cambiamento deve arrivare
dall'esterno. E solo L'America e' in grado di piegare la regione alle
esigenze geopolitiche di Israele. Questa posizione trova spesso voce presso
i media. Per esempio:"Essendoci stato richiesto [da Bush - RBE] di restare
fuori dalla questione irachena, il vero obiettivo del governo deve essere
quello di concentrarsi sui vantaggi del "giorno dopo." (Yael Gvirtz, Yediot
Aharonot, 7 Ottobre). Aluf Benn allude alla medesima posizione dalle
colonne di Ha'aretz (10 Ottobre): "Il messaggio di Israele puo' essere
anche letto nei termini seguenti: La crisi con l'Iraq fornisce una buona
opportunita' per dare ai Palestinesi il colpo di grazia che porra' fine
all'Intifada e migliorera' la posizione di Isarele nei negoziati che
seguiranno la rimozione di Saddam."
Israele vuole cogliere l'"uva" e non intende discutere col guardiano della
vigna.
Nella sua recente visita negli Stati Uniti Sharon ha promesso di mantenere
questo atteggiamento col doppio obiettivo di supportare Bush nella sua
ricerca di consenso e di ottenerne a sua volta il supporto sulla piazza
internazionale e presso le banche, in un momento in cui l'affidabilita'
finanziaria di Israele e' nel mirino delle stesse istituzioni bancarie.
(Vedi anche "Bush tenta di risollevare le sorti dell'economia israeliana"
in questo stesso numero).
ASPETTATIVE PERICOLOSE
La speranza che l'insediamento di un regime fantoccio in Iraq spiani la
strada ad una analoga operazione nei Territori Occupati e' completamente
destituita di ogni fondamento. Il tentativo di cambiare o modificare regimi
esistenti e' stato spesso oggetto della politica statunitense. Ben lungi
dal riscuotere significativi successi, ha piuttosto portato il caos (nel
Sud Est asiatico, in America Latina, in Medio Oriente, in Afghanistan) di
cui oggi la stessa amministrazione Bush si lamenta. Israele e' incappata in
simili fallimenti nei tentativi fatti in passato di insediare leader arabi.
Due esempi per tutti:
1) L'avventura libanese. Nel 1982, durante la presidenza di Ronald Reagan,
in Israele era primo ministro Menahem Begin. Ariel Sharon, allora ministro
della difesa, intraprese una campagna bellica per modificare la mappa
geografica del Medio Oriente, cominciando dal Libano. L'idea era quella di
eliminare l'OLP come forza interna a quel paese, in modo da permettere al
leader della milizia cristiana Bashir Gemayal di assumere il controllo del
paese e permettere al Parlamento di eleggerlo presidente. Gemayal avrebbe
dimostrato la sua gratitudine negoziando la pace con Israele. Inoltre,
avendo sconfitto Arafat in Libano, Israele avrebbe potuto esercitare la
propria volonta' sui demoralizzati territori della West Bank e di Gaza.
Secondo lo storico Howard Sachar, inoltre, Sharon aveva anche intenzione di
rovesciare dal trono Re Hussein, trasformando la Giordania nello stato
Palestinese ed annettendo i Territori Occupati. (Howard M. Sachar, A
History of Israel, Volume II, New York: Oxford University Press, 1978, p. 172).
Di fatto l'esercito israeliano caccio' l'OLP dal Libano e Bashir Gemayal fu
eletto presedente il 23 Agosto. Poche settimane dopo, fu assassinato. Si
scateno' il caos. Sharon chiese al suo Capo di Stato Maggiore di
ripristinare l'ordine e di permettere ai Cristiano Falangisti di entrare
nei campi dei rifugiati. Il risultato di tale operazione fu il massacro di
Sabra e Shatila. A questo punto gli Americani ritornarono in Libano, con
lo scopo, anche, di "riportarvi l'ordine" - ma, nell'Ottobre 1983, un
attacco suicida uccise 241 marines. Gli americani e se andarono e gli
Israeliani si ritirarone nel sud del Libano. Del piano di Sharon non
rimaneva che una sottile "zona di sicurezza" oltre il confine
settentrionale di Israele. Questa zona e' in seguito costata centinaia di
vite umane a Israele e migliaia al Libano, finche' il primo ministro Ehud
Barak non l'ha fatta sgomberare, due anni fa. Il Libano non e' diventato la
"democrazia cristiana " sognata da Begin, Sharon, e (almeno fino ad un
certo momento) Ronald Regan. L'invasione israeliana ha ottenuto, e' vero,
la cacciata dell'OLP ma soprattutto ha prodotto morte e distruzione, una
drammatica frammentazione della propria societa', un ampio discredito a
livello mondiale, la crescita del movimento degli Hezbollah e la nascita di
una nuova tattica di guerriglia: l'attacco suicida.
2) L'avventua di Oslo. In seguito all'espulsione dell'Olp dal Libano i
Territori Occupati sono diventati il principale centro di resistenza
palestinese. E poi scoppiata la prima Intifada (1987). Israele ha risposto
con una piu' sofisticata forma di occupazione. Nel corso degli anni 70 e 80
Israele ha cercato, senza successo, di infiltrare collaboratori con
posizioni di leader (i cosiddetti Village Leagues). L'idea era quella di
trasformare la stessa OLP in un'entita' sottomessa al controllo di Israele.
La combinazione tra la politica israeliana e quella della sua creatura, la
corrotta autorita' Palestinese, ha condotto al caos della seconda Intifada.
Il partito Laborista, che aveva puntato tutte le sue carte su Oslo si e'
ritrovato, fin dall'Ottobre 2000, senza partners, senza agenda. Avendo
perduto anche ogni caratteristica che lo differenziasse dal partito
avversario, il partito laburista si e' unito al Likud, in un evidente
tentativo di mettere fine allo scontro. (Dopo 20 mesi, l'alleanza si e'
rotta). L'Intifada ha fatto crollare l'economia israeliana, riportandola ad
essere un caso pietoso per la carita' americana.
Nello stesso tempo, pero', anche l'America e' sprofondata in una seria
crisi economica.
William Grider cosi' scrive su "The Nation" (13 Settembre, 2002):
"L'indebitamento estero netto dell'economia statunitense -causata dall'aver
accumulato per 20 anni un deficit commerciale sempre piu' ampio -
raggiungera' quest'anno quasi il 25% del prodotto interno lordo degli Stati
Uniti, ovvero circa 2,5 trilioni di dollari. Quindici anni fa era...zero.
Lo spettro della crescente debolezza americana sembra impermeabile agli
sguardi della gente che continua a pensare di vivere in una prosperita'
permanente. Ma le sabbie mobili sono una realta'. Siamo gia' sprofondati
fino alle ginocchia."
Gli Stati Uniti della seconda Guerra del Golfo non saranno gli stessi della
prima. Dieci anni fa a Wall Street dilagava la speranza che i mercati
mondiali si aprissero alle corporations americane; i dividendi del collasso
sovietico erano a loro disposizione. Invece, il crollo delle torri ha
scosso l'America. Quando si tratta di guerra all'Iraq, l'Europa resiste, il
terzo mondo resiste, chiunque abbia la testa sulle spalle, resiste.
Washington, allora, si sente tradita. Nonostante il crollo del comunismo,
pace e prosperita' si fanno desiderare. Solo una piccola parte di Israele
sta in maniera decisa con l'America e con il governo. Dopo due anni di
attacchi suicidi gli Israeliani sono risoluti e determinati nel rifiuto
della rabbia che genera il caos. Ora, si sentono pronti, a destra come a
sinistra, a sostenere una crociata il cui risultato sara' la crescita
esponenziale di quella rabbia. Quanti hanno seminato vento raccoglieranno
tempesta. Ma quelli che hanno seminato tempesta, cosa raccoglieranno?
La combinazione di potere militare e crisi economica e' pericolosa. Tenta
le vie della forza per risolvere problemi economici, con mezzi militari.
Questa commistione, non molti anni fa ha generato il fascismo. E ha
sottoposto l'umanita' ad un incommensurabile olocausto. Il mondo si trova
aggi ad un analogo crocevia. La domanda non e': 'Puo' il mondo convivere
con Saddam Hussein?'. La vera domanda e', piuttosto: 'Puo' il mondo
convivere con George W. Bush?'
La sparizione del campo socialista e' sentita oggi come non mai. Quelli che
hanno fermato Hitler non erano (con il dovuto rispetto per Ha'aretz) gli
Americani, ma i Sovietici a Stalingrado. I Sovietici hanno impedito agli
Stati Uniti di invadere Cuba. Hanno mitigato la poverta' in tanti paesi del
mondo. Nei decenni piu' recenti le lotte della classe lavoratrice mondiale
e delle forze pacifiste hanno subito una significativa battuta d'arresto.
Hanno pagato un pesante prezzo per il fallimento del tentativo socialista.
L'Unione Sovietica ha fallito perche' ha escluso le persone dai processi
decisionali. Ha fallito nella costruzione del socialismo nell'unico modo in
cui esso possa essere costruito: democraticamente. L'Unione Sovietica ha
fallito, in breve, nel tenere desto lo spirito della rivoluzione. Noi
dovremmo guardare a questo esperimento, tuttavia, come il primo, non come
l'ultimo nel suo genere.
Un nuovo movimento di massa e' cresciuto, in questi anni, contro la
globalizzazione. Molte speranze sono riposte in esso, ma di fronte
all'imminente guerra non si e' fatto sentire a sufficienza. La ragione
chiave di questo fallimento e' che il movimento detesta i partiti politici.
Rifuggendo la politica organizzata non sono in grado di porsi come
alternativa all'ordine mondiale esistente. Non misurandosi col potere, non
danno neanche vita a mutamenti politici. Nelle attuali circostanze in cui
"gli altri" sono organizzati in multinazionali, partiti e regimi, le
proteste che si limitano a reagire di fronte a determinati eventi sono un
lusso che non ci si puo' permettere.
La reale urgenza e' davvero un atto di reazione: fermare la megalomania
della Casa Bianca.
Non si puo' certo contare su Jacques Chirac o su Gerhard Schroeder che solo
due anni fa hanno preso parte nell'attacco contro la Yugoslavia. E neppure
su Vladimir Putin, preso da personali ambizioni. Su una piu' lunga
prospettiva e' necessario arrivare a negare ai capitalisti i mezzi per
trascinare l'umanita' nella guerra. La protesta va organizzata su un'agenda
socialista.