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La nonviolenza e' in cammino. 432
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 432 del primo dicembre 2002
Sommario di questo numero:
1. Sosteniamo il Living Theatre
2. Rosangela Pesenti: donne, democrazia, pace
3. Daniele Lugli: satyagraha, la forza della verita'
4. Maria Luigia Casieri, il dono dell'altro
5. Da una lettera di Misone all'amico suo Teofrasto
6. Presentazione dei "Quaderni di Via Dogana"
7. Libreria delle donne di Milano, alcuni libri preziosi
8. Riletture: Judith M. Brown, Gandhi
9. Riletture: Christopher R. Browning, Uomini comuni
10. Riletture: Simona Forti, Il totalitarismo
11. Riletture: Mark Lane, Una generazione nel Vietnam
12. Riletture: Valentina Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas
13. Riletture: Jacques Semelin, Per uscire dalla violenza
14. Riletture: Elena Soetje, La responsabilita' della vita
15. Riletture: Francesco Terreri, Armi e affari
16. La "Carta" del Movimento Nonviolento
17. Per saperne di piu'
1. APPELLI. SOSTENIAMO IL LIVING THEATRE
[Dalla Scuola di pace "don Tonino Bello" (per contatti:
scuoladipace.dontonino@tin.it) riceviamo e diffondiamo. il Living Theatre,
come ognun sa, e' da vari decenni a livello mondiale una delle piu' grandi
esperienze culturali, ed ha un orientamento pacifista, libertario e
nonviolento. Il Centro di ricerca per la pace di Viterbo si associa a questo
appello di solidarieta' ed invita tutti i suoi interlocutori a fare
altrettanto]
La Giunta comunale di Rocchetta Ligure non gradisce gli spettacoli sulla
Resistenza e chiede alla storica compagnia di Judith Malina diecimila euro
d'affitto.
Nei giorni scorsi il Living Theatre, reduce da due repliche di Not in my
name (spettacolo contro la pena di morte) nella newyorkese Time Square, ha
ricevuto dal sindaco di Rocchetta Ligure l'ordine di lasciare la sede nella
quale opera da alcuni anni.
La scadenza e' fissata per la fine del mese di novembre, salvo che il Living
non si impegni a pagare, oltre alle utenze (luce, riscaldamento ecc.), anche
un affitto di 10 mila euro l'anno, cifra considerata insostenibile da Hanon
Reznikov, animatore accanto a Judith Malina della storica compagnia. Del
resto, se il Living esiste da cinquant'anni - sottolinea Reznikov - "e'
perche' siamo sempre stati senza soldi".
Per il pagamento delle utenze si e' impegnata la Provincia di Alessandria,
mentre sembra insormontabile il problema affitto. Ma i termini della
questione piu' che di ordine economico sembrano dettati da altri motivi.
Reznikov fa sapere che la Giunta comunale di Rocchetta Ligure non gradisce
gli spettacoli sulla Resistenza realizzati negli ultimi tempi dal Living.
La condizione per restare nella sede attuale non e' niente di meno che
sospendere il lavoro sulla Resistenza. Dal canto suo il Living Theatre
auspica che la Provincia riesca a trovare un nuovo spazio, in modo da
chiudere l'attuale sede. Altro che sospendere spettacoli.
Il Living Theatre invita a mandare messaggi al sindaco di Rocchetta Ligure:
Albino Corana, Comune di Rocchetta Ligure, via Umberto I n. 26, 15060
Rocchetta Ligure (AL).
2. RIFLESSIONE. ROSANGELA PESENTI: DONNE, DEMOCRAZIA, PACE
[Ringraziamo Rosangela Pesenti (per contatti: rosangela_pesenti@libero.it)
per averci messo a disposizione questo intervento su "donne, democrazia,
pace" che ha presentato al XIV Congresso dell'Udi (Unione Donne Italiane),
svoltosi a Roma il 23-24 novembre 2002. Rosangela Pesenti e', insieme a Pina
Nuzzo, responsabile e garante di sede nazionale dell'Udi]
Difficile parlare di pace dentro l'urgenza del fare che ognuna di noi sente
come impellente necessita' di fermare guerre e massacri, unita al sentimento
di impotenza per i pochi gesti che abbiamo davvero a disposizione e che ci
riconducono di colpo ad una realta' di mancanza di potere sul terreno delle
decisioni politiche che avevamo in questi anni accantonato.
Parlo al plurale perche' sento ancora il sentimento di condivisione di una
soggettivita' politica collettiva che e' stata la scoperta, l'avventura e la
costruzione della mia giovinezza, ma che oggi avverto quasi solo come una
memoria incisa sulla mia pelle che non posso cancellare, ma che non so piu'
di poter agire.
Non mi sottraggo alle parole brevi e incisive degli slogan e degli appelli,
ma sento la responsabilita' di restituire alle parole tempi e luoghi
adeguati perche' avverto che proprio nell'illusione di dover abbreviare i
discorsi per raggiungere piu' in fretta le nostre mete e' nascosta una
trappola che invalida poi ogni nostra azione.
Parlo di tempi e luoghi perche' sono le dimensioni imprescindibili del
vivere umano e la loro qualita', definizione, costruzione concreta, consente
e condiziona ogni relazione sociale.
Nel loro modo di abitare il tempo e lo spazio gli esseri umani introducono
la memoria come capacita' di accumulare le esperienze riducendo il passato a
sintesi utili per il futuro.
Proprio la disciplina storica, soprattutto nella sua versione "divulgativa"
e scolastica ci insegna che pace e guerra sono temi fondamentali sui quali
sperimentiamo la nostra capacita' di "fare sintesi" e non possiamo non
chiederci quanto utili per il futuro.
Perche' questa premessa per parlare di "pace, donne, democrazia" e che cosa
lega davvero questi tre termini?
Mi sono accorta di aver usato i verbi "sentire, avvertire" prababilmente
perche' riguardano la percezione del corpo, il luogo in cui non c'e' confine
tra pelle e pensieri e so per esperienza che la traduzione in parola scritta
significa attraversare il vuoto, la terra di nessuno, che ci unisce/separa
ad/da altre/altri.
Una terra di nessuno che non e' mai luogo neutro, ma gia' ridondante di
segni tra i quali si corre il rischio dello smarrimento, del tradimento di
se'.
Aggiungere un segno, una sillaba, un gesto significa contemporaneamente
disegnare una relazione e divenire partecipi di opportunita' e
responsabilita' dentro il territorio che abitano i nostri piedi e i nostri
pensieri.
Sul terreno della politica stiamo certamente come esseri umani, uomini e
donne, col nostro corpo fragile intriso di storia e di cultura.
La lingua che parliamo parla di noi, anche a prescindere dai contenuti che
vogliamo esprimere, attraverso le costruzioni sintattiche, la struttura
metaforica, i processi di cancellazione, distorsione, generalizzazione,
rivelando gli strati profondi della cultura che ci ha formati, cosi' come
gesti e atteggiamenti del corpo dicono dei nostri pensieri e della nostra
storia piu' di quanto ricordiamo.
Il terreno della parola per eccellenza diventa cosi' anche un luogo parlante
di per se', dove nell'azione siamo agiti dai nostri stessi gesti e nella
parola siamo parlati dalla lingua che usiamo.
Corpo e parola, per quanto si cerchi astrattamente di separarli, connotano
con la stessa inestricabile visibilita' la politica, nei luoghi come nelle
leggi, nelle procedure, nelle decisioni.
Tutto questo riguarda la pace?
*
La guerra certamente riguarda i corpi e diventa inutile tutto il nostro
sforzo per coprirli di significati che riempiano di contenuti utili le
piccole sintesi che prepariamo per il futuro; i corpi dei morti in guerra
restano nella terra di nessuno, privi di nome e di significato, memorie
ingombranti che celebriamo invano.
Se guardiamo ai corpi, le guerre che conosciamo, di cui conserviamo e
tramandiamo memoria, hanno un inequivocabile segno di genere: uomini,
pienamente adulti o vecchi, le decidono, perche' piu' uomini che donne
occupano posti di governo (e la maggior parte dei governi non nasce da una
rappresentanza "di genere"), uomini, in maggioranza giovani, le combattono,
perche' gli eserciti sono stati a lungo riserva maschile, luoghi fondanti
per il mito della virilita', spesso posti a fondamento della nazione e
dell'idea stessa di cittadinanza.
E' accaduto e accade che donne si facciano seguaci, ancelle, provvide
imitatrici, sostenitrici delle politiche maschili, ma stante la divisione
per generi del lavoro umano, e i saperi pratici che ne derivano, resta
affidato alle donne, piu' che agli uomini, il compito di ricucire i danni
delle guerre nel tessuto quotidiano. Non le grandi opere di pacificazione
(di cui in realta' sappiamo poco o niente) ma la minuta riparazione delle
condizioni di sopravvivenza, delle relazioni affettive, dei patti sociali
impliciti nei microcosmi delle relazioni umane.
Si costituisce cosi', sulla selezione e distorsione di alcuni dati
storicamente reali, uno stereotipo di divisione sessuale tra guerra e pace,
la prima dentro lo scenario della vita pubblica, politica, "naturalmente"
occupata dagli uomini, la seconda come dimensione del privato e delle donne,
tempo senza eventi, di cui non si parla e non si fa memoria perche' non
possiede qualita' memorabili anche quando i fatti suggerirebbero il
contrario.
Stereotipi che cancellano dall'una e dall'altra parte l'agire delle persone
reali, i disertori di tutte le guerre, coloro che si sono sottratti
all'uccisione del nemico, che hanno preferito la propria morte all'impunita'
del diventare assassini, coloro che hanno saputo, anche dentro la guerra,
produrre gesti di riparazione, di salvaguardia della vita, di azione
nonviolenta con la capacita' di creare talvolta fragili ma tenaci microcosmi
di speranza.
Con la stessa distorsione della realta' scompaiono dentro l'indistinta "pace
quotidiana" tutte le azioni di complicita' e connivenza, non necessariamente
mute e irrilevanti, delle donne, a sostegno di persone e processi che
preparano e attivano la guerra.
Chiamiamo pace un tempo intriso di guerra in cui forse semplicemente non
accade a noi, ai nostri cari, ai nostri concittadini di morire.
Dentro il confine breve della nostra "pace quotidiana", parliamo, ci
agitiamo, raccogliamo fondi, prestiamo aiuto a profughi, orfani, disperati,
ma non vorrei dimenticare che tutte le nostre dichiarazioni, tutti i nostri
aiuti, anche se urgenti e necessari, ci costringono nello spazio angusto del
gesto riparatore che ci colloca nella tradizione di una subalternita'
complice, affidataci spesso per appartenenza di genere, nella divisione dei
ruoli che, chi ha il potere di decidere la guerra, prescrive.
I gesti di riparazione non modificano la realta' perche' ricostituiscono,
nell'immaginario sociale, l'integrita' violata; cosi', sostenuta da un
impercettibile slittamento semantico la parola "pace" copre la realta' di
una semplice tregua tra due guerre successive, adattandosi all'ipocrisia di
una minuta distinzione territoriale in un'epoca in cui, in tutte le
discipline, dall'economia alla letteratura, si ragiona in termini di
villaggio globale.
*
Come sappiamo quale politica stiamo realmente sostenendo? Sono le nostre
dichiarazioni, le nostre colte relazioni ai convegni, la nostra presenza nei
luoghi che contano per la rappresentazione sociale del pacifismo o perfino
sui luoghi delle tragedie, a dire la qualita' delle nostre azioni?
Convivono nella pace e nella guerra una questione che riguarda l'ambito
delle scelte e delle decisioni e una questione che riguarda le
rappresentazioni sociali e quindi anche l'elaborazione della memoria che
partecipa dei modelli sociali introiettati dai singoli a formare quelle
mappe affettive e cognitive che vengono agite poi nella vita e trasmesse tra
le generazioni.
Ci sono le scelte, le decisioni politiche, e contemporaneamente la loro
visibilita' attraverso corpi, voci, atteggiamenti, collocazioni che
rivelano, a chi vuole leggerli, il senso profondo dell'agire e quindi spesso
prefigurano gli esiti.
Se la lunga permanenza degli stereotipi disegna con chiarezza la posizione
di donne e uomini sullo scenario della guerra, i movimenti e le associazioni
che si dichiarano e lavorano a favore della pace dovrebbero esprimere uno
scenario totalmente diverso in cui lo svelamento delle falsificazioni
sociali diventa una delle pratiche per rendere visibile la pace come
possibile condizione di vita.
Vediamo invece che nei testi in circolazione, e nei numerosi convegni o
apparizioni televisive, gli esseri umani che enunciano il discorso sulla
pace sono prevalentemente uomini, i cui nomi tutti conoscono, che incarnano,
spesso anche fisicamente, i tratti di quel mito dell'eroe che percorre da
secoli l'immaginario collettivo, e in modo non innocente; le donne sono
poche ed "eccezionali" a consolidare l'idea che non e' quella la realta'
della maggioranza.
Questi uomini e queste donne parlano di pace perche' si occupano spesso, e
con analoga dedizione e coraggio, di riparare i danni delle tante guerre
disseminate sul pianeta, hanno quindi una competenza diretta, ma restando
sul terreno "di genere" vedo che per gli uomini questo lavoro diventa spesso
"mestiere", per le donne resta prevalente il "volontariato".
Una divisione del lavoro che riproduce la societa' cosi' com'e', dove e'
ancora vero per larghi settori della popolazione che gli uomini governano
autonomamente il proprio tempo mentre le donne hanno quasi sempre un
piccolo/medio collettivo umano da curare, fatto di figli e figlie, genitori
anziani, nipoti, parenti acciaccati, amiche in crisi, gatti randagi e altro,
che segna e limita la disponibilita' del tempo.
Anche la pace dunque, come la guerra, vede gli uomini al governo dei
processi e le donne, invisibili, a sostenerli?
*
Ma quale posizione occupano le donne nella societa' e quale nelle
rappresentazioni sociali?
E dove sono collocate le donne che si muovono sulla scena politica?
Nelle professioni come nei luoghi della politica le donne lavorano numerose
ormai, anche se sono ancora assenti ai livelli alti della dirigenza, e
spesso con grande competenza e ottimi risultati, ma restano comunque
appendici di una rappresentazione sociale declinata interamente al maschile
in cui scompaiono quegli elementi di sapere e di storia che appartengono
alla costruzione sociale del femminile, con cui le donne reali hanno fatto i
conti rielaborandoli nella invenzione/definizione creativa di identita'
individuali in grado di abitare con consapevolezza la nuova posizione
sociale acquisita.
Se tra realta' e rappresentazione si apre una forbice dovuta a
cancellazioni, distorsioni, generalizzazioni improprie, c'e' sempre un
rischio che dalle pratiche comunicative si passi alle azioni e si costringa
la realta' a conformarsi alle rappresentazioni.
Quando ci lamentiamo dell'assenza delle giovani donne dall'orizzonte della
politica dovremmo imparare a guardare meglio la' dove sono, impegnate nel
lavoro a perseguire quella realizzazione di se' di cui tanto abbiamo
parlato, alle prese con bambini piccoli, chiusi insieme a loro in un recinto
privilegiato per il bombardamento di messaggi contraddittori e di dissennate
spinte al consumo, affaticate da una competenza del sociale che non ha
luoghi accessibili dove spendersi.
A loro viene riproposto l'ambiguo valore della famiglia quando ancora non e'
entrata nel vocabolario la parola individua, sono andate a scuola con ottimi
risultati, ma nessuno ha tradotto per loro in un linguaggio comprensibile il
complesso cammino del soggetto donna e della cittadinanza femminile.
Anzi, proprio quando le ragazze hanno raggiunto la parita' quantitativa
nella scuola questo luogo ha subito un processo di svalorizzazione sociale
che ha investito sia l'istituzione che i soggetti, guarda caso in
maggioranza donne, che ne reggono le sorti attraverso il lavoro.
La scuola e' ancora costruita su un modello gerarchico e autoritario (e la
modifica aziendalistica l'ha forse solo peggiorato) che si esprime in
pratiche ormai sfilacciate e ininfluenti, che lasciano un vuoto di senso non
sostituito da un tessuto autenticamente democratico e da quelle pratiche
cooperative sperimentate solo in poche oasi felici.
Il vuoto di senso toglie a ragazzi e ragazze l'opportunita' di sperimentarsi
e crescere sul terreno della cittadinanza nell'unico luogo sociale dove sono
presenti i generi e le generazioni fuori dai legami parentali.
Quando affermiamo di aver educato figli e figlie secondo gli stessi principi
e identiche pratiche dimentichiamo che muri di carta velina separano gli
spazi delle nostre case dalla citta' che abitiamo ed e' comune la terra su
cui appoggiamo i piedi.
E se per caso le giovani donne vogliono fare politica vedono chiaramente che
bisogna aver raggiunto una posizione sociale attraverso un miscuglio, quasi
sempre casuale, di piccoli/grandi privilegi e/o opportunita' che operano
come reciproca conferma tra l'individuo e il tessuto sociale che lo nutre.
*
Molte di noi hanno gia' sperimentato la fatica di un impegno sul terreno
della democrazia, che significa prima di tutto costruire spazi in cui si
possano liberamente scambiare ed elaborare idee e poi condizioni concrete
per realizzarle misurandosi con i dati di realta', ma anche investendo la
realta' di speranza e fiducia.
Costruire luoghi e forme in cui far vivere la democrazia e' molto molto piu'
faticoso che andare in giro spiluccando un convegno qua e la' per alimentare
la propria cultura o la propria immagine e posizione personale.
La democrazia infatti non puo' essere svilita a puro sistema di regole e
procedure da applicare in sede decisionale, ma va restituita al senso
profondo di una pratica che puo' investire ogni luogo e aggregazione
sociale.
Sappiamo che la democrazia come semplice regola del numero e' un guscio
vuoto senza quell'uguaglianza non formale che consente ad ognuno di
esprimere pienamente le proprie potenzialita' ed essere pari nell'esercizio
della cittadinanza, ma non c'e' possibilita' di camminare verso la giustizia
sociale senza la strada della democrazia.
Spesso anche noi donne ci illudiamo di poter accantonare la fatica della
costruzione di un terreno democratico verso forme di semplificazione che
sostituiscono l'apparente facilita' della rappresentazione ai passaggi della
rappresentanza.
Si tratta di una modalita' di espressione che sembra ormai strutturale nella
nostra societa', nel senso che la corsa all'autorappresentazione sociale
diretta sembra sostituire la partecipazione soggettiva alle esperienze della
comunita' in cui si vive.
L'autorappresentazione e' disegnata pero' ormai nelle forme proposte dal
mezzo televisivo che per ragioni oggettive contrae le dimensioni
spazio-temporali riducendo le presunte autorappresentazioni dei soggetti
alla pura enunciazione di tipologie o stereotipi in cui scompare la
specificita' delle storie, quella stessa singolarita' dell'esistenza la cui
visibilita' si rincorre invano.
*
La crisi della forma partito nella politica maschile ha segnato il ritorno a
vecchie forme di leadership piu' o meno carismatica, mai del tutto
scomparse, sostenute spesso da accordi di "notabilato" che circoscrivono
l'attivita' politica ad una casta di addetti ai lavori come nei primi
decenni della nostra unita' nazionale.
La politica non e' piu' il terreno d'incontro di soggetti collettivi
portatori di istanze elaborate attraverso pratiche democratiche, ma diventa
una scena su cui si muovono singoli personaggi dotati di capacita' di
autorappresentazione mediatica.
Una scena accessibile anche alle donne purche' restino nelle posizioni
"ancillari" tradizionalmente definite: poche, molto brave o molto
"appariscenti", posizioni talvolta cosi' gratificanti e redditizie sul piano
individuale (non necessariamente venale) che si puo' decidere di sottrarsi
solo se diventa altrettanto attraente per la propria identita' e
collocazione nel mondo la fatica richiesta dalla costruzione di una
soggettivita' politica collettiva.
Non e' un caso che il bisogno di partecipazione alla vita sociale e
comunitaria della cosiddetta gente comune, e quindi soprattutto delle donne,
si esprima nei luoghi e nelle associazioni di volontariato dove l'impegno
acquista un senso collettivo che restituisce identita' sociale al singolo
individuo.
Identita' sociale che non si traduce pero' in istanza politica e talvolta
occulta, non sempre in modo inconsapevole, i danni inferti dalla politica
alla qualita' della convivenza civile.
Affidare al volontariato malati, handicappati, immigrati, senza trovare
forme di integrazione tra bisogni e istanze della societa' civile e
istituzioni, significa escludere dalla cittadinanza dei soggetti che vengono
trasformati in categorie da tutelare, male, fornendo servizi come favori, ma
significa anche legittimare forme di sfruttamento di tempo e competenze che
dovrebbero invece essere occupati in veri e propri posti di lavoro.
Le donne, ancora una volta, restano collocate la' dove la necessita' di
salvaguardare servizi essenziali le distoglie dal vedere e dall'agire contro
chi toglie risorse a quegli stessi servizi disegnando un modello di
convivenza che alimenta le tradizionali gerarchie sociali tra uomini e
donne, giovani e adulti, ricchi e poveri.
Le gerarchie sociali, l'ineguale distribuzione delle risorse, l'ostentazione
della ricchezza, il vuoto di partecipazione politica, la svalutazione delle
pratiche democratiche, la riduzione della democrazia a semplice regola del
numero, l'enfasi posta sul carisma di pochi individui (anche se variamente
collocati, anche se donne) insieme alla cancellazione e distorsione di pezzi
significativi della storia (prima di tutto di quella politica delle donne),
contribuiscono a costituire il solido selciato su cui camminano le
possibilita' della guerra.
*
Un discorso difficile quello sulla pace, ma che resta indissolubilmente
legato alla democrazia e alle donne per ragioni profonde che riguardano la
nostra stessa esistenza sociale e le forme con cui pensiamo e gestiamo la
convivenza e la sopravvivenza su questa terra che abitiamo insieme.
Inscrivere nella democrazia il corpo femminile significa fondare il patto
sociale non sull'individuo astratto ma sulla dimensione umana dell'essere,
ognuno e ognuna, nato e mortale, significa accogliere la realta' del
generare e quindi l'idea del passaggio e dell'eredita' tra generazioni.
Significa iscrivere nella democrazia il governo del tempo e del mutamento,
dati costitutivi del vivere individuale e del vivere sociale, uscendo dal
sogno astratto di un'immortalita' che puo' essere rispettato solo nella
dimensione della fede, ma non in quella della convivenza su questa terra.
Spendiamo molte parole per dipingere l'orrore della guerra, le nostre
migliori capacita' letterarie per trascrivere la profondita' dei sentimenti
che ci agita di fronte ad ogni massacro, tutto il nostro impegno e la nostra
intelligenza per essere presenti su un giornale, a un dibattito, ma una
visibilita' che non si misura anche con la costruzione di quegli spazi di
democrazia che consentono di arrivare davvero, come soggetti di una politica
propria e non attraverso scorciatoie, ai luoghi dove si decide, non alimenta
le possibilita' della pace.
Ogni donna che in questi anni si e' misurata in vario modo con la politica
non puo' non chiedersi a quale mulino sta fornendo la sua acqua, non puo'
non dichiarare su quale terreno porta la sua azione.
La pace chiede soprattutto pratiche diffuse ed efficaci a lungo termine e
ancora non le abbiamo sperimentate.
Le donne che vivono ancora oggi, e non solo oltre i confini del nostro
Paese, in condizioni di emarginazione e di oppressione, non hanno bisogno
della nostra carita', ma della nostra democrazia, di decisioni limpide sul
piano degli interessi in gioco e di una coerenza che renda credibili le
nostre istituzioni perche' giuste.
La storia della cittadinanza, dall'habeas corpus, all'universalita' del
voto, dal diritto all'istruzione, al lavoro, alla salute, a quell'integrita'
del corpo che sembra cosi' difficile affermare per le donne, deve oggi poter
proseguire verso la progressiva cancellazione di ogni confine e il
definitivo superamento di quell'idea di patria che ha fondato sulla radice
paterna l'idea del possesso e dell'esclusione.
Tra i nostri desideri individuali e la terra che abitiamo insieme, stanno le
molteplici forme di socialita' tra umani che sperimentiamo: la democrazia
puo' diventare la bussola che ci guida perche' il desiderio individuale non
diventi licenza di prevaricazione da parte del privilegio, perche' le
relazioni sociali non prevarichino la dimensione individuale, perche'
troviamo insieme forme di convivenza che alimentino le possibilita' del
futuro.
*
Un discorso questo che vale per tutti, ma io mi rivolgo alle donne perche'
sento che se non riusciremo ad esprimere una soggettivita' politica autonoma
che renda visibile un'altra storia e un altro modo di guardare e vivere il
mondo, gli uomini difficilmente si metteranno sulla strada di pratiche
autenticamente democratiche, e i giovani uomini che pure rifiutano il
militarismo e confondono parole e gesti con le loro coetanee nelle
manifestazioni pacifiste come nella vita quotidiana, non sembrano ancora in
grado di fare i conti con la propria storia di genere.
Tra le molte parole scritte dalle donne sulla pace e la democrazia, quasi
sempre ignorate dagli stessi movimenti pacifisti, mi sembra giusto e utile
concludere ricordando un vecchio e prezioso testo di Franca Pieroni
Bortolotti sulla prima straordinaria e dimenticata Associazione femminile
per la pace, la liberta' e l'unita' democratica d'Europa fondata da Maria
Goegg nel 1868 a Berna, nata quindi tra Risorgimento e Socialismo, come dice
il primo titolo della premessa.
Franca ricorda nell'introduzione di essersi trovata "come una persona che,
volendo semplicemente arrivare a un'isoletta amena e sconosciuta, si sia
accorta che stava inoltrandosi in un continente di rispettabili dimensioni,
in una parte consistente cioe' della storia della democrazia europea" e
questo restando "fedeli al punto di partenza (...) di un movimento di
emancipazione con sue proprie scadenze, e i suoi propri ritmi, e segnato dal
suo civilissimo metodo".
Non a caso alla cancellazione di tutto un mondo femminile che si muove sul
terreno della propria emancipazione affermandolo come elemento
imprescindibile della democrazia e della pace corrisponde in Italia la
cancellazione di Anna Maria Mozzoni che con la sua straordinaria lucidita'
politica aveva gia' capito come l'ostilita' all'emancipazione della donne
fosse ostilita' alla democrazia, pura e semplice.
Il testo di Franca restituisce densita' a quella miriade di azioni
pacifiste, a quel fitto dibattito, di cui a noi restano oggi poche figure
isolate che non passano neppure nei manuali scolastici e andrebbe studiato
non solo perche' rivela il senso profondo di tante vicende, ma soprattutto
perche' facendo chiarezza sul quel passato ancora vicino, che ha visto
l'Europa del progresso precipitare il mondo intero nel baratro delle guerre
che hanno segnato il '900, apre nuove e piu' concrete strade al dibattito
del presente.
Se infatti l'autrice sceglie di concludere il suo scritto ricordando cio'
che il movimento per la pace riusci' a realizzare, per non confondersi con
gli storici che bloccando l'attenzione sulle sue sconfitte ne cancellano il
significato storico e politico, ricorda pero' che "se ci chiediamo quali
carenze politiche produssero la crepa del 1914 , nel pacifismo europeo, noi
vediamo benissimo oggi che il punto debole di quello schieramento resto'
sempre il varco aperto tra le due zone sociali rivolte alla difesa della
pace, dagli anni '80 del secolo scorso [1800] in poi: diciamo per simboli,
resto' una zona di diffidenze, di malintesi, di disaccordi tra il mondo di
Bertha Von Suttner da un lato e quello di Rosa Luxemburg dall'altro. Furono
due mondi che non riuscirono a congiungersi e dal quel varco passarono le
forze della guerra".
La storia scritta dalle guerre e da molti uomini si e' poi incaricata di
cancellare il pacifismo di entrambe, lasciandoci orfane di un'intera
eredita': non possiamo lasciare che accada una seconda volta.
3. RIFLESSIONE. DANIELE LUGLI: SATYAGRAHA, LA FORZA DELLA VERITA'
[Questo intervento di Daniele Lugli, apparso anche su "Azione nonviolenta"
n. 10 dell'ottobre 2002, abbiamo ripreso dal sito del Movimento Nonviolento
(www.nonviolenti.org) di cui Daniele (per contatti: daniele.lugli@libero.it)
e' segretario nazionale]
"Forza della verita'" e' il modo usuale di tradurre il termine "satyagraha".
E' stato scelto da Gandhi, in Sud Africa, per indicare la forza dispiegata
dagli indiani immigrati, che lo seguirono in otto anni di campagne per il
riconoscimento dei loro diritti. "A mio parere - scrive Gandhi - la bellezza
e l'efficacia del satyagraha sono grandiose e la dottrina e' cosi' semplice
da poter essere insegnata anche a un bambino".
La lettura di testi gandhiani puo' essere un buon consiglio. A me e' stata
utile la bella antologia Teoria e pratica della nonviolenza, riedita da
Einaudi, con l'ottima prefazione di Giuliano Pontara.
Il nome di Einaudi mi sollecita a riprendere due opportuni avvertimenti di
Luigi Einaudi, affidati alle sue Prediche inutili. "Il solo fondamento della
verita' e' la possibilita' di negarla. Il giorno che la verita' o quello che
noi riteniamo tale fosse accettata da tutti senza contrasto, dovremmo
cominciare a temere di essere caduti in errore"; e ancora: "Il male politico
e sociale nasce quando gli uomini d'azione sono persuasi di avere scoperta
una verita', di possederla e di avere il dovere di attuarla".
I danni, aggiungo, sono tanto maggiori quanto piu' potere hanno i detentori
della verita' e sono tanto piu' durevoli, sicuri e crescenti quanto piu' a
loro si oppongono altri detentori di verita' assoluta.
La verita' che ci e' dato conoscere non e' fuori di noi, ne' puo' essere
imposta. E' quella che scambiamo, confrontiamo, incrementiamo, perdiamo
nella nostra esperienza di vita. A questa, consapevoli della nostra
fallibilita', dobbiamo testimonianza e assunzione di responsabilita'. "Gli
disse Pilato: 'Che cosa e' la verita'?'. Usci' poi di nuovo...". Non
aspetto' la risposta Pilato, ma non ne aveva bisogno. "Non trovo contro di
lui alcun capo d'accusa" era la verita' che Pilato possedeva. Rimettersi al
giudizio del popolo e' stato non dare spazio alla forza della propria
verita'. Non ha usato una forza, non invincibile, ma importante (come non
infallibile, ma decisivo, era il giudizio della sua coscienza).
Vi e' una forza nell'adesione risoluta alle convinzioni, ai valori che siamo
giunti a ritenere veri per noi. E' una forza che si accresce, se riusciamo
ad essere sinceri con noi stessi e con gli altri, che ci sono necessari.
"Bisogna essere in due per dire la verita': uno per parlare, uno per
ascoltare" secondo Thoreau. Chi puo' parlare ascolta piu' profondamente, ci
diceva Capitini. Il confronto, ed anche il conflitto piu' aspro, puo' avere
miglior soluzione in termini di nuova verita', raggiunta e condivisa, se e'
fatto di parola e di ascolto, se almeno una parte fa appello alla capacita',
che e' anche dell'altro, di giungere ad una soluzione razionale e per tutti
accettabile.
Si apre qui la strada del satyagraha, dell'azione nonviolenta, della quale
oggi si sente spesso parlare. E' diretta a diminuire la violenza, grande e
piccola, nei comportamenti, nella cultura, nelle strutture della societa'.
La forza, che si fa violenza in favore del privilegio, ha una verita',
realta', evidenza di fronte alla quale la forza della verita' appare
impotente. Qui sta il banco di prova decisivo. "La verita' esige una
dimostrazione costante" riteneva Gandhi ed esperimenti con la verita'
chiamava le sue grandi campagne. Non c'e' alcuna garanzia di successo, ma e'
la sola modalita' che non alimenti il circuito della violenza.
Il circuito della violenza - diretta, strutturale, culturale - si regge
sulla collaborazione, piu' o meno convinta, talora entusiasta, di chi ne e',
in diverso modo, vittima. E' difficile che non ci sia altra scelta, sia pure
difficile. Tant'e' vero che c'e' chi fa altre scelte, che sono addirittura
eroiche, quanto piu' individuali, non comprese, non sostenute. La maggior
parte si adatta e, poiche' vive male nella consapevolezza della propria
vilta', finisce per l'accettare, come inevitabile e vero, cio' che aveva
stimato falso e da combattere. Chi ha cervello e stomaco adeguati trova
spazio e valorizzazione nella produzione del consenso.
Questa connessione tra forza e verita' e' limpidamente espressa da Giovanni
Gentile: "Ogni forza e' forza morale, perche' si rivolge sempre alla
volonta'; e qualunque sia l'argomento adoperato - dalla predica al
manganello - la sua efficacia non puo' essere altra che quella che sollecita
infine interiormente l'uomo e lo persuade a consentire". Da Direttore della
Scuola Normale di Pisa, sollecito' il giovane Aldo Capitini, che ne era
segretario, a prendere la tessera del partito fascista per mantenere
l'impiego. Capitini non consenti'. Fu licenziato, schedato come
antifascista. Seguito' ad attenersi alla verita' della quale veniva mano a
mano persuadendosi.
Nei paesi privilegiati si usano la televisione e i mass media piuttosto che
il manganello (anche se non vi si rinuncia per non perderci la mano) per
sollecitare interiormente, persuadere a consentire all'ingiustizia
quotidiana ed alla prossima guerra. Leggo pero' ("Il Sole 24 Ore" del 15
settembre) di un film, Clown in Kabul, che documenta il lavoro del gruppo di
medici diretti da Hunter "Patch" Adams, perche' bimbi, feriti, mutilati,
bruciati, atterriti siano, oltre che curati, riportati al sorriso. "Una
grossa ciliegia rossa in mezzo alla faccia, qualche sberleffo, e poi tanta
capacita' di sentire il dolore dell'altro... contrario umano di cio' che
pratica ogni terrorista, ogni fanatico della morte al lavoro. Il quale
infatti non sente e non vede l'altro e il suo dolore, ma solo vede e sente
una propria cieca verita' assoluta".
C'e' molto da lavorare per vedere e sentire, ed aiutare a vedere e sentire,
la verita' che sta in quel dolore e nell'intervento dei medici clown. Ciechi
e sordi non sono solo i terroristi e i fanatici della morte, ma tanta brava
gente, come noi e i nostri capi di stato democraticamente eletti. La verita'
di quel dolore e dell'intervento che risarcisce, condivisa e partecipata,
costituisce la nostra forza. E' nonviolenza in azione.
4. RIFLESSIONE. MARIA LUIGIA CASIERI: IL DONO DELL'ALTRO
[Maria Luigia Casieri (per contatti: nbawac@tin.it) e' una delle principali,
anzi principalissime collaboratrici di questo notiziario. Insegna nella
scuola dell'infanzia]
Sembra a volte che gli adulti siano molto preoccupati dell'autonomia
infantile. Taluni perche' vorrebbero farli autonomi da subito, talaltri
perche' vorrebbero che autonomi non divenissero mai.
Cosi' i genitori, cosi' gli insegnanti.
Ancor piu' quegli insegnanti che ai bambini insegnano in tenera eta', ad
affrontare e capire se stessi e il mondo e le complesse relazioni con gli
altri e le cose.
Piu' i bambini sono piccoli piu' la richiesta di autonomia e' fiore
all'occhiello, quasi suggello della professionalita' docente. Una
professionalita' centrata sul bambino competente, sulla funzione docente,
sul "non ti aiuto perche' puoi fare da solo".
All'estremo opposto l'altra tipologia, dell'insegnante chioccia, ma anche
dell'insegnante alternativa, quella compiaciuta perche' i bambini l'adorano,
quella che adotta strategie di captatio benevolentiae, quella che non pone
limiti nel timore di essere meno benvoluta, quella gelosa delle colleghe,
quella che non molla la presa esibendo ostentata fusionalita'.
Se si potessero liberare le parole della loro ipocrisia, se si potesse
vincolare la norma a un orizzonte di senso negoziato tra le persone che
condividono un percorso di crescita e di liberazione, se i significati detti
non fossero inganni per slittare indenni da "pieni" di parole a "vuoti" di
pratiche burocratiche in cui la cultura non e' che ombra di se' stessa,
frammenti accumulati senza senso e senza conflitti, mai cognitivi, ne'
morali, ma solo di interessi. Dove il conflitto perde la sua dignita' e si
trasforma in lite.
Perche' i bambini siano bambini e bambine in grado di crescere in "sapienza
e intelligenza" devono incontrare adulti capaci di invecchiare "sempre
imparando nuove cose". Ed imparare innanzi tutto su se stessi.
5. ARCHEOLOGIA. DA UNA LETTERA DI MISONE ALL'AMICO SUO TEOFRASTO
Carissimo Teofrasto,
a tutti gli amici, e massime a tutti gli amici anche della nonviolenza, mi
permetto di chiedere un surplus di attenzione e di esattezza (l'attenzione
di Simone Weil, l'esattezza di Danilo Dolci), di approfondimento delle
questioni, di impegno a non semplificare cio' che e' complesso, confuso e
fin contraddittorio; so che mi capisci, e credo che siamo d'accordo.
*
Gia' ho scritto a Timandro e a Eleandro in riferimento a gruppi che
predicano e praticano la violenza: non sono nostri amici, non sono nostri
vicini, sono nostri avversari. Sono nostri avversari. Nostri avversari sono.
Ed abbiamo il dovere di dirlo, ed abbiamo il dovere di chiamare tutti a un
esame di coscienza, ed abbiamo il dovere di cercare di persuadere tutti ad
abbandonare ideologie e pratiche che idolatrano e riproducono e favoreggiano
la violenza e la menzogna.
Proprio per il rispetto dovuto ad ogni persona, dobbiamo lottare contro
ideologie e prassi della violenza; proprio per l'amore che rechiamo
all'umanita' in ogni essere umano, le ideologie e le pratiche che l'umanita'
altrui denegano dobbiamo contrastare senza esitazione.
E proprio perche' siamo amici della nonviolenza dobbiamo farla finita di
essere subalterni noi stessi a quella immagine fasulla e caricaturale che
pretende che gli amici della nonviolenza siano delle personcine beneducate
ed ipocrite che lasciano che i violenti facciano i comodi loro magari
predicando che bisogna essere comprensivi con tutti. Ne' Gandhi ne' Chico
Mendes, ne' Martin Luther King ne' Oscar Romero, ne' Marianella Garcia erano
personcine timide e distratte che lasciavano che i violenti facessero i
comodi loro. Gli amici della nonviolenza sono persone che combattono davvero
contro la violenza, ad essa opponendosi nel modo piu' limpido ed
intransigente; credo sia per questo che spesso vengono uccisi (ad esempio
tutti quelli che ho appena citato).
Perche' la nonviolenza e' lotta contro la violenza, o non e'. E la lotta
contro la violenza o e' lotta contro tutte le violenze o non e'. Chi si
accoda ai violenti ne e' complice, e complice disprezzato dagli stessi
violenti cui si accoda. C'e' un solo modo per favorire l'evoluzione verso il
ripudio della violenza di chi e' risucchiato e accecato in ideologie e
pratiche della violenza: ed e' essere intransigenti contro la violenza. Non
possiamo e non dobbiamo essere accomodanti con gli squadristi ed i
provocatori; essi devono sapere che devono cambiare atteggiamento e
condotta, che non si illudano di trovare in noi dei complici. Devono sapere
che di quelle ideologie e pratiche siamo gli avversari i piu' intransigenti.
La scelta della nonviolenza e' impegnativa, certo. Ma almeno la scelta di
non commettere violenza, ebbene, questa tutti hanno il dovere di farla
coloro che vivono e vogliono vivere in uno stato di diritto e in una
democrazia e che godono e vogliono godere dei diritti fondamentali che ivi
si trovano riconosciuti rispetto ai regimi autocratici.
*
Non so cosa ne pensi ma credo che vorrai convenire con me che in certe
vicende occorre anche un po' di misura e di prudenza: la propaganda urlata e
fondata sull'elusione di cio' che non ci piace o non ci conviene (la
propaganda intrisa di totalitarismo e di falsa coscienza di cui troppi hanno
fatto uso ancora in questi giorni e da cui troppi si sono lasciati sedurre
per ingenuita' o pigrizia) non ha mai fatto bene a chi lotta per la dignita'
umana; penso che condividi questa mia modesta opinione. Misura e prudenza
occorre, e la limpidezza che sempre e' necessaria.
E sono altresi' certo che l'esigenza della nonviolenza che pongo io e' anche
la tua, e di Timandro e di Ipazia e di Eleandro e degli altri interlocutori
tutti di questa nostra riflessione appunto tra amici della nonviolenza:
magari diversamente sentita ed esposta e praticata, ma quel che conta e'
esser concordi sull'essenziale, e l'essenziale e' la nostra comune
opposizione alla violenza e alla menzogna.
6. PROPOSTE DI LETTURA. PRESENTAZIONE DEI "QUADERNI DI VIA DOGANA"
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (sito:
www.libreriadelledonne.it; e-mail: info@libreriadelledonne.it) riprendiamo
questa scheda che elenca i testi pubblicati nella bella collana dei Quaderni
di "Via Dogana", l'autorevole, preziosa rivista femminista milanese]
* Un'eredita' senza testamento. Inchiesta di "Fempress" sui femminismi di
fine secolo. Supplemento al n. 58/59 di "Via Dogana", dicembre 2001.
* Guerre che ho visto. Luisa Muraro, Clara Jourdan, Ida Dominijanni,
Virginia Woolf, Chiara Zamboni, Simone Weil, Delfina Lusiardi, Annarosa
Buttarelli. Supplemento al n. 44/45 di "Via Dogana", settembre 1999.
* Orizzonti di boria. Di Pat Carra. Introduzione di Luisa Muraro.
Supplemento al n. 43 di "Via Dogana", maggio 1999.
* L'oro delle vicine di casa. Una pratica che rende umana la citta'.
Supplemento al n. 36 di "Via Dogana", febbraio 1998.
* Due per sapere, due per guarire. A cura di Ipazia. Supplemento al n. 32/33
di "Via Dogana", settembre 1997.
* La parabola del patriarcato. Dall'invenzione della techne alla
restituzione dei panieri. di Maria Anna Rosei. Supplemento al n. 30 di "Via
Dogana", febbraio-marzo 1997.
* Le Trovatore. Poetesse dell'amor cortese. Di Mariri' Martinengo.
Introduzione di Michela Pereira. Supplemento al n. 28 di "Via Dogana",
settembre 1996.
* Amata dalla luce. Ritratto di Marilyn. Di Maria Schiavo. Supplemento al n.
25 di "Via Dogana", marzo 1996.
* Oriente. La IV Conferenza mondiale delle donne buddhiste nei disegni e
appunti di Isia Osuchowska. Introduzione di Natalia Aspesi. Supplemento al
n. 24 di "Via Dogana", dicembre 1995.
* Lingua e verita'. Emily Dickinson, Teresa di Lisieux, Ivy Compton-Burnett.
Di Luisa Muraro e le sue e i suoi studenti dell'Universita' di Verona.
Supplemento al n. 23 di "Via Dogana", settembre-ottobre 1995.
7. PROPOSTE DI LETTURA. LIBRERIA DELLE DONNE DI MILANO: ALCUNI LIBRI
PREZIOSI
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riportiamo questo elenco di "libri preziosi" che nel sito recano anche
alcuni minimi e felici commenti testo per testo. L'elenco e' aperto dalla
seguente nota: "Questo e' un elenco - tendenzioso, parziale, in crescita -
di libri che ci hanno parlato. La scelta e' dettata unicamente dalle nostre
preferenze, e dal fatto che dopo ogni lettura ci siamo trovate a guardare la
realta' con altri occhi. Sono i nostri testi preziosi a disposizione di
tutte/i. Alcuni non sono piu' sul mercato, ma li potete trovare nel nostro
forziere. Altri siamo riuscite ad accumularli come fanno le formiche, e vi
aspettano sui nostri scaffali. Preziosi sono anche i "Sottosopra" della
Libreria delle donne!"]
- AA. VV. (Alma Sabatini), Il sessismo nella lingua italiana, Istituto
Poligrafico Zecca dello Stato, Roma 1987 (esaurito).
- AA. VV. (Rivolta Femminile), E' gia' politica, Edizioni di Rivolta
Femminile, Milano 1977.
- AA. VV., La rivoluzione inattesa, Pratiche, Parma 1995.
- AA. VV., Duemilaeuna. Donne che cambiano l'Italia, Pratiche, Milano 2001.
- AA. VV., Buone notizie dalla scuola, Pratiche, Milano 1998.
- Alcott, Louise May, Piccole donne, varie edizioni.
- Arendt, Hannah, Rahel Varnhagen, Il Saggiatore, Milano 1988 (esaurito).
- Austen, Jane, Persuasione, Tea, Milano 1988.
- Austen, Jane, Emma, Garzanti, Milano 1999.
- Austen, Jane, Orgoglio e pregiudizio, Garzanti, Milano 1999.
- Austen, Jane, L'Abazia di Northanger, Teoria, Napoli 1990.
- Bachmann, Ingeborg, Tre sentieri per il lago, Adelphi, Milano 1993.
- Bachmann, Ingeborg, Poesie, Guanda, Parma 1988.
- Banti, Anna, Le donne muoiono, Giunti, Firenze 1998.
- Bateson, Mary Catherine, Comporre una vita, Feltrinelli, Milano 1992
(esaurito).
- Beretta, Gemma, Ipazia d'Alessandria, Editori Riuniti, Roma 1992
(esaurito).
- Bocchetti, Alessandra, Cosa vuole una donna, La Tartaruga, Milano 1995.
- Borderias, Cristina, Strategie della liberta'. Storie e teorie del lavoro
femminile, Manifestolibri, Roma 2000.
- Bronte, Emily, Cime tempestose, Einaudi, Torino 1992.
- Carra, Pat, Donne moderne, Milano 1992.
- Cavalli, Patrizia, Poesie, Einaudi, Torino 1994.
- Cavarero, Adriana, Nonostante Platone, Editori Riuniti, Roma 1991.
- Cigarini, Lia, La politica del desiderio, Pratiche, Parma 1995.
- Compton-Burnett, Ivy Piu' donne che uomini, Longanesi, Milano 1974.
- Compton-Burnett, Ivy, Servo e serva, Einaudi, Torino.
- Compton-Burnett, Ivy, Madre e figlio, Mondadori, Milano.
- Compton-Burnett, Ivy, Un dio e i suoi doni, Einaudi, Torino.
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- Dickinson, Emily, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997.
- Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987
(esaurito).
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- Fouque, Antoinette, I sessi sono due, Pratiche, Parma 1998.
- Fox Keller, Evelyn, In sintonia con l'organismo.
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- Gimbutas, Marija, Il linguaggio della dea, Longanesi, Milano 1990.
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- Wolgast, Elizabeth, La grammatica della giustizia, Editori Riuniti, Roma
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- Woolf, Virginia, Una stanza tutta per se', Se, Milano 1995.
- Woolf, Virginia, Le tre ghinee, La Tartaruga, Milano 1975.
- Woolf, Virginia, Gita al faro, Garzanti, Milano 1988.
- Zamboni, Chiara, La filosofia donna, Demetra, Colognola ai Colli (Vr)1997.
- Zamboni, Chiara, L'azione perfetta, Centro culturale Virginia Woolf -
Gruppo B, Roma 1993.
- Zambrano, Maria, L'uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001.
- Zimmer Bradley, Marion, Le nebbie di Avalon, Tea, Milano 1997.
8. RILETTURE. JUDITH M. BROWN: GANDHI
Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 596, lire 60.000. Una
delle migliori monografie su Gandhi.
9. RILETTURE. CHRISTOPHER R. BROWNING: UOMINI COMUNI
Christopher R. Browning, Uomini comuni, Einaudi, Torino 1995, 1999, pp. XX +
260. Una lettura indispensabile. Indispensabile.
10. RILETTURE. SIMONA FORTI: IL TOTALITARISMO
Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. X + 150, euro
9,30. Un'assai utile introduzione.
11. RILETTURE. MARK LANE: UNA GENERAZIONE NEL VIETNAM
Mark Lane, Una generazione nel Vietnam, Feltrinelli, Milano 1971, pp. XXXVI
+ 292. Una raccolta di testimonianze di reduci e disertori americani sulle
torture e sui crimini di guerra. Un libro che sarebbe decisamente da
ristampare.
12. RILETTURE. VALENTINA PISANTY: L'IRRITANTE QUESTIONE DELLE CAMERE A GAS
Valentina Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas, Bompiani,
Milano 1998, pp. 302. Una definitiva analisi del negazionismo, delle sue
strategie, della sua propaganda, delle sue complicita' (particolarmente
utile in questi tempi in cui anche alcuni settori della sinistra si lasciano
talora ingannare e traviare dalle infami mistificazioni dei neonazisti).
13. RILETTURE. JACQUES SEMELIN: PER USCIRE DALLA VIOLENZA
Jacques Semelin, Per uscire dalla violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1985, pp. 192. Un utile saggio di uno dei piu' autorevoli studiosi e
militanti nonviolenti.
14. RILETTURE. ELENA SOETJE: LA RESPONSABILITA' DELLA VITA
Elena Soetje, La responsabilita' della vita, Paravia, Torino 1997, pp. 138,
lire 13.500. Un'agile utile introduzione alla bioetica con antologia di
testi dei principali studiosi.
15. RILETTURE. FRANCESCO TERRERI: ARMI E AFFARI
Francesco Terreri, Armi e affari, Edizioni Associate, Roma 1992, pp. 208,
lire 18.000. Un libro sul commercio delle armi nord-sud e sul ruolo
dell'Italia in esso, che a tutti raccomanderemmo di rileggere.
16. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
17. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 432 del primo dicembre 2002