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La nonviolenza e' in cammino. 329
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 329 del primo gennaio 2002
Sommario di questo numero:
1. Giorgio Caproni, giubilo
2. Lidia Menapace, gestione nonviolenta del conflitto: cultura, forme,
istituzioni (parte prima)
3. Brunetto Salvarani, per il dialogo tra le religioni, per la convivialita'
delle differenze
4. Giuseppe Chiaretti, per il dialogo islamo-cristiano
5. Simone Weil, un moto di carita' pura
6. Annette Wieviorka, della storia europea
7. Rosa Luxemburg, sulla pazienza
8. Anne Frank, aprite gli occhi
9. Hannh Arendt, il tacco della mia scarpa
10. Rietture: Franco Restaino, Adriana Cavarero (a cura di), Le filosofie
femministe
11. Riletture: Wanda Tommasi, I filosofi e le donne
12. Riletture: Chiara Zamboni, La filosofia donna
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'
1. POESIA E VERITA'. GIORGIO CAPRONI: GIUBILO
[Da Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1991, p. 545]
Fischiettava, il fucile
in spalla, spensierato.
Non pensava, lui assassino,
d'essere l'assassinato.
2. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: GESTIONE NONVIOLENTA DEL CONFLITTO: CULTURA,
FORME, ISTITUZIONI (PARTE PRIMA)
[Questo intervento di Lidia Menapace, di qualche anno fa, abbiamo ripreso
dal sito della scuola di pace del Comune di Senigallia
(www.comune.senigallia.an.it/scuoladipace_web). Lidia Menapace, una delle
nostre maestre piu' grandi, e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla
Resistenza, è poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto" e
partecipe di varie rilevanti esperienze politiche e culturali della sinistra
critica. E' tra le voci più significative della cultura delle donne e dei
movimenti di solidarieta' e di liberazione. La maggior parte degli scritti e
degli interventi di Lidia Menapace è dispersa in quotidiani e riviste, atti
di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per
un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La
Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della
differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con
Chiara Ingrao), Né indifesa né in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988;
Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna,
Milano 2000. Il seguito di questo intervento pubblicheremo nei prossimi
giorni]
1. La guerra e' sempre un crimine
Vorrei collocare quello che verro' dicendo in questo tempo, perche' mi
risulta impossibile introdurre accademicamente il tema di questa sera, che
intende essere un tentativo di risposta alla domanda: "e' possibile una
politica di pace?". Introdurre una risposta a questa domanda non e'
possibile se non si ricorda quello che sta succedendo in Libano o in
Liberia, o cosa ancora e' minaccioso nella ex-Jugoslavia. Sarebbe astratto
incominciare a pensare senza fare riferimento a tali realta', perche' questi
soli tre nomi significano sostanzialmente che una politica di pace ancora
non esiste. Ci sono solo tentativi per sedare i conflitti, per chiudere
delle guerre. E tutto questo, che e' solo una specie di balbettamento anche
se bene intenzionato, significa che nel pensiero politico non c'e' ancora
una fondazione teorica sufficiente, e non voglio dire adeguata, di una
politica della pace.
Ci avventuriamo dunque su un terreno del tutto nuovo, instabile, incerto,
senza indicatori, ci avviamo su una strada da tracciare. Conviene ricordare
cio', perche' le cose che verremo dicendo sono di carattere sperimentale e
induttivo. E pero', mentre sono sperimentali e induttive, queste parole non
sono cosi' tranquille come quando si fa una riflessione in laboratorio su
una situazione stabile, perche' sono mescolate con vicende che non possono
lasciarci indifferenti, sia per la carica di ferocia e di disumanita' che
portano con se', sia per la carica di pericolo che in qualche modo
esprimono. Non si tratta soltanto di eventi calamitosi per i quali la nostra
coscienza sobbalza e il nostro cuore geme, ma si tratta di fatti calamitosi
per i quali l'intera nostra esistenza e' minacciata, e' messa in
difficolta': una qualche ansia si insinua nelle nostre giornate, si aggiunge
a quelle che gia' ci sono, ma e' un'ansia piu' greve, piu' profonda, piu'
lancinante, perche' riguarda la possibilita' di eventi cosi' drammatici come
sono le guerre.
D'altra parte io non posso nemmeno ricordare questa data senza pensare che
e' cosi' vicina al 25 aprile, una data che ricordo bene. Ero allora ragazza,
avevo fatto la guerra di resistenza, sono stata staffetta partigiana nella
mia citta', Novara, una citta' importante nella guerra partigiana, e mi
ricordo non solo la gioia perche' finalmente era finita, ma anche la
convinzione che fu allora delle giovani generazioni che avevano partecipato
alla Resistenza, di aver concluso l'ultima guerra che si sarebbe mai
combattuta. Questa convinzione non era soltanto frutto di una giovanile
improvvisazione o di puri desideri, ma era talmente partecipata dai poteri
politici, sia pure in forme che non si sono realizzate, che di li' a poco la
carta che fondava le Nazioni Unite cominciava dicendo, dopo un breve accenno
ai lutti e alle rovine della seconda guerra mondiale, che si poteva da quel
momento dire che la guerra e' sempre un crimine.
La riflessione su una possibile politica di pace parte da questa
definizione: la guerra e' sempre un crimine.
Questa definizione capovolge una lunga riflessione del pensiero politico e
giuridico-politico, per la quale la guerra e' stata definita un mezzo, uno
strumento per risolvere i conflitti, per riparare delle ingiustizie, per
misurare i rapporti di forza reali. Varie opinione sono state dette di
questo evento: espressione dell'aggressivita' umana innata, invincibile.
Tutta una serie di definizioni hanno considerato la guerra qualche cosa
intorno alla quale non si da' previamente un giudizio etico, ma si cerca di
capire che cosa e'. In piu', quando ci si approssimava ad un giudizio etico,
si cercava sempre di distinguere le guerre giuste dalle guerre ingiuste:
quindi l'approssimazione etica considerava l'ipotesi che la guerra potesse
essere anche una cosa giusta. Invece la carta delle Nazioni Unite tronca
questo pensiero, lo mette fuori dalla storia, perche' afferma che la guerra
e' un crimine, e quindi va repressa.
Questa definizione si sostituisce alla piu' celebre definizione politica di
guerra data da von Clausewitz nei suoi Pensieri sulla guerra. Certamente e'
la riflessione piu' lucida che sia stata fatta su questo evento, anche con
grande onesta' intellettuale. von Clausewitz dice: "La guerra e' la
continuazione della politica con altri mezzi", continuazione necessaria
quando la politica non riesce piu' a risolvere i conflitti che si sono
annodati. Dunque fra guerra e politica von Clausewitz mette una continuita'.
Per questa ragione non vi e' motivo di scandalo: si puo' dire che vi sono
degli eccessi, ma questi ci sono anche nella politica. Interviene in questo
modo una sorta di giudizio etico di seconda istanza sugli eccessi, ma non
sul fatto in se'. Von Clausewitz, dunque, raccoglie la riflessione sulla
guerra a lui preesistente, e da' questa lucidissima e intellettualmente
onesta definizione: la guerra e' la continuazione della politica, quando
questa si trova di fronte a problemi cosi' annodati che non possono essere
piu' risolti con metodi "politici". Questa definizione contiene anche altre
osservazioni molto acute. Ad esempio von Clausewitz osserva che la guerra e'
uno strumento assoluto: dopo che la politica ha usato tutti gli strumenti
possibili e non e' riuscita a risolvere i problemi, in extremis da' il via a
quest'altro strumento, la guerra, che dunque e' assoluto. Tanto che,
aggiunge von Clausewitz, chiunque parla di limitazione, attenuazione,
umanizzazione della guerra, o mente o non sa di cosa parla. In questo
consiste la sua onesta' intellettuale. Siccome la guerra e' uno strumento
assoluto e' inutile pensare che lo si possa contenere: sarebbe una
contraddizione in termini. Se un mezzo e' assoluto, allora si dispiega fino
a quando non ha finito. Non si puo' dire: facciamo "un po'" di guerra,
facciamo una guerra in tono minore, facciamo una guerra con contenimento
umanitario. Questo non e' possibile, ed e' in contraddizione con l'idea di
guerra, che e' di per se' uno strumento assoluto, che non ammette
contenimenti.
Credo che questa parte del ragionamento di von Clausewitz sia ancora
estremamente attuale: e' vero che la guerra ha questa caratteristica di non
poter poi essere contenuta e limitata. Tutti i protocolli internazionali
sull'umanizzazione della guerra, sulla tutela delle popolazione e dei
prigionieri, valgono fino a quando un Hitler qualsiasi non dichiara che
tutti i trattati sono solo pezzi di carta e che lui fa quello che vuole.
D'altra parte la stessa tutela delle popolazioni civili, dalla seconda
guerra mondiale in poi, quando Hitler individua nella popolazione civile il
punto debole della possibile resistenza del nemico riconoscendo nelle citta'
obiettivi militari, viene esclusa dalla gestione delle guerre. Questo e'
stato il punto in cui l'assolutezza della guerra si e' mostrata nella sua
forma piu' estrema. La citta', che e' il luogo in cui comunemente la
popolazione civile rimane, e che quindi viene generalmente dalla guerra
scartata (le citta' subiscono assedi oppure vengono saltate perche' lo
scontro si fa sul campo, e rimanevano in qualche modo isolate dall'essere
considerate direttamente obiettivi militari), la citta' diventa per la
guerra da Hitler in poi il principale obiettivo militare. E' probabile che
non riusciamo piu' ad avere la sensazione sconvolgente di questo mutamento,
perche' ormai ci abbiamo vissuto in mezzo tanti anni. Ma quando avvenne per
la prima volta che una citta' fu colpita a freddo bombardando la popolazione
civile, l'emozione fu tale che Picasso dipinse Guernica. Questo quadro
rappresenta il primo bombardamento a freddo dell'aviazione hitleriana di una
piccola citta' nel corso della guerra di Spagna, tanto che Guernica e'
diventata il simbolo di tutte le citta' che sono state colpite come
obiettivi militari non per caso, ma intenzionalmente. Esiste anche una
parola: "coventrizzare", che significa bombardare Coventry, in Inghilterra,
come fu fatto dall'aviazione nazista e fascista durante la seconda guerra
mondiale con l'intenzione di ridurre la citta' in cenere. Poi naturalmente
gli alleati replicarono, e Dresda e' una citta' ridotta dagli angloamericani
in rovine. Quando anche l'asilo urbano viene scientemente violato, siamo
nella massima espansione della definizione di guerra di Clausewitz come
strumento assoluto.
La conclusione e' che dalla seconda guerra mondiale in poi le vittime civili
delle guerre sono piu' numerose dei caduti militari: e' evidente il
carattere totale della guerra, che non lascia asili, luoghi marginali,
luoghi franchi, citta' aperte o altre cose del genere.
Ma nello stesso momento in cui la definizione di Clausewitz riceve
storicamente il massimo d'affermazione, l'evento Hiroshima mette quella
definizione in crisi, perche' quando l'uso degli strumenti distruttivi e'
tale da non lasciare adito alla continuazione della vita, allora la guerra
arriva a un tale livello di irrazionalita' che giustamente le Nazioni Unite
la definiscono sempre un crimine.
Quando la distruzione di massa diventa cosi' repentina, incontrovertibile,
eccezionale, diffusa e per di piu' con la possibilita' di proseguire i suoi
effetti addirittura sulle generazioni future, come accade con le radiazioni
atomiche, siamo fuori persino dalla definizione della guerra come
continuazione della politica con carattere di assolutezza. Abbiamo oramai
una guerra come crimine contro la vita, contro la natura, contro la storia.
Il pensiero di una possibile politica di pace, o il pensiero politico
pacifista nasce con Hiroshima. Il pacifismo moderno, e non il semplice
anelito alla pace che c'e' sempre stato ma non ha fermato mai una guerra, il
tentativo di definire in termini giuridico-politici un altro modo di
riflettere intorno alla guerra nasce con Hiroshima, cioe' con l'oltraggio
insopportabile di strumenti di distruzione tali che la loro permanenza
minaccia il nemico fino a due generazioni seguenti. Questo e' un fatto
importante, ma e' anche un limite del pensiero pacifista che ha sviluppato
la sua politica di pace nei primi decenni seguenti la seconda guerra
mondiale essenzialmente puntando sulla paura del nucleare. La paura del
nucleare e' assai razionale, chi non ha paura del nucleare e' pazzo, e'
folle. Come pure avere paura della guerra e' un fatto assolutamente umano e
ragionevole. Non aver paura della guerra non vuol dire essere eroi o
coraggiosi, vuol dire essere pazzi, fuori da qualsiasi razionalita'. Pero'
fondare esclusivamente sulla paura del nucleare la formazione di una
coscienza politica di pace e' insufficiente.
Infatti, dopo le grandi manifestazioni che in tutta Europa hanno dato la
misura di quanto le popolazioni europee, che pure non avevano subito
direttamente la minaccia atomica ma che continuamente temevano che questa
potesse presentarsi, il pensiero militare ha cambiato forma dimostrando di
essere piu' scaltro, avveduto e storicamente piu' fondato di quanto non
fosse il pensiero pacifista. Infatti sono state inventate le guerre
subatomiche, le guerre regionali, cioe' delimitate per territorio, le guerre
che possono essere tenute sotto controllo.
La guerra del Golfo e' la grande risposta del pensiero militarista
all'insufficienza politica del pensiero e della pratica pacifista, perche'
dalla guerra del Golfo in poi la guerra comincia a rilegittimarsi nella
coscienza popolare. Cade questo schermo di rigetto sia pure per paura e si
ricomincia a pensare: "pero', insomma, se avviene lontano, se le bombe sono
intelligenti, se si tratta di un'operazione chirurgica". Se la guerra e'
presentata con un linguaggio simbolico che allude ad una sua utilita',
allora viene in qualche modo accettata. Voglio osservare che la guerra viene
presentata in questa nuova forma non come una cosa giusta, ma come una cosa
utile. C'e' una specie di mutamento dello spettro etico entro cui la guerra
viene collocata. Non si dice piu' che la guerra e' giusta. D'altra parte e'
difficile commuovere le persone sulla sorte degli emiri dell'Arabia Saudita,
che non sono soggetti facilmente portatori di emozioni positive
nell'opinione pubblica mondiale: dire "corriamo in soccorso degli emiri e
degli sceicchi, difendiamoli in nome della giustizia" non avrebbe commosso
nessuno. Invece si introduce l'elemento della guerra utile: "e'
un'operazione chirurgica". Nessuno ama le operazioni chirurgiche ma sa che
sono utili, nel senso che risanano da una malattia.
In questa nuova edizione l'evento bellico non e' piu' presentato come
qualcosa intorno a cui richiamare grande passioni come la difesa della
patria, della civilta', dell'occidente, del cristianesimo, dell'islam, tutti
messaggi che danno una specie di giustificazione etica o addirittura
religiosa della guerra. La novita' e' che ci troviamo di fronte a una
giustificazione di tipo utilitaristico.
Siccome, peraltro, nel periodo in cui viviamo il tema dell'utilita' e' molto
sentito, questo strumento e' molto efficace nel legittimare nuovamente la
guerra.
*
2. Per un nuovo pensiero politico pacifista
Se ho tracciato in maniera sommaria queste tappe sul pensiero intorno alla
guerra e' perche' vorrei che ci sforzassimo di considerare la fondazione di
una politica della pace come un'impresa teoricamente, culturalmente,
eticamente impegnativa e di grande fascino. Si tratta di dare risposta ad
una questione rimasta aperta dalla seconda guerra mondiale in poi, quando
finisce il possibile utilizzo positivo, storicamente accettabile della
definizione che von Clausewitz ha dato della guerra come continuazione della
politica con altri mezzi di carattere assoluto. La guerra non e' piu'
questo, ma e', ad esempio, un intervento chirurgico sul tessuto canceroso
della convivenza umana, e' un taglio brutale, ma necessario. Questa e' la
nuova teoria della guerra, che ci viene presentata come un intervento che
risana un tessuto ammalato. La risposta che viene data dalla pratica e dal
pensiero pacifisti non e' adeguata, perche' e' rivolta all'indietro: la
guerra e' il mostro che fa paura, il che e' vero ma non basta, tanto che la
guerra ha fatto di nuovo dei passi in avanti nella coscienza comune. Non
c'e' piu' una immediata e istantanea forma di ripulsa. E' comune sentire
persone che dicono: "quando proprio non si puo' fare altro...", che e' un
modo popolare di riformulare la definizione di Clausewitz. Anche alcuni
pacifisti hanno detto: "... beh, in Bosnia intervengano pure militarmente,
cosa si deve fare, piuttosto del massacro!". Questo ci fa capire che non
siamo riusciti ad elaborare un vero pensiero politico sulla pace, se noi
stessi e noi stesse pacifisti ci troviamo a non avere argomenti convincenti
per resistere alla richiesta di intervento armato che periodicamente viene
avanti.
Ritorniamo alla carta delle Nazioni Unite, che rimane un punto nettissimo,
un aggancio assai importante, benche' il suo valore giuridico sia
praticamente nullo in quanto non e' uno strumento di diritto internazionale,
e non ci sono sanzioni per chi la viola. Pero' si tratta di un alto
messaggio etico-politico, ed anche di qualcosa che ha dietro di se' grumi di
potere non del tutto indifferenti.
Questa carta delle Nazioni Unite, dopo aver definito la guerra un crimine,
non prosegue dicendo che tutti quelli che fanno la guerra sono "cattivi",
perche' uno strumento politico fatto da stati assai potenti non puo'
continuare in questa maniera un po' ingenua e moralistica di discutere
intorno alla guerra.
Avendola definita un crimine, ovviamente richiama la risposta che gli stati
danno ai crimini: organizzano la pubblica sicurezza, la polizia. Il crimine
e' definito, non si devono commettere crimini, ma siccome non si puo'
presumere idealisticamente che basti dire "non devi rubare" perche' nessuno
rubi, allora si dice "non devi rubare, e se rubi allora ti metto in galera".
Ti becco, provo che hai rubato, e ti condanno. Quindi intervengo con
un'operazione di polizia e di pubblica sicurezza. Infatti la carta delle
Nazioni Unite parla di un sistema di polizia internazionale che dovrebbe
servire per intervenire contro il crimine guerra. Questo e' un punto che e'
stato pochissimo e male elaborato. Inoltre questo aspetto della carta delle
Nazioni Unite non ha mai avuto un'adeguata esecuzione: tutti gli stati
avrebbero dovuto mettere a disposizione 5000 persone addestrate in
operazioni di polizia internazionale, mentre tutti gli stati mettono a
disposizione pezzi dei loro eserciti a cui cambiano l'elmetto: gli mettono
il casco blu e diventano polizia internazionale.
A questo punto c'e' una prima osservazione da fare: la formazione di un
corpo di polizia e' essenzialmente diversa dalla formazione di un corpo
militare. Il poliziotto puo' commettere abusi, ma comunque chi fa parte di
un sistema di pubblica sicurezza o di polizia e' addestrato a catturare il
criminale possibilmente vivo, ad agire per la difesa dei cittadini
innocenti, e non a sparare nel mucchio, altrimenti commette un abuso e puo'
e deve andare sotto processo. Al contrario il soldato e' addestrato e ha il
dovere di sparare contro chiunque abbia la divisa di un altro colore. E'
sufficiente un diverso colore della divisa perche' uno senta dentro di se'
il comando di sparare. Non si puo' dunque trasformare un pezzo d'esercito,
per di piu' professionale, come sono molti dei corpi utilizzati dall'ONU, in
un'organizzazione di pubblica sicurezza. Al massimo si possono utilizzare
delle truppe di leva, considerato il fatto che hanno paura anche loro e che
quindi non si espongono troppo, per il loro scarso tasso di militarismo,
dunque. Ma quando si tratta di corpi speciali volontari addestratissimi, far
finta che, mettendogli in testa un casco blu, diventino dei corpi di
polizia, e' proprio una finzione delle piu' balorde, che per di piu' espone
queste persone a rischi oppure a repliche indiscriminate e violente.
Ora occorre affrontare il problema di come collocarsi di fronte a questo
grumo di questioni che si sono annodate negli ultimi decenni. La guerra non
puo' piu' in alcun modo essere definita uno strumento risolutivo dei
conflitti troppo annodati a cui la politica non riesce a dare una risposta,
e non puo' essere in alcun modo definita giusta. Inoltre la guerra implica
una grande sproporzione fra mezzi e fini, fra offesa e risposta. Qualunque
cosa un popolo ritenuto colpevole abbia fatto, anche invaso un pezzo del tuo
territorio, questo non giustifica che tu lo distrugga, lo massacri, bombardi
le sue citta', ammazzi i civili, fai delle rappresaglie. Tutte queste cose
non sono giustificabili.
Quindi la guerra resta un crimine: da questa definizione non conviene
tornare indietro, perche' e' un punto molto elevato, molto avanzato della
riflessione etico-politica.
*
3. Che fare?
La cultura che noi assorbiamo anche criticamente non ha dentro di se' questa
affermazione: che la guerra e' sempre un crimine. Dobbiamo rovesciare questa
situazione, quindi dobbiamo incominciare a far politica a partire dal fatto
che la guerra e' sempre un crimine. Persino nelle Costituzioni in cui questo
e' detto, questa parte non e' diventata cultura politica. L'art. 11 della
Costituzione italiana afferma che l'Italia "ripudia la guerra". Il verbo
ripudiare non e' un termine giuridico, e infatti nei testi giuridici non si
trovano delle parole cosi' emotive. Ripudiare vuol dire una forma di rigetto
esistenziale: la guerra mi fa schifo, mi rovescia le budella, e' qualcosa di
molto profondo. La parte dell'articolo che recita "L'Italia ripudia la
guerra come offesa alla liberta' degli altri popoli" e' stata imposta
all'Italia, come alla Germania e al Giappone, dai vincitori che hanno
imposto agli sconfitti di scrivere nelle rispettive Costituzioni che non
avrebbero fatto piu' guerre d'aggressione. Ma in piu' i nostri costituenti
aggiunsero, e questa e' la parte piu' significativa e piu' carica di futuro,
che la guerra viene ripudiata anche "come strumento di risoluzione delle
controversie internazionali". In presenza di controversie internazionali,
anche quelle nelle quali noi avessimo ragione, non siamo legittimati dalla
nostra Costituzione nemmeno a pensare che potremmo fare una guerra per
risolvere a nostro favore la controversia.
Dunque la nostra Costituzione ci obbligherebbe da cinquant'anni in qua a
darci da fare a studiare come si fa ad aver ragione in una controversia
internazionale senza fare ricorso alla guerra, cioe' come si fa una gestione
nonviolenta di un conflitto politico. Questa cosa non e' viva nel nostro
dibattito politico, non e' un meccanismo che scatta. Mentre se c'e' un
attacco alla liberta' di stampa o alla indipendenza della magistratura, c'e'
un'emozione, almeno nella stampa, immediata, e anche una qualche
partecipazione popolare. Questa cosa ci scatta spontaneamente, tanto che
coloro che vogliono minacciare la liberta' di stampa e l'autonomia della
magistratura sono obbligati a giustificarsi dimostrando che cio' non e'
vero. Ormai nella coscienza popolare l'idea che la liberta' di stampa sia un
prezioso valore, e che l'autonomia della magistratura vada rispettata c'e'.
Mentre quando si tratta di guerre non scatta una reazione analoga.
Questo torpore morale nei confronti della guerra e' iniziato con la
spedizione italiana in Libano voluta dal governo Spadolini, spedizione che
era incostituzionale: soldati di leva, per di piu', mandati fuori dai
confini per una operazione di tipo militare. Non disse niente quasi nessuno.
Da quel momento in poi di invii di truppe italiane in varie parti ce ne sono
stati molti altri, e sempre piu' oramai di corpi professionali. Per questa
strada si costruisce l'esercito professionale italiano, che e' sbocco quasi
inevitabile. Ma il problema e' che se viene costruito attraverso questa
strada, diventera' un esercito professionale che chiedera' la modifica
dell'articolo 11. Di fatti la richiesta della modifica dell'articolo 11 c'e'
gia', nel senso che si chiede che l'Italia faccia una politica di sicurezza
con la possibilita' di intervenire ovunque gli interessi nazionali siano
minacciati. Il passaggio da difesa a sicurezza e' un passaggio
pericolosissimo. L'arbitrio interpretativo dell'espressione "ovunque gli
interessi italiani siano minacciati" e' tale da giustificare qualsiasi
intervento. Tutto questo puo' succedere perche' fra i primi 11 articoli
della Costituzione, quelli che ne caratterizzano il volto, l'art.11 e'
particolarmente messo in dubbio e scavalcato nella sua formalita' dalla
cosiddetta costituzione materiale. Cosi' il pratico modo di agire e la
formazione dell'opinione intorno a questo articolo sono gia' mutati, e
questo dipende dal fatto che non siamo riusciti a motivare e ad agganciare a
queste affermazioni lo stesso sentimento di democrazia minacciata come
invece accade quando si verifica un attacco ad esempio alle liberta'
individuali (art. 3) o alla liberta' di pensiero ed espressione. E' vero che
anche altri articoli non suscitano sempre una grande emozione. Ad esempio il
fatto che il razzismo sia solennemente bandito dalla nostra Costituzione non
fa si' che immediatamente scatti una emozione popolare negativa quando
avvengono fatti razzisti. Generalmente si dice "sono ragazzate, episodi
singoli". Ma quando uno ruba, sara' un episodio singolo, ma resta un furto.
Analogamente un gesto razzista sara' un gesto singolo, ma resta un gesto
razzista e non un'altra cosa. Anche su questo la coscienza popolare non e'
altrettanto viva come su altre cose. Quindi degli 11 articoli che disegnano
il volto della nostra Costituzione non tutti hanno lo stesso radicamento
nella coscienza democratica del paese. E a mio parere, nonostante tutte le
belle parole e gli orgogli con cui noi sbandieriamo, e questo termine
militare indica gia' una contraddizione, il nostro art. 11, in realta' lo
sbandieriamo perche' molto spesso lo violiamo.
Mi propongo, allora, di avviare una riflessione su come si puo' far
diventare di nuovo reale, se possibile, l'art. 11 della Costituzione, su
come si fa a radicare nella coscienza popolare l'idea che sia possibile
risolvere il conflitto senza fare ricorso alla guerra, nemmeno ad una guerra
chirurgica, limitata, fatta da eserciti professionali, che tra l'altro hanno
il torto di scaricare la coscienza comune dall'idea di essere responsabili
della guerra: "quando c'e' l'esercito professionale la guerra la fanno
quelli che la vogliono". In primo luogo questo non e' vero, e poi comunque
la paghiamo noi. E chi paga una cosa e' in un certo modo il mandante. Come
non si puo' essere responsabile di quelli che vanno a sparare con le armi
costruite con le tasse che si sono versate? Anzi e' un po' piu' bieco che
dire: "mi espongo anch'io!". E invece si pensa: "pago i killer, pero' io non
conto perche' loro sono killer volontari". Questo e' un rapporto facile dal
punto di vista etico, ma e' un po' rozzo e insoddisfacente, anche perche'
la' dove ci sono gli eserciti professionali non e' vero che vanno a fare la
guerra quelli che vogliono fare la guerra, a parte gli alti ufficiali delle
accademie. Ad esempio l'esercito degli Stati Uniti, che da sempre e'
professionale e volontario, e' fatto per il 60% da neri, chicanos e ragazze
madri che sicuramente non sono il 60% della popolazione degli Stati Uniti:
la rappresentanza non e' proporzionalmente adeguata. Generalmente entrano
nell'esercito persone che si trovano in grandi difficolta' come studenti che
non hanno i soldi per finire l'universita', oppure, cosa ancora piu'
lamentevole e dolorosa, come neri e chicanos, che dopo aver svolto il
servizio militare sperano di aver dato una prova di lealta' allo stato tale
da poter essere accolti nella societa' americana. Queste sono condizioni di
liberta' e di volonta' un po' dubbie. Il dibattito sull'esercito
professionale, inevitabile ormai, e altre forme di servizio alla comunita',
e' di estremo interesse, ma ora non possiamo trattarlo piu' a fondo.
(CONTINUA)
3. INIZIATIVE. BRUNETTO SALVARANI: PER IL DIALOGO TRA LE RELIGIONI, PER LA
CONVIVIALITA' DELLE DIFFERENZE
[Brunetto Salvarani, infaticabile costruttore di pace, e' il promotore
dell'appello al dialogo cristianoislamico su cui da qualche tempo si stanno
raccogliendo adesioni. Per contatti: b.salvarani@carpi.nettuno.it]
Care amiche, cari amici,
"or volge l'anno", e credo sia opportuno rifarmi vivo con voi non solo per
gli auguri - il meno possibile rituali - e per condividere la speranza
concreta di azioni di pace e di fraternita' (come la marcia di Pax Christi
da Locri a Gerace, con la quale mi sento idealmente collegato, pur a
svariate centinaia di chilometri di distanza), ma per fare brevemente il
punto sul nostro appello ecumenico.
In primo luogo, vi invito a visitare il "nostro" sito www.ildialogo.org se
per caso non l'aveste fatto di recente. Vi potrete trovare una gran mole di
materiali, insieme all'aggiornamento delle firme ricevute, che sono ormai
davvero tante.
In secondo luogo, sono felice di potervi dire che abbiamo ricevuto la prima
risposta delle tre che avevamo sollecitato ai responsabili delle chiese
cristiane in Italia, quella di mons. Giuseppe Chiaretti, presidente della
Commissione CEI per l'ecumenismo e il dialogo. E' una risposta di sicura
condivisione, che vi allego integralmente. Non ho ancora ricevuto nulla da
Long e Zervos, anche se devo dire che potrebbe trattarsi di un problema
postale: in ogni caso, attendiamo fiduciosi.
In terzo luogo, mi permetto di ricordarvi che i prossimi eventi che si
susseguiranno in gennaio, che saranno molti e potenzialmente molto
importanti (dal 17 gennaio, tredicesima giornata nazionale "per
l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano", al
18-25 gennaio, tradizionale settimana ecumenica di preghiera per l'unita'
dei cristiani, al 24 gennaio, col nuovo incontro dei leader delle religioni
ad Assisi) potranno costituire delle occasioni di rilancio e ulteriore
diffusione del nostro appello. Al di la' della firma diretta, ritengo non
senza significato che venga il piu' possibile resa nota la volonta' di tanti
cristiani di proseguire senza timore sulla via, faticosa ma necessaria, del
dialogo, della conoscenza reciproca, dell'empatia con le musulmane e i
musulmani che vivono in Italia.
A tale proposito, potremmo raccogliere e render noti i momenti pubblici in
cui l'appello verra' presentato, commentato, discusso. Come sempre, il
sottoscritto e Giovanni Sarubbi sono disponibili a fare da "moltiplicatori"
delle notizie che ci farete sapere.
Abbiate un forte abbraccio, dovunque voi siate, e grazie ancora a nome del
dialogo e della "convivialita' delle differenze".
4. INIZIATIVE. GIUSEPPE CHIARETTI: PER IL DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO
[Mons. Giuseppe Chiaretti, arcivescovo cattolico, e' presidente della
Commissione CEI per l'ecumenismo e il dialogo. Questa lettera concernente
l'appello per una giornata di dialogo islamo-cristiano (vedi articolo
precedente in questo stesso notiziario) ha inviato a Brunetto Salvarani che
ringraziamo per avercela trasmessa; per ulteriori informazioni
sull'iniziativa cfr. il sito: www.ildialogo.org]
Carissimo,
ricevo l'appello per una giornata di dialogo islamo-cristiano. Ne riconosco
una utilita' e anche la difficolta', gia' verificata peraltro in singole
iniziative: ad esempio al Convegno FISM di Venezia (e non parlo delle orride
sortite televisive!).
Di questa possibile giornata, da inquadrare nel dialogo interreligioso, s'e'
gia' parlato al Convegno dei delegati diocesani tenutosi a Roma nei giorni
5-7 novembre scorso, proponendo anche la data del 27 ottobre, nello "spirito
di Assisi". Ci conforta in questa scelta la ripresa dell'iniziativa da parte
del Papa con l'incontro del 24 gennaio prossimo. La scelta di questa data, a
conclusione della tradizionale settimana di preghiera per l'unita' dei
cristiani, potrebbe forse anche indicare che tale giornata di riflessione e
di dialogo dovrebbe essere inserita proprio in quella settimana, come
compito di tutti i cristiani. C'e' comunque da pensarci "ecumenicamente"
perche' l'iniziativa abbia piu' efficacia.
L'avvio entro l'anno di un forum interreligioso per monitorare le iniziative
di "Charta Oecumenica 2000" ci aiutera' a meglio intendere la natura e la
collocazione di tale giornata.
Di grande aiuto saranno anche le esperienze di chi tale dialogo lo sostiene
da tempo, come l'opera del Movimento dei Focolari e della Comunita' di
Sant'Egidio, alcune diocesi di frontiera, oltre ai ben noti centri di Milano
(CADR), Torino (Peirone), Padova ecc.
Mi auguro che tale attenzione da parte cristiana valga a creare almeno un
clima di reciproco rispetto e l'impegno di una migliore mutua conoscenza.
Cari saluti ed auguri di buon Natale. Cristo e' nato per tutti, anche se
gia' "allora" molti non se ne accorsero e "qualcuno" tento' subito di
ammazzarlo.
5. MAESTRE. SIMONE WEIL: UN MOTO DI CARITA' PURA
[Da Simone Weil, Lettera a un religioso, Adelphi, Milano 1996, p. 65.
Simone Weil nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa,
militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria,
operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti,
lavoratrice agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a
lavorare per la Resistenza. Minata da una vita di generosità, abnegazione,
sofferenze, muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna
come quella che precede non rende però conto della vita interiore della Weil
(ed in particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora:
radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del
1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli
o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serietà come vita,
Simone Weil ci commuove, ci dà nutrimento". Opere di Simone Weil: tutti i
volumi di Simone Weil in realtà consistono di raccolte di scritti pubblicate
postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici (e sotto
pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti le
persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte più importanti in edizione
italiana segnaliamo: L'ombra e la grazia (Comunità, poi Rusconi), La
condizione operaia (Comunità, poi Mondadori), La prima radice (Comunità, SE,
Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni precristiane
(Rusconi), Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale
(Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi), Lettera a un religioso
(Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali i quattro volumi dei
Quaderni, nell'edizione Adelphi curata da Giancarlo Gaeta. Opere su Simone
Weil: fondamentale è la grande biografia di Simone Pétrement, La vita di
Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr. AA. VV., Simone Weil,
la passione della verità, Morcelliana, Brescia 1985; Gabriella Fiori, Simone
Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone Weil, ECP, S. Domenico
di Fiesole 1992; Jean-Marie Muller, Simone Weil. L'esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil
e la Passione di Dio, EDB, Bologna 1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero
di Simone Weil, Mursia, Milano 1994]
E' falsa ogni concezione di Dio incompatibile con un moto di carita' pura.
Sono vere, in gradi diversi, tutte le altre.
6. MAESTRE. ANNETTE WIEVIORKA: DELLA STORIA EUROPEA
[Da Annette Wieviorka, Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi, Torino
1999, p. 54.
Annette Wieviorka dirige il Centro nazionale per la ricerca scientifica alla
Sorbona di Parigi. Impegnata contro il razzismo. Ha pubblicato vari volumi
sull'ebraismo e sulla Shoah]
Auschwitz fa parte della storia europea. Pensandoci bene, probabilmente e'
l'avvenimento piu' europeo di tutta la storia del Novecento.
7. MAESTRE. ROSA LUXEMBURG: SULLA PAZIENZA
[Da Rosa Luxemburg, Lettere 1893-1919, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 226
(e' un brano da una lettera a Marta Rosenbaum scritta nell'aprile 1917 dal
carcere in cui Rosa era detenuta).
Rosa Luxemburg, 1871-1919, una delle più limpide figure del movimento dei
lavoratori e dell'impegno contro la guerra e contro l'autoritarismo.
Assassinata, il suo cadavere fu gettato in un canale e ripescato solo mesi
dopo; ci sono due epitaffi per lei scritti da Bertolt Brecht, che suonano
cosi': Epitaffio (1919): "Ora e' sparita anche la Rosa rossa, / non sa
dov'e' sepolta. / Siccome ai poveri ha detto la verita' / i ricchi l'hanno
spedita nell'aldila'."; Epitaffio per Rosa Luxemburg (1948): "Qui giace
sepolta / Rosa Luxemburg / Un'ebrea polacca / Che combatte' in difesa dei
lavoratori tedeschi, / Uccisa / Dagli oppressori tedeschi. Oppressi, /
Seppellite la vostra discordia". Opere di Rosa Luxemburg: segnaliamo due
fondamentali raccolte di scritti in italiano: Scritti scelti, Einaudi;
Scritti politici, Editori Riuniti (con una ampia, fondamentale introduzione
di Lelio Basso). Opere su Rosa Luxemburg: Lelio Basso (a cura di), Per
conoscere Rosa Luxemburg, Mondadori; Paul Frölich, Rosa Luxemburg, Rizzoli;
P. J. Nettl, Rosa Luxemburg, Il Saggiatore; Daniel Guérin, Rosa Luxemburg e
la spontaneità rivoluzionaria, Mursia; AA. VV., Rosa Luxemburg e lo sviluppo
del pensiero marxista, Mazzotta. Ovviamente si veda anche il noto saggio di
Lukács, Rosa Luxemburg marxista, in György Lukács, Storia e coscienza di
classe, Sugar]
Nel periodo morto e silenzioso precedente lo scoppio della guerra
l'impazienza era la virtu' massima, purtroppo troppo poco praticata. Oggi
dobbiamo avere pazienza con la storia, voglio dire una pazienza che non si
scoraggia e impiega al massimo l'energia, quando puo' sembrare che,
temporaneamente, si stia mordendo il granito, una pazienza che non dimentica
mai che la brava talpa della storia scava senza posa giorno e notte, fino a
che si fa strada verso la luce.
8. MAESTRE. ANNE FRANK: APRITE GLI OCCHI
[Da Anne Frank, Racconti, Cappelli, 1966, p. 121.
Annelies Marie Frank nacque il 12 giugno 1929 a Francoforte; emigrò con la
famiglia in Olanda nel 1933. Dal 1942 al 1944 visse segregata nell'alloggio
segreto per sfuggire ai nazisti. A seguito di una segnalazione spionistica
tutti i rifugiati nell'alloggio furono arrestati; deportata ad Auschwitz,
poi trasferita a Bergen Belsen, vi morì nel marzo 1945, poche settimane dopo
le truppe inglesi liberavano i sopravvissuti del campo. Opere di Anne Frank:
il Diario (in italiano edito da Einaudi e negli Oscar Mondadori) fu trovato
nell'alloggio segreto e consegnato dopo la guerra al padre, unico
sopravvissuto della famiglia; fu pubblicato nel 1947. Cfr. anche i Racconti
(Cappelli). Opere su Anne Frank: Melissa Müller, Anne Frank. Una biografia,
Einaudi, Torino 2000; segnaliamo anche l'interessante lavoro di Willy
Lindwer, Gli ultimi sette mesi di Anna Frank (Newton Compton)]
La maggior parte di noi, proprio come in tante altre cose, cerca la
giustizia dagli altri, e si lamenta perche' crede di non riceverne
abbastanza. Aprite gli occhi: assicuratevi di essere giusti voi stessi.
9. MAESTRE. HANNAH ARENDT: IL TACCO DELLA MIA SCARPA
[Da Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p. 143. Ti
toglie il respiro e ti colma l'animo come Hannah Arendt ti guidi a pensare,
pensieri complessi e molteplici che divengono piste e compagnia nel deserto
e nel caos.
Hannah Arendt è nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di
Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio,
dapprima è profuga in Francia, poi esule in America. E' tra le massime
pensatrici politiche del Novecento. Docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualità da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani. Morì a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano è spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l
'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunità, Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Tra passato e futuro
(1961), Garzanti, Milano; La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme
(1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunità, Milano;
postumo e incompiuto è apparso La vita della mente (1978), Il Mulino,
Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico è Politica e
menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl
Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano
1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e
Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di
scritti vari e' Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001.
Opere su Hannah Arendt: fondamentale è la biografia di Elisabeth
Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi
critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto
Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli,
Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995;
Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt,
Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina,
Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie
divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang
Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg
Gleichauf, Hannah Arendt, DTV, München 2000]
Questi studiosi hanno presenti soltanto le funzioni; a loro avviso, tutte le
cose che assolvono a una stessa funzione possono esser chiamate con lo
stesso nome. E' come se avessi il diritto di chiamare "martello" il tacco
della mia scarpa soltanto perche', come gran parte delle donne, me ne servo
per piantare i chiodi nel muro.
10. RILETTURE. FRANCO RESTAINO, ADRIANA CAVARERO (A CURA DI): LE FILOSOFIE
FEMMINISTE
Franco Restaino, Adriana Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino
1999, pp. 260, lire 22.000. Aperto da due ampi e notevoli saggi dei
curatori, un utile panorama antologico del pensiero femminista.
11. RILETTURE. WANDA TOMMASI: I FILOSOFI E LE DONNE
Wanda Tommasi, I filosofi e le donne, Tre Lune, Mantova 2001, pp. 272, lire
35.000. Una pensatrice della comunita' filosofica femminile "Diotima"
riflette sulla differenza sessuale nella storia della filosofia.
12. RILETTURE. CHIARA ZAMBONI: LA FILOSOFIA DONNA
Chiara Zamboni, La filosofia donna, Demetra, Colognola ai Colli (VR) 1997,
pp. 160, lire 14.000. L'autrice, che collabora alla comunita' filosofica
femminile "Diotima", presenta rilevanti figure e percorsi del pensiero
femminile.
13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ;
per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben@libero.it ;
angelaebeppe@libero.it ; mir@peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 329 del primo gennaio 2002