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La nonviolenza e' in cammino. 328
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 328 del 31 dicembre 2001
Sommario di questo numero:
1. Mario Luzi, la notte lava la mente
2. Norma Bertullacelli, sul conflitto tra India e Pakistan
3. Giulio Girardi, i fondamenti ideologici della guerra mondiale in corso
4. Valda Busani, da Gerusalemme per la pace
5. Gianfranco Bettin, apocalisse e nativita' a Korogocho
6. Riletture: Jose' Carlos Mariategui, Sette saggi sulla realta' peruviana
7. Riletture: Paul Ricoeur, La critica e la convinzione
8. Riletture: Marthe Robert, L'antico e il nuovo
9. Riletture: Seyyed Hossein Nasr, Ideali e realta' dell'Islam
10. Riletture: Gianfranco Ravasi, Qohelet
11. Riletture: Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'
1. POESIA E VERITA'. MARIO LUZI: LA NOTTE LAVA LA MENTE
[Da Mario Luzi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993, p. 254]
La notte lava la mente.
Poco dopo si e' qui come sai bene,
fila d'anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.
Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare.
2. RIFLESSIONE. NORMA BERTULLACELLI: SUL CONFLITTO TRA INDIA E PAKISTAN
[Norma Bertullacelli, insegnante, e' impegnata nella rete controG8 per la
globalizzazione dei diritti. Per contatti: norma.b@libero.it]
Nella generale condanna del nuovo (in realta' vecchissimo, e ben conosciuto)
conflitto tra India e Pakistan non e' poi cosi' assurdo pensare che ci sia
chi gioisce, perche' "gli affari sono affari".
Per scongiurare il conflitto la Russia ha spiritosamente auspicato un
intervento dei G8. Si tratta certamente di paesi che hanno a cuore la pace,
visto che la maggior parte di essi sono impegnati a massacrare il popolo
afgano, mentre i russi si occupano dei ceceni; e sono anche i paesi che si
accaparrano la fetta maggiore del commercio internazionale delle armi.
Guardiamo a casa nostra: la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nella
"Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo
dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento", ci
informa che nel 2000 l'Italia ha venduto all'India armamenti per 148,966
miliardi di lire, ed al Pakistan per 31,297 mld. (Atti Parlamentari, Doc
CVIII, Roma, Camera dei Deputati - Senato della Repubblica, 31 marzo 2001).
Le riviste "Missione Oggi", "Nigrizia" e "Pax Christi", promotrici della
campagna contro le "banche armate", cioe' le banche che forniscono il
supporto indispensabile al commercio legale delle armi, danno notizia di una
commessa che, a partire dal '94 ed alla piena luce del sole, forniva al
Pakistan 100 sistemi radar Fiar per la somma di 85 miliardi.
Le stesse fonti informano che sempre all'esercito pakistano l'Iveco Fiat ha
fornito 66 autocarri, per un valore di 14 miliardi di lire, e la Cosmos di
Livorno pezzi di ricambio per la manutenzione dei minisommergibili Sx-756
( venduti negli anni '80) per 4 milioni di dollari.
Nell'anno 2000 le esportazioni totali di materiale bellico autorizzate dal
governo sono aumentate del 41%, arrivando a toccare i 2.596 miliardi di
entrate. E si tratta soprattutto di armamenti diretti verso paesi poveri o
poverissimi, spesso soffocati dal debito.
Per questo, anziche' "indignarsi", "deplorare", e "auspicare" sarebbe
opportuno cominciare ad esaminare diversificazioni produttive che
consentano ai lavoratori di mantenere l'occupazione, ma di non continuare a
produrre strumenti di morte. E, se proprio non lo si vuole fare per rispetto
delle passate e future vittime del "made in Italy", lo si faccia almeno
considerando che le armi non sono certo l'unica produzione possibile, ed
anche il loro pur florido mercato e' soggetto a periodi di flessione, cioe'
di... pace.
3. RIFLESSIONE. GIULIO GIRARDI: I FONDAMENTI IDEOLOGICI DELLA GUERRA
MONDIALE IN CORSO
[Questo intervento di Giulio Girardi, uno dei piu' importanti teologi e
filosofi della liberazione, e' stato tenuto al convegno "Verso Porto Alegre
2002" svoltosi a Milano il 23-24 novembre; lo abbiamo ripreso dal sito di
"Giovani e missione" (digilander.iol.it/giovaniemissione). Quando questo
testo era gia' impaginato abbiamo ricevuto da Aldo Zanchetta - che
ringraziamo di cuore - una versione sensibilmente piu' ampia di questo
saggio, la proporremo prossimamente]
Un titolo all'apparenza astratto, di cui vorrei dimostrare invece la
concretezza e l'importanza.
Per cercare di capire cio' che sta accadendo dopo l'11 settembre nel mondo,
e quale sia in particolare il senso di questa guerra, per capire cio' che
sta cambiando e cio' che non sta cambiando nella storia, vorrei tentare una
strada, quella di esplorare le ideologie cui si ispirano i protagonisti, che
sono il potere americano con i suoi alleati, impersonato da George Bush, e
l'integralismo islamico, impersonato da Osama Bin Laden.
Richiamando l'attenzione sui fondamenti ideologici della guerra, non intendo
certo considerarli come la sua spiegazione adeguata. Il ruolo dei fattori
economici e politici rimane in essa decisivo, ma l'esplorazione delle
ideologie mi pare importante per capire il corso oggettivo della guerra ed
il consenso popolare che la sostiene dalle due parti.
Tale esplorazione dovrebbe permetterci di capire perche' grandi masse umane
si stiano affrontando ed uccidendo, perche' nei due campi vi siano gruppi
numerosi disposti a rischiare la vita per la loro causa.
Ma questo apporto mi pare interessante anche per una ragione opposta: esso
dovrebbe consentirci di cogliere non solo cio' che i combattenti dei due
campi credono, ma anche le ragioni per cui essi non credono alle realta' che
ad un osservatore esterno sembrano evidenti.
Perche', in altre parole, analisi e valutazioni che ad un osservatore
esterno sembrano evidentemente errate, possano contare su un consenso cosi'
massiccio. Vogliamo cioe' riferirci alle ideologie nel loro duplice
significato di illuminazione della realta' e di occultamento di essa.
E' un problema epistemologico, dicevo, all'apparenza astratto, ma in realta'
estremamente concreto perche' in questo e' uno degli aspetti piu' decisivi
di questa guerra, ossia il consenso maggioritario col quale nonostante le
stragi di innocenti che va perpetrando e' stata accolta da una parte e
dall'altra.
Problema quindi politicamente e tragicamente centrale: quello della
complicita' delle vittime con i loro carnefici.
Questo approccio costituisce inoltre la premessa da cui partire per
affrontare la domanda a mio parere decisiva: e' inevitabile, come si afferma
da tanto, sia in occidente sia all'interno dell'integralismo islamico,
schierarsi da una parte o dall'altra? E' inevitabile, come si afferma in
occidente, schierarsi con la democrazia o con il terrorismo, con la civilta'
o con la barbarie?
Oppure esiste una via alternativa? E in tal caso quale ne e' il contenuto
positivo?
Se poi come mi sembra evidente le due ideologie di cui siamo in presenza
assolvono l'una e l'altra una funzione di occultamento e deformazione della
realta', si impone la domanda: esiste un punto di vista sulla storia che
consenta di avvicinarsi maggiormente alla realta', dissipando le nebbie
dell'ideologia?
Finalmente, l'esplorazione dei fondamenti ideologici della guerra e del
consenso di cui essa gode, e' il necessario punto di partenza di qualunque
strategia alternativa.
Contestare la guerra significa in primo luogo sradicare il consenso popolare
su cui essa poggia, e rafforzare il grido insurrezionale della coscienza
mondiale contro di essa.
Ritengo quindi che su questo tema dovrebbe essere richiamata con forza
l'attenzione del Forum Mondiale di Porto Alegre.
Tenteremo quindi di analizzare il punto di vista del potere nordamericano ed
occidentale e il punto di vista dell'integralismo islamico, per poi
interrogarci sulla possibilita' di un punto di vista alternativo.
*
Il punto di vista del potere nordamericano e' evidentemente quello che
domina il sistema politico ed informativo mondiale. Esso si esprime negli
sforzi e nelle decisioni delle autorita' degli Usa, del governo e delle
camere, degli alleati occidentali, della Nato, etc.
Per quanto ci riguarda direttamente esso si esprime negli sforzi e nelle
decisioni delle autorita' italiane, della presidenza della Repubblica, del
governo e delle camere.
Alle ragioni oggettive che certamente fondano questa scelta di campo, si
aggiunge la convinzione che solo facendo proprio il punto di vista dei
grandi sara' possibile per l'Italia sedersi oggi e domani al tavolo dei
grandi, e sara' possibile al governo oggi in carica conquistare in Italia e
all'estero la credibilita' che finora gli e' mancata.
Questo punto di vista viene assunto ed argomentato da gran parte dei mezzi
di comunicazione di massa degli Usa e dei Paesi alleati. Esso e' condiviso
dalla grande maggioranza del popolo americano e dagli altri popoli
occidentali, tra i quali il nostro. Ed e' questo largo consenso che consente
alle autorita' di procedere con tanta sicurezza.
Cio' che considero particolarmente importante e preoccupante, e' il fatto
che questo punto di vista sia condiviso anche da quasi tutti i partiti e
movimenti di sinistra, i quali hanno capito che solo allineandosi alle
scelte del potere nordamericano ed occidentale sul tema della guerra e del
terrorismo, come su quello della globalizzazione, potranno rimanere al
potere nei loro paesi, o riconquistarlo se lo hanno perduto, anche se queste
scelte provocano per la sinistra e per molti dei suoi militanti, una
drammatica crisi di identita', un'angosciosa serie di interrogativi sul
significato della loro militanza.
Ma vogliamo esplorare un poco piu' da vicino il punto di vista del potere
nordamericano nei confronti del terrorismo. Lo faro' prendendo come punto di
partenza il discorso pronunciato da George W. Bush il 20 settembre, nel
quale il presidente formulo' la sua dichiarazione di guerra al terrorismo e
ne illustro' il senso. Molti commentatori hanno subito qualificato questo
discorso come il piu' importante della presidenza Bush. La BBC lo ha
considerato addirittura il piu' significativo di un presidente americano
dopo la seconda guerra mondiale.
Qualche aspetto saliente del discorso.
Alla comunita' internazionale Bush rivolse un ammonimento categorico: in
questa guerra non e' possibile neutralita', o con noi o con i terroristi.
Peraltro sappiamo che Dio non e' neutrale.
La definizione dell'obiettivo della guerra implica l'identificazione del
nuovo nemico principale: nell'immediato esso veniva indicato nel milionario
saudita Osama Bin Laden e nella rete terroristica internazionale che egli
dirige e finanzia, Al Qaeda. Ma la guerra intende colpire tutte le
organizzazioni terroristiche del mondo e i governi che le appoggiano. Bush
caratterizza queste organizzazioni come una rete, termine che attribuisce
loro una certa unita' e coordinazione mondiale, riconoscendo al tempo stesso
che esse non sono facilmente localizzabili. Si comprende cosi' perche'
questa guerra sara' diversa dalle altre, in cui il nemico era uno stato, o
un insieme di stati chiaramente organizzati. Si comprende anche perche'
sara' prevedibilmente assai lunga.
In questo discorso Bush evita il termine crociata che aveva usato
precedentemente, ma non evita di satanizzare il nemico. Si tratta per lui di
assassini, eredi di tutte le ideologie assassine del secolo XX. Sacrificando
vite umane per servire le loro visioni radicali, abbandonando tutti i valori
eccetto la volonta' di potenza, essi seguono il cammino del fascismo, del
nazismo e del totalitarismo, e seguiranno il loro cammino anche nel sepolcro
della storia della menzogne fallimentari. Quale il motivo di un
comportamento cosi' abietto? Bush non si preoccupa molto di approfondire una
questione cosi' importante. La sua riposta e' assai semplice: la loro
motivazione, oltre la volonta' di potenza, e' l'odio, l'odio della
democrazia e delle liberta'. Essi odiano cio' che vedono in questa camera,
un governo democraticamente eletto, ci odiano per le nostre liberta'.
Sebbene Bush abbia escluso espressamente che il nemico degli Usa e
dell'Occidente siano i musulmani, ed abbia evitato di caratterizzare la
guerra come una crociata, la sua dichiarazione di guerra e la sua
caratterizzazione etica del nemico, banda di assassini mossi dall'odio,
dall'invidia e dalla volonta' di potenza, imprime alla guerra il carattere
di un conflitto mondiale fra il bene e il male, che prolunga ed attualizza
quello del secolo XX con il comunismo ateo, considerato il regno del male,
un conflitto tra il bene e il male, tra la civilta' e la barbarie, la
liberta' e il totalitarismo, nei confronti del quale tutti i popoli e tutte
le persone del mondo sono chiamati a schierarsi.
Proclamando poi che Dio non e' neutrale, Bush afferma solennemente che il
punto di vista di Dio coincide con il suo, e con quello del potere
occidentale. Questa convinzione permettera' agli strateghi della guerra di
denominarla in un primo tempo giustizia infinita. In tale prospettiva
quindi, il conflitto non e' solo etico, tra bene e male, ma e' anche
religioso, tra Dio e i suoi nemici. La parola crociata e' scomparsa, ma la
sostanza del suo significato rimane intatta.
Nei confronti del terrorismo islamico e' esplosa unanime la condanna, non
solo da parte degli Usa e degli stati occidentali ed arabi che hanno aderito
alla guerra, ma anche di quelle minoranze che in tutte le parti del mondo,
contestano la validita' della guerra come risposta al terrorismo.
Solo quindi un atteggiamento settario puo' qualificare i fautori del rifiuto
della guerra come conniventi con il terrorismo.
Ma e' comprensibile la domanda che i fautori della guerra rivolgono a quanti
ne contestano la validita': qual e' allora la vostra risposta al terrorismo?
Il presupposto alla domanda e' molto chiaro: per rispondere al terrorismo
altre vie diverse dalla guerra non esistono.
Si tratta comunque di una domanda molto esigente, alla quale non possiamo
certamente sottrarci, e che ci impegna a porre in atto un'ampia ricerca
popolare partecipativa.
*
Ma tale ricerca deve partire da una analisi approfondita del terrorismo
islamico e delle sue ragioni. Infatti solo comprendendo la sua natura e la
sua genesi potremo decidere come combatterlo con efficacia. I dirigenti
nordamericani ed occidentali, non hanno finora compreso la vitale importanza
di quest'analisi per elaborare una strategia adeguata di risposta.
Per cogliere il senso che Bin Laden e i suoi seguaci attribuiscono alla loro
lotta e' necessario partire dall'analisi che essi compiono della politica
nordamericana e quindi dell'attivita' occidentale di cui essa e'
l'espressione.
Questa analisi si incentra su una vigorosa ritorsione del terrorismo contro
gli Usa ed il loro complice principale, lo stato d'Israele.
Gli americani ci accusano - dice Bin Laden - di essere terroristi. Ma sono
loro i piu' grandi terroristi della storia. Ovunque volgiamo lo sguardo,
vediamo gli Usa come leader del terrorismo e del crimine nel mondo. Gli Usa
non considerano un atto di terrorismo lanciare una bomba atomica in un paese
lontano migliaia di miglia. Quelle bombe sono state gettate contro intere
popolazioni, comprese donne, bambini e anziani. E ancora oggi in Giappone
rimangono tracce di quelle bombe Ma il terrorismo e l'imperialismo
nordamericano che Bin Laden denuncia con particolare virulenza e' quello di
cui sono vittime innumerevoli paesi islamici. Nei loro confronti
l'imperialismo nordamericano rappresenta una fatidica incursione, essi sono
vittime di aggressione militare, di sfruttamento e usurpazione economica, di
attacchi all'egemonia e ai valori dell'Islam.
E' chiaro, dice, che non esiste alcun dovere piu' importante che respingere
il nemico americano fuori dalla Terra Santa. Non c'e' altro dovere dopo la
fede che combattere il nemico che sta corrompendo la vita e la religione. Se
non c'e' altro modo di cacciare il nemico tranne una mobilitazione
collettiva di tutti i musulmani, allora i musulmani hanno il dovere di
ignorare le insignificanti differenze che sussistono tra loro. Sono queste
incessanti aggressioni perpetrate dall'imperialismo nordamericano ed
ebraico, non la liberta' e la democrazia, che secondo Bin Laden generano nei
musulmani risentimento e odio e quindi l'esplosione del terrorismo.
L'ostilita' che l'America continua a dimostrare contro i musulmani ha avuto
come reazione una crescita d'odio contro l'America e l'Occidente.
Se il governo americano e' serio quando dice di voler fermare gli attentati
all'interno del territorio degli Usa, allora che la smetta di provocare i
sentimenti di un miliardo e duecento milioni di musulmani.
Allora questa reazione non si puo' caratterizzare come antiamericanismo, ma
come antimperialismo e piu' precisamente come antimperialismo islamico.
*
Confrontando dal punto di vista degli oppressi e delle oppresse come
soggetti alternativi, i due progetti storici che ho cercato di
caratterizzare, mi colpiscono nel loro rapporto due aspetti che
sembrerebbero contrastanti.
Da un lato essi sono radicalmente opposti tra loro.
Dall'altro presentano tra loro profonde affinita'.
La contrapposizione tra i due progetti e' scontata, dato che essi ispirano i
due campi nemici della guerra. Sorprendente e sconvolgente e' invece
constatare la profonda affinita' tra i due nemici mortali e, chiamiamoli
con il loro nome, tra i due opposti terrorismi. Constatazione che mi sembra
importante anche per scoprire le vie dell'alternativa.
Nella prospettiva di Bin Laden infatti gli aggressori diventano vittime e le
vittime aggressori. Terroristi non sono piu' gli islamici ma i
nordamericani. Difensori della liberta' e di giustizia infinita non sono
piu' gli occidentali ma gli islamici mobilitati. Gli eroi e martiri della
guerra non sono i soldati occidentali o i pompieri di New York, ma i giovani
musulmani che sacrificano la vita per la causa, in particolare quelli
impegnati in attacchi suicidi. I valori etico- politici chiamati ad
affermarsi su scala mondiale non sono piu' quelli occidentali e cristiani,
ma quelli islamici. Alla coalizione internazionale convocata dagli Usa e
costruito intorno all'occidente si contrappone la comunita' degli stati
islamici fedeli alla loro religione. La condanna non colpisce piu' gli stati
che ospitano terroristi, ma quei paesi islamici che difendono gli Usa, che
ospitano le loro truppe, che combattono al loro fianco contro altri paesi
islamici e tradiscono quindi la loro religione.
Il regno del bene diventa regno del male e viceversa. Dio stesso cambia
campo passando dallíoccidente all'islam. Sono i musulmani e non piu' i
nordamericani a dichiarare che in questa guerra Dio non e' neutrale, che
"Dio e' con noi".
D'altro lato si riscontrano tra i due approcci profonde e sconvolgenti
affinita'.
Gli uni e gli altri si considerano aggrediti e quindi vittime. Gli uni e gli
altri si considerano impegnati a combattere il terrorismo. Gli uni e gli
altri demonizzano il loro nemico e lo pongono come terrorista, come
assassino, anzi come satanico. Gli uni e gli altri ritengono di essere
difensori della liberta' e della giustizia contro gli oppressori, di
rappresentare quindi il regno del bene e di essere in guerra contro il regno
del male. Gli uni e gli altri pensano che l'attacco sferrato contro un
membro della loro alleanza deve essere percepito da ciascuno come sferrato
contro di lui e provocare di conseguenza la sua reazione militare. Gli uni e
gli altri ritengono di stare combattendo una guerra giusta, anzi una guerra
santa. Gli uni e gli altri perseguono per volere di Dio un progetto
imperialista, l'instaurazione cioe' di un ordine mondiale egemonizzato dai
loro valori. Gli uni e gli altri ritengono che il loro "destino manifesto"
di egemonizzare il mondo, possa e debba prevalere sul diritto di ogni popolo
all'autodeterminazione. Gli uni e gli altri ritengono che il fine da loro
perseguito giustifichi tutti i mezzi, in particolare il ricorso alla
violenza militare ed economica. Ritengono pertanto che sia giusto
sacrificare alla causa anche le vite di tantissimi innocenti, comprese
quelle di donne e bambini. Gli uni e gli altri pongono tutti i paesi del
mondo di fronte a questo dilemma: o con noi o contro di noi, non vi e'
alternativa.
In una parola esiste un pensiero unico imperniato sul diritto del piu'
forte, che accomuna il progetto storico occidentale e quello
dell'integralismo islamico.
Tra i due progetti imperiali allora e' inevitabile la scelta?
Se i due progetti storici che si scontrano sono l'uno e l'altro imperialisti
e terroristi non e' per nulla evidente che sia ineludibile la scelta di
campo fra di essi.
E' anzi ineludibile dal punto di vista degli oppressi e delle oppresse la
necessita' di respingerli entrambi.
Respingerli, ma in nome di che cosa? In nome di quale punto di vista? Di
quale strategia? Di quale progetto?
*
Al punto di vista degli oppressori dei due campi stiamo contrapponendo
proprio il punto di vista degli oppressi e delle oppresse che emergono in
tutto il mondo alla coscienza e alla dignita' di soggetti alternativi. Punto
di vista che e' stato in realta' la nostra bussola in questa analisi e deve
continuare ad esserlo nell'elaborazione della strategia. Punto di vista che
fonda una cultura alternativa a quella dei due imperialismi, una cultura
cioe' della nonviolenza liberatrice, di una nonviolenza intesa nel suo
significato positivo e creativo, capace quindi di scoprire e valorizzare la
forza del diritto, della verita', della giustizia, della solidarieta' e
dell'amore. Capace quindi di scoprire e valorizzare le risorse
intellettuali, morali e politiche degli oppressi e delle oppresse.
Se quindi all'origine del terrorismo islamico vi e' l'immensa collera e la
profonda umiliazione provocata dall'aggressione americana nei paesi
islamici, e' evidente che scatenando nuove guerre contro paesi islamici non
si sradica il terrorismo, ma lo si alimenta ed estende tragicamente.
La risposta valida al terrorismo islamico e ad altri terrorismi
antioccidentali, puo' consistere solo nell'estirpare le radici, cioe' il
progetto e la pratica imperialista dell'occidente, nel porre cioe' le basi
di una civilta' alternativa.
Paradossalmente quindi la risposta valida la stanno dando i movimenti
impegnati nell'elaborazione dell'alternativa alla globalizzazione
neoliberale. Movimenti che il potere occidentale denuncia appunto come
terroristi e che reprime violentemente.
Ma nell'immediato il nostro compito prioritario e' quello di invertire la
tendenza storica rafforzando l'insurrezione e la ribellione della coscienza
popolare, che sta gia' scuotendo e sconvolgendo il mondo. Che sta
sconvolgendo quel consenso che rende possibili le stragi perpetrate dal
neoliberalismo e dalla guerra.
Il terrorismo ci obbliga anzitutto a prendere coscienza piu' accuratamente
della minaccia di morte che per la gran parte dell'umanita' e per la stessa
madre terra, proviene non tanto dal terrorismo antioccidentale, quanto dal
terrorismo scatenato dall'economia e dalla politica neoliberale.
Peraltro l'insurrezione della coscienza popolare non ha come oggetto solo
minacce di morte, ma anche potenzialita' di vita e di speranza.
Vorrei in parte contraddire e in parte integrare il punto di vista a questo
riguardo di Giulietto Chiesa.
Questa presa di coscienza implica infatti, particolarmente per merito dei
popoli indigeni, la riscoperta e la riaffermazione del diritto di tutti i
popoli e di tutte le persone all'autodeterminazione solidale. Diritto la cui
affermazione si contrappone frontalmente alla logica neoliberale, imperniata
sull'autodeterminazione del capitale finanziario transnazionale. Diritto la
cui affermazione si impone quindi come l'anima di una civilta' alternativa
nonviolenta e di una strategia nonviolenta per costruirla.
Ma l'insurrezione della coscienza popolare che siamo chiamati ad accendere,
implica anche la scoperta e la valorizzazione delle risorse intellettuali,
morali e politiche degli oppressi e delle oppresse di tutto il mondo per la
costruzione di una nuova civilta'.
Risorse troppo spesso ignorate, sottovalutate e persino soffocate dalle
stesse organizzazioni popolari, dalle stesse organizzazioni di sinistra,
vittime quasi sempre di quell'autoritarismo che denunciano nel sistema
vigente.
Autoritarismo della sinistra che a mio parere e' una delle ragioni
principali della nostra mancanza di creativita' e delle nostre sconfitte
storiche. Perche' su queste risorse e sulla loro valorizzazione si fonda la
convinzione che ispira la nostra mobilitazione, che ci autorizza ad
affermare che un altro mondo e' possibile.
Solo ritrovando la fiducia nelle risorse inesplorate degli oppressi e delle
oppresse, solo valorizzando a fondo queste risorse nelle nostre
organizzazioni, nella nostra ricerca, nella nostra lotta, potremo affermare
con fondamento che una nuova storia e' possibile, che una nuova storia
costruita dagli esclusi e dalle escluse di ieri e' gia' cominciata.
4. INIZIATIVE. VALDA BUSANI: DA GERUSALEMME PER LA PACE
[Valda Busani, delle donne in nero, e' in Palestina come partecipante
all'azione nonviolenta "Action for Peace". Ringraziamo Letizia Valli
(e-mail: letizia.valli@libero.it) delle donne in nero di Reggio Emilia per
averci trasmesso questa testimonianza]
Oggi, 31 dicembre, partiamo da Gerusalemme per Betlemme, per partecipare
alla marcia interreligiosa per la pace.
Alle porte della citta' due camionette della polizia israeliana hanno
fermato un gruppo di palestinesi usciti da Betlemme attraverso i campi;
sulla strada li aspettava un pulmino per portarli al lavoro a Gerusalemme.
Ognuno ha una borsina di plastica da cui escono gli attrezzi da lavoro:
cazzuole, livelle, sono manovali e muratori, ma oggi non arriveranno nei
cantieri di Gerusalemme. La polizia israeliana li rimanda indietro. Oggi
niente lavoro, niente salario. E' desolante vederli ritornare in fila a
Betlemme, il capo chino, l'ennesima vessazione subita, l'ennesima
umiliazione. Ci passano accanto mentre noi sui nostri bus aspettiamo il
nostro turno al check point, e molti hanno ancora la voglia di alzare lo
sguardo verso di noi, di salutarci, di sorriderci.
Al check point ci fanno passare, dopo la solita attesa perche' I soldati
devono "verificare gli ordini".
Arriviamo a Betlemme e ci riuniamo con gli altri gruppi europei e con I
palestinesi. E' una folla colorata: le casacche bianche di noi europei con
la scritta Action for Peace e la fascia al braccio di osservatori
internazionali; I palloncini colorati distribuiti dai palestinesi con
attaccati foglietti su cui sono scritti messaggi di pace in diverse lingue;
il bianco e nero delle suore e dei sacerdoti cristiani, greco ortodossi e
cattolici, il marrone dei sai francescani, I molti colori dei musulmani. I
palestinesi ci danno berretti su cui e' scritto "End occupation", "Open
Jerusalem", "Peace".
Arrivano le autorita' religiose: il patriarca cristiano di Gerusalemme,
Michel Sabbah, altre autorita' religiose cristiane ortodosse, gli imam
musulmani. A braccetto tutti insieme aprono la marcia. Subito dopo gli
europei a fare da cuscinetto e poi i palestinesi.
Noi italiani facciamo I cordoni di protezione ai due lati.
Ci sono anziane donne palestinesi con I vestiti tradizionali, ragazze in
jeans con la bandiera palestinese dipinta sul volto e sulle mani, famiglie
con bambine e bambini. Dal corteo salgono canti religiosi, canti
tradizionali arabi, rappers di giovani palestinesi, slogans per la pace, per
una pace giusta.
Tengo per mano una suora italiana di Venezia che vive da 24 anni in
Palestina e lavora nell'ospedale della Caritas di Betlemme. Insieme cantiamo
"Bella ciao", conosciuta anche da tanti palestinesi, e gridiamo "Palestina
libera", ed e' una bella emozione.
A un certo punto la strada e' bloccata da camionette e autoblindo.
Le autorita' religiose iniziano a pregare e poi a trattare con I soldati,
che propongono di far passare solo I religiosi con una trentina di altre
persone. Si rifiuta: o si passa tutti almeno fino al check point, o si resta
tutti. Dopo un'ora e mezza di trattative ci fanno proseguire.
Arriviamo finalmente al check point: camionette, soldati e blindati
schierati. Iniziano le preghiere delle diverse religioni e nelle diverse
lingue. C'e' insieme grande calma e grande emozione. Abbiamo tutti un ramo
di ulivo in mano. Il patriarca Michel Sabbah dice parole molto nette: non
c'e' pace senza giustizia, non c'e' giustizia senza diritti umani, e I
diritti umani dei palestinesi oggi sono negati. L'occupazione israeliana e'
il vero ostacolo alla pace.
Arriva l'invito a scambiare un abbraccio di pace con chi ci sta vicino, e a
liberare i palloncini con i messaggi di pace. Sullo sfondo c'e'
l'insediamento israeliano di Gilo: speriamo che arrivino anche li'.
La marcia e' conclusa. Salutiamo e abbracciamo i palestinesi che non possono
uscire da Betlemme.
Riattraversiamo il check point, un soldato israeliano mi chiede il
passaporto, lo controlla e dice che posso passare. Gli porgo il mio ramo di
ulivo. Esita, poi lo prende e mi guarda per un attimo. E' molto giovane, lo
sguardo imbarazzato.
Torniamo a Gerusalemme dove e' prevista la catena umana intorno alla citta'
vecchia. Ci dicono che la polizia israeliana ha ritirato l'autorizzazione
perche' coloni estremisti minacciano aggressioni e incidenti.
Peccato. Ma non ci rovineranno questa bella giornata di pace. Nel cortile
della chiesa cristiana di S. Anna, dentro la citta' vecchia, europei,
palestinesi e pacifisti israeliani ci ritroviamo a pregare, a cantare, a
danzare, a tenerci per mano gridando ancora una volta tutte e tutti insieme
Palestina libera, stop all'occupazione, pace in Palestina.
5. TESTIMONIANZE. GIANFRANCO BETTIN: APOCALISSE E NATIVITA' A KOROGOCHO
[Gianfranco Bettin, prosindaco di Venezia, sociologo impegnato nella
solidarieta', racconta in questo articolo una visita a padre Alessandro
Zanotelli a Korogocho, la baraccopoli ai margini di Nairobi, in Kenia, in
cui da molti anni il missionario vive ed opera. Questa testimonianza e'
apparsa sul quotidiano "Il manifesto" del 28 dicembre]
La donna arriva nel cuore della notte. Nessuno sta comunque dormendo. Alcuni
ragazzi, ubriachi e fatti di colla sniffata, hanno fatto casino fino a poco
fa, nei paraggi. Quando si sente bussare alla porta della baracca, padre
Alex chiede chi e' e capisce subito che si tratta di un altro arrivo da
Kybera, la baraccopoli sconvolta da giorni da una rivolta violentissima.
Korogocho e' grande, e non manca di persone generose, pronte ad accogliere
anche questa sfollata. Serve una coperta, pero', almeno quella. Alex fruga
nella baracca in cui vive da dodici anni - tre stanze, una cucina, una
specie di patio con un tetto in lamiera - e che adesso ospita anche noi, per
qualche giorno, e infine una coperta la trova. Per questa notte, la donna in
fuga, come le altre persone arrivate finora, avra' un riparo e un po' di
caldo.
Le notti sono fresche, infatti, anche adesso che e' primavera avanzata. A
gennaio sara' estate, ma Nairobi e' pur sempre una capitale d'altopiano, a
molti metri sul livello del mare (il piu' vicino e' l'Oceano Indiano, sulla
ricca e stravolta costa orientale dell'Africa, paradiso dei fan di Malindi e
di riciclati e riciclatori di ogni sorta). La differenza tra il giorno e la
notte si sente: se durante il giorno fa caldo, o caldissimo, nelle baracche
di fango, cartone e lamiera, quando il sole tramonta la temperatura puo'
scendere bruscamente, anche nel dedalo di vicoli e stradine cieche,
nell'immensa baraccopoli disposta a schiena d'asino sulla collina, che
ospita un numero incalcolabile di persone. Nairobi avra' un milione di
abitanti "normali", una piccola parte dei quali benestante, dislocata in
centro - tra grattacieli di stampo occidentale - o nei blindati quartieri
residenziali, ordinati e verdissimi, dall'aria coloniale e old style, come
quello in cui la vecchia casa di Karen Blixen e' stata trasformata in un
museo, dove non mancano, coi cimeli autentici della grande scrittrice danese
che vi visse tra il 1915 e il 1931, le pacchiane reliquie del film
multi-Oscar di Sidney Pollack con Meryl Streep e Robert Redford.
A questo milione di fortunati e di poveri "ordinari", si affianca - anzi lo
circonda - una massa di un altro paio di milioni, o forse piu', che vive
nelle baraccopoli, alcune delle quali battezzatesi "Soweto", in onore dello
slum sudafricano che fu teatro di una famosa rivolta. Le piu' grandi di
queste baraccopoli sono appunto Kybera e Korogocho. Nelle baracche, qui, si
paga l'affitto: deve essere uno dei pochi casi al mondo. Ci sono padroni
anche negli slums, e del resto chi li abita, a differenza di molte altre
realta' analoghe del mondo, non e' solo la componente piu' marginale della
societa' locale.
Al sottoproletariato, agli sradicati di ogni sorta, a coloro che praticano
in mille modi l'arte di arrangiarsi, si affianca una massa di lavoratori
industriali o di addetti ai servizi, gente che lavora quindi niente affatto
ai bordi del sistema ma che non potrebbe pagare affitti normali e che,
dunque, e' costretta a vivere nelle baracche. Le baracche consentono a
costoro di restare in citta' e di lavorarvi, pochissimo pagati e ancor
peggio trattati, e dunque hanno un ruolo chiave, strutturale, nel sistema
sociale e nella realta' urbana di Nairobi.
Il Kenya - "il pericoloso, decadente, saccheggiato e indebitato Kenya", come
lo descrive John le Carre' nel suo ultimo romanzo, Il giardiniere tenace
(Mondadori), una storia di delitti e intrighi di multinazionali
farmaceutiche ambientata proprio in questo paese tragico e bellissimo - il
Kenya e' un pezzo d'Africa insieme futuribile (nell'accenno di metropoli
moderna che Nairobi e') e primordiale, selvaggio nelle sopravvivenze
naturali, tutelate nei parchi e nelle riserve, a volte con misura e
decisione, altre volte in modo velleitario e/o pacchiano. Cosi', se si va
nelle grandi riserve e nei parchi immensi dove circolano i leoni e gli
elefanti, le giraffe, le antilopi e i rinoceronti e tutta l'altra fantastica
fauna che vi abbonda protetta, ci si sente un po' trepidanti, temendo di
essere li' a far visita a una fragile reliquia d'altre epoche, o a una
vecchissima nonna un po' male in arnese e che si potrebbe perdere da un
giorno all'altro anche se, insomma, viene abbastanza curata nella clinica o
nell'ospizio in cui si trova.
* Vite nel fango
Al contrario, il Kenya, l'Africa, che ti viene incontro quando entri a
Korogocho o a Kybera o nelle altre baraccopoli e' forse un continente
giovane o giovanissimo, un continente bambino addirittura, quantomeno
affollato di bambini, poco o mal nutriti, poco o mal vestiti, poco o mal
curati in ogni senso, se non da qualche eroe motivato. Come la protagonista
del romanzo di Le Carre'. O come, nella viva realta', Alex, e con lui i
fratelli e le sorelle di fede e tutti gli altri volontari che gli danno una
mano e che lavorano a progetti per prevenire o curare o lenire (soprattutto)
malattie - a cominciare dalla devastante Aids che implacabile miete
vittime - a mitigare le sofferenze della poverta', a costruire orgoglio e
dignita', e coscienza politica. Sono tutte attivita' e "missioni" cruciali
nel lavoro di Alex Zanotelli, quanto la cura delle anime, in senso letterale
vorrei dire, cioe' la presentazione e la spiegazione della Parola,
legittimata da una piena condivisione della vita altrui. Che e' la vita
delle baracche, del fango e della polvere di Korogocho, dei suoi stenti,
della sua desolata poverta', delle sue tensioni strazianti e sconvolgenti,
sempre sul punto di esplodere, come questa volta e' avvenuto a Kybera. Ogni
sera, Alex porta questa Parola in una baracca dove celebra la Messa. Con
paramenti poveri, ma ricchi dei colori piu' belli dell'Africa, accompagnato
da strumenti musicali indigeni, in un kiswahili ormai sperimentato e
fluente, raduna intorno a se' la famiglia ospitante e le altre che formano
la piccola comunita' cristiana della zona (ve ne sono trentasei a Korogocho,
dedite alla cura della comunita', anima e corpo, e all'ascolto della
Parola).
La forza della testimonianza politica di padre Zanotelli, ben nota, puo'
forse offuscare il nitore del suo impegno di fede, ma basta vederlo
all'opera tra queste baracche e questi vicoli affumicati, tortuosi,
rischiosi, tra polvere, fango e rifiuti, per capire immediatamente che la
dimensione di fede resta centrale - che e' il centro vero, per molti
aspetti - del suo impegno. Eppure, cio' non riduce o depotenzia il suo
concreto attivarsi in favore di chi ha bisogno e la portata direttamente
politica del suo agire e parlare. Ci dice un ragazzo, un catechista, che
"Alex e' molto importante per l'Africa", e che ogni volta che va alla
televisione kenyana a parlare - ogni tanto gli capita - riesce a
interpretare speranze e paure dell'intero continente. Gli spiace molto che
debba tornare in Italia, il prossimo anno. Spera che padre Daniele, il
giovane comboniano che lo sostituira', ne ripercorra i passi.
Per capire il bisogno vertiginoso di conforto e di rivolta, basta ascoltare
Thomas, che oggi ha perso due dita in un incidente di lavoro - faceva il
falegname - che gli costera' anche il licenziamento. Che se ne fa la
falegnameria di un uomo con qualche dito in meno? Thomas e' disperato, anche
se e' circondato dall'affetto dei tre figlioletti e della giovane moglie in
una catapecchia che, fra le poche, e' collegata, abusivamente, alla rete
elettrica e puo' perfino far funzionare un piccolo antiquato televisore in
bianco e nero. Questo minimo livello di benessere sara' spazzato via in
poche ore dalla perdita del lavoro, e tutti lo sanno. Per questo sono come
schiacciati da una sventura - e per questo, come puo', Alex cerca di
confortarli (e di prestar loro concreto aiuto, anche). Le altre due ragazze
che visitiamo stasera sono invece malate di Aids, come troppi qui e in tutta
l'Africa, e la speranza sembra averle abbandonate da molto tempo - e avere
solo il volto di questi volontari che hanno accettato di venire a vivere qui
e di darsi da fare. Scuola, sanita', trasporti, tutti i servizi essenziali
costano troppo per quasi tutti, in questo paese: ci si arrangia da soli,
allora, o con l'aiuto di qualche strano eroe venuto da lontano. Anche le
altre visite saranno di questo tipo, salvo quelle che ci portano alle sedi
delle attivita' lavorative o di recupero (per bambini di strada o ex
prostitute) promosse in questi luoghi impervi socialmente ed
esistenzialmente, oltre che materialmente.
* Natale in discarica
"Ce n'e' sempre una", scherza Alex, che per questo non riesce quasi mai a
giungere puntuale agli appuntamenti. Prima di arrivare alla baracca dove
avrebbe tenuto la messa, ieri sera, ha girovagato a lungo, scoprendo
ovunque - facendoci scoprire, per lui e' la norma - lo stesso carico di
dolore, solitudine, ingiustizia. E, naturalmente, di rabbia che cresce, che
monta, che esplode come a Kybera, o come nella provincia vicina, dove ci si
e' ammazzati per il diritto a pascolare e usare l'acqua dei pozzi. O come
nelle parole di due ragazzi, peraltro colti e riflessivi, niente affatto
esagitati, che discutendo dell'11 settembre e dell'Afghanistan (i giornali
locali riportano la notizia di arresti di presunti membri di Al Qaeda) ci
dicono: "The Talibans? They are a very good men. Osama? An idealist".
E' un'Africa apocalittica, quella vista da qui, che sembra fatta apposta per
incupire ancor piu' l'immagine che ce ne siamo fatti in Occidente: un
continente ormai perduto e moribondo, oscuro. Un'immagine che non piace
affatto a uno dei principali viaggiatori e conoscitori occidentali
dell'Africa, Ryszard Kapuscinski, che contesta questa visione nerissima e
che, anzi, dichiara che la "prima cosa che ti colpisce dell'Africa e' la
luce" (Ebano, Feltrinelli). E ha ragione, davvero.
"Mount Kenya", dice l'hostess indicando fuori del finestrino. E' l'alba,
appena spuntata, alle sei, ed esattamente di fronte a noi dopo una notte di
volo si staglia l'ombra solenne e svettante, inconfondibile nel suo profilo
frastagliato, della montagna piu' alta dell'Africa dopo il Kilimangiaro.
Oltre l'ombra, il cielo si infiamma di luce viola rossa e gialla. La luce
dell'Africa, che illimpidisce i cieli e gli orizzonti, e che fa sentire piu'
atroce la sconfinata ingiustizia che illumina.
L'Apocalisse attorno a cui riflettono le comunita' di Korogocho, insieme ad
Alex, e' invece quella biblica, letta e discussa attentamente in questo
periodo, con l'ausilio di interpretazioni come quella di Wes Howard-Brook e
Anthony Gwyther (L'Impero svelato, Emi, con prefazione dello stesso
Zanotelli). Una lettura che vede in questo "disvelamento" un manifestarsi
della verita' intorno alla struttura del mondo contemporaneo, letto sullo
sfondo, e con la chiave interpretativa, della vicenda di Roma imperiale.
Apocalisse non come catastrofe totale, quindi, ma come crisi di quelle
strutture di oppressione e di sfruttamento che sono alla radice anche della
tragica condizione odierna di miliardi di uomini e donne. E di bambini e
bambini e bambini, viene da dire, guardando alle strade e alle baracche di
Korogocho, affollate di piccoli che ti vengono incontro ripetendo
sorridenti - sempre sorridenti! - "How are you? How are you?" come un saluto
e come una filastrocca. Bambini che quasi sempre vivono solo con le madri -
spessissimo abbandonate dai padri dei loro figli e scacciate dalla stessa
famiglia d'origine quando restano incinte - e che non di rado vivono da
soli, e da soli si arrangiano. Ci sono solo quelli come Alex ad aiutarli, le
scuole pubbliche costano troppo (le rette sono aumentate ancora, del 30 per
cento, lo scorso anno, provocando un nuovo crollo delle iscrizioni, anche
fra i ceti medi: cosi' restano sempre piu' spesso solo le opportunita'
educative fornite dai volontari, o dalle scuole delle varie sette cristiane
o musulmane che anche cosi' mirano a far nuovi adepti).
Bambini ovunque, bambini soli, come le loro madri, perfino piu' sole queste
ultime: nella baracca accanto a quella di Alex, che serve da centro di
accoglienza per donne sole, un giovane artista di Korogocho, che si firma
Moses K., ne ha dipinto sulle pareti la "via crucis", in parallelo a quella
di Cristo, dal momento in cui restano gravide all'abbandono alla vita sulla
strada, in prigione, e fino alla morte e - speranza e fede - alla
resurrezione.
Se ci sara' resurrezione, infine, nessuno puo' dire, anche se la fede che si
vede all'opera qui, e che risuona nelle parole di uno come Alex, lascia
scossi, sconcertati, felicemente e drammaticamente provocati. Quel che e'
certo e' che, di sicuro, c'e' nativita', e non solo perche' nascono bambini
comunque, di continuo, e neanche solo perche' e' Natale. Perche', piuttosto,
in questo nesso tra Apocalisse - catastrofe e disvelamento - e Nativita' -
rinascita e speranza, opportunita' - sembra imporsi ogni giorno di nuovo la
sfida della vita, e quindi dei suoi diritti e della sua energia
insopprimibile. La veglia di Natale di Korogocho quest'anno e' stata fatta
sulla discarica - a "Mukuru" - dove ogni giorno migliaia di persone
contendono agli uccelli rapaci e ai topi, e ai propri rivali umani, i
rifiuti. Rifiuti da riusare, riciclare, rivendere, o di cui cibarsi. Col
popolo della discarica, a mezzanotte, Alex ha detto, nella lingua di
Korogocho e di tutta l'umanita' piu' consapevole "Mtoto Amezaliwa Yesu
Amezaliwa Mukuru": un bambino nasce, Gesu' nasce, nella discarica.
6. RILETTURE. JOSE' CARLOS MARIATEGUI: SETTE SAGGI SULLA REALTA' PERUVIANA
Jose' Carlos Mariategui, Sette saggi sulla realta' peruviana, Einaudi,
Torino 1972, pp. 550. I "Siete ensayos" del 1928 ed altri scritti del grande
pensatore latinoamericano, una lettura ancor oggi illuminante (di Mariategui
in italiano si legga anche almeno Lettere dall'Italia e altri scritti,
Editori Riuniti, Roma 1973).
7. RILETTURE. PAUL RICOEUR: LA CRITICA E LA CONVINZIONE
Paul Ricoeur, La critica e la convinzione, Jaca Book, Milano 1997, pp. 264,
lire 38.000. Intervistato da François Azouvi e Marc de Launay il grande
filosofo racconta la sua vita e la sua riflessione.
8. RILETTURE. MARTHE ROBERT: L'ANTICO E IL NUOVO
Marthe Robert, L'antico e il nuovo, Rizzoli, Milano 1969, pp. 288. Tra don
Chisciotte e l'agrimensore K, la riflessione di una delle nostre maestre
piu' grandi (della Robert si leggano anche almeno Da Edipo a Mose', Sansoni,
Firenze 1981, e Solo come Kafka, Editori Riuniti, Roma 1982).
9. RILETTURE. SEYYED HOSSEIN NASR: IDEALI E REALTA' DELL'ISLAM
Seyyed Hossein Nasr, Ideali e realta' dell'Islam, Rusconi, Milano 1974, pp.
216. In sei saggi che sviluppano una serie di conferenze tenute presso
l'Universita' americana di Beirut nel 1964-1965, una sintesi di grande
chiarezza ed utilita'.
10. RILETTURE. GIANFRANCO RAVASI: QOHELET
Gianfranco Ravasi, Qohelet, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988,
Mondadori, Milano 1997, pp. 480, lire 15.000. Il noto teologo cattolico,
docente di esegesi biblica, commenta uno dei libri piu' grandi della Bibbia
e riflette su alcune delle principali interpretazioni che ne sono state date
nel corso della storia da persone che si sono lasciate interrogare
profondamente da questo testo che da oltre due millenni e' una delle parole
fondamentali del pensiero umano, ineludibile uno degli specchi - e degli
enigmi, e delle radici - dell'umanita' (nei diversi sensi di questo termine,
incluso quello dell'humanitas).
11. RILETTURE. GERSHOM SCHOLEM: LE GRANDI CORRENTI DELLA MISTICA EBRAICA
Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Saggiatore,
Milano 1968, Il melangolo, Genova 1986, Einaudi, Torino 1993, pp. 416, lire
16.000. La grande opera di Scholem pubblicata nel 1941, una lettura che
caldamente raccomandiamo.
12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ;
per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben@libero.it ;
angelaebeppe@libero.it ; mir@peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 328 del 31 dicembre 2001