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Afghanistan: ancora una guerra per il petrolio




Articoli tratti dal Manifesto del 17 ottobre 2001
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La guerra sul treno della crisi petrolifera
INTERVISTA - Parla l'esperto Onu Alberto Di Fazio
di FRANCESCO PICCIONI


Qual è il peso del petrolio nel riprodursi ravvicinato di situazioni di 
guerra? Per rispondere bisogna conosconere i dati su disponibilità a 
livello globale, ritmi di estrazione, nuove scoperte, crescita dei consumi, 
reti di oleodotti, ecc. Siamo andati perciò a sentire il prof. Alberto Di 
Fazio, da sei anni al lavoro col programma dell'Igbp (International 
Geosphere-Biosphere Programme) dell'Onu, responsabile del progetto Gaim 
(Global Analysis, Integration and Modelling), appena nominato nella 
Commissione nazionale di coordinamento con l'Igbp.


I vostri studi hanno elaborato una tesi "forte": ci troviamo in prossimità 
del picco della produzione di petrolio.

A circa 10 anni. Le stime ottimistiche arrivano a 20, le minime a 5. Quelle 
dell'Iea (International Energy Agency), parlano del 2013.

Esiste una certa diffidenza verso le visioni "catastrofiste", scottati 
forse dalle previsioni degli anni '70, che davano il petrolio per finito 
nel 2000.

Ma non è vero! Beyond the limits prevedeva che verso il 2010-2020 ci 
sarebbero state delle crisi sistemiche provocate dallo sviluppo 
esponenziale congiunto della produzione industriale e della popolazione 
mondiale. E dopo 21 anni, nel '92, le previsioni risultavano confermate (si 
veda il grafico, ndr). Si tratta di un calcolo basato su grandezze 
puramente fisiche ed economiche.

Quindi siamo vicini al "massimo della produzione", non all'"esaurimento".

Quando si scopre un pozzo, lo si trivella, si comincia a pompare, e si 
aumenta la produzione in funzione della domanda, crescente. Prima che 
finisca, però, ci si ferma. Se, per tirar fuori un barile, occorre più 
energia di quella che un barile può dare, il pozzo chiude. Non è un 
problema economico, ma energetico. Stiamo parlando di un "massimo 
geologico", che viene raggiunto quando la giacenza è circa il 50-55% del 
valore iniziale. Non significa che "non c'è più petrolio", ma che la 
produzione non risponde più alla domanda.

La tecnologia non aiuta?

La tecnologia migliora il rendimento della produzione. Oggi si pompa più 
rapidamente di prima, e troviamo espedienti tecnologici per andare in 
quella cavità orizzontale prima irrangiungibile, pompiamo vapore acqueo a 
900. Ma più di quello che c'è, non se ne può tirar fuori. E' matematica. 
Raggiunto il massimo la produzione comincia a calare.

Quel che resta è irrecuperabile?

Certo. La giacenza residua dipende dalla conformazione geologica del 
giacimento e varia tra il 20 e il 40%. Il massimo produttivo, invece, lo si 
raggiunge, in media, quando la giacenza è a metà.

Sono ipotizzabili tecnologie che permettano di ramazzare anche quel 20-40% 
considerato irrangiungibile?

No. Esistono leggi fisiche: la massa per l'accelerazione di gravità, per 
l'altezza. Più vado in profondità, più energia ci vuole. Dipende dalla 
legge di gravità, non dalla tecnologia. Questa permette di utilizzare una 
legge fisica a proprio vantaggio, ma solo fino al limite della legge 
naturale. Non è che questa penna possa cadere all'insù.

Questa è la storia di un singolo pozzo.

Quando un pozzo raggiunge lo stato di crisi, il sistema umano va avanti lo 
stesso. Gli americani hanno fatto due guerre mondiali pompando petrolio da 
nuovi pozzi. Ma è arrivato il giorno fatale, nel 1970, in cui la somma dei 
pozzi che chiudevano e quelli che venivano aperti era tale da segnare il 
massimo della produzione Usa. Da allora la loro produzione è in discesa. 
Sono il paese più potente e possono decidere e imporre certi rapporti 
all'Arabia saudita, o all'Iraq. Hanno sostenuto la propria crescita 
pompando a casa loro. Ma quando il problema del "picco massimo" si 
ripropone a livello globale, allora non c'è più nulla da fare. Posso 
bombardare o corrompere chi voglio, ma di petrolio ne esce sempre di meno.

Dagli anni '70 cosa è cambiato?

L'occidente ha reagito allo shock del '73 sapendo di poter gestire soltanto 
il 20% delle riserve totali. Ma si sono detti: "pompiamo di più". Hanno 
avuto la fortuna di trovare il petrolio nel mare del Nord, anche se a 
livello globale contava poco. Per l'Inghilterra e la Norvegia era una 
ricchezza, e ha permesso alla Tatcher di distruggere i minatori e di non 
dipendere dall'Opec. Però nel 2000 hanno raggiunto il picco massimo. Ora 
stanno mantenendo la produzione iniettando vapore, ma più la tieni alta, 
più presto si raggiunge il rapporto negativo tra energia impiegata e quella 
estratta.

E qui succede il patatrac.

La parte economicamente e militarmente dominante del mondo non può 
sopravvivere a un'economia in stagnazione. Figuriamoci con un'economia in 
contrazione. Ecco perché a quel punto si manifesta la crisi. Quello che i 
paesi più forti possono fare è spostare la propria crisi un po' più in là. 
Ad esempio conquistando il Medio oriente e monopolizzando il petrolio per 
le proprie necessità. Ma questo significherebbe guerra con tutti.

E' uno scenario drastico.

Non bisogna far l'errore di credere che questa sia una crisi come le altre, 
dove gli Stati uniti scaricano un po' di bombe sugli altri paesi e poi si 
riparte. Prima potevano pompare petrolio sul proprio territorio, costruire 
navi, aerei e cannoni e andare a fare la guerra altrove. Per fare navi e 
cannoni serve energia, mica si possono fare con Internet.

Si potrebbe rispolverare il nucleare.

Certo, e Bush lo ha già proposto. Ma, se si vuole coprire col nucleare il 
30% del fabbisogno energetico attuale (anziché il 3%), bisogna costruire 
5.350 centrali. E scordarsi la crescita economica. In ogni caso con il 
nucleare si può far muovere il motore delle portaerei (nemmeno di tutte le 
navi), ma bisogna costruirle, lavorare l'acciaio. Le fonderie non vanno a 
energia elettrica.

Con il carbone.

Sì, ma si torna indietro, al ciclo industriale precedente. A quel punto va 
in crisi anche la potenza militare.

Negli ultimi 10 anni le riserve globali sono rimaste stabili. E' possibile 
pensare a scoperte di giacimenti che mutino il quadro? Si parla del Caspio, 
di Tengiz, dell'Afghanistan necessario per far passare gli oleodotti.

Quello del Caspio ammonta a meno del 3% delle riserve mondiali. E' 
rilevante per gli stati che ce l'hanno, e per le compagnie che otterranno i 
diritti di sfruttamento. Ma se ci aspettiamo un picco da qui a 10 anni, il 
Caspio lo sposta di appena tre mesi. Se scoprissimo un giacimento pari a 
tutta l'Arabia saudita, più l'Iraq e l'Iran, il picco andrebbe a 20 anni.

Ed è possibile?

Basta vedere la curva delle scoperte petrolifere. Anche qui c'è un massimo, 
raggiunto negli anni '60. La probabilità cala man mano che si va avanti nel 
tempo. Per ogni barile scoperto, intanto, ne consumiamo quattro.

Non ci sono regioni ancora "vergini"?

Le uniche regioni rimaste, di grande volume, sono a profondità oceaniche. 
Ma al di sotto dei duemila metri di profondità, a parte i problemi di 
ancoraggio delle piattaforme (sotto i 1.500 metri non ci va nessuno), c'è 
il problema della pressione piezometrica: maggiore è la profondità, 
maggiore è il lavoro che devo fare, più energia serve. E' un fatto fisico. 
Per questo nessuno pensa a pozzi sotto 5.000 metri d'acqua: è 
energeticamente sconveniente. E così al Polo, o nell'Antartico. Tutte le 
terre emerse sono state esplorate, con i satelliti o direttamente. Gli Usa 
hanno speso il 51% in più per le prospezioni, negli ultimi 20 anni. Ma le 
scoperte calano. Le possibilità di una scoperta colossale sono insomma 
minime, e cambierebbe poco nel tempo-scala. Altrimenti il governo Usa non 
avrebbe sfiorato la crisi politica per andare a trivellare in Alaska, per 
un giacimento che equivale a otto mesi del loro consumo interno.

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L'Afghanistan invischiato nelle trame dei petrolieri

Il documento che presentiamo in questa pagina è l'audizione di un alto 
dirigente della società petrolifera Union Oil Company della California, 
nota come Unocal 76, tra le maggiori compagnie indipendenti degli Usa. Nel 
corso degli anni novanta l'Unocal ha cercato e trovato petrolio e gas in 
Africa, Asia, America latina, lasciando spesso dietro di sé, in Birmania in 
modo particolare, una scia di sofferenze. Il petrolio e il gas dell'Asia 
centrale, rappresentavano in quegli anni un'alternativa al dominio 
mediorientale. Come portarli vicino ai luoghi di consumo? Dove far passare 
le condotte? L'Afghanistan, ecco la soluzione. Più tardi, alla fine di quel 
1998, la pista afghana si rivelava impraticabile e la Unocal si ritirava 
dall'iniziativa più avanzata, quella che aveva il compito di portare il gas 
naturale al Pakistan e all'India CentGas), lasciando il campo ai 
soci-concorrenti, tra i quali prevaleva la società saudita Delta.

Questo è in buona sostanza l'antefatto energetico e logistico della 
tragedia attuale. I protagonisti sono ancora adesso un costruttore saudita 
e un petroliere americano; ma la guerra non si combatte più in un consiglio 
di amministrazione, ma con atti atroci di terrorismo e bombardamenti di 
intelligenza sopraffina che riducono a deserto i deserti. L'Afghanistan, da 
possibile alternativa per l'energia del Caspio, verso i porti d'imbarco e 
le città dell'India e della Cina, diventava un altro terreno di manovra dei 
sauditi. Cina e India non avrebbero ricevuto petrolio e gas da un consorzio 
a guida Usa, ma rafforzato invece il potere dei soliti paesi produttori.
La spartizione che si preannuncia, sarà però un'altra ancora, disposta 
dall'esito della guerra. Forse l'Arabia saudita tornerà nei rangh e 
l'Afghanistan tornerà ad essere la pista energetica sperata.

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La verità sotto terra
"Finché a Kabul non ci sarà un governo che goda della fiducia degli Usa e 
della nostra compagnia, quell'oleodotto non sarà possibile". L'audizione di 
un petroliere al Congresso americano

Quello che segue è il testo dell'audizione di John J. Maresca davanti al 
sottocomitato per l'Asia e il Pacifico della Camera dei rappresentanti Usa, 
il 12 febbraio del 1998. Maresca è il vicepresidente delle relazioni 
internazionali della Unocal Corporation, una delle principali compagnie al 
mondo per le risorse energetiche e lo sviluppo di progetti.



E' bene tener presente l'importanza delle riserve di gas e di petrolio 
presenti in Asia centrale e il ruolo che queste giocano nel determinare la 
politica Usa. Vorrei concentrarmi su tre questioni. Primo, la necessità di 
numerose vie di transito in cui far passare gli oleodotti e i gasdotti per 
le riserve di petrolio e di gas presenti dell'Asia centrale. Secondo, la 
necessità che l'America sostenga gli sforzi regionali e internazionali tesi 
a soluzioni politiche equilibrate e durature dei conflitti nella regione, 
compreso l'Afghanistan. Terzo, il bisogno di assistenza strutturata per 
incoraggiare le riforme economiche e lo sviluppo nella regione di un clima 
appropriato per gli investimenti. A questo proposito, noi sosteniamo in 
modo specifico l'annullamento o la rimozione della sezione 907 del Freedom 
Support Act.

La regione del Caspio contiene enormi riserve di idrocarburi intatte. Solo 
per dare un'idea delle proporzioni, le riserve di gas naturale accertate 
equivalgono a oltre 236mila miliardi di piedi cubici. Le riserve 
petrolifere totali della regione potrebbero ammontare a oltre 60 miliardi 
di barili di petrolio. Alcune stime arrivano fino a 200 miliardi di barili. 
Nel 1995 la regione produceva solo 870.000 barili al giorno. Entro il 2010 
le compagnie occidentali potrebbero aumentare la produzione fino a circa 
4,5 milioni di barili al giorno, un aumento di oltre il 500% in soli 15 
anni. Se questo dovesse accadere, la regione rappresenterebbe circa il 5% 
della produzione totale di petrolio al mondo.

C'è tuttavia un grosso problema da risolvere: come portare le vaste risorse 
energetiche della regione ai mercati che ne hanno bisogno. L'Asia centrale 
è isolata. Le sue risorse naturali sono sbarrate, sia geograficamente che 
politicamente. Ciascuno dei paesi del Caucaso e dell'Asia centrale vive 
difficili sfide politiche. Alcuni paesi hanno guerre irrisolte e conflitti 
latenti. Altri hanno sistemi in via di trasformazione in cui le leggi e 
anche i tribunali sono dinamici e mutevoli. Inoltre, un importante ostacolo 
tecnico che noi dell'industria petrolifera riscontriamo nel trasporto del 
greggio è l'infrastruttura esistente nella regione per quanto riguarda gli 
oleodotti.

Essendo stati costruiti durante l'era sovietica, con Mosca come suo centro, 
gli oleodotti della regione tendono a dirigersi a nord e a ovest verso la 
Russia. Non ci sono collegamenti verso il sud e l'est. Ma attualmente è 
improbabile che la Russia possa assorbire altri grossi quantitativi di 
petrolio straniero. Improbabile che nel prossimo decennio essa possa 
diventare un mercato significativo in grado di assorbire nuove riserve 
energetiche.

Le manca la capacità di trasportarle ad altri mercati.
Due grossi progetti infrastrutturali stanno cercando di rispondere al 
bisogno di una maggiore capacità di export. Il primo, sotto l'egida del 
Caspian Pipeline Consortium, prevede la costruzione di un oleodotto a ovest 
del Caspio settentrionale fino al porto russo di Novorossiysk nel Mar Nero. 
Il petrolio viaggerebbe poi con le petroliere attraverso il Bosforo fino al 
Mediterraneo e ai mercati mondiali.
L'altro progetto è sponsorizzato dall'Azerbaijan International Operating 
Company, un consorzio di undici compagnie petrolifere straniere tra cui 
quattro compagnie americane: Unocal, Amoco, Exxon e Pennzoil. Questo 
consorzio considera possibili due vie di transito. Una di esse si 
dirigerebbe a nord e attraverserebbe il Caucaso settentrionale fino a 
Novorossiysk. L'altra attraverserebbe la Georgia fino a un terminale di 
spedizione sul Mar Nero. Questa seconda via potrebbe essere estesa a ovest 
e a sud attraverso la Turchia fino al porto di Ceyhan sul Mediterraneo.

Ma anche se entrambi gli oleodotti fossero costruiti, la loro capacità 
totale non sarebbe sufficiente a trasportare tutto il petrolio che, si 
pensa, la regione produrrà nel futuro. Essi non avrebbero nemmeno la 
capacità di arrivare ai mercati giusti. Bisogna costruire altri oleodotti 
per l'export.

Noi dell'Unocal riteniamo che il fattore centrale nella progettazione di 
questi oleodotti dovrebbe essere la posizione dei futuri mercati energetici 
che verosimilmente assorbiranno questa nuova produzione. L'Europa 
occidentale, l'Europa centrale e orientale e gli stati ora indipendenti 
dell'ex Unione sovietica sono tutti mercati a crescita lenta, in cui la 
domanda crescerà solo dallo 0,5% all'1,2% all'anno nel periodo 1995-2010.

L'Asia è tutto un altro discorso. Il suo bisogno di consumo energetico 
crescerà rapidamente. Prima della recente turbolenza nelle economie 
dell'Asia orientale, noi dell'Unocal avevamo previsto che la domanda di 
petrolio in questa regione si sarebbe quasi raddoppiata entro il 2010. 
Sebbene l'aumento a breve termine della domanda probabilmente non 
rispetterà queste previsioni, noi riteniamo valide le nostre stime a lungo 
termine.

Devo osservare che è nell'interesse di tutti che vi siano forniture 
adeguate per le crescenti richieste energetiche dell'Asia. Se i bisogni 
energetici dell'Asia non saranno soddisfatti, essi opereranno una pressione 
su tutti i mercati mondiali, facendo salire i prezzi dappertutto.

La questione chiave è dunque come le risorse energetiche dell'Asia centrale 
possano essere rese disponibili per i vicini mercati asiatici. Ci sono due 
soluzioni possibili, con parecchie varianti. Un'opzione è dirigersi a est 
attraversando la Cina, ma questo significherebbe costruire un oleodotto di 
oltre 3.000 chilometri solo per raggiungere la Cina centrale. Inoltre, 
servirebbe una bretella di 2.000 chilometri per raggiungere i principali 
centri abitati lungo la costa. La questione dunque è quanto costerà 
trasportare il greggio attraverso questo oleodotto, e quale sarebbe il 
netback che andrebbe ai produttori. Per quelli che non hanno familiarità 
con la terminologia, il netback è il prezzo che il produttore riceve per il 
suo gas o il suo petrolio alla bocca del pozzo dopo che tutti i costi di 
trasporto sono stati dedotti. Perciò è il prezzo che egli riceve per il 
petrolio alla bocca del pozzo.
La seconda opzione è costruire un oleodotto diretto a sud, che vada 
dall'Asia centrale all'Oceano Indiano. Un itinerario ovvio verso sud 
attraverserebbe l'Iran, ma questo è precluso alle compagnie americane a 
causa delle sanzioni. L'unico altro itinerario possibile è attraverso 
l'Afghanistan, e ha naturalmente anch'esso i suoi rischi. Il paese è 
coinvolto in aspri scontri da quasi due decenni, ed è ancora diviso dalla 
guerra civile. Fin dall'inizio abbiamo messo in chiaro che la costruzione 
dell'oleodotto attraverso l'Afghanistan che abbiamo proposto non potrà 
cominciare finché non si sarà insediato un governo riconosciuto che goda 
della fiducia dei governi, dei finanziatori e della nostra compagnia.

Abbiamo lavorato in stretta collaborazione con l'Università del Nebraska a 
Omaha allo sviluppo di un programma di formazione per l'Afghanistan che 
sarà aperto a uomini e donne, e che opererà in entrambe le parti del paese, 
il nord e il sud.

La Unocal ha in mente un oleodotto che diventerebbe parte di un sistema 
regionale che raccoglierà il petrolio dagli oleodotti esistenti in 
Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakhstan e Russia. L'oleodotto lungo 1.040 
miglia si estenderebbe a sud attraverso l'Afghanistan fino a un terminal 
per l'export che verrebbe costruito sulla costa del Pakistan. Questo 
oleodotto dal diametro di 42 pollici (poco più di un metro, ndt) avrà una 
capacità di trasporto di un milione di barili di greggio al giorno. Il 
costo stimato del progetto, che è simile per ampiezza all'oleodotto 
trans-Alaska, è di circa 2,5 miliardi di dollari.

Data l'abbondanza delle riserve di gas naturale in Asia centrale, il nostro 
obiettivo è collegare le risorse di gas con i più vicini mercati in grado 
di assorbirle. Questo è basilare per la fattibilità commerciale di 
qualunque progetto sul gas. Ma anche questi progetti presentano difficoltà 
geopolitiche. La Unocal e la compagnia turca Koc Holding sono interessate a 
portare forniture competitive di gas alla Turchia. Il prospettato gasdotto 
Eurasia trasporterebbe il gas dal Turkmenistan direttamente all'altra parte 
del Mar Caspio attraverso l'Azerbaijan e la Georgia fino in Turchia. 
Naturalmente la demarcazione del Caspio rimane una questione aperta.

Lo scorso ottobre è stato creato il Central Asia Gas Pipeline Consortium, 
chiamato CentGas, e in cui la Unocal ha una cointeressenza, per sviluppare 
un gasdotto che collegherà il grande giacimento di gas di Dauletabad in 
Turkmenistan con i mercati in Pakistan e forse in India. Il prospettato 
gasdotto lungo 790 miglia aprirà nuovi mercati per questo gas, viaggiando 
dal Turkmenistan attraverso l'Afghanistan fino a Multan in Pakistan. Il 
prolungamento proposto porterebbe il gas fino a New Delhi, dove si 
collegherebbe a un gasdotto esistente. Per quanto riguarda il proposto 
oleodotto in Asia centrale, CentGas non può cominciare la costruzione 
finché non si sarà insediato un governo afghano riconosciuto 
internazionalmente.

L'Asia centrale e la regione del Caspio è benedetta da riserve abbondanti 
di petrolio e gas che possono migliorare la vita dei suoi abitanti, e 
fornire energia per la crescita sia all'Europa che all'Asia. Anche 
l'impatto di queste risorse sugli interessi commerciali e sulla politica 
estera degli Stati Uniti è significativo. Senza una risoluzione pacifica 
dei conflitti nella regione, difficilmente saranno costruiti oleodotti e 
gasdotti attraverso le frontiere. Noi chiediamo all'Amministrazione e al 
Congresso di sostenere con forza il processo di pace in Afghanistan 
condotto dagli Stati Uniti. Il governo Usa dovrebbe usare la sua influenza 
per contribuire a trovare delle soluzioni per tutti i conflitti nella regione.

L'assistenza Usa nello sviluppare queste nuove economie sarà cruciale per 
il successo degli affari. Noi incoraggiamo anche forti programmi di 
assistenza tecnica in tutta la regione. In particolare, chiediamo 
l'annullamento o la rimozione della sezione 907 del Freedom Support Act. 
Questa sezione restringe ingiustamente l'assistenza del governo Usa al 
governo dell'Azerbaijan e limita l'influenza Usa nella regione.
Sviluppare itinerari per l'export a costi competitivi per le risorse 
dell'Asia centrale è un compito formidabile, ma non impossibile. La Unocal 
e altre compagnie americane similari sono pienamente preparate a 
intraprendere il compito e a riportare ancora una volta l'Asia centrale al 
centro dei traffici come era in passato.

Traduzione di Marina Impallomeni


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