Betlemme: cronaca di una demolizione



Diario di C., volontaria italiana in Palestina

Mi sono tagliata. Su un dito del piede, uno di quei tagli lineari e sottili che fanno un male cane. Mi sono tagliata anche nel cuore, uno dei tanti tagli che mi faccio qui, sottili e che fanno un male cane.

Con A. e T. siamo seduti su un divano, sotto ad un albero, in un villaggio vicino Betlemme.

Di fronte a noi, seduta per terra, la famiglia cui stamattina l’esercito ha demolito la casa. Siamo armati di penna e taccuino e spariamo proiettili a forma di domande.

Chissà cosa credono che potremo fare, contro quelli che vengono armati di bulldozer e sparano proiettili veri.

C’è una donna anziana, proprio di fronte a me. Non posso evitare di guardarla; mentre il figlio racconta i fatti, lei parla, ha un racconto tutto suo, indirizzato a tutti e nessuno, anche a me.

Durante tutto il tempo, ha le lacrime sul ciglio.

È stata picchiata dai soldati israeliani mentre cercava di impedire la demolizione: una ferita al braccio, lividi su entrambe le mani.

Gli uomini cercano, da maschi quali sono, una spiegazione logica. Le donne stanno zitte.

Che devono fare? Sono arrivati alle sette del mattino. Hanno avuto mezz’ora per spostare una vita dalla casa e vedersela seppellire sotto tonnellate di macerie. I risparmi di una vita, sepolti.

Dicono che l’ufficiale del DCO a cui l’avvocato della famiglia ha telefonato stamattina sembrava sorpreso…non deve esserlo stato abbastanza, perché la casa l’hanno buttata giù lo stesso.

La vecchia mi prende la mano, la bacia e se la porta alla fronte, poi mi racconta di nuovo tutta la storia, e mi dice che ha preso due grossi sassi e se li è battuti sl petto, perché era un grande dolore. Lo fa di nuovo, adesso, davanti a me. Piange.

Fotografo le lamiere contorte e il cemento armato divelto, i resti della bottega di fabbro ferraio, con la barre lavorate.

Arrampicandomi sulle macerie mi taglio il piede, dal taglio esce sangue. Mi accorgo anche che mi fa male anche altrove, però non ne può uscire sangue, solo lacrime; ma non mi sento il diritto di piangere.

Altra demolizione, altra famiglia.

Vecchi (ma forse più nell’aspetto che di età) un po’ spelacchiati armeggiano con improbabili permessi, mappe spiegazzate, ordini scritti in ebraico che non dicono niente, conservati tutti insieme in una busta di plastica di aspetto vecchio come il proprietario.

Ce li mostra come se tutti quei fogli potessero fare qualcosa, garantire una giustizia.

Inutili cartacce! Sciocchi illusi che non capiscono che la legalità è funzionale a distruggere, non a garantire loro qualcosa.

Le donne alle spalle, uditrici silenziose, prime vittime della casa squarciata, annuiscono.

Perché? viene chiesto…non hanno risposta per questo. Solo, di nuovo, la mappa spiegazzata, che mostra un progetto di casa, ma ignora che questa casa a sua volta si trovava troppo vicina ad un insediamento di coloni e al Muro che lo "proteggerà".

La paura più grande è che tornino e distruggano quello che resta.

Andiamo via, abbiamo ascoltato, chiesto, preso nota, fotografato, lasciato numeri di telefono, bevuto caffè, stretto mani.

Per il resto del giorno il mio stomaco si rifiuta di sbrogliarsi.

C.