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La nonviolenza e' in cammino. 745
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 745
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 29 Nov 2003 19:01:30 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 745 del 30 novembre 2003 Sommario di questo numero: 1. Emergency: cessate il fuoco 2. Rete Lilliput: una lettera aperta sulla questione irachena 3. Tavola della pace: l'Italia per l'Iraq. Ripartiamo dall'Onu 4. Dara Dibitonto: la domanda ulteriore. Filosofia e nonviolenza 5. Mao Valpiana: i bambini ci guardano ma noi non li vediamo 6. Giobbe Santabarbara: un approccio colonialista 7. Elizabeth Mehren: costruttrici di pace si incontrano 8. Elio Rindone: delle parole lo scempio, e delle vite 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. APPELLI. EMERGENCY: CESSATE IL FUOCO [Riceviamo e diffondiamo il seguente appello promosso da Emergency (per contatti: www.emergency.it)] I cittadini del mondo non riescono neppure piu' a piangere le tragedie del terrore: a una bomba segue un'autobomba, a ogni morto una vendetta che genera altri morti e altre vendette. Nomi diversi - guerra, terrorismo, violenza - si traducono poi, tutti, in corpi umani fatti a pezzi e in pezzi di umanita' perduti per sempre. Non vogliamo piu' vedere atrocita': e' disumano che gli esseri umani continuino ad ammazzarsi. Fermiamo questa spirale, o alla fine non restera' piu' niente, nessuno avra' avuto ragione o torto, ci sara' solo una catena infinita di lutti e distruzioni. Chiediamo a tutti coloro che stanno praticando e progettando attentati e guerre di fermarsi. Chiediamo il tempo per riflettere, non possiamo assistere impotenti al dilagare della follia omicida. A tutti coloro che promuovono la violenza, clandestini organizzatori di stragi o visibilissimi dittatori o presidenti, noi cittadini chiediamo: "cessate il fuoco". * Aderisci all'appello (http://www.emergency.it/cessateilfuoco/adesione.php?ln=It) * L'appello e' promosso da: Emergency; Noam Chomsky, docente al Massachusetts Institute of Technology; Ignacio Ramonet, direttore di "Le Monde Diplomatique"; Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica 1992-1999; Hans van Sponeck, gia' coordinatore Onu per l'Iraq; Rigoberta Menchu', premio Nobel per la pace 1992; Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina 1986; Dario Fo, premio Nobel per la letteratura 1997; Jack Steinberger, premio Nobel per la fisica 1988; Leonardo Boff, teologo della liberazione; Tavola Valdese, Unione delle chiese valdesi e metodiste in Italia; Inge Schoental Feltrinelli, editrice; Gino Strada, fondatore di Emergency; Ermanno Olmi, regista; Riccardo Muti, direttore d'orchestra; Pietro Ingrao, scrittore; Carlo Ossola, docente al College de France; padre Alex Zanotelli, missionario comboniano; Rabbi Michael Lerner, direttore della rivista "Tikkun"; Sari Hanafi, direttore del Palestinian Diaspora and Refugee Centre; Peretz Kidron, giornalista e scrittore; Yesh Gvul, movimento dei soldati israeliani contro l'occupazione; Sylvie Coyaud, giornalista; Farid Adly, giornalista; Hebe de Bonafini, presidente delle Madri di Plaza de Mayo; Teresa Sarti, presidente di Emergency; don Luigi Ciotti, presidente di Libera; Carlyle Vilarinho, capo di gabinetto del governo brasiliano; Jose' Graziano da Silva, ministro fome zero del governo brasiliano; Amos Oz, scrittore; Andrea Camilleri, scrittore; Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta; Tiziano Terzani, scrittore; Giulietto Chiesa, giornalista; Vauro Senesi, giornalista; Franca Rame, attrice; Lella Costa, attrice; Moni Ovadia, attore. 2. DOCUMENTAZIONE. RETE LILLIPUT: UNA LETTERA APERTA SULLA QUESTIONE IRACHENA [Dall'ufficio stampa della Rete Lilliput (per contatti: ufficiostampa at retelilliput.org) riceviamo e diffondiamo. La Rete Lilliput e' una rete di esperienze di volontariato, di solidarieta', per la pace, per un'economia di giustizia e la globalizzazione dei diritti. Rileviamo con dispiacere che si tratta di un documento purtroppo confuso e contraddittorio (in taluni punti fino allo stridore), mosso da un impulso giusto e condivisibile, ma assai inadeguato sia nell'analisi che nelle proposte] Cari amici, gravemente preoccupati dall'accelerazione che ha subito il confronto fra le forze della pace e quelle della guerra, soprattutto nel nostro paese, ci rivolgiamo a tutti voi, per sottoporvi le considerazioni e la proposta che seguono. * 1. L'andamento del conflitto in Iraq (e anche la situazione in Afghanistan) stanno confermando le piu' fosche previsioni. Soprattutto si stanno prefigurando delle situazioni in cui la gestione da parte di poche potenze sara' esposta con ogni probabilita' a perdite ulteriori, nonche' protagonista e vittima di violenze crescenti: ogni giorno che passa senza che vi sia un mutamento di rotta sostanziale la crisi diventera' sempre piu' difficile da risolvere con modalita' politicamente accettabili. Vediamo anche governi e partiti invischiati nelle prevedibili e previste conseguenze delle loro decisioni di guerra, a partire dalla crescita del terrorismo. Esso ha ampliato le sue capacita' operative, gode di aree di sostegno popolare, opera ormai su uno scacchiere internazionale ed e' in grado di infliggere perdite difficili da prevedere e da evitare. La lotta contro un nemico del genere puo' facilmente vedere giustificata anche in ampi strati popolari e nell'immaginazione comune il ricorso a misure estreme, a ritorsioni, massacri, soppressioni di diritti umani. Occorre, oggi piu' che mai, interrompere questa spirale con mezzi che escludano il ricorso alla violenza degli Stati. * 2. La situazione, sotto la minaccia di questo terrorismo internazionale, e nel clima da esso alimentato, si e' negli ultimi giorni talmente deteriorata che risulta addirittura inutile insistere per un ritiro immediato delle forze armate dell'Italia e degli altri paesi in Afghanistan e in Iraq, perche' la richiesta stessa alimenta risposte improntate a valori nazionalistici e al peggior patriottismo. In queste ore tristi, infatti, segnate dalla morte di tanti giovani, vediamo riemergere e montare disvalori e isterie che speravamo scomparsi da quasi un secolo. Un impegno diffuso per interrompere questi arretramenti culturali e' ormai urgente e dovrebbe anche indurre a superare le divergenze marginali e a sospendere le contrapposizioni spesso solo verbali tra organismi che condividono alcune ispirazioni di fondo. Le diversita' di punti di vista si riveleranno invece feconde di intuizioni e di nuovi modelli non appena saremo in condizione di avviare una costruzione della pace che non sia per l'ennesima volta solo un intervallo tra due guerre. * 3. I valori e le posizioni piu' largamente condivisi sono ormai evidenti: - Condanna e rifiuto del terrorismo, e determinazione a isolarne gli attori, a prevenirne le cause, a svuotarne i moventi; - Illegittimita' e rifiuto della guerra, considerata ormai uno strumento sorpassato per risolvere difficolta' nei rapporti tra Stati; - Illegittimita' e rifiuto delle guerre "preventive", "umanitarie", "inevitabili per lottare contro il terrorismo"; - Illegittimita' e rifiuto della guerra contro l'Iraq, sia nella fase iniziale che in quella attuale; - Cambiamento nei modelli e nelle logiche degli interventi internazionali volti ad eliminare le cause dei conflitti e maggiore diffusione delle metodologie nonviolente di risoluzione dei conflitti. * 4. Le organizzazioni che presentano questa iniziativa sono decise a esercitare ogni possibile pressione per perseguire i seguenti obiettivi: - affinche' l'Onu intervenga immediatamente in Iraq, con l'invio di un contingente multinazionale, con funzioni di polizia internazionale, di peacekeeping e di peacebuilding, con compiti ben definiti nei tempi e nei modi, formato e guidato da paesi non attualmente belligeranti e che rappresentino i diversi gruppi di paesi che sono presenti nell'Onu. Il contingente dovra' comprendere sia forze armate, sia forze non armate in misura consistente e in collaborazione non subordinata alle prime; - per un contemporaneo ritiro delle truppe, anche italiane, che attualmente agiscono da forze di guerra e di occupazione e non godono del consenso internazionale di paesi e di popoli che e' condizione necessaria per esercitare una funzione realmente di pace e di prevenzione e svuotamento - non solo repressione - del terrorismo; - per l'invio di una equipe di mediazione, scelta in sede Onu, formata da esponenti di paesi non belligeranti, capace di avviare un reale processo di ascolto, negoziazione e mediazione diretto ad iniziare e ad accelerare la transizione dell'Iraq verso un processo di autodeterminazione politico-economica, basato sulle scelte delle popolazioni locali; - per l'invio in forme organizzate di volontari, coordinati con le ong che gia' operano in Iraq, che realizzino, autonomamente anche se in collaborazione con il contingente Onu, gli interventi di aiuto, sostegno umanitario, ricostruzione materiale e sociale. * 5. Le organizzazioni ribadiscono il loro impegno a proseguire insieme: - In azioni di mobilitazione caratterizzate dall'attenzione, dal rispetto, dal dialogo nei confronti delle opinioni diverse, dalla nonmenzogna, dalla coerenza tra i fini indicati ed i mezzi impiegati, dimostrando (a questo servono le dimostrazioni) che la pace puo' solo con mezzi pacifici essere conseguita. E' per questo che proponiamo di attivare assieme azioni dirette nonviolente, dal basso, come iniziative di protesta/proposta, noncollaborazione attiva-boicottaggi, disobbedienza civile; - Verso una economia di giustizia che preveda drastici mutamenti dei peggiori meccanismi economici e sociali, in quanto l'economia di giustizia rappresenta l'unica vera via di uscita dalla violenza strutturale sulle popolazioni, reale causa non remota delle guerre e dei terrorismi; - Verso il disarmo internazionale, il superamento del commercio e della produzione di armamenti, la riconversione dell'industria bellica; - Verso un profondo rispetto della natura, attribuendo priorita' all'ambiente rispetto ad uno "sviluppo" basato solo sulla crescita illimitata, e un progressivo rifiuto del modello neoliberista. * 6. Gli organismi cui questa lettera si rivolge nella sola Italia sono centinaia e tutti conosciamo le reali dimensioni del movimento internazionale contro la guerra, non da oggi presente anche negli Usa, in Israele e in altri paesi tormentati da conflitti. Riteniamo sia necessario un salto di qualita' nella nostra opposizione, che senza voler far scomparire differenze e distinzioni, permetta una mobilitazione che non possa essere facilmente cancellata da contromisure informative o da ragionamenti capziosi. Una mobilitazione che duri finche' gli attuali focolai di guerra non siano messi al margine delle politiche internazionali e si avvii la elaborazione di misure alternative, dirette alla costruzione di una pace non formale. Vi ringraziamo per l'attenzione che vorrete dedicare a queste nostre considerazioni e proposte, e aspettiamo al piu' presto una vostra risposta, che ci auguriamo positiva, e la vostra disponibilita' per un incontro di tutte le forze per la pace e contro la guerra per definire e verificare assieme un nuovo percorso di pace. Il gruppo di lavoro tematico "Nonviolenza e conflitti" della Rete Lilliput 3. DOCUMENTAZIONE. TAVOLA DELLA PACE: L'ITALIA PER L'IRAQ. RIPARTIAMO DALL'ONU [Riceviamo e diffondiamo questo documento della Tavola della pace (per contatti: www.tavoladellapace.it), il principale network pacifista italiano. Non possiamo non rilevare alcune profonde ambiguita', reticenze e contraddizioni di questo testo (tre esempi per tutti: sorvolare sul fatto che l'Onu e' responsabile del piu' che decennale embargo genocida; la cancellazione completa della nonviolenza che non compare mai in questo testo neppure come riferimento ideale; una visione grottescamente caricaturale e profondamente offensiva della popolazione irachena da cui discende una formulazione del quid agendum dai tratti neocolonialisti), cosicche' questo documento, pur apprezzabile nelle intenzioni, tanto nell'analisi quanto nelle proposte resta assai inadeguato, e incondivisibile su alcuni punti sostanziali] La Tavola della pace rilancia un forte appello all'impegno per la pace in Iraq proponendo il documento "L'Italia per l'Iraq: ripartiamo dall'Onu" che propone l'impegno dell'Italia a sostenere il rapido rientro dell'Onu in Iraq e a mettere fine all'occupazione anglo-americana. L'invito e' a sostenere la proposta in occasione del 10 dicembre 2003, LV anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani: "Mai piu' violenza, mai piu' guerra, mai piu' terrorismo". * L'Italia per l'Iraq E' tempo di cambiare strada. Chi vuole la pace non propone il disimpegno ma un diverso e migliore impegno. Non piu' a sostegno delle potenze occupanti ma a sostegno dell'Onu. Lo aveva detto padre Ernesto Balducci nel 1991 e lo abbiamo ripetuto noi in ogni occasione: "La guerra non ha piu' senso per il semplice fatto che non si vince piu'. Per il semplice fatto che anche una guerra vinta non chiude il conflitto che voleva chiudere: lo riapre in forme piu' nuove e terribili". Oggi questa drammatica verita' e' sotto gli occhi di tutti. La guerra non e' servita a sconfiggere ma ad infiammare il terrorismo che continua a spargere sangue e terrore senza limiti ne' confini. Non e' servita a rendere il mondo piu' sicuro perche' ha indebolito l'Onu e la comunita' internazionale, violato il diritto e la legalita' internazionale, diviso i paesi e i popoli impegnati nella lotta al terrorismo, alimentato i bacini di odio e la proliferazione delle armi. Non e' servita a portare la liberta' e la democrazia in Afghanistan e in Iraq, ne' a mettere fine alle sofferenze di quei popoli. La guerra non ha piu' alcun senso. Bisogna cambiare strada. Perche' alcuni si ostinanano a non riconoscere questa verita'? * Ricominciamo dall'Onu Ce lo impone la ragione. Lo suggerisce il buon senso. All'indomani della tragedia di Nassiriya, la Tavola della pace rilancia un forte appello all'impegno per la pace in Iraq e in Medio Oriente. Il dolore profondo che oggi ci unisce alle famiglie di queste nuove vittime italiane ed irachene deve dare impulso ad un rinnovato impegno comune per impedire che la violenza, la guerra e il terrorismo possano continuare a prevalere sulla domanda di pace, liberta', dignita' e giustizia. Nostro dovere e' domandarci cosa possono fare l'Italia e l'Europa per il popolo iracheno. Un popolo che, tra gravissime complicita' e silenzi della comunita' internazionale, ha subito l'oppressione di Saddam Hussein, la guerra contro l'Iran, la guerra del 1991, le sanzioni economiche, l'invasione angloamericana del 2003 e le sue conseguenze. La guerra che ha abbattuto il regime di Saddam non ha risolto i problemi degli iracheni ne' ha ridotto le loro sofferenze. Il cancro che i signori della guerra dicono di aver voluto estirpare si sta invece riproducendo rapidamente in forme altrettanto violente e inaccettabili. La cronaca di tutti i giorni testimonia come la prosecuzione dell'occupazione militare angloamericana alimenti una spirale sanguinosa di attentati terroristici, violenze e misure repressive che condannano la societa' irachena a vivere ancora nel dolore, nell'insicurezza e nel caos. Cosi' non puo' continuare. Solo l'Onu e un'Europa unita possono aiutare il popolo iracheno ad uscire da questo vortice di lutti e sofferenze ricostruendo il proprio paese in un quadro pacifico e democratico. E l'Italia, anche in qualita' di presidente di turno dell'Unione Europea, ha il dovere di impegnare ogni sua energia in questa direzione. L'obiettivo non puo' essere solo la fine dell'occupazione e il trasferimento dell'autorita' alle forze irachene. L'Onu e l'Europa sono indispensabili per promuovere un autogoverno democratico, rispettoso dei diritti umani. Il futuro dell'Iraq non puo' essere affidato ne' ad un governo imposto dagli Stati Uniti, disconnesso dalla societa' irachena, teso a tutelare gli interessi americani nell'area, ne' ad un insieme di gruppi religiosi, etnici o tribali impegnati ad estendere il proprio potere senza rispetto per i diritti umani. Entrambe le ipotesi di ricostruzione politica, coltivate dai neoconservatori americani e dai piu' pragmatici inglesi, sono destinate ad alimentare altre frustrazioni, altro malcontento, altra violenza e altro terrorismo. Il rischio e' che il popolo iracheno non passi dalla dittatura alla democrazia ma da una dittatura ad un sistema altrettanto violento, ingiusto e antidemocratico. La democrazia non potra' mai essere imposta dall'alto secondo un modello importato dalle potenze occupanti o affidata ai diversi gruppi che oggi prevalgono nel paese. La costruzione della democrazia esige tempo e pazienza che mal si conciliano con l'escalation della violenza e con le esigenze elettorali dell'amministrazione americana. Per questo abbiamo bisogno che l'Onu - quale autorita' sovranazionale imparziale - sia presente in Iraq: per sostenere un processo di transizione alla democrazia che affondi le radici tra la popolazione e si nutra della promozione dei diritti umani. * L'Italia deve dunque investire subito sull'Onu e fare ogni sforzo per favorire il suo rapido rientro in Iraq. Invece di prolungare la missione dei nostri tremila soldati a Nassiriya a fianco delle truppe d'occupazione, l'Italia deve destinare tutte le proprie risorse umane e finanziarie per rafforzare il ruolo vitale dell'Onu. Invece di restare in Iraq agli ordini del comando anglo-americano, l'Italia deve mettersi a disposizione e agire di concerto con il segretario generale dell'Onu. Invece di sprecare altri soldi in una missione militare dai contorni confusi e discutibili, l'Italia deve investire nel ridare credibilita' all'unica autorita' sopranazionale che puo' rispondere ai bisogni vitali di una popolazione stremata da decenni di guerre e dittature e che puo' aiutare gli iracheni a recuperare capacita' di autodeterminazione e autogoverno democratico. Invece di agire ancora una volta da sola, l'Italia deve lavorare perche' questa diventi la posizione e l'iniziativa comune dell'Europa: un'Europa che s'impegna a ricostruire l'Iraq e la pace in Medio Oriente ma anche il diritt o e la legalita' internazionale violate. Questa e' la svolta che noi chiediamo al parlamento e al governo italiano. Continuare come se niente fosse accaduto sarebbe un grave errore. * L'Italia e l'Europa unita devono porsi l'obiettivo di sostenere l'azione delle Nazioni Unite a partire da quelle missioni che la stessa Risoluzione 1511 elenca: assicurare la necessaria assistenza umanitaria alla popolazione, promuovere la ricostruzione economica, favorire una rapida transizione politica in modo che il popolo iracheno possa determinare liberamente il proprio futuro politico e controllare le proprie risorse naturali, favorire il dialogo nazionale e la costruzione del consenso che dovra' portare alla stesura della nuova costituzione e alla convocazione di elezioni democratiche, accelerare gli sforzi per costruire istituzioni locali e nazionali democratiche e rappresentative, promuovere la protezione dei diritti umani in tutto il paese, favorire lo sviluppo di media indipendenti, sostenere lo sviluppo della societa' civile irachena e delle sue organizzazioni indipendenti, etc. La decisione di investire sull'Onu dovra' essere accompagnata da una importante azione diplomatica di concertazione con tutti i paesi della regione e le organizzazioni regionali, come la Lega Araba e l'Organizzazione della Conferenza Islamica. Per aiutare le Nazioni Unite a raggiungere questi obiettivi l'Italia e l'Unione Europea devono inoltre impegnarsi per aprire le porte dell'Iraq a tutte quelle organizzazioni internazionali della societa' civile che hanno dimostrato di saper intervenire con efficacia anche laddove i governi non osano avventurarsi e alle quali ancora oggi viene sostanzialmente impedito di agire. Queste organizzazioni sono una risorsa insostituibile della comunita' internazionale: meritano di essere sostenute, incoraggiate e valorizzate a partire dal nostro paese. * All'indomani della strage di Nassiriya e dei numerosi attentati terroristici che stanno angosciando il mondo, rinnoviamo il nostro appello di pace convinti che sia necessario operare piu' attivamente e con maggiore determinazione nel cantiere della pace positiva. In un mondo sempre piu' globalizzato, al positivo e al negativo, la via obbligata della pace e' quella della cooperazione, del multilateralismo, della legalita' internazionale, della centralita' delle Nazioni Unite. La lotta al terrorismo non puo', non deve conoscere tregue. Perche' sia vincente, essa deve essere condotta sulla strada maestra della sicurezza collettiva, dell'economia di giustizia e di "tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani", una via che passa attraverso le legittime Istituzioni internazionali. L'unilateralismo, oltre che illegale, non paga neppure alla luce del calcolo costi/benefici. I governi, non altri, hanno la responsabilita' e tutto il potere che e' necessario per far funzionare efficacemente le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali. La societa' civile globale preme da lungo tempo in questa direzione. * Nel 1989 abbiamo tutti sognato un mondo di pace. All'inizio degli anni novanta, l'allora segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros-Boutros Ghali, disse chiaro e tondo agli Stati che non avevano piu' alibi da addurre per non far funzionare le Nazioni Unite, e presento' loro il Rapporto conosciuto come "Un'agenda per la pace". La risposta fu una sequela di guerre, a cominciare da quella del 1991, la prima guerra del Golfo. E il terzo millennio si e' inaugurato con altre guerre: tutte inaccettabili. E' tempo di dire basta. Tutti insieme. In tempi di dolore, di ambiguita' e di insicurezza come quelli che stiamo angosciosamente vivendo, rinnoviamo il nostro impegno di pace invitando tutte le donne e gli uomini di buona volonta' a gridare insieme, il prossimo 10 dicembre 2003, LV anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani: 'Mai piu' violenza, mai piu' guerra, mai piu' terrorismo". 4. EDITORIALE. DARIA DIBITONTO: LA DOMANDA ULTERIORE. FILOSOFIA E NONVIOLENZA [Ringraziamo Daria Dibitonto (per contatti: dariadibitonto at libero.it) per questo intervento. Daria Dibitonto, dottoranda in filosofia con una tesi sul desiderio nel pensiero di Ernst Bloch, si e' laureata nel 2001 in filosofia con una tesi sul fondamento della speranza reale nel pensiero di Juergen Moltmann. E' tra i soci fondatori di "Incontri e percorsi - associazione multietnica vercellese"; ha compiuto soggiorni di studio e ricerca in Germania, a Kiel, Berlino e Tuebingen; collabora con la redazione della rivista "Filosofia e teologia"] Mai come nel Novecento la filosofia e' stata sottoposta a critica cosi' assidua e radicale dai suoi stessi rappresentanti, i filosofi, che nel secolo passato sono stati autori e attori della sua profonda crisi d'identita'. La filosofia e' stata smascherata, quindi denudata di tutti i veli con i quali nei secoli si era ricoperta e, anche, adornata: verita', Dio, essere, ma anche linguaggio e storia vengono scoperti, gia' a partire dal secondo Ottocento, nelle loro funzioni mistificanti e ideologiche, e le tragedie storiche che nel Novecento si compiono conferiscono ulteriore drammaticita' a questa scoperta. Cio' che viene svelato e' la profonda ambiguita' di quei concetti: quando la verita' pretende di essere senso ultimo e definitivo della storia e dell'uomo si presta ad essere strumentalizzata a fini di predominio politico, economico o anche intellettuale fino a perdere se stessa, cosicche' essa, da apertura al senso del mondo e dell'uomo, passa ad essere strumento di annientamento della liberta' e della vita. Gli esempi sempre citati sono le ideologie fasciste e comuniste, e la scia di vittime da queste causate. Cosi', se Nietzsche, scrivendo, nel 1888, il Crepuscolo degli idoli, puo' ancora ergersi altezzosamente a giudice di un "Platone rosso di vergogna" per eliminare con dileggio dalla filosofia la sua idea di "mondo vero", e con essa l'invalsa distinzione tra verita' e apparenza, Adorno nel dopoguerra non puo' piu' fare altro che appello al silenzio e all'autocritica, dichiarando da un lato l'impossibilita' di fare poesia dopo Auschwitz, dall'altro elaborando una filosofia che sia esercizio di critica costante e sistematica al carattere strumentale della ragione di cui si serve (Dialettica dell'illuminismo, 1947, e Dialettica negativa, 1966). Cio' significa che se prima delle due guerre mondiali puo' ancora farsi strada, in filosofia, la speranza di riuscire a comprendere il mondo piu' a fondo e meglio di quanto sia stato fatto in passato, nel dopoguerra lo smarrimento e l'orrore diffusi annichiliscono questa speranza e costringono i filosofi a reimpostare i termini della questione. * Si puo' quindi esprimere cosi', a mio parere, una delle grandi domande lasciateci in eredita' dalla filosofia, se non anche dalla storia, del Novecento: e' la filosofia una cattiva maestra? Ricapitoliamo l'accusa in una tesi (non e' infatti questo il luogo per ripercorrere il pensiero dei singoli filosofi del Novecento): alla filosofia si rimprovera da piu' parti di rendere eterno e presente (anche nel senso di "disponibile, a portata di mano", come in Heidegger) cio' che eterno e presente non e', cioe' il mondo e, con esso, il suo significato. Questo processo avverrebbe tramite l'uso di quelle categorie razionali attraverso le quali il mondo viene filosoficamente conosciuto: il pensiero formula giudizi che aspirano a essere veri universalmente e costituisce criteri di verita' che garantiscano questa conoscenza universale come vera. Il problema e' che una verita' di questo tipo, non piu' presunta, bensi' fondata razionalmente, rischia, innanzitutto, di farsi presuntuosa e volersi imporre con diritto sulle altre, diventando, infine, strumento di potere, e inoltre, alla fine, di non essere piu' cosi' vera, perche' cio' che col nostro giudizio abbiamo fissato in una verita' definitiva puo' essere nel frattempo cambiato, e dunque non essere piu' come avevamo ritenuto che fosse: quel che e' ritenuto vero diventa, infine, falso, perche' pretende, appunto, di rendere eterno e invariabile cio' che eterno e invariabile non e', ovvero il mondo conosciuto. * Questa critica variamente svolta alla filosofia nella molteplicita' di linguaggi che le appartengono, le permette pero' di farsi consapevole di un conflitto interno che e' suo proprio e che costituisce la sua peculiarita' e il suo fascino. La filosofia, infatti, amore per il sapere, ricerca della conoscenza, si nutre della stessa tensione che alimenta l'amore: l'aspirazione all'unione di cio' che e' diviso, all'unita' di cio' che e' molteplice, all'eternita' di cio' che e' temporale. Quest'aspirazione, che sorge dalla fedelta' a cio' che ha una fine, eppur si vorrebbe esistesse ancora e sempre, infinitamente, si espone pero' al rischio del tradimento, volendo trasformare cio' che ama (il finito, il mondo) in cio' che non e' (infinito ed eterno). La fedelta' estrema si rovescia nel suo contrario, e l'amore, che aspira all'unione assoluta, porta a tradire sia l'amato, che l'amore vorrebbe trasformare da molteplice in uno, sia l'amore stesso, poiche' l'unione assoluta, una volta raggiunta, impedirebbe di continuare ad amare. Questo e' il conflitto in cui la filosofia si trova a combattere, e che vede sempre in gioco sia la sua essenza, sia il suo oggetto, sia l'amore sia la conoscenza: la filosofia, infatti, cerca quella conoscenza che, una volta raggiunta, la porterebbe all'annullamento di se', negandole la possibilita' di cercare ancora, e ricerca la conoscenza come quel che di stabile ed eterno si lascia leggere attraverso il divenire del reale, che viene quindi sempre esposto al rischio di essere conosciuto solo a prezzo di essere tradito. Il rischio di tradimento insito nella conoscenza e' cio' che la filosofia incarna, nella sua essenza come nella sua storia. Se Platone combatte strenuamente contro i sofisti per evitare che la ragione con i suoi strumenti venga asservita alla politica dimenticando il suo scopo, cioe' la conoscenza fine a se stessa, l'indagine su cosa significhi "conoscenza" dovra' compiere numerosi percorsi attraverso i secoli e attraverso il dialogo tra i singoli filosofi per portare l'uomo a capire, infine, che nemmeno una conoscenza razionalmente "pura", nemmeno una verita' illuministicamente umana, sottoposta al vaglio della ragione, puo' tutelare l'uomo dal male e dall'errore. Detto altrimenti, una teoria razionalmente pura non puo' rimanere vera se non accetta di mettersi in discussione nella prassi, ma una prassi che pretenda di farsi teoria senza mettersi in discussione non puo' che essere prevaricatrice. * E' questo un discorso che tocca tutte le sfere della nostra vita umana, profondamente concreto. Ed e' qui, in questo nucleo piu' ambiguo, piu' fragile e quindi forse piu' vero, o almeno piu' umano, che la filosofia incontra la questione della pace, e la relativa riflessione sulla nonviolenza: qui incontriamo la parola "mediazione". Se la verita' creduta tale e' sempre esposta al rischio di farsi arrogante e astratta (qualita' che sono tra loro reciprocamente legate: una teoria che si fa arrogante e' una teoria che perde contatto col reale, diventando astratta, e viceversa, una teoria che resta astratta, perdendo contatto col reale potra' a maggior ragione pretendere di essere l'unica vera), una via prettamente filosofica per tutelarci da questo rischio e' proprio mediare, cioe' mettere sempre di nuovo in gioco, a confronto con la realta', la verita' acquisita. Cio' significa, allora, che la verita' stessa e' sempre in cammino, aperta alle sorprese, ai cambiamenti, alle novita', ma anche carica di ricordi e speranze. Attenta alle persone e alle cose che incontra lungo il cammino, attenta a capire i motivi di cio' che esiste e a definire ogni volta se stessa in relazione a cio' che la circonda. Solo questa sembra poter essere una verita' a misura d'uomo. Solo questa sembra poter essere una verita' testimone di pace, capace di accogliere e ampliare la riflessione sulla nonviolenza. Perche' la filosofia, vi si assiste nello scorrere della sua storia attraverso i secoli, e' sempre esposta a una domanda ulteriore - in questo, e' sempre maestra. Nell'insegnare a porre questa domanda ulteriore, nel tenere lo spazio aperto per accogliere sempre nuove domande, nel dialogare insieme alla ricerca di una risposta comune, in questo filosofia e nonviolenza saranno sempre alleate. Ricordando, pero', che insegnare e' anche, di nuovo, sempre imparare. Nello spazio sempre aperto a una domanda ulteriore risiede la nostra profonda umanita'. 5. EDITORIALE. MAO VALPIANA: I BAMBINI CI GUARDANO MA NOI NON LI VEDIAMO [Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: azionenonviolenta at sis.it) per averci messo a disposizione il suo editoriale che apre il numero di dicembre 2003 di "Azione nonviolenta" (la rivista del Movimento Nonviolento, fondata da Aldo Capitini nel 1964; per informazioni e contatti: "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org, abbonamento annuo: 25 euro sul ccp n. 10250363; e' possibile avere una copia omaggio inviando una mail di richiesta a azionenonviolenta at sis.it). Mao (Massimo) Valpiana e' una delle figure piu' belle della nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive ed opera come assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di intervento nel sociale"), e' membro del comitato di coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; un suo profilo autobiografico, scritto con grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4 dicembre 2002 di questo notiziario] Difficile scegliere l'argomento per questo editoriale. C'era solo l'imbarazzo della scelta: la strage di Nassiriya e le sue conseguenze in Iraq e in Italia, le bombe antisemite in Turchia, la minaccia terrorista, la guerra infinita, l'aumento delle spese militari, le sparate del presidente del consiglio sulla Cecenia, le scorie radioattive in Basilicata, e chi piu' ne ha, piu' ne metta. Mentre facevo mentalmente questo elenco dell'orrore, ho pensato "ma cosa puo' pensare di questo mondo un bambino che vede la televisione o sfoglia un giornale?" e mi e' venuto alla mente quel terribile passo del Vangelo: "guai a chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare". Quanto macine ci vorrebbero per riscattare tutti i bambini del mondo che sono scandalizzati, violentati, torturati, sfruttati, abbandonati, ammazzati? I dati che l'Unicef ha fornito per la giornata dell'infanzia, ci inchiodano alle nostre responsabilita'. Ancor oggi nel mondo il 40% dei nati non viene registrato: non un nome, non una nazionalita' per bambini che nella maggioranza dei casi muoiono subito per malattie che potrebbero essere facilmente prevenute (in certe zone dell'Africa subsahariana questa cifra raggiunge il 71%). Malattie prevenibili e curabili come la pertosse ed il tetano o la difterite uccidono ancora nella Federazione Russa, in Brasile, in Vietnam e in Nigeria. Quando non uccide, la poverta' compromette lo sviluppo fisico e mentale dei bambini: ad oggi sono 150 milioni i fanciulli sottopeso nei paesi del terzo mondo. A causa dell'Aids entro il 2010 il 20% dei bambini sotto il 15 anni sara' orfano in Swaziland, Lesoto, Zimbabwe, Botswana. In Africa un bambino orfano o, peggio ancora, venduto dalla famiglia, puo' essere arruolato con forza nei corpi militari per diventare soldato; nell'Asia meridionale molti di loro diventano schiavi sessuali e non ne conosciamo il numero poiche' si tratta di paesi dove la registrazione anagrafica non avviene con regolarita'. Nel mondo un fanciullo su otto, in eta' compresa tra i 5 e i 17 anni, e' sfruttato, coinvolto nelle peggiori forme di lavoro minorile o nel business della tratta dei minori, un affare colossale da un miliardo di dollari l'anno che trascina in schiavitu' le bambine africane e del sud-est asiatico, a cui si aggiungono ora quelle clandestine provenienti da Moldavia e Ucraina. In Africa il 53% delle femmine non va a scuola. Sono piu' di 100 milioni gli adolescenti nel mondo che non hanno fissa dimora e vivono per strada, abbandonati a se stessi. Nei paesi che hanno subito una guerra, come in Cambogia o in Afghanistan, le mine a forma di giocattolo hanno mutilato intere generazioni di fanciulli. Questa imbarazzante lista potrebbe andare avanti per molto. Erode al confronto era un principiante. Sono milioni e milioni i bambini che non hanno volto, che non fanno notizia, che non contano niente, che non meritano nemmeno uno straccio di funerale. Bambini che nessuno vede, ma in base ai quali Dio giudichera' l'umanita', che sara' condannata "per aver commesso il fatto". Se poi verra' perdonata, non sara' certo per meriti che non ha, ma per la volonta' di qualcun altro. Fra pochi giorni sara' il 25 dicembre, giorno del ricordo della nascita in Palestina di un bambino ebreo, povero, senza casa, clandestino. Assisteremo anche quest'anno all'orgia dei buoni sentimenti. Accomodiamoci pure al banchetto sacrilego del consumismo, ma almeno non strumentalizziamo l'infanzia. Lasciamo quel bambino nella sua solitudine fino a che morira' in croce. Poi le Nazioni Unite si riempiranno la bocca: "l'infanzia ha diritto a misure speciali di protezione ed assistenza". Buon Natale. 6. EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: UN APPROCCIO COLONIALISTA [Giobbe Santabarbara e' ruvido e dispiacevole un collaboratore di questo foglio] Circolano vari documenti elaborati in aree del movimento per la pace che nell'approccio alla situazione irachena riproducono, senza rendersene conto, un approccio colonialista, basato sul disprezzo per la popolazione irachena, anzi sul non ritenerla neppure un soggetto attivo della propria stessa vita. E quindi si formulano proposte, talora confusamente arzigogolate oltreche' stucchevolmente ripetitive ed internamente contradittorie fino al grottesco, che del tutto prescindono dal fatto che in Iraq, piaccia o dispiaccia, gli iracheni ci sono, con una storia e una cultura (anzi, molte storie e molte culture) fin antichissime e straordinariamente complesse, e ogni intervento internazionale che non voglia essere assassino, rapinatore, imperialista, dovra' basarsi sul riconoscimento della loro esistenza come esseri umani e come popolo. Finche' invece si continuera' a ragionare secondo schemi da strateghi in sedicesimo o ingegneri sociali da bar dello sport, e finche' si continuera' a considerare la popolazione irachena non come portatrice di cultura e titolare di diritti bensi' alla stregua di mandria da governare, non si sara' movimento per la pace, ma solo razzisti di complemento. 7. INCONTRI. ELIZABETH MEHREN: COSTRUTTRICI DI PACE SI INCONTRANO [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione questa sua traduzione di un articolo del 20 novembre 2003 di Elizabeth Mehren. Elizabeth Mehren e' caporedattrice del "Los Angeles Times" e corrispondente per "Women's e-News"] "La logica suggerirebbe, ha detto l'ex ambasciatrice statunitense Swanee Hunt, che una donna che ha perso un figlio o una figlia in una guerra basata sull'odio etnico divenga amara e rabbiosa. Ci si aspetta che questa madre si dedichi alla vendetta, e ad alimentare i fuochi dell'odio. Invece scopriamo che queste donne dicono: 'Cio' che e' accaduto a me non deve piu' accadere a nessun'altra, perche' io so quanto e' terribile, e cosa si prova'. Percio', per favore, non compatite queste donne. Queste donne sono giganti. Sono donne dall'enorme coraggio, e dal grandissimo impegno". Sawsan Al-Barak, per esempio, viene da una citta' fra le colline irachene chiamata Hilla. Durante il regime di Saddam Hussein, piu' di 20.000 persone sul mezzo milione di residenti della sua citta' sono state imprigionate e ne hanno riportato cicatrici fisiche e psicologiche. Lo scorso giugno Al-Barak, che lavora come ingegnera al Ministero dell'Industria del suo paese, ha fondato il "Centro per le donne Fatima Al-Zahara", dove le donne possono avere consigli legali, aiuto contro la violenza domestica, e frequentare corsi di formazione. Visaka Dharmadasa dello Sri Lanka e' la fondatrice e la presidente dell'associazione genitori dei dispersi in guerra e dell'associazione di donne che si oppongono alla guerra. Lavorando per porre fine alla guerra civile che ha insanguinato il suo paese per vent'anni, Dharmadasa insegna i diritti umani ai soldati, ai giovani, ai leader delle comunita' e promuove lo sviluppo sociale ed economico delle donne attraversando le linee del conflitto. * Queste donne, e dozzine di altre come loro, formano il cuore di "Women Waging Peace", un'organizzazione internazionale che negli Usa ha sedi a Cambridge e Washington. L'organizzazione fu fondata quattro anni fa proprio dall'ex ambasciatrice Hunt, allo scopo di sostenere il ruolo delle donne nella ricostruzione di luoghi e comunita' feriti dalle guerre. Citando il rapporto annuale di "Women Waging Peace", Hunt ha raccontato come nelle zone di guerra le donne lavorino per sostenere economicamente le loro famiglie e per migliorare le condizioni delle donne, mentre sono attive nella costruzione di pace. Le loro azioni vanno dall'offrire seminari sulla risoluzione nonviolenta del conflitto, all'ideazione e sviluppo di nuovi mezzi per la protezione dei diritti umani, al provvedere istruzione e formazione alle donne. Poiche' sono molto di frequente ritratte solo come vittime, esse ricevono scarso riconoscimento per il ruolo effettivo che giocano nel ristabilire e promuovere pace e sicurezza. E' una percezione che deve cambiare, dice Hunt, perche' "I politici e i diplomatici di solito ignorano le donne presenti e parlano solo agli uomini, dimenticando che sono le donne ad organizzarsi a livello di base, e a parlarsi l'un l'altra attraversando le linee del conflitto". * Nella sessione del mattino, il direttore dell'Istituto di Pace a Washington, George F. Ward jr., ex ambasciatore in Namibia, ha raccontato come ha visto le donne cambiare gli orizzonti del loro paese nel 1997, mentre il paese si stava riprendendo dopo una lunga guerra di guerriglia. Gli stupri e la degradazione delle donne erano fatti giornalieri, ha detto, e completamente ignorati sino a che lo stupro di una bimba di due anni non venne reso pubblico. L'atto fu la goccia che fece traboccare il vaso per la popolazione femminile della Namibia: "Le donne dissero: Ora basta. Diedero inizio ad un'intensa campagna contro la violenza sessuale, fino a che il presidente della Namibia dovette pubblicamente condannarla in un discorso televisivo e promuovere nuove leggi al proposito". Oltre a documentare il ruolo delle donne quali costruttrici di pace, "Women Waging Peace" preme perche' esse prendano posto ai tavoli della diplomazia, ed allo scopo le mette in contatto l'una con l'altra e con le donne che sono gia' in posizioni influenti. Il forum di cui parliamo, che ha riunito donne provenienti da piu' di quaranta zone di guerra, ha fatto questo. Membri di governi, direttore di ong, educatrici, donne d'affari e giornaliste hanno incontrato le donne che vivono o hanno vissuto inimmaginabili devastazioni: dal Sudan allo Sri Lanka, dalla Colombia alla Bosnia, dal Medio Oriente alla Sierra Leone. * Era presente anche Ala Talabani, co-fondatrice dell'Alto Consiglio delle donne irachene, che ha ribadito il ruolo centrale delle donne del suo paese nel saper conciliare le differenze etniche e culturali, ed ha chiesto per esse maggior riconoscimento nel processo di ricostruzione: "Oggi siamo piu' del 55% della popolazione irachena. Le donne vogliono svolgere il loro ruolo nella ricostruzione. La nostra e' una societa' molto varia: siamo curdi, turchi, musulmani, ed altro ancora. Ma noi donne irachene siamo unite. Lo abbiamo detto e ripetuto: noi saremo coloro che costruiranno la pace. Non permetteremo che le divisioni etniche distruggano un paese che neppure un dittatore e' riuscito, in decenni, a distruggere". Al forum le donne dell'Afghanistan, dell'Iran, dell'Iraq e di Israele si sono sedute accanto alle donne delle Fiji, del Guatemala, del Kosovo, della Liberia e del Congo. Hanno parlato delle tecniche per la costruzione della pace e della frustrazione nell'aver a che fare con corpi diplomatici dominati da uomini in divisa. Si sono anche scambiate le loro storie personali: quando una di esse toccava un punto familiare o condiviso, le altre intervenivano entusiasticamente. "Ecco il punto!", ha esclamato la sudafricana Kemi Ogunsanya, quando Noeleen Heyzer, responsabile del Fondo Onu per le donne, ha lodato le costruttrici di pace per aver osato "rompere la cultura della vergogna e del silenzio". * Nel suo intervento conclusivo, Hunt ha ricordato che le donne spesso mostrano scarsa deferenza per i confini politici, etnici o nazionali. Proprio per questo, ha detto, e per la loro abilita' nel risvegliare la comune umanita' in forze ostili, esse sono cruciali nei processi di pace: "Le donne si mettono di fronte agli uomini armati. Alzano le braccia quando si alzano i fucili e dicono: Fermi!. Le donne vanno in luoghi in cui gli uomini, al loro posto, verrebbero uccisi. E dicono: Si', sono serba, oppure croata, oppure palestinese o israeliana, questo fa parte della mia identita'. Ma sono anche una donna, e capisco le altre donne in questa situazione". 8. RIFLESSIONE. ELIO RINDONE: DELLE PAROLE LO SCEMPIO, E DELLE VITE [Ringraziamo Elio Rindone (per contatti: e.rindo at infinito.it) per questo intervento. Elio Rindone e' docente di storia e filosofia a Roma, fa parte dell'Associazione nazionale docenti, tiene sovente appassionanti seminari; e' autore di perspicui libri e saggi di argomento teologico e filosofico] Attenuatosi, col passare dei giorni, il clamore della retorica patriottarda esploso in seguito alla strage di Nassiriya, vale la pena di soffermarsi su alcune delle parole piu' usate in questa tristissima circostanza per evidenziare, dizionario alla mano, il vero e proprio capovolgimento della realta' operato da buona parte dell'informazione giornalistica e televisiva, ormai palesemente ridotta a semplice megafono del potere. E' appena il caso di ribadire la sincera, commossa e doverosa partecipazione di tutto il popolo italiano al dolore dei familiari dei militari e dei civili morti in Iraq, senza dimenticare la sofferenza di tutte le famiglie che portano il peso dei lutti provocati dalla guerra in corso. Non sono qui in discussione il rispetto e l'ammirazione per coloro che si sono recati in Iraq per contribuire alla ricostruzione di quel Paese e che hanno perso la vita, ma l'uso propagandistico che si e' fatto di questi morti. * Eroi sono stati definiti gli Italiani vittime dell'attentato. Eroe puo' essere a buon diritto considerato chi da' prova di straordinario coraggio e abnegazione. Queste virtu' non dipendono certo dall'essere dilaniati da una terribile carica di esplosivo ma dalla decisione di recarsi in Iraq nonostante i pericoli connessi alla missione. Ma allora perche' definire eroi solo i morti e non tutti i 2.700 militari che hanno accettato di partire affrontando gli stessi pericoli? Per dare prova di coraggio e abnegazione, inoltre, bisogna essere consapevoli dei rischi che si corrono. Ora, prescindendo dal giudizio sul grado di consapevolezza dei singoli, si puo' essere certi che i militari italiani erano stati adeguatamente informati sulla gravita' della situazione irachena? Se ne puo' dubitare, dal momento che era stata proclamata la fine della guerra, si era parlato per il contingente italiano di compiti umanitari e si era assicurato che la zona meridionale dell'Iraq era lontana dai pericoli di Baghdad. E, prescindendo sempre dalle motivazioni individuali, quanto ha pesato sulla decisione di tanti uomini di recarsi in Iraq, accanto a un senso di solidarieta' con una popolazione sofferente, il comprensibile desiderio di sfuggire alla poverta' o alla disoccupazione? E' noto che tra i carabinieri c'e' una concorrenza addirittura spietata per essere assegnati alle missioni estere, dato che con cio' che si guadagna in pochi mesi e' possibile superare le ristrettezze economiche proprie di chi vive con un misero stipendio. * Missione di pace quella italiana, e' stato ripetutamente affermato. Il compito affidato ai militari italiani sarebbe stato dunque quello di contribuire alla pacificazione di un Paese liberato, dopo una breve guerra, da una dittatura sanguinaria. Ma tutti sappiamo che l'invio dei soldati e' stato voluto da parlamentari che si sono affrettati a spedirli in Iraq non appena gli Stati Uniti hanno proclamato la fine di una guerra preventiva, scatenata assolutamente al di fuori della legalita' internazionale ed esplicitamente approvata dai governanti italiani. In Iraq, invece, finita non la guerra ma solo la prima fase di essa, quella delle bombe "intelligenti" che hanno devastato il territorio e ucciso migliaia di civili, e' iniziata la seconda, quella della guerriglia e degli attentati. Anche i nostri militari, quindi, al di la' delle intenzioni soggettive che in questa situazione evidentemente contano poco, non possono non apparire agli occhi degli Iracheni che come truppe d'occupazione, oggettivamente alleate degli aggressori americani esattamente come quelle inglesi o polacche. E' chiaro, allora, che un governo apertamente schierato non puo' affidare una missione di pace perche', essendo la guerra in corso, i suoi militari presenti sul terreno sono sentiti inevitabilmente come nemici. * Sacrificio e' stato infine chiamato quello dei caduti. Ma sacrificio e' la disponibilita' ad offrire la vita per un nobile scopo. Per quale fine si sarebbero sacrificati i militari italiani? Per portare la democrazia in Iraq? Per combattere il terrorismo? Per la difesa della Patria e delle liberta' dell'Occidente? Penso che ormai piu' nessuno creda alla favola che la democrazia si possa esportare con le bombe: questa era una bugia paragonabile solo a quella dell'esistenza in Iraq di armi di distruzione di massa. E che la pratica del terrorismo, che va combattuta nel quadro della legalita' internazionale, dalla guerra irachena non sia stata debellata ma moltiplicata in modo catastrofico e' sotto gli occhi di tutti. Caduta ogni finzione, e' ormai chiaro che lo scopo vero dell'aggressione all'Iraq era l'affermazione dell'egemonia planetaria degli Stati Uniti, decisi a difendere i loro interessi economici mediante il ricorso alla forza anche senza il consenso della comunita' internazionale. Non e' dunque corretto parlare di sacrificio per i nostri militari: il loro invio in Iraq non rispondeva all'interesse dell'Occidente ne', in particolare, dell'Italia ma semmai dei suoi governanti, desiderosi di accreditarsi presso l'amministrazione americana. Percio' bisogna concludere che essi sono rimasti vittime, assieme a tanti altri uomini di diversa nazionalita', non solo della follia della guerra ma anche della propaganda che l'ha resa possibile perche' capace di stravolgere il senso delle parole, chiamando lotta per la liberta' una politica di conquista, forze di liberazione quelle d'occupazione e difesa della Patria una guerra d'aggressione. * Ecco perche' parole che evocano nobili emozioni sono ora indispensabili per dare un senso al dolore e coprire le responsabilita' di chi lo ha provocato. Nulla di piu' adatto allo scopo della Patria, che diviene cosi' un idolo sul cui altare si offre il sacrificio degli eroi caduti in una missione di pace. E si capisce perche', per i responsabili di tante morti, nulla sia piu' temibile di chi vuol dare alle parole il loro senso, svelando l'inganno derivante dall'uso distorto di esse. Si spiega, quindi, la necessita' di togliere, in questa occasione piu' che mai, la parola a coloro che erano e sono contrari alla guerra e che, contestando la manipolazione mediatica, chiamano le cose col loro nome, dicendo che la costrizione e' il contrario della liberta', l'aggressione il contrario della difesa e la guerra il contrario della pace. Gia' il nazista Hermann Goering sapeva che "i popoli possono essere sempre ricondotti al volere dei capi... Basta convincerli che stanno per essere attaccati e accusare i pacifisti di antipatriottismo e di esporre il paese al pericolo. Funziona sempre cosi', ovunque". Ma forse qualcosa sta cambiando: quest'anno oltre cento milioni di uomini e donne sono scesi in piazza contro la guerra. E' un grande motivo di speranza e c'e' da augurarsi che proprio questi uomini e queste donne, che provano vera pieta' per i morti, possano far sentire con forza crescente la loro voce, ridando alle parole il loro senso e battendosi perche' altri uomini non perdano la vita per difendere gli interessi dei potenti. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it, angelaebeppe at libero.it, mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 745 del 30 novembre 2003
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