Newsletter N. 44 del 10 Novembre 2003



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  Ass.ne Cul.le Telematica MMMMMMMMMM
  "Metro Olografix"      oMMM"" """MMo
  Newsletter 44 10/11/03"MMM"      "MMM"

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 .: INFO E SOMMARIO :.
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In questo numero:
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:: IN PRIMO PIANO ::

L'intelletto senza logo
Copyright, brevetti e economia mondiale in un prossimo summit dell'Onu.
BENEDETTO VECCHI

Libera cultura in libera Internet
Si diffonde sempre di più l'accesso gratuito a pubblicazioni scientifiche,
archivi musicali, testi e dispense universitarie.
FRANCO CARLINI

:: TECNOLOGIA E INTERNET ::

Decretoni da laboratorio
Nasce per decreto, in perfetto stile governativo, l'Istituto italiano di
tecnologia.
LUCA TANCREDI BARONE

:: TEMI E APPROFONDIMENTI ::

Come fare per irretire la Casa bianca
MARCO D'ERAMO

:: DALLA RETE A(LLA) CARTA E RITORNO

Liberiamo le alternative
di Marco Trotta

:: NEWS DALL'ASSOCIAZIONE ::

Apertura sede ogni lunedì sera ore 21,00

:: CREDITS ::


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 .: IN PRIMO PIANO :.
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L'intelletto senza logo
Copyright, brevetti e economia mondiale in un prossimo summit dell'Onu.
Dalle telecomunicazioni all'informatica, dall'intrattenimento fino alla
mappatura del Dna, la legislazione sulla proprietà intellettuale è stato
lo strumento attraverso il quale gli stati-nazione hanno spesso cercato
di governare lo sviluppo economico. Ora con leggi draconiane, ora con
norme flessibili per favorire la diffusione dell'innovazione tecnologica
nell'attività produttiva. Per questo, si moltiplicano gli studi di
economisti e giuristi attorno a questo tema. E sono sempre più insistenti
le pressioni che organismi sovranazionali per un'armonizzazione a livello
internazionale delle diverse leggi nazionali
BENEDETTO VECCHI

La sigla è oscura ai più, ma dietro di essa si nascondono molte ambizioni.
Già, perché il Wsis, questo il misterioso acronimo, che sta per World Summit
on Information Society, cioè l'incontro internazionale che si terrà il
prossimo dicembre a Ginevra, è stato proposto in un contesto internazionale
in cui il multilateralismo dominava le relazioni interstatali e dove la
necessità di una riforma degli organismi sovranazionali era già all'ordine
del giorno. Correva l'anno 1998 e durante una riunione della International
Telecommunication Union in corso a Minneapolis fu approvato un documento
in cui si chiedeva alle Nazioni unite di organizzare un summit mondiale
sulla società dell'informazione. Nel giro di pochi mesi, l'assemblea dell'Onu
fece sua l'indicazione e propose di dedicare due incontri al tema - il primo
appunto a Ginevra, e il secondo a Tunisi nel 2005 - con un'avvertenza:
coinvolgere la società civile nella loro preparazione. In un documento del
segretario delle Nazioni unite Kofi Annan - consultabile nel sito
www.wsis.org -
si legge infatti che la riuscita del summit ci sarà solo in presenza di un
diretto coinvolgimento non solo dei governi, ma di tutta la «società civile»
nello stilare una «carta dei diritti universali alla comunicazione». Il primo
problema da affrontare era la definizione di «società dell'informazione».
Ragion per cui centri studi, lobby, enti governativi hanno stilato memorandum,
inviato studi e ricerce che partivano tutti da un unico presupposto: le
tecnologie digitali stanno cambiando la vita associata in tutte le parti del
mondo, facendo diventare l'informazione il motore dell'economia mondiale,
mentre i media sono diventati il luogo deputato alla formazione e
all'espressione dell'opinione pubblica. E tuttavia il pieno dispiegarsi della
società dell'informazione trova non pochi ostacoli. Infatti, anche nell'era
della informazione vige la regola che un quinto della popolazione mondiale
detiene l'ottanta per cento della ricchezza: l'ottanta per cento dei
computer, dei telefoni e delle televisioni esistenti al mondo sono venduti
nel Nord del pianeta, l'ottanta per cento dei cybernauti - circa settecento
milioni - abita nei paesi maggiormente sviluppati - la famose triade: Stati
uniti, Europa e Giappone a cui si aggiungono l'Australia e la Nuova Zelanda.
Stesso discorso vale per la diffusione del telefono: su tre telefoni
installati, due sono nel Nord e uno nel Sud del pianeta. A ciò corrisponde
però l'asimmetria della popolazione: l'ottanta per cento degli abitanti del
pianeta vivono nei cosiddetti paesi in via di sviluppo o in quelli di
recente industrializzazione, mentre il restante venti per cento nei paesi
maggiormente
sviluppati. Infine, gran parte della produzione di hardware e software nelle
telecomunicazioni, nell'informatica e nell'intrattenimento sono concentrati
nella mani di una manciata di grandi imprese transnazionali che hanno sede a
Parigi, Londra, Seattle, Los Angeles e Tokyo.

Che le cose non vadano ottimamente lo sanno quindi tutti, ma bastano solo
alcuni, piccoli accorgimenti e anche il resto del mondo potrà partecipare
al gran banchetto. Basta cioè che la deregulation non trovi ostacoli sul
suo cammino e il gioco è fatto. C'è il digital divide, inutile negarlo.
Per colmare il divario basta aprire le frontiere al libero mercato è tutto
è risolto. C'è una micidiale concentrazione della produzione e diffusione
dell'informazione. Anche qui un po' di sano realismo: è il mercato il
migliore allocatore delle risorse. Questo è il mantra che accompagna la
partecipazione alla preparazione del summit da parte delle corporation, di
molti governi nazionali e del G8. In risposta, le organizzazioni non
governative hanno lanciato, da parte loro, la campagna per i diritti alla
comunicazione (www.cris.org).

La storia non è stata però benigna per gli organizzatori del summit.
Da 1998 in poi molta acqua è passato sotto i ponti e oramai l'Onu è ridotto
all'ombra di se stesso, mentre altri organismi sovranazionali hanno messo
serie ipoteche su come sarà affrontato il digital divide. Particolarmente
attivo è stato il Wto che, in nome della difesa della proprietà
intellettuale, ha chiesto più volte una revisione e un'armonizzazione
delle diverse leggi nazionali sulla falsariga dei Trips, cioè i Trade
Related Intellectual Proprierties.

A fare da apripista sulla revisione delle leggi nazionali su brevetti,
copyright e difesa dei loghi sono stati gli Stati uniti. Infatti,
nell'arco di dieci anni gli Usa hanno «aggiornato» più volte la loro
legislazione sulla proprietà intellettuale, fino al momentaneo epilogo
del Digital Millennium Copyright Act. Non da meno è stato l'azione della
Wipo, la World Intellectual Proprierty Organitation, un vero e proprio
think thank in materia da sempre sensibile alle motivazione delle grandi
imprese. In una serie di documenti preparati in vista anche del Wsis -
di particolare interesse è quello che porta il titolo Intellectual
Property on the Internet: a Survey of Issues (http://ecommerce.wipo.int) -,
questa organizzazione considera l'uniformità delle leggi sulla proprietà
intellettuale come la conditio sine qua non di un'efficace strategia volta
a legittimare l'appropriazione privata di un bene comune come sono la
conoscenza e il sapere. Recentemente, ad esempio, ha pubblicato un
promemoria sui brevetti applicati sia al software che alla mappatura del
Dna in cui prendeva atto del fallimento del vertice di Cancun del Wto,
ma considerava comunque essenziale che nell'agenda politica mondiale
l'armonizzazione della legislazione sui brevetti diventasse uno dei
argomenti principali degli organismi sovranazionali e per questi motivi
l'organizzazione chiamava i rappresentanti dei paesi membri e delle
grandi corporation ad avviare un negoziato per definire le linee guida
di una strategia globale sui brevetti
(www.grain.org/pubblications/wipo-splt-news-2003-en-cf ).
Per la Wipo, però, il panorama internazionale si è arricchito di un nuovo
attore che costringe nuovamente a modificare a livello globale le politiche
legislative sulla proprietà intellettuali. Si tratta dei «paesi di recente
industrializzazione» che chiedono di poter contare sul piano mondiale
anche su questo specifico problema.

Nel recente vertice di Cancun, il cosiddetto gruppo chiamato G20 - e che
poi è diventato G21, G22 e, infine, G22plus - ha posto con forza anche il
problema della proprietà intellettuale, prospettando la possibilità da
parte di alcuni paesi di violare proprio i Trips. Tra i paesi fondatori
del G20 c'era il Brasile del presidente metalmeccanico Lula e l'India,
da sempre paesi molto sospettosi nei confronti della legislazione
internazionale su brevetti e copyright. Per il Brasile, infatti, in alcuni
casi si può applicare l'articolo 21 del trattato che ha istituito il Wto,
dove si legge che in caso di «emergenza nazionale» un paese che fa parte
dell'Organizzazione mondiale del commercio può sospendere qualsiasi
trattato sottoscritto sul libero commercio. E il paese latinoamericano
ha minacciato di applicarlo nel caso della produzione dei cosiddetti
medicinali «salva vita». Lo stesso ha fatto l'India, subito dopo che
il Sudafrica di Nelson Mandela fu portato in tribunale dalle multinazionali
farmaceutiche per aver cominciato a produrre dei medicanali per affrontare
e contrastare la devastante diffusione dell'Aids. Per la Wipo, la strada
di una unica legge per tutto il mondo non è più granché percorribile,
come dimostra il fallimento del vertice di Cancun. In particolar modo,
bisogna prevedere delle «eccezioni» per paesi, come il Brasile e l'India,
che nelle ultime decadi hanno conosciuto significati processi di
industrializzazione. In altri termini, se l'applicazione dei Trips deve
essere rigida per i paesi in via di sviluppo, per quelli di «recente
industrializzazione» va usata una mano di velluto in direzione di una
stabilizzazione delle relazioni interstatali, evitando così l'acuirsi
dei conflitti tra Nord e Sud del mondo. Conflitti che avevano visto
manifestarsi anche un altro inatteso ospite, il «movimento dei movimento»,
che aveva occupato la scena politica globale proprio durante in una
riunione del Wto dove si discuteva anche di proprietà intellettuale.

Che il clima internazionale sia cambiato lo testimonia il lavoro di una
commissione «indipendente» voluta dal governo laburista di Blair -
Integrating Intellectual Property Rights and Development Policy
(www.iprcommission.org) - che nel documento finale consiglia una politica
«dell'attenzione» nei confronti dei paesi di recente industrializzazione,
che hanno conosciuto uno sviluppo della capacità produttiva nei settori
«sensibili» alla proprietà intellettuale. Il riferimento implicito è
proprio al Brasile e all'India, rispettivamente paesi emergenti
nell'industria farmaceutica e nell'high-tech, nonché naturali e enormi
bacini di biodiversità, il «vivente» che molte imprese vorrebbero
mettere sotto brevetto. Dello stesso tenore è anche il rapporto francese
del Conseil d'analyse économique - www.cae.gouv.fr -, nel quale un
gruppo di economisti e giuristi, in nome della difesa del diritto
d'autore, invita a essere pragmatici e realisti: una legislazione
draconiana all'interno limiterebbe le capacità innovative delle
imprese e del «sistema-paese», mentre l'applicazione a livello
internazionale del sistema dei brevetti e del copyright aumenterebbe
le tensioni e i conflitti a livello globale e favorirebbe la
saldatura politica tra paesi di recente industrializzazione e paesi
in via di sviluppo, come è appunto accaduto al vertice del Wto
tenuto a Cancun.

La tripartizione del mondo che emerge dalle analisi degli organismi
sovranazionali è certamente una delle rappresentazioni della crisi
di un ordine mondiale basato sul libero mercato. E tuttavia i temi
realtivi alla brevettabilità del vivente, del copyright e
dell'economia del logo quando sono affrontati dal movimento di
critica alla globalizzazione economica rivelano la loro valenza
politica più che economica in senso stretto. L'animatore della
mailing list nettime nonché teorico dei new media Geert Lovink,
nel presentare i materiali prodotti da gruppi di base e da economisti
«alternativi» in vista dell'appuntamento del Wsis,
sostiene che quello di Ginevra deve essere un evento nel quale
tutto il «movimento dei movimenti» deve far sentire con forza la
sua voce. Tra questi spicca, per capacità di sintesi, quello
dell'attivista Alan Toner, di cui esiste anche una versione
tradotta in italiano scaricabile dal sito italiano di indymedia
(http://italy.indymedia.org). Il suo limite sta semmai nel
considerare la proprietà intellettuale solo come un impedimento
alla libera circolazione delle informazioni e un ostacolo allo
sviluppo di media alternativi. In uno degli studi più interessanti
sul rapporto tra brevetti, innovazione e sviluppo economico, la
ricercatrice statunitense Petra Moser ha documentato come il
diritto d'autore, e i brevetti in particolare, abbia molto più a
che fare con la produzione di ricchezza che non con l'astratta
difesa di un'opera di ingegno (How Do Patent Laws Influence
Innovation? Evidence from Nineteeth-Cenury World Fairs,
www.nber.org/papers/w9909). Di questo lavoro ne ha già riferito
Franco Carlini sulle pagine di questo giornale il 5 ottobre, ma è
altresì importante notare come la ricercatrice americana testimoni
come l'assenza di una legislazione non rigida non ostacoli
l'innovazione, ma che anzi favorisca la ricerca scientifica di base,
mentre la presenza di una legge garantisca tutt'al più una
circolazione e una diffusione rallentata di quella che  l'economista
statunitense Nathan Rosenberg ha chiamato «innovazione incrementale».
In altri casi, come ha documentato lo storico dell'impresa Alfred
Chandler nel volume La rivoluzione elettronica (Università Bocconi
Editore), il diritto d'autore è uno strumento flessibile per il
governo politico del mercato e che è stato di conseguenza usato,
alternativamente, in maniera blanda quando si trattava di «costruire
un mercato», oppure per favorire, attraverso la costruzione di
robuste «barriere d'entrata», la posizione predominante di alcune
imprese che hanno già conseguito un «margine competitivo» rispetto
a possibili concorrenti.

Per tornare alla ricerca di Petra Moser, l'economista del Mit è molto
attenta a non giungere a conclusioni così drastiche, ma le sue ricerche
condotte all'interno della Sloan School Of Management, cioè uno dei
tempi sacri a favore del libero mercato, lasciano ben pochi margini
di dubbio. La proprietà intellettuale è quindi da considerare lo
strumento attraverso il quale le imprese vogliono, da una parte
mantenere i loro margini di profitto, dall'altra usarlo per
«appropriarsi» di un sapere diffuso e da sempre proprietà comune.

Rispetto a questa concezione della proprietà intellettuale come
diritto proprietario delle imprese, Internet rappresenta un'anomalia,
perché la Rete è cresciuta in un regime di diritto d'autore ai minimi
termini: e questo grazie proprio a un'attenta regia della National
Science Foundation e del Pentagono, che hanno favorito libera
circolazione e condivisione della conoscenza all'interno della
comunità scientifica e hanno promosso la diffusione dei risultati
della ricerca scientifica nella realtà produttiva degli Stati uniti.

Ma Internet è anche il luogo dove questa alterità rispetto alle leggi
sulla proprietà intellettuale ha dato vita ai movimenti dell'open source
e del freesoftware. In una ricerca condotta dai due giovani economisti
americani Josh Lerner e Jean Tirole - The Simple Economics of Open
Source, www.nber.org/papers/w7600 - viene descritto, attraverso lo
studio dello sviluppo dei software Apache, Sendmail e del linguaggio
di programmazione Perl, di il percorso che ha condotto decine di
migliaia di programmatori dalla critica alla proprietà intellettuale
a sviluppare attività economiche di tutto rispetto. Per Lerner e
Tirole, i tre case studies dimostrano che c'è innovazione quando esiste
condivisione della conoscenza e che qualsiasi gabbia che vuol
richiudere e privatizzare il sapere sociale ostacola lo sviluppo
economico. Conclusioni condivisibili e convincenti, ma che sono condotte
proprio in nome della libera concorrenza e della critica delle posizioni
di monopolio che alcune delle major dell'informatica hanno nella
produzione di software.

E uno dei compagni di strada che i mediattivisti incontreranno durante
la riunione del Wsis saranno proprio i programmatori del software libero.
Come questo incontro possa tradursi o meno in una ricchezza reciproca non
è dato sapere. E' indubbio che l'open source e il freesoftware sono una
realtà economica che usa un linguaggio libertario e antimonopolista,
ma rappresentano al tempo stesso un modello di autorganizzazione sociale
che fa leva proprio sull'informazione e sulla conoscenza come bene comune.
Cioè le caratteristiche proprie tanto del «movimento dei movimenti» che
dei mediattivisti, che il regime della proprietà intellettuale vuole
ricondurre alla ragione economica. Quella stessa ragione che trasforma
il sapere e la conoscenza in merce.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/05-Novembre-2003/art91.html

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Libera cultura in libera Internet
Si diffonde sempre di più l'accesso gratuito a pubblicazioni scientifiche,
archivi musicali, testi e dispense universitarie. Un nuovo modo di vedere
la rete che non coinvolge più soltanto i giovani attivisti ma istituzioni
più «tradizionali» come il Mit di Boston e la British Library. E il governo
Usa ammette: il sistema dei brevetti di software può frenare lo sviluppo
economico
FRANCO CARLINI

Succede una cosa strana nell'Internet: da un lato si commercializza e si
privatizza sempre di più e la rete è luogo di violente campagne di censura
e di conflitti sulla proprietà intellettuale dei contenuti; questo aspetto,
peraltro in atto da tempo, è stato accelerato dai problemi crescenti di
insicurezza, terrorismo, pedofilia. Ma dall'altro, proprio sul terreno più
critico del copyright e della circolazione delle idee, si vanno sviluppando
iniziative importanti di «consegna» al pubblico dominio di materiali che
fanno storia e cultura. E si badi bene, non si tratta di operazioni condotte
dai soliti «estremisti» di Indymedia o dai cultori del movimento per il
software libero e aperto; i protagonisti sono sovente istituzioni importanti
e rispettabili, che nessuno può ragionevolmente accusare di radicalismo
culturale. Tra le mosse più significative c'è senza dubbio quella del
Massachusetts Institute of Technology che è passato da ottobre alla fase
operativa della sua messa in rete di tutti i materiali didattici prodotti
dai suoi corsi: a differenza di altre università che cercano affannosamente
di fare soldi grazie all'insegnamento a distanza, il Mit regala (sì, regala)
dispense e esercitazioni a studenti di tutto il mondo. E sono materiali di
grande valore, che si tratti dei corsi di Fisica come di quelli di
Antropologia; così facendo il politecnico del Massachusetts enfatizza al
meglio la vocazione pubblica e civile della produzione culturale e
dell'insegnamento.

Nel frattempo, e sempre sul terreno della ricerca, ha preso il via
definitivamente la Public Library of Science (PLoS), creata da un gruppo di
ricercatori, specialmente di biologia, senza fini di lucro, ma con lo scopo
di rendere pubblicamente disponibile la letteratura scientifica e medica.
Plos Biology dunque è una rivista leggibile e scaricabile gratuitamente da
chiunque, a differenza di quelle classiche che costano centinaia di dollari,
ma per il resto opera come tutte le serie pubblicazioni scientifiche, dove
gli articoli vengono esaminati preventivamente da esperti del ramo e validati
per la pubblicazione. I costi vengono sostenuti dagli autori stessi e questo
non solo è ragionevole (perché essi ne guadagnano in visibilità a
autorevolezza), ma non è diverso da quanto avviene già per le riviste di
carta che chiedono agli autori sostanziosi contributi monetari,
contemporaneamente riscuotendo altrettanto sostanziosi abbonamenti.

Sempre sul fronte delle scienze della vita, una sezione biologica
(chiamata q-bio) è stata appena inaugurata nello storico sistema di
pubblicazione dei preprint chiamato arXiv. I preprint sono materiali
provvisori che vengono sottoposti alla comunità degli studiosi, senza
preventiva verifica e sotto la responsabilità degli autori; servono a fare
circolare rapidamente le idee e i risultati preliminari e in qualche modo
anche a rivendicarne la priorità.

L'organizzazione scientifica non profit inglese Wellcome Trust ha pubblicato
di recente un'analisi dello stato della diffusione delle conoscenze,
intitolato «An economic analysis of scientific research publishing» da cui
trae la considerazione che l'attuale sistema a pagamento «non opera
nell'interesse del pubblico e degli scienziati ma è invece dominato da
un'intenzione commerciale di mercato».

Ma anche su altri terreni cresce la libera messa in piazza delle idee.
Micheal Hart che nel lontanissimo 1971 lanciò il progetto Gutenberg per
rendere disponibili a tutti e in tutto il mondo i libri non coperti da
diritto d'autore, annuncia con comprensibile orgoglio che è stata
superato il numero simbolico di 10 mila eBook; l'ultimo pubblicato è la
Magna Carta inglese. E il suo esempio adesso va contagiando altri
settori, come quello delicatissimo della musica dove è stato annunciato
un analogo archivio mondiale delle composizioni ed esecuzioni storiche.
Si chiama Project Gramophone ed è un'idea dell'americano Jon Noring,
appassionato di jazz e fondatore di un'azienda californiana
specializzata in libri elettronici. Noring ha delineato le linee guida
e si sta ora picchiando con le diverse normative internazionali sul
diritto d'autore. Amareggiato segnala che «le registrazioni effettuate
prima del 1972 non sono più coperte da copyright e tuttavia non possono
essere messe nel pubblico dominio negli Stati Uniti fino al 2067!».
E questo anche per i brani che non hanno più alcun interesse commerciale
per le majors, ma che tuttavia rappresentano un patrimonio musicale
dell'umanità.

Per parte sua la British Library ha cominciato a archiviare anche i
materiali solo elettronici, come posta elettronica e pagine web,
grazie a una modifica legislativa. L'archivio farà un'opera di
selezione sui circa tre milioni di siti con il suffisso inglese (.uk).

E infine, questione attualissima, il Social Forum europeo che si svolge
a Parigi dal 12 al 15 novembre: per l'occasione gli allievi della scuola
per operatori dell'informazione (E'cole des métiers de l'information-CFD)
hanno creato un'agenzia «effimera» di fotogiornalismo chiamata Alterphoto
che metterà gratuitamente a disposizione dei media indipendenti i
materiali prodotti. In parallelo c'è, sempre a Parigi, Métallos Medialab,
spazio di sperimentazione e discussione per i media indipendenti,
analogamente a quanto avvenuto in precedenza al Forum di Firenze.

La sensazione (o la speranza?) è che malgrado le spinte sempre più nette
all'appropriazione e commercializzazione delle idee, siano in atto,
su molti fronti, robusti anticorpi. E forse non sono soltanto anticorpi
di reazione, ma una voglia di libertà accresciuta e dilagante, se non
altro perché l'imbragamento delle idee nei brevetti e nel copyright,
sta facendo danno a tutti, anche alle imprese dell'innovazione. Il più
recente rapporto emesso dalla Ftc, l'agenzia governativa americana per
il commercio, segnala quanto dannoso e frenante sia il sistema dei
brevetti software per lo sviluppo stesso dell'economia. Il titolo, come
si suol dire, parla da solo: «Promuovere l'innovazione: un equilibrio
appropriato tra competizione, politica e leggi sui brevetti».

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/09-Novembre-2003/art62.html


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 .: TECNOLOGIA&INTERNET :.
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Decretoni da laboratorio
Nasce per decreto, in perfetto stile governativo, l'Istituto italiano di
tecnologia. Il «Mit dei poveri» come è stato ribattezzato dai ricercatori.
E i direttori degli istituti del Cnr accusano: «le risorse che enti di
ricerca e università non ottengono, vengono reperite a tamburo battente
per cervellotiche iniziative di disarmante genericità»
LUCA TANCREDI BARONE

Non è ancora nato ed è già orfano. Sembra che, a parte gli editorialisti
del Corriere della sera, non si trovino in giro (e sicuramente non fra i
ricercatori) molti che siano disposti a spendere parole di elogio per
l'ultima idea del governo in fatto di politica della ricerca. Una trovata
che ha tutta l'aria di essere utile per sviare l'attenzione dal cuore
del problema: anche nella finanziaria di quest'anno di fondi per la
ricerca se ne vedono pochini. Si tratta dell'Istituto italiano di
tecnologia (Iit), il «Mit (Massachussets Institute of Technology, ndr)
dei poveri», come è stato velenosamente definito. Un istituto - in
realtà dal punto di vista giuridico è una fondazione - che nasce per
decreto, in pieno stile governativo, nascosto fra le pieghe (articolo 4)
del decretone fiscale approvato dal senato la scorsa settimana con il
meccanismo della fiducia. Pare che sia una creatura del ministro
dell'economia Tremonti che all'inizio non ne avrebbe neppure informato
Letizia Moratti.

Un istituto bizzarro, che nasce già commissariato, tanto per risparmiarsi
la fatica di doverlo fare dopo, e dotato di dieci unità di personale,
istituito con lo scopo di «promuovere lo sviluppo tecnologico del paese
e l'alta formazione tecnologica, favorendo così lo sviluppo del sistema
produttivo nazionale». Per farlo funzionare il governo ha stanziato
50 milioni di euro per il primo anno e 100 milioni di euro per ciascuno
degli anni successivi fino al 2014. Una bella sommetta, che corrisponde
per il 2004 a quasi il 10% del bilancio complessivo del Cnr del 2002
(circa 740 milioni di euro). Quello che non è chiaro è quello che questo
istituto farà e soprattutto a scapito di chi, visto che i finanziamenti
per gli altri istituti di ricerca per il 2004 sono già al lumicino.
Non a caso la conferenza dei direttori degli istituti del Cnr non usa
mezzi termini per liquidarlo. Parla di «superficiale, disinvolto
pressappochismo che ha caratterizzato l'iniziativa», di «assenza di
qualunque traccia di decente istruttoria», di «inaccettabile assenza
di contenuti», di «offesa profonda» alla comunità scientifica nazionale,
per la dimostrazione che «le risorse che gli enti di ricerca e le
università non ottengono, vengono reperite a tamburo battente per
finanziare cervellotiche iniziative di una disarmante genericità».
Parole di fuoco, dunque, che si sommano ai commenti poco lusinghieri
comparsi ieri del Nobel Carlo Rubbia, che il governo ha di recente
confermato commissario dell'Enea, e dello stesso governativissimo
Adriano De Maio, commissario Cnr, con il compito di traghettare l'ente
attraverso le secche della contestata riforma approvata all'inizio
dell'anno.

E di fronte all'asserita volontà di raccordare maggiormente il mondo
delle imprese con quello della ricerca, stimolando anche un nuovo e
diverso sistema di finanziamento della ricerca - sempre ammesso che un
giorno i soldi vengano trovati - quello che appare ancor più insensato
è l'aver smantellato l'Istituto nazionale di fisica della materia (Infm),
inglobandolo nel Cnr. Un accorpamento che diverrà operativo non appena
De Maio avrà varato i nuovi regolamenti Cnr.

L'Infm a detta di tutti i commentatori, compresi quelli governativi,
coniugava efficienza amministrativa e collaborazione fattiva con
l'industria delle alte tecnologie, riusciva ad aumentare il finanziamento
pubblico attirando finanziamenti privati, selezionava i progetti di
ricerca mediante un comitato di valutazione internazionale e aveva
saputo trasferire le competenze scientifiche in imprese private
(attraverso numerosi spin off), il tutto coordinando la ricerca di base
in 41 unità in tutta Italia e in molti laboratori dove si svolge una
fisica all'avanguardia e competitiva a livello internazionale.

Tanto competitiva da rappresentare un'eccezione in controtendenza in
Italia: anziché produrre cervelli in fuga, ne assorbiva dall'estero.
Uno di questi è Andrei Varlamov, brillante fisico russo, allievo di
Alexei Abrikosov - Nobel quest'anno per la fisica dei superconduttori -
che dell'Infm è dirigente di ricerca.

«Certo, non avrei voluto emigrare», dice Varlamov, «ma in Russia
cominciava a mancarci la terra sotto i piedi. E ormai era più facile
trovare fisici russi a Trieste che a Mosca.» Oggi Varlamov insegna un
semestre agli studenti russi a Mosca, e un semestre in Italia a Firenze
e a Roma.

Secondo Varlamov l'Infm era un fenomeno atipico in Italia: «unendo
l'efficienza americana con il carattere, il fascino e il clima italiano.
Anche se pure lo stipendio è quello italiano».

Varlamov dice di non sapere molto sull'Iit, ma sui centri di eccellenza
una certa esperienza ce l'ha, avendo lavorato anche negli Stati Uniti,
in Francia e in Germania.

«Nel 1947 - racconta - Stalin convocò i maggiori fisici russi, fra cui
il Nobel Landau, per chiedergli spiegazioni sul perché gli americani
fossero riusciti a fare la bomba atomica e noi no. E loro gli
spiegarono che il nostro sistema universitario era vecchio, senza
collegamenti fra industria, accademia e istruzione. E così decise di
fondare l'istituto di fisica e tecnologia di Mosca, che io stesso ho
frequentato e dove ora insegno. Una specie di Mit alla sovietica,
un vero e proprio centro di eccellenza, in cui si iscrivono i migliori
studenti e vengono messi direttamente a contatto con la ricerca di
punta, in più di 200 istituti dell'Accademia delle scienze russe, dei
militari e dell'industria. Ecco, l'Infm somiglia un po' a questo.
Aveva 2500 persone associate, che lavoravano in laboratori in tutta
Italia, dando la possibilità di accedere a fondi per la ricerca
supplementari. Insomma, una funzione catalizzatrice che metteva
insieme gli sforzi di realtà e persone diverse. Dando anche molte
possibilità ai giovani. E che nei pochi anni di vita (era stato fondato
nel 1994 proprio dal primo governo Berlusconi) era riuscito a farsi un
nome internazionalmente riconosciuto.»

E, secondo Varlamov - che però confessa di amare l'Italia da sempre,
prima ancora di averla potuta visitare per la prima volta nel 1988,
grazie alla perestroijka di Gorbaciov - «dei posti dove ho lavorato,
l'Infm è senz'altro il migliore».

Insomma, l'Infm aveva già tutto quello che i sostenitori dell'Iit dicono
di aspettarsi dal nuovo istituto, ma che da quanto scritto
nell'articolo che lo istituisce ancora non traspare. Non solo: secondo
alcuni l'Iit dovrebbe diventare una specie di agenzia di finanziamento
della ricerca che dovrebbe raccogliere e distribuire sulla base di
progetti fondi pubblici e privati. Di fatto sostituendosi a quello che
il Cnr non può più fare da quando il suo finanziamento pubblico copre
a malapena i costi di gestione e i ricercatori sono costretti a cercare
altrove i fondi per la propria ricerca. E a molti non è chiaro il senso
di questa operazione.

Gabriella Sciolla è invece assistant professor di fisica proprio al Mit,
dove si occupa del progetto di fisica delle particelle elementari
chiamato BaBar. «L'elemento dirimente che fa del Mit quel centro di
ricerca così prestigioso è il contatto diretto con studenti brillanti»,
dice. «E poi c'è la questione dei finanziamenti: a parte il mio
stipendio, quello di tutti i miei collaboratori viene pagato volta per
volta dai grant concessi sui progetti di ricerca. Nel mio caso per
esempio è il Dipartimento per l'energia». Per Sciolla non è facile capire
il senso della nascita dell'Iit, «visto che in Italia centri di eccellenza
nella ricerca non mancano, come la Sissa di Trieste o la Normale di Pisa,
e anche gli istituti di ricerca sono all'avanguardia, come l'Istituto
nazionale di fisica nucleare, dove ho lavorato, o lo stesso Cnr». Ma certo,
conclude, «se questo nuovo istituto servisse davvero a impedire la perdita
di talenti dal nostro paese, ben venga».

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/06-Novembre-2003/art84.html


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 .: TEMI&APPROFONDIMENTI :.
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Come fare per irretire la Casa bianca
Fino a Seattle la sinistra aveva usato poco e male Internet. Da allora
però il Web si è rivelato uno straordinario strumento politico per
organizzare la protesta. Ora anche i partiti tradizionali ne scoprono
l'utilità e il fattore Rete irrompe nella campagna presidenziale degli
Stati uniti
MARCO D'ERAMO

Può Internet far vincere o perdere un'elezione presidenziale americana?
Il voto del prossimo novembre 2004 sembra ancora lontano, ma alle primarie
dello Iowa e del New Hampshire mancano meno di tre mesi e gli apparati
dei partiti sono già in fibrillazione e da tempo cercano di assemblare
tutti gli strumenti per mobilitare gli iscritti, portare al voto gli
astensionisti, convincere gli incerti. La ricerca è particolarmente
frenetica nel campo democratico, e per due ordini di ragioni: perché
di fatto non ci saranno primarie repubblicane, visto che è scontata la
candidatura del presidente uscente, George W. Bush, e quindi i
repubblicani si concentrano fin da ora sul voto di novembre 2004,
mentre è fittissimo, almeno in queste prime battute, il campo dei
democratici che puntano all'investitura: da Wesley Clark (ex comandante
supremo della Nato) a John Kerry (senatore del Massachusetts), da Dennis
Kucinich (deputato dell'Ohio) a Howard Dean (ex governatore del Vermont),
da Richard Gephardt (deputato del Missouri e uno dei boss dell'apparato
democratico), da Joseph Lieberman (senatore del Connecticut già candidato
alla vicepresidenza con Al Gore nel 2000) a John Edwards (senatore della
North Carolina) e ai candidati di colore, il reverendo Al Sharpton e
l'ex senatrice dell'Illinois Carol Moseley Braun (prima e sinora ultima
senatrice nera nella storia americana). La seconda ragione, collegata
alla prima, è che i democratici saranno di sicuro svantaggiati nella
raccolta dei fondi per la campagna, non solo perché Bush è sicuro di
raggranellare una massa astronomica di miliardi di dollari da parte delle
industrie e delle banche, un «bottino di guerra» che nessun candidato
democratico potrà mai pareggiare, ma anche perché i democratici saranno
costretti a spendere molti soldi nelle primarie, rischiando così di
arrivare a tasche vuote nel rush finale.

Propaganda elettorale

E' in questo regime di scarsità di denaro che la Rete può diventare
decisiva: e per noi cittadini è una pessima notizia, perché oltre allo
spam commerciale che inonda i nostri computer con suggerimenti su come
aumentare la taglia degli organi maschili (vedi Oipaz del 17 giugno
scorso), saremo sommersi da e-mail inneggianti a Umberto Bossi e Storace.
Certo è che una lettera elettorale cartacea costa decine di migliaia di
volte di più di una e-mail. Oggi solo un Silvio Berlusconi può
permettersi di spedire lettere francobollate a tutte le famiglie
italiane, mentre la propaganda elettronica è alla portata del politico
più in bolletta.

Ma lo spam di propaganda non è il contributo più importante che la Rete
può offrire a una campagna elettorale. Come spesso è avvenuto nella storia,
sono le avanguardie politiche le prime ad avvalersi delle nuove tecnologie
politiche. E' già stato scritto (in particolare da Naomi Klein) che il
«movimento di Seattle» si è strutturato per mezzo di, e a immagine di
Internet, proprio come una coalizione di coalizioni, come maglia di maglie
della Rete. Anzi, è stato detto che il «popolo di Seattle» è stato il
primo movimento della sinistra mondiale capace di usare politicamente la
tecnologica informatica. In realtà, l'uso politico della Rete era già
cominciato negli anni `90: solo per mezzo d'Internet si è diffuso a macchia
d'olio un movimento come Critical Mass (dei ciclisti contro il traffico
automobilistico: vedi il libro pubblicato da Feltrinelli sull'argomento).
Il Web ha reso possibile replicare, clonare la stessa procedura (p. es.
riunirsi l'ultimo venerdì del mese all'ora dell'uscita dagli uffici) in
città diversissime come San Francisco (dove Critical Mass è nata) e Parigi,
Sidney e Roma.Ma certo è che manifestazioni come quelle di Seattle, Praga,
 Washington e Genova sarebbero state impossibili senza la mobilitazione
online. Se di queste proteste un organizzatore c'è stato, allora il nucleo
centrale (ma certo non esclusivo, proprio per la natura a rete del
movimento) può essere individuato nel sito di Indimedia, esso stesso già
una rete di siti e di nuclei organizzativi.

Il Web contro la guerra

Ma la struttura Web è emersa con ancora maggiore chiarezza nelle
manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio scorso che hanno fatto
scendere in piazza 10 milioni di manifestanti in tutto il mondo e 400.000
a New York (fu allora che il New York Times definì i partecipanti alla
protesta come «l'altra superpotenza»). L'organizzazione su scala nazionale
e mondiale fu resa possibili da siti come quello di United for Peace and
Justice (UFPJ) che ancora in dicembre non aveva nemmeno un permanente a
tempo pieno e che in due mesi fu decisivo per mettere in piedi la
manifestazione di New York.

La forza di MoveOn

Un uso ancora più sofisticato della rete viene dal sito di MoveOn, che fu
fondato quando i repubblicani tentarono di ottenere l'empeachment di Bill
Clinton: MoveOn lanciò una petizione che invitava il Congresso a
«censurare » il presidente e poi smetterla. In breve la petizione raccolse
500.000 firme. Poi MoveOn fu usato per raccogliere denaro a favore dei
democratici e quando Bush cominciò a premere per attaccare l'Iraq, raccolse
milioni di dollari per spot tv contro la guerra, raccolse 2 milioni di
firme in una petizione alle Nazioni unite e fece sì che in un solo giorno
200.000 chiamate telefoniche investissero il Congresso a Washington.

La forza di MoveOn sta nel meeting tool e in un e-indirizzario,
accortamente gestito, con 2,1 milioni di indirizzi. Il meeting tool è un
software che permette a ciascuno di proporre un'ora e un luogo di
appuntamento e consente agli altri di aderirvi: questo servizio è gratuito
nel sito meeting.com, il cugino commerciale di MoveOn. In sostanza MoveOn
ha introdotto la mobilitazione bocca a bocca a livello elettronico.
Con questo strumento, il 16 marzo, MoveOn è stato decisivo nell'organizzare
le veglie contro la guerra. Quest'anno MoveOn è stato assunto come
consulente retribuito da Howard Dean, il candidato demcoratico che, insieme
a Dennis Kucinich, è stato il più contrario alla guerra all'Iraq e che
sembra il più capace di (e il più favorevole a) usare Internet: altri
candidati più tradizionalisti diffidano dello spontaneismo anarchico della
mobilitazione online, temono la sua incontrollabilità. Attraverso i gruppi
riunitisi per mezzo di meeting.com, da gennaio a luglio si erano già
mobilitati per Dean in più di 60.000 attivisti. Dean è stato bravissimo
nell'usare la rete anche per raccogliere fondi, sommando tantissime piccole
donazioni individuali. Il capo della sua campagna elettorale, Joe Tippi,
ha dichiarato a The Nation (che quest'estate ha dedicato un lungo articolo
all'uso del Web nei movimenti) che Internet è quell'anello mancante che
farà della campagna elettorale di Dean un perfect storm (titolo di un
recente film).

Ma anche gli altri attori della politica americana si sono accorti delle
potenzialità che riveste Internet nell'organizing, che non vuol dire solo
«organizzare» in senso generico. Nel sindacato americano, il termine indica
quell'azione che porta gli operai a iscriversi: negli Usa aderire al
sindacato non è un atto individuale, non posso svegliarmi una mattina e
dire che mi tessero alla Fiom. Perché io possa sindacalizzarmi, i dipendenti
della ditta in cui lavoro devono votare a maggioranza la sindacalizzazione
e, soprattutto, la proprietà deve accettarla, cosa che avviene molto di rado
e solo dopo scontri titanici, scioperi lunghissimi (negli Usa è lecito alle
imprese assumere crumiri per sostituire gli scioperanti). Perciò per far
sindacalizzare, per organize i lavoratori è necessario mettere su una
battaglia sindacale. Non a caso il sindacato Afl-Cio è stato tra i primi
a varare un centro di mobilitazione online. Ma i repubblicani stanno
accelerando per recuperare il terreno: il Comitato nazionale repubblicano
ha appena lanciato un «online toolbox (scatola di utensili) per attivisti
repubblicani» nel sito GOPTeamLeader.com. E anche i democratici stanno
mettendo su il loro sito.

C'è da chiedersi però se la Rete si rivelerà nelle campagne elettorali
classiche altrettanto efficace che nelle proteste globali, dove la sua
ubiquità rete va a pennello con la diaspora spaziale della protesta.
Il Web è formidabile nel far scendere la gente in piazza, ma lo è
altrettanto per spingerla a votare?

Gli esclusi

Intanto solo il 3% della popolazione mondiale è connesso in rete e, anche
nei paesi ricchi, la percentuale riflette una struttura di classe. Non è
necessario domandare all'oracolo di Delfi a quale classe (e a quale razza)
appartengono quei 25 americani su 100 che non sono connessi. Quindi
Internet si rivela non solo inefficace nel raggiungere le classi più povere,
ma tende a istituire uno spartiacque razziale. In secondo luogo l'ubiquità
della rete diventa un vantaggio marginale in azioni territorialmente ben
definite come l'elezione in una circoscrizione. Infine Internet è ottimo
per mettere insieme gente che la pensa all'incirca allo stesso modo su una
questione assai generale (la pace, no alla guerra). Appena la questione si
fa un po' più controversa, ecco che Internet si rivela pessimo per la
discussione: per e-mail e per chatting i toni trascendono facilmente e le
incomprensioni e i malintesi sono inevitabili. Un esempio lo si è avuto a
maggio nella Ufpj che nella discussione sulla Palestina online si è
praticamente spaccata e che poi è riuscita a ricomporre le fratture in una
Convention dove le persone si sono incontrate in carne e ossa. Come reagirà
il popolo di Internet se dalle primarie emergerà un candidato democratico
che era stato favorevole alla guerra? Lascerà rieleggere Bush? Una
questione più di fondo riguarda la struttura stessa del Web e la sua
compatibilità con la forma Partito. Internet funziona solo a maglie lente,
a configurazione variabile, con alleanze mobili (come quelle che teorizzano
gli strateghi del Pentagono), è allergico a ogni centralizzazione, quindi
a una strutturazione stabile. La forma partito, come l'abbiamo vissuta
storicamente, necessita invece di una struttura organizzativa, di una certa
centralizzazione, di un insediamento territoriale: è perciò giusto che
quest'articolo finisca come terminano tutte le (sempre) chilometriche
discussioni all'interno della sinistra, che invitano gli stremati
intervenuti «ad aprire un grande dibattito a sinistra».

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/04-Novembre-2003/art102.html


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 .: DALLA RETE A(LLA) CARTA E RITORNO :.
di Marco Trotta matro at bbs.olografix.org
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Liberiamo le alternative

Sabato 18 Ottobre potrebbe essere considerata, in futuro, la data della
fine dell'internet gratuito in Italia. Infatti, con una email giunta
a tutti i suoi abbonati, il portale Libero-Inwind ha fatto sapere che
dai primi di novembre l'accesso agli indirizzi di posta elettronica
rimarrà gratuito solo per i clienti che utilizzano i loro servizi di
connessione (Analogiche, ISDN, ADSL ecc.) mentre per tutti gli altri
rimarrà la possibilità di consultare la posta attraverso il sito ma
non si potrà più scaricarla sul proprio computer con un programma come
Outlook, Eudora, ecc. Per continuare a farlo, pur essendo collegati
con altri fornitori di accesso alla rete, toccherà pagare il servizio:
1,25 euro al mese nell'offerta base, 2,5 per avere anche il filtro
contro lo spamming (la posta indesiderata) e i virus. La motivazione?
"Continuare ad assicurare servizi di qualità". Tutto bene? Non proprio.
Intanto perché questa richiesta giunge dieci giorni prima del termine
dichiarato per scegliere. Davvero poco  se si considera che molti utenti
utilizzando questi servizi dal '99, quando nacque Libero.it, e da allora
dandolo ad amici e scrivendo in forum pubblici, hanno veicolato il
logo "@libero.it" e quindi le fortune commerciali di quello che ora è
il portale di riferimento di milioni di utenti. All'ufficio marketing di
Libero.it avranno pensato che a molti sembrerà più utile pagare poco
(ottenendo anche una soluzione ai problemi di virus e spam), piuttosto
che subire il disagio di aprire una email altrove, comunicare il
cambiamento ai propri contatti col rischio di perdere tempo e messaggi.
Per fortuna ci sono alternative anche etiche.

Oggi in Italia l'alternativa ad aprire una lista di discussione su
Yahoogroups o una casella su Libero.it è, ad esempio, Autistici.org
(www.autistici.org/contatti), un server autogestito, che offre la
possibilità di una consultazione sicura e sensibilizza gli utenti sul
problema della privacy in rete.
Anche l'associazione Olografix permette di aprire gratuitamente una
casella di posta elettronica facilmente consultabile su
http://bbs.olografix.org, mentre con 26 Euro l'anno si può aderire
all'associazione (www.olografix.org) e avere una email con spazio
illimitato e delle spazio web.
Il Bologna Free Software Forum (www.bfsf.it) offre, con un modesto
contributo, la possibilità di aprire una lista di discussione che è
anche più versatile di quelle di Yahoogroups con uno spazio per la
condivisione files.
Anche il sito Peacelink (www.peacelink.it) offre uno spazio web con
un sistema per la pubblicazione automatica dei contenuti dietro con
un piccolo contributo per le spese di gestione.
E ancora Rete Lilliput offre la possibilità di aprire liste di
discussione per i propri nodi (http://www.retelilliput.net/wws/) e
con il progetto Lillinet (www.lillinet.org) si può avere una email
gratuita di 2 Mega, collegandosi attraverso un loro numero di telefono
che ha lo stesso costo di altri gestori, ma va a finanziare in minima
parte Rete Lilliput. L'idea è di avere un gestore etico anche per i
consumi di rete che, una volta raggiunta una massa critica sufficiente,
possa chiedere requisiti di trasparenza ed eticità anche agli altri
partner commerciali coinvolti nel servizio. Tutti progetti che non
saranno "gratuiti", ma permettono di costruire un'altra internet
migliore possibile.

SEGNALAZIONI APPUNTAMENTI

+ 'E-LEARNING E SOFTWARE LIBERO: UN RAPPORTO SOSTENIBILE'.
Venerdi 5 dicembre 2003 aula Mauro Wolf (piano I) Dipartimento di
Sociologia e Comunicazione dell'Università La Sapienza Via Salaria
113, Roma, Altrascuola.it in collaborazione con: Lynx Dipartimento di
Sociologia e Comunicazione dell'Università La Sapienza di Roma
presentano il convegno: Altrascuola.it, in collaborazione con Lynx,
società italiana specializzata nella progettazione e produzione di
tecnologie educative, e il Dipartimento di Sociologia della
Comunicazione della Sapienza, organizzano venerdi 5 dicembre 2003 un
incontro di discussione aperto a tutti coloro che vogliono ragionare
sulla possibilità (e l'opportunità) di utilizzare piattaforme
OpenSource per la Formazione a Distanza
<http://www.altrascuola.it/convegni/elos>.


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 .: NEWS DALL'ASSOCIAZIONE :.
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Ogni lunedì sera la sede dell'associazione resterà aperta dalle ore 21,00
per incontrarsi, conoscersi, discutere, smanettare.
Per chi vuole passare un po' di tempo con noi, l'appuntamento è in
via Nazionale Adriatica Nord, 92 - Pescara
Riferimenti utili alla pagina
http://metro.olografix.org/sede.html

Associazione Culturale Telematica
"Metro Olografix"
http://www.olografix.org
info at olografix.org


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 .: CREDITS :.
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a cura di Loris "snail" D'Emilio
http://www.olografix.org/loris/

Hanno collaborato a questo numero:
Marco Trotta
matro at bbs.olografix.org








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