pace e guerra



Care amiche, cari amici, lo sapete bene: ognuno ricorda e racconta a modo
suo la storia che ha vissuto,    e perciò questi racconti che ciascuno di
noi fa agli altri o fa a se stesso  per riconoscersi, per verificarsi, per
vedere quanto è mutato nel tempo, sono naturalmente diversissimi fra loro.
Tuttavia c'è una caratteristica comune ed è che tutte le storie, in modo
particolare quelle di noi vecchi, somigliano, a guardarle frettolosamente,
a quel deserto di cui abbiamo letto poche settimane fa nel vangelo di
Marco: un luogo in cui si è giunti non per nostra iniziativa o almeno non
soprattutto per nostra iniziativa (Gesù "spinto dallo Spirito ", e anche
noi spinti, da forze più grandi di noi), un luogo aspro e difficile, come
solo un deserto può essere, un luogo in cui il sole abbaglia e crea
fantasie illusorie e di quando in quando una tempesta di sabbia acceca il
viandante e gli fa perdere l'orizzonte. E tuttavia non uno spazio vuoto. Il
deserto di Gesù, e così la storia in cui noi abbiamo vissuto e viviamo,
nonostante il senso di solitudine e di inermità che  talvolta ci fa
spasimare, sono luoghi popolati, anche se non di persone. Il vangelo di
Marco dice che intorno a Gesù vi erano fiere e  angeli. Io credo che così
si debba dire della nostra storia, di quella passata e di quella che stiamo
vivendo in queste ore. Il bene e il male compresenti, coinvolgenti, quasi
intersecati, intrecciati fra loro.
Mi capita di pormi spesso una domanda: se questo è vero, come io credo,
allora perché ricordiamo così facilmente le bestie feroci, cioè il male, le
forze negative con le quali dobbiamo lottare  e mai ripensiamo agli angeli,
cioè al bene che ci sta intorno e che, ancora più  misterioso, ci sta
dentro? Certamente le belve ruggiscono o ululano nella notte, le vipere del
deserto sibilano minacciosamente, gli scorpioni alzano i loro pungiglioni
avvelenati, mentre gli angeli, perlopiù, si muovono silenziosamente. Gli
animali selvaggi possono uccidere e sono dunque concrete minacce, gli
angeli, invece, si muovono con discrezione e si rivelano soltanto quando
noi accettiamo di vederli. Per questo è facile non curarsi di loro. Ma  non
ci abbandonano mai, sono l'emblema stesso della solidarietà nei momenti più
duri. Gli angeli che nel vangelo di Marco servono Gesù nel deserto, quando
prende consapevolezza della propria missione ritornano - uno almeno ritorna
- quando, come racconta il vangelo di Luca, quella missione è al termine e
Gesù suda sangue per il terrore della tortura e della crocifissione,
crudelissima morte. La presenza degli angeli è una costante di tutta la
Bibbia. Io dico che è una costante anche della storia, della nostra storia.
Naturalmente gli angeli della storia profana sono, all'apparenza,
diversissimi da quelli della storia sacra; e tuttavia al di là delle
apparenze, gli angeli della storia (cioè le grandi forze morali positive
che la percorrono) condividono con gli angeli della Bibbia, le più
importanti caratteristiche: sono energie al servizio dell'uomo,
annunciatori di messaggi che consentono di leggere con occhi nuovi realtà
complesse e tragiche, e di scorgervi luci nascoste, rivelatori di segrete
forze e comunicatori di inviti  a un impegno che ci porta pienezza di vita.
Io credo che se noi contempliamo più le belve che gli angeli ciò avvenga
perché nei deserti in cui camminiamo quando non facciamo comunità con gli
altri, è presente, come nel deserto dei vangeli, oltre alle fiere e agli
angeli, anche Satana, il tentatore. Non è un diavolo dal piede biforcuto e
non puzza di zolfo. E' un signore molto distinto, un intellettuale, un
finanziere, un pubblicitario, un governante infinitamente più astuto e
potente dei cavalieri di certi governi di serie B. E' lui che ha molti nomi
ma non quelli del libro degli esorcismi: preferisce chiamarsi non Astarotte
ma Sua Maestà il Capitalismo, non Belzebù ma Sua Maestà il Mercato, Sua
Maestà Multinazionale, e con i suoi accademici e i suoi mass-media ci
sussurra in tutti gli accadimenti che più drammaticamente ci coinvolgono,
che le vele delle minuscole imbarcazioni sulle quali percorriamo gli oceani
della storia e i piccoli mari della nostra vita possono gonfiarsi soltanto
se le sospinge il vento dell'egoismo e della forza, cioè l'alito delle
belve; è lui che vuole farci leggere le vicende dell'umanità come una
successione di eventi in cui il progresso, il benessere, la civiltà sono
indissolubilmente legati alle armi dei conquistadores, dei padroni, dei
violenti.
Il tentatore trionfa nei libri di storia in cui i popoli sono visti
soltanto come greggi umani guidati, o travolti, dai Capi, in cui la ragione
è sempre del più forte e la pietà è, quando c'è, un optional politico dei
Grandi Statisti. Questa versione della storia è antichissima. Si potrebbe
dire che nasce con la nascita della scrittura: gli elenchi delle etnie
schiacciate e poste in schiavitù adornano i più antichi monumenti eretti in
onore di sovrani, i quali sostengono di avere, in questo modo, garantito la
sicurezza dei loro popoli; poi la versione "grandiosa", aristocratica,
violenta, della storia, quella che nasconde gli umili per ammirare soltanto
le bandiere dei potenti, prosegue con le crociate e con la conquista delle
Americhe ad opera dei re cristianissimi, i quali si vantano di avere, in
questo modo, piantato la croce su tutti i confini del mondo; si tinge del
sangue dei popoli cosiddetti barbari ai quali gli imperi coloniali
affermano di avere portato la civiltà; infine esplode, anche nel senso
letterale del termine nel secolo XX, in cui la violenza dei Grandi arriva
al suo apogeo perché acquista la  possibilità inedita di distruggere
l'intero pianeta. Una storia per la quale il secolo che ci ha generati
appare agli occhi di moltissimi soltanto un tempo caratterizzato da orrori
supremi: due  guerre mondiali che hanno causato un numero imprecisato di
morti, (ma certamente più di 80 milioni), gli orrori dello stalinismo, la
Shoah e Hiroshima. la creazione di orribili arsenali che possono
distruggere immense quote di umanità o, come ho detto pensando alle 13 mila
testate atomiche ancora funzionanti, possono distruggere completamente la
Terra E ancora: le terribili dittature latino-americane degli anni 70-90, i
grandi massacri africani per lotte fra etnie sponsorizzate dai mercanti
d'armi o dalle multinazionali minerarie, i genocidi per AIDS e per fame,
una civiltà in cui l'ingiustizia internazionale ha raggiunto i suoi massimi
livelli, riuscendo persino a trasformare agenzie, come l'Organizzazione
Mondiale del Commercio, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario
Internazionale, originariamente create per servire la pace fra i popoli, a
trasformarle, dicevo, da strumenti di equità in fonti di iniquità. E
ancora: una Terra le cui risorse vengono saccheggiate, rapinandole alle
generazioni future, un mondo in cui alcuni pochi milioni di bambini sono
vestiti come principini e quasi sospinti all'obesità dall'ideologia del
consumismo e contemporaneamente miliardi di bambini sono consegnati a una
vita che si può soltanto definire dolorosa sopravvivenza e a una morte
precoce. Una Terra in cui due miliardi e mezzo di uomini donne e bambini
non dispongono di acqua potabile mentre milioni e milioni e milioni  di
piscine e di fontane caratterizzano le nostre città. Una Terra in cui
interi popoli subiscono tali repressioni e persecuzioni da poter essere
considerati a buon diritto popoli-martiri. Tanto per fare due esempi, il
popolo palestinese e il popolo curdo.
Tutto vero, tutto tragicamente vero. Ne parleremo ancora.
E però questa terribile descrizione, se pretende di essere completa, e cioè
non tiene conto degli angeli della storia, le grandi speranze e utopie
attraverso le quali il cammino faticoso e sanguinoso della giustizia è,
nonostante tutto, andato avanti, è una verità monca, prostituita ed
infetta. Se non registriamo anche certe meravigliose realtà nel bilancio
del XX secolo, noi operiamo una vera satanica deformazione della storia,
con risultati gravissimi di autolesionismo. Ci sdraiamo allora davanti ai
potenti, accettiamo le loro vanterie e le cronache dei loro storiografi,
cancelliamo il coraggio che fu dei nostri padri e della nostre madri; ed
anche (perché non dirlo?) di certi nostri giorni. Rinunziamo ad essere ciò
che è stato possibile, ciò che è possibile. Cediamo il futuro ai potenti.
Permettiamo che essi cancellino in noi la fierezza di certe esperienze,
neghino che ci sia possibile collaborare alla costruzione di un mondo più
umano o si arroghino, come sta facendo Bush in queste ore, il potere di
delinearne i confini e le leggi.
La vera fisionomia del secolo XX è quella di un tempo segnato anche da
immense speranze e conquiste, mentre tutte le guerre andavano rivelando la
loro inutile barbarie. Il 1900 comincia con la rivoluzione messicana in cui
milioni di cenciosi campesinos che innalzano bandiere con l'immagine della
Madonna di Guadalupe chiedono il riconoscimento del diritto di vivere in
dignità, continua con la rivoluzione sovietica, con quella cinese, con le
lotte dei popoli coloniali per l'indipendenza, con la resistenza al
nazifascismo, con la eroica nonviolenza dei neri d'America contro il
razzismo che li vuole cittadini di serie B;  con le grandi sollevazioni
popolari alla periferia dell'impero sovietico, la lotta dei sudafricani
contro l'apartheidŠ Si può dire che il secolo termini là dov'era
cominciato, nel Messico del Chiapas, in cui altri campesinos levano alte le
speranze della loro povertà e il loro diritto di controllare il potere. Una
storia eroica e meravigliosa, tanto più che è storia di poveri, di inermi.
E intanto, nelle Chiese, nelle sedi della cultura, fra i filosofi e nelle
università, nei parlamenti, il diritto internazionale, l'affermazione dei
diritti umani, la sensibilità ai problemi di tanta parte dell'umanità, si
fanno sempre più limpidi e approfonditi. Viene fondata l'ONU, sorgono gli
organismi non-governativi, alcuni assumono addirittura dimensioni
stupefacenti (tanto per fare due esempi, Amnesty Internatonal e
Greenpeace), viene costruita l'Unione europea, si tenta di rendere
funzionante una Corte penale internazionale,Š
E' vero: molte di queste speranze sono state tradite o massacrate, le
grandi utopie rimangono, per così dire, tangenti all'infinito ma non si può
non ricordare che immense masse umane si sacrificarono coscientemente per
costruire un futuro migliore per i loro figli e ci riuscirono. Se noi
vecchi ci chiniamo con amoroso ricordo sull'epoca della nostra infanzia lo
vediamo con chiarezza. La condizione umana, almeno dal punto di vista della
qualità, come dire?, "fisiologica" della vita è immensamente migliorata.
Dobbiamo saperlo, riconoscerlo e dirlo.
Anche dirlo è importante. Io credo che tanta parte del cosiddetto disagio
giovanile nasca dal fatto che noi anziani non siamo stati capaci di fare
memoria davanti ai nostri figli. Per comprensibile ma vano pudore, per
paura di soffrire recuperando certi ricordi, o timorosi di essere
abbandonati alla solitudine che spesso circonda i testimoni di eventi che
pongono problemi e sollecitano scelte, noi abbiamo taciuto in famiglia, a
scuola, in letteratura e in politica le esperienze alte e forti,
drammatiche ma anche gioiose, delle nostre generazioni; ne abbiamo
celebrato formalmente le ricorrenze ma le abbiamo ridotte a semplici
cerimonie, spesso a stanche ripetizioni di formule. E i risultati sono
evidenti e assai tristi. Se oggi moltissimi giovani ignorano le ragioni e
il valore della resistenza al fascismo e al nazismo, non hanno che  una
vaga conoscenza della tragedia dell'emi-grazione che spinse, anche in tempi
non lontani, milioni e milioni di italiani analfabeti o quasi verso i paesi
più ricchi, non sanno niente della grandezza delle lotte dei lavoratori per
conquistare giustizia e libertà, cioè i fondamenti della democrazia in cui
viviamo, questo rende loro impossibile comprendere (almeno emotivamente)
molti gravi problemi della nostra società, da quelli dell'immi-grazione
extracomunitaria a quelli della necessità di fare politica - e un certo
tipo di politica.
Ma c'è di peggio: questa amputazione della memoria, questo permettere che
sia raccontata una storia soltanto padronale, violenta, di signori della
guerra che decidono per tutti, rende difficile e forse impossibile ai
giovani pensare che vi possa essere una gioia, e talvolta una vera e
propria silenziosa felicità, la quale nasce dal saper rischiare per amore
sicurezze e garanzie, dal vivere inseriti nei grandi processi storici in
cui si tenta di fortificare la dignità dell'uomo, dalla consapevolezza di
avere compiuto il proprio dovere e di avere scoperto, nel farlo, di poter
essere protagonisti, minuscoli ma reali, di conquiste insperate, ottenute
da uno sforzo solidale. Troppo spesso noi anziani - ed è in questo che si
rivela la nostra vecchiezza - del passato raccontiamo soltanto le amarezze,
la distruzione di care illusioni, le incertezze che ce ne derivano; e
tacciamo della partecipazione di decine, centinaia di milioni di uomini e
di donne di buona volontà, anche giovani, anche giovanissimi, ai grandi
movimenti che hanno sottratto almeno una parte dell'umanità a schiavitù e
devastazioni che sembravano senza fine.
Voglio ripeterlo. Più che mai abbiamo bisogno di fare memoria di certo
passato. La storia che il grande tentatore vorrebbe riproporci in questi
giorni, è una storia in cui esistono soltanto i potenti, e i cittadini del
mondo non hanno voce né ragioni né possibilità di modificare i disegni
dell'Impero. Il grande tentatore e i suoi servi e discepoli vogliono
convincerci alla rassegnazione, alla subalternità, alla insignificanza;
vogliono convincerci che contiamo niente, possiamo niente, siamo niente.
Vogliono renderci complici passivi dei loro disegni o, peggio ancora, loro
strumenti, senza dignità. Vogliono convincerci che a noi, piccola gente,
non resta che credere in loro, obbedire loro e se necessario combattere per
loro. Dobbiamo dirgli di no: e il nostro NO, per rispetto a noi stessi,
deve risuonare alto e forte proprio nel momento in cui veniamo convocati a
una nuova guerra.
Il nostro NO non nasce soltanto dal rispetto, vincolante per tutti gli
italiani, della Costituzione repubblicana, la quale ripudia la guerra come
strumento di risoluzione dei conflitti internazionali; non nasce soltanto
dal fatto che la guerra che sta per essere scatenata sarebbe, a causa delle
scelte e della metodologia imperiali, una guerra illegittima, illecita,
immorale e criminale, come ha detto Giovanni Paolo II, nasce anche dal
fatto che la guerra è follìa. come aveva ben visto quarant'anni fa papa
Giovanni nella sua enciclica "Pacem in terris".
Le guerre, inoltre, sono andate via via acquistando nuove terribili
caratteristiche.
La prima è che esse sono andate diventando sempre più un business
colossale. Avevano sempre avuto la caratteristica di favorire la nascita di
grandi imperi industriali e finanziari, ma oggi c'è di più e di peggio: le
spese militari sono diventate un oltraggio al Creatore perché drenano ogni
possibilità economica di dare sollievo alle immense povertà di massa e
incanalano verso disegni di morte la genialità umana, il progresso
scientifico e tecnologico. Più della metà degli scienziati e dei centri
scientifici della Terra sono oggi al servizio dei militari.
La seconda caratteristica della guerra moderna è che essa: colpisce non più
soprattutto i soldati ma soprattutto gli inermi. Sempre i "civili" (le
donne, i vecchi i bambini) sono stati coinvolti nella tragedia delle
guerre: guerra ha sempre voluto dire eserciti che avanzavano, si
scontravano in battaglia, si ritiravano su ampi territori; e dunque
distruzione di ponti e di case, di strade, di coltivazioni e di pozzi; e
fame e terrore e stupri; e odio che sarebbe durato per decenni. Ma dal 193/
in poi, dalla distruzione di Guernica ad opera dell'aviazione nazista
prestata ai falangisti, la guerra ha cominciato a uccidere intenzionalmente
anche e soprattutto lontano dai fronti di battaglia. I generali hanno
compreso che i nemici combattono più fiaccamente, demoralizzati e
sconvolti, quando sanno che la guerra sta distruggendo le loro case e i
loro figli. E' nata  così la guerra-terro-rismo, quella che colpisce gli
inermi per disarmare gli armati: La distruzione di città come Coventry in
Gran Bretagna (20 mila morti) e, in Germania, Amburgo (50 mila morti) e
Dresda  (300 mila morti) è l'emblema di questa violenza insieme selvaggia e
astuta. Hiroshima (270 mila morti) e Nagasaki (150 mila) sono la vergogna
incancellabile della storia del mondo cosiddetto libero, democratico.
Avvennero nella prima metà del secolo XX: ma i bombardamenti sulle
popolazioni  del Vietnam del Nord sono della fine degli anni '60, quelli su
Bagdad e su Belgrado sono degli anni '90, i missili sulle case di Gaza, di
Janina e di Ramallah hanno inaugurato l'orrore del secolo XXI.. Adesso
quando il Pentagono ci fa sapere che nelle prime ore della guerra scaglierà
30 mila missili sull'Iraq finge di non sapere che più di metà della
popolazione irachena è formata da persone sotto i 15 anni. Quanti bambini
sono stati condannati a morte?.
La terza ragione che rende ogni guerra, di per se stessa, nefanda è che le
guerre moderne non si concludono più con gli armistizi, colpiscono per
generazioni. Voglio darvene io stesso qualche testimonianza. In Vietnam, a
Hochiminhville, cioè Saigon, conobbi anni fa la dottoressa Thi Ngoc Phuong.
La chiamavano "la madre dei mostri" perché, con infinita pietà e con una
maestria che le aveva valso una grande fama internazionale, riusciva a dare
sembianze umane a qualcuna delle creature nate deformi (ma deformi è un
eufemismo) in seguito alla irrorazione di defolianti sulle selve e sulle
zone arboricole operata dagli americani per stanare i viet-cong. La guerra
era formalmente finita ventidue anni prima, ma nell'ospedale Tu Du
continuavano ad arrivare bambini che sembravano (non so come dirlo)
granchi umani. Venivano da tutti i villaggi dell'ansa del Mekong o dalla
cordigliera centrale, ma  erano una parte minima di quella sfida della
chimica di guerra al Creatore, perché molti e molti altri rimanevano senza
cure nei villaggi devastati delle zone più impervie. Adesso la dottoressa
Thi Ngoc Phuong, nel cui studio stavano due grandi vasi di vetro con due
bambini a due teste  (nati-morti per fortuna), è andata in pensione, ma
migliaia di bambini deformi (ricordate: deformi è un eufemismo) continuano
a nascere nelle zone irrorate di diossina.
Nel Kosovo e in Iraq accade lo stesso per l'uso ormai "antico" dei
proiettili all'uranio impoverito o di qualche altro agente chimico. E negli
Stati Uniti il Pentagono ha un gran daffare a nascondere la quantità di
bambini "anormali" nati dai veterani in Vietnam, nei Balcani e nel Golfo
del 1991 (almeno 50 mila cas)i. Ogni tanto un giudice americano condanna
una delle società chimiche produttrici di veleni a risarcire (anche questo
è un eufemismo) i genitori di quei piccini "sfigurati al punto da non
parere più un uomo". Nessun giudice si occupa dei bambini del Vietnam, del
Kosovo e dell'Iraq. Né delle altre  devastazioni di guerre "di tanto tempo
fa": anche la catena alimentare, infatti, risulta  ancora inquinata da
radiazioni e veleni; e molte  falde acquifere. Tante piccole Hiroshima
"periferiche" continuano a perpetuare l'orrore radioattivo o  (Dio non
voglia) ne preannunziano uno ben più grave, dato che il Pentagono non
esclude di usare armi nucleari. Intanto in tutto il mondo, ogni giorno, in
zone in cui teoricamente la pace è tornata da anni e anni decine di bambini
rimangono mutilati da centinaia di milioni di mine sparse su campi di
battaglie che sembrano lontanissime nel tempo. Una mina rimane in funzione
vent'anni, e quando domandai a uno dei tecnici della produzione italiana (i
cui ordigni sono disseminati tuttora in immense aree: dieci milioni di
ordigni, tanto per fare un esempio, sparse nel Kurdistan "iracheno".:)
perché non si pensasse di dare a questi strumenti di ferocia tecnologica
una efficacia limitata nel tempo, mi guardò sorpreso: "Nessuno ce l'ha mai
chiesto". Ricordo di avere visto a Beled Wayn, nell'Ogaden, due bambini che
erano saltati su una delle tante mine italiane vendute imparzialmente alla
Somalia e all'Etiopia in guerra fra loro. In un fatiscente ospedale, li
curavano amorosamente medici italiani. "Sono condannati all'erga-stolo" mi
disse un dottore; e poiché io mostravo di non capire, spiegò: "Sono figli
di una tribù di pastori, nomadi che ogni giorno si spostano per 15-20
chilometri. Quando usciranno di qui, i genitori non potranno fare altro che
appoggiarli all'ombra di un muretto dove camperanno la vita del
mendicante". "Quella"  guerra era finita da quattro anni: "quella" guerra
continua a uccidere perché nessuno ha provveduto ancora allo sminamento.
E non è soltanto questione di mali fisici: un orfano di soldato, un
ragazzino o una bambina che hanno visto morire la madre in un
bombardamento, o hanno vissuto terribili traumi diventano assai spesso, ci
dicono gli psicologi, genitori che trasmettono ai loro figli il marchio
delle psicosi.
La quarta caratteristica della guerra di oggi è che le sue vere cause, che
sono quelle dell'appropriazione del petrolio, sono nascoste da una retorica
palesemente ipocrita. Da due anni, dopo l'orribile massacro delle Due
Torri, la Casa Bianca parla di guerra al terrorismo. Molte, tuttavia, sono
le ragioni per le quali è evidente che non si può vincere il terrorismo con
la guerra. La prima è che il terrorismo non è un'entità statale, non  ha un
esercito, non ha strutture pubbliche, non si immedesima con un governo.
L'Afghanistan è stato arato di bombe e di carri armati,le sue montagne e le
sue grotte sono state crivellate di cannonate, i villaggi sconvolti e
insanguinati, milioni di profughi consegnati alla fame, ma è mancata la
cattura di bin Laden, dichiarato obiettivo della guerra. Per quanto la Casa
Bianca parli di un Grande Satana Terrorista (chiedo scusa a Bush se anch'io
ho usato poco fa una terminologia del genere) tutti sanno che non esiste un
solo terrorismo: quello. filippino non ha niente a che vedere con quello
palestinese, tanto per dire, o con  l'Eta o con gli epigoni delle Brigate
Rosse italiane né con il terrorismo di stato nord-coreano o colombiano.
Perciò la guerra a un dato paese non sradicherà mai il terrorismo, il
terrorismo può essere vinto soltanto tagliandogli i collegamenti con i
grandi potentati economici che lo sostengono e risanando le spaventose
situazioni di ingiustizia dalle quali provengono tanti suoi esponenti. Al
contrario, le guerre, aumentando le zone dell' ingiustizia e della
disperazione dei popoli, aumentano a dismisura le nascite dei terrorismi.
Da questo punto di vista le guerre sono, con ogni evidenza, del tutto
controproducenti. Non è moltiplicando i morti che si generano paci; e. la
guerra che ci sta di fronte non sarà soltanto la cancellazione di una
nazione ma  un'autentica seminagione di terrorismo.  Chiunque ha seguito da
vicino la vicenda medio.orientale, come io faccio da quasi quarant'anni, sa
bene come il terrorismo palestinese sia stato accuratamente coltivato dai
governi israeliani che ne hanno cavalcato la disperazione per estirpare
ogni pretesa palestinese ai propri diritti. Bush non sta vendicando i morti
di New York, sta certamente preparando al suo popolo nuovi orrori. Dirlo è
non già fare dell'antiamericanismo ma esporre una semplice inconfutabile
realtà; e che la maggioranza dell'opinione pubblica degli States non se ne
renda conto, narcotizzata com'è dai suoi mass-media, mostra come persino
una grande democrazia possa essere sequestrata e strumentalizzata dal
potere di un trust che è riuscita a portare alla Casa Bianca uno dei suoi
uomini.
***
Care amiche, cari amici, non dobbiamo avere occhi soltanto per questi
orrori. Dobbiamo essere consapevoli di vivere giorni terribili ma anche
giorni  meravigliosi. Contro ogni previsione dei professionisti della
politica e della psicologia delle masse, da tutta la Terra si è levata
un'ondata di NO alla guerra, una immensa protesta globale. Benché io abbia
ormai vissuto una lunga vita, non ricordo di avere mai assistito a un
fenomeno così imponente. E' una gigantesca forza politica della quale è
impossibile prevedere come si esprimerà localmente ma i cui principi
appaiono inequivocabili: NO alla ferocia, alla degradazione del diritto,
alla logica delle armi, SI' alla custodia del Creato, alla giustizia
internazionale, al dialogo, alle istituzioni di pace, alla dignità umana.
Proprio nel momento in cui l'arroganza imperiale ha tentato di smantellare
politicamente il Palazzo di Vetro, sembra risuonare la parola del Dio di
Isaia. "Non indugiatevi a parlare del passatoŠEcco - non vedete? - io sto
creando in mezzo a voi una cosa nuova".
Questo concetto della novità che cresce nascostamente in mezzo a noi ha
esempi straordinari, a cominciare da uno che riguarda da vicino il nostro
essere Chiesa. Mi capita in questi giorni di leggere la "Storia dei Giudei"
o "Antichità Giudaiche" di Flavio Giuseppe, lo storico ebreo che fra il 79
e il 94 dopo Cristo scrisse del suo popolo. Ebbene, in un' opera di
altissimo livello storiografico e che mostra una perfetta conoscenza della
Palestina dell'epoca, nella edizione che sto leggendo, alla vicenda di Gesù
sono dedicate 10 righe su 850 pagine, Flavio Giuseppe sa, e dice, che vi
sono persone che anche dopo la morte di Gesù continuano a ritenerlo il
Messia, ha egli stesso il dubbio che Gesù non fosse soltanto un uomo ma
considera con ogni evidenza i cristiani una piccola setta. Eppure proprio
in quegli anni l'evangelo si diffonde, raggiunge schiavi e matrone,
magistrati e militari, i sobborghi di oscure città alla estrema periferia
dell'Impero ma anche il cuore dell'Impero, Roma, la Grande prostituta,
Mancano soltanto due secoli a Costantino, al trionfo, anche sociale, del
cristianesimo: ma lo storico degli intellettuali d'alto bordo non se ne
accorge, troppo attento alle sue nostalgie e alla grandezza dei vincitoriŠ
Storia che si rinnova, secolo dopo secolo, per la cecità di chi crede che
"dal basso", non possa venire niente di importante. Penso, per esempio,
alla vittoria di Lula in Brasile. Un figlio di straccioni, un
metalmeccanico che ha perso un dito sotto una pressa, un sindacalista
arrestato per sedizione, un uomo politico per due volte non votato da
grandi masse perché le televisioni padronali dicevano che sarebbe stato
vergognoso eleggere uno che non si metteva mai la cravatta, siede oggi nel
centro del potere di uno fra gli stati più importanti del mondo, avendo
conquistato poco a poco, con infinita pazienza e grande abilità. la fiducia
di tutti i poveri che desideravano finalmente il riconoscimento dei loro
diritti a una vita senza fame, senza terribili malattie, senza
analfabetismo, senza repressioni poliziesche. Ancora due anni fa la
possibilità di una sua vittoria veniva smentita da tutti gli "esperti".
Penso al Forum Sociale di Porto Alegre, a come è diventato il centro di un
incontro mondiale in cui si esprimono con nuova chiarezza problemi, si
studiano soluzioni e soprattutto si abbattono confini nazionali e
ideologici, nasce una globalizzazione della speranza. Penso a che cosa è
stato il Social Forum di Firenze, boicottato dalle maggiori associazioni,
purtroppo anche ecclesiali, e tuttavia diventato una specie di immensa
università della strada, migliaia di giovani intenti a capire la Terra del
loro futuro e a crearsi un nuovo stile di vita ascoltando grandi testimoni
di coraggioso impegno come il vecchio Ingrao, Alex Zanotelli, Luigi Ciotti,
Susan George. Penso a come la volontà di pace sta aprendo nuove strade
all'ecumenismo. Le grandi chiese cristiane, da Mosca a Canterbury,
riecheggiano le parole del vecchio pontefice di Roma; una delegazione della
Chiesa metodista americana, cui appartiene il presidente Bush, viene a dire
a Giovanni Paolo II affetto e consenso. Dall' epoca  della "Pacem in
terris" il vangelo di giustizia e di pace non era apparso agli uomini così
amabile e forte.
Tocca a noi, adesso, esserne viventi testimoni.
Cogliere le realtà che germinano nelle pieghe della storia, fra le rocce
dei deserti, la vita segreta, apparentemente inesistente per mesi e mesi,
che improvvisamente esplode di colori e profumi all'arrivo di
un'acquazzone, questa è la capacità alla quale siamo chiamati.  Seguire gli
impulsi che ci vengono dal cuore. L'indignazione davanti alle ingiustizie
che uccidono o paralizzano tanti bambini. La voglia di fare per rimediare,
almeno un poco, come è possibile, a queste realtà. C'è una bellissima
poesia di Pablo Neruda che ci lancia una sfida a vivere in pienezza di
vita. Dice, fra l'altro:
Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi (Š)
Muore lentamente chi evita una passione.
Lentamente nuore chi non rischia la certezza per inseguire un sogno,
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo.
E conclude dicendo:
Soltanto un'ardente pazienza può portare
al raggiungimento di una splendida felicità.
***
"Una ardente pazienza". I poeti hanno la straordinaria capacità di operare
sintesi meravigliose. "Pazienza" sembra parola che spinge al silenzio, al
gradualismo, ai tempi lunghi. Così è. Mi è capitato di domandare al
brasiliano Carlos Prestes, uno dei più coraggiosi combattenti per la
giustizia del secolo scorso, quale fosse secondo lui la virtù più
preziosaun rivoluzionario. Proprio così mi rispose: "La pazienza". Ma
certamente avrebbe convenuto con Neruda: pazienza, ma ardente perché fatta
di quella indignazione che ha per figli il coraggio e l'ostinazione. Il
rifiuto di "una morte a piccole dosi", come dice ancora Neruda in quella
sua poesia, alludendo a chi spegne il televisore e spranga la porta di casa
con l'illusione di poter tenere lontano il futuro. L'accettazione
coraggiosa, invece, di una vita che conosce le esigenze della solidarietà e
che perciò diventa, almeno nella mia esperienza una scelta di gioia, di
felicità.
Vorrei ricordare qui, prima di concludere, un amico e maestro, un santo del
cui dies natalis, ricorreranno fra poco i dieci anni: don Tonino Bello, il
vescovo mai chiamato nella sua Chiesa "monsignore", tanto meno
"eccellenza".  Una volta, all'Arena di Verona, parlando di pace, egli
propose di sostituire alla espressione evangelica "Beati i costruttori di
pace", una frase che suonava così: "In piedi, costruttori di pace". Voleva
dire che dobbiamo prendere posizione, non cedere alla noia, al conformismo,
alla pigrizia, alle stupide e volgari tentazioni del consumismo. Voleva
dire che dobbiamo essere i custodi della pace, quella fra i popoli, quella
fra gli individui e anche quella nei nostri cuori, che solo esiste quando
siamo in armonia con il Creato.
Don Tonino Bello non parlava per gli altri. Fra gli spettacoli più
straordinari dei nostri anni, uno spettacolo che persino i mass-media che
non lo amavano furono costretti a raccogliere, c'è quella sua "spedizione
di pace" a Sarajevo, pochi mesi prima della morte. Fu, io credo, un vero
martirio: un uomo ormai ridotto a uno scheletro testimoniava la sua fede,
spasimando per il cancro che lo divorava, per una fatica che non si
comprendeva come potesse affrontare. Ma fu anche, per lui, come disse, un
momento di felicità: la certezza di lavorare per un'umanità migliore, per
il regno di Dio.
Non cito don Tonino soltanto per un debito d'affetto. Lo ricordo, invece,
perché la sua testimonianza ci chiede di scoprire le forze che sono in noi
e che noi non attiviamo, talvolta per mancanza di autostima., talvolta per
paura di doverci troppo compromettere. O anche per superbia, poiché c'è
gente che rifiuta ogni impegno perché, dice, "tanto potrei fare così poco".
In realtà fra il poco e il niente c'è un abisso. Il niente ci chiude nella
gabbia della noia, dell'egoismo, della disperazione. Il poco è un passo
sulla via della solidarietà, un saggiare la strada, un provare a noi stessi
che siamo ancora giovani 8° quasi!).. Il niente ci abbandona nelle mani del
grande tentatore; il poco ci apre spiragli di libertà, ci indica che forse
potremmo fare qualcosa di più. Per questo, nel momento in cui viviamo, una
finestra che si adorna della bandiera della pace, la partecipazione a una
fiaccolata, la decisione di non acquistare più il carburante della Esso, il
tentativo di ritardare un convoglio che trasporta strumenti di morte, una
notizia taciuta dalla televisione e fatta circolare tra gli otto milioni e
mezzo di italiani che hanno soltanto quella fonte di informazione, tutto
questo "poco", moltiplicato per milioni, è di estrema importanza per la
Terra e per la pace .
La grande ricchezza della speranza non è data a chi contempla il mondo come
se non gli appartenesse, nel duplice significato dell'espressione, cioè
come se il mondo non appartenesse a lui e lui non appartenesse al mondo. E'
soltanto quando si scopre questo collegamento profondo, questa reciproca
responsabilità che la vita merita di essere vissuta.
Ed è allora, nel momento in cui decidiamo di collegarci all'immensa schiera
degli uomini e delle donne di buona volontà, che amarezza e disperazione
cadono, il lutto e la disperazione cedono al sorriso e nel deserto compare
l'angelo della speranza, dell' ottimismo cristiano. Pochi giorni prima di
salire sul patibolo del carcere nazista di Flossemburg, quasi esattamente
58 anni fa, Dietrich Bonheffer, il grande santo luterano, ormai
perfettamente consapevole del suo destino, parlava così:
"L'essenza dell'ottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione
presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si
rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto
fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia
mai il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica per sé" .
Auguro a voi e a me di conquistare questo ottimismo che si chiama speranza
cristiana e che nessun potente della Terra potrà mai strapparci se noi non
lo vorremo.