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La nonviolenza e' in cammino. 544
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 544
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 23 Mar 2003 13:12:21 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 544 del 23 marzo 2003 Sommario di questo numero: 1. Fermare la guerra, far cessare le stragi 2. Hannah Arendt, il male nella sua dimensione radicale 3. Alcune risposte alle principali obiezioni che più frequentemente vengono rivolte a chi propone la scelta della nonviolenza come metodologia di lotta 4. Le ragioni della nonviolenza in alcuni scritti di Giuliano Pontara 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. FERMARE LA GUERRA, FAR CESSARE LE STRAGI Tutte le iniziative che manifestano opposizione all'uccisione di esseri umani siano lodate. E siano lodate tutte le iniziative intese a salvare le vite di esseri umani. Siano lodati gli interpositori, i soccorritori, gli obiettori tutti, che alla guerra e alla violenza e alla morte si oppongono. E cosi' appoggiamo tutte le manifestazioni di pace e per la pace: dalle bandiere ai balconi ai cortei per le strade, dalle assemblee ai digiuni. Hanno il nostro plauso tutte le manifestazioni pacifiche e democratiche, civili e umanitarie, che si oppongono alla guerra (il piu' grande dei crimini, il piu' grande dei terrorismi, la piu' grande delle dittature). Hanno il nostro consentimento e sostegno tutte le iniziative che rispettano e promuovono tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani. * Ma occorre qualcosa di piu', e questa aggiunta e' la nonviolenza. Come illimpidimento del nostro riflettere ed agire; come coerenza tra cio' che pensiamo, diciamo, facciamo; come concretezza ed efficacia delle nostre azioni. E per essere espliciti: opporsi alla guerra richiede di opporsi anche alla sua logica, ai suoi, strumenti, ai suoi apparati, alle sue finalita'; e dunque: - opporsi alla denegazione dell'altrui umanita', opporsi alla menzogna e alla violenza sempre; - opporsi alla produzione di armi, oltre che al loro commercio e al loro uso: una delle cose da fare e' far cessare la produzione di armi; - impegnarsi per il disarmo unilaterale, che e' la sola strada per il disarmo generale; - opporsi alle organizzazioni alla guerra preposte, cioe' agli eserciti: l'azione antimilitarista e' la condizione "sine qua non" per opporsi alla guerra; - lavorare alla difesa popolare nonviolenta come efficace concreta alternativa al modello militare di difesa; - opporsi a un modello di relazioni (internazionali, politiche, sociali, economiche, culturali, di genere, interpersonali) fondate sul dominio, sullo sfruttamento, sul privilegio: dunque opporsi al modello di sviluppo (e di pratiche e di relazioni e di consumi) che sul dominio, lo sfruttamento, il privilegio si regge: occorrono scelte di giustizia nella propria stessa personale condotta ed esistenza; - praticare la convivenza, nel riconoscimento della dignita' umana di ogni essere umano, nella condivisione delle risorse e delle conoscenze, nella solidarieta' e reciprocita', nella dialettica di eguaglianza e differenze nel mutuo rispetto e sostegno, nella cooperazione e nell'attenzione. * Ma qui e adesso per cercare di far cessare la guerra cosa occorre fare, e cosa si puo' fare, dal punto di vista della nonviolenza in quanto opposizione concreta e immediata alla violenza? - Contrastare la macchina bellica con l'azione diretta nonviolenta: bloccando l'operativita' delle basi militari americane (e di alleanze dominate dagli Usa: come la Nato) presenti in Italia, e nella guerra in quanto tali direttamente coinvolte. - Denunciare all'autorita' giudiziaria i detentori di poteri politici ed istituzionali che hanno cooperato allo scatenamento della guerra violando la legalita' costituzionale e il diritto internazionale; chiedere ed ottenere che essi siano arrestati, processati e puniti come promotori e fiancheggiatori dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanita' di cui la guerra in corso consiste, come golpisti, terroristi e stragisti. - Con lo sciopero generale ad oltranza fino alle dimissioni del governo golpista e fiancheggiatore dei promotori della guerra terrorista e stragista; affinche' cada il governo del colpo di stato e del crimine bellico, e si addivenga a un nuovo governo democratico e rispettoso delle leggi, che fedele alla Costituzione della Repubblica Italiana agisca nel contesto internazionale secondo l'ispirazione, il vincolo e l'impulso del principio fondamentale del ripudio della guerra, ovvero si adoperi con tutta la forza ed autorevolezza del nostro paese e del nostro ordinamento giuridico contro la guerra, per la sua immediata cessazione. - Con scelte di giustizia nella propria personale condotta: non accettando piu' di sostenere con i propri consumi, con il proprio tenore di vita, con la propria collocazione sociale di privilegio, il sistema di relazioni che condanna alla miseria, alla violenza, alla fame e alla morte i quattro quinti dell'umanita' presente e devasta irreversibilmente l'unica terra che abbiamo. - Con l'accoglienza e l'aiuto a tutti i bisognosi: umani tra gli umani. Poiche' una e' l'umanita'. * La guerra puo' essere fermata: con la nonviolenza. La dittatura planetaria dei signori della guerra puo' essere sconfitta: con la forza della nonviolenza. E' possibile salvare la terra da un'Auschiwitz e da un'Hiroshima planetarie: con la scelta della nonviolenza. E questa e' l'ora. Ed e' per te che suona la campana. 2. MAESTRE HANNAH ARENDT: IL MALE NELLA SUA DIMENSIONE RADICALE [Da Hannah Arendt, Karl Jaspers, Carteggio, Feltrinelli, Milano 1989, p. 104 (e' un passo di una lettera di Hannah Arendt a Karl Jaspers del 4 marzo 1951). Una breve notizia biobibliografica su Hannah Arendt e' nel n. 534 di questo notiziario] Che cosa sia realmente oggi il male nella sua dimensione radicale, non lo so, ma mi sembra che esso in certo modo abbia a che fare con i seguenti fenomeni: la riduzione di uomini in quanto uomini ad esseri assolutamente superflui... 3. MATERIALI. ALCUNE RISPOSTE ALLE PRINCIPALI OBIEZIONI CHE PIU' FREQUENTEMENTE VENGONO RIVOLTE A CHI PROPONE LA SCELTA DELLA NONVIOLENZA COME METODOLOGIA DI LOTTA [Riproponiamo pressoche' integralmente questo testo gia' diffuso nel 1999 e successivamente raccolto ne La nonviolenza contro la guerra, Centro di ricerca per la pace, Viterbo 2000] La proposta della nonviolenza come metodologia di lotta ha un impatto cosi' forte gia' solo a livello psicologico che i propugnatori della lotta politica e sociale senza esclusione della violenza hanno spesso una reazione di chiusura difensiva consistente non nel considerare se e quanto essi le tecniche della nonviolenza gia' adottino (poiche' cosi' e' nella gran parte dei conflitti) e se essa non sia preferibile come istitutiva di relazioni umane e sociali, bensi' nel cercare immediatamente dei casi-limite atti a falsificare (in senso epistemologico) la congruita' e l'efficacia della proposta gandhiana. Poiche' questo avviene frequentemente anche nell'area impegnata per la pace, per la democrazia, per i diritti umani e per la difesa della biosfera, aree di impegno politico e sociale in cui sono generosamente impegnate anche molte persone che mantengono sulla violenza un atteggiamento ambiguo (si badi bene: dal nostro punto di vista e' ambiguo l'atteggiamento di chi ammette l'uso delle armi, l'esistenza degli eserciti, ritiene lecite le guerre, et similia: come e' noto tale ambiguita' e' condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione planetaria ed e' inscritta negli ordinamenti giuridici di tutti i paesi e gli stati del mondo), ci e' sembrato opportuno mettere per iscritto alcune considerazioni in merito e svolgere alcuni schemi argomentativi, cercando di sistematizzare alcune riflessioni che abbiamo spesso esposto in occasione di dibattiti su questo tema. * 1. Le tecniche della nonviolenza sono usate spontaneamente nei conflitti 1.1. Nelle discussioni e nel prendere decisioni Nella discussione e nei processi decisionali tutte le volte che non si giunge alle mani si e' preferito usare forme democratiche di persuasione e di deliberazione. Certo, la proposta nonviolenta chiede di fare un passo ulteriore: la scelta del metodo deliberativo del consenso, che cerca di estendere ulteriormente la prassi democratica nei processi decisionali; ma il principio e' il medesimo: per dirlo con la bella formula di Guido Calogero: contare le teste, anziche' spaccarle. 1.2. Nelle lotte sociali Le forme di lotta piu' consuete nelle lotte sociali sono altrettante tecniche che la nonviolenza ha fatto proprie e sistematizzato: lo sciopero, il boicottaggio, la manifestazione di protesta, e cosi' via. Certo, la proposta nonviolenta chiede di fare un passo ulteriore: la noncollaborazione, la disobbedienza civile, l'azione diretta nonviolenta, ovvero le forme di lotta nonviolente piu' limpide e piu' radicali implicano un impegno personale che puo' essere anche molto pesante da sostenere; ma il principio e' il medesimo: opporsi all'ingiustizia, ed all'ingiustizia ci si oppone tanto piu' concretamente ed efficacemente quanto piu' lo si fa con onesta', lealta', radicalita'. * 2. Scegliere di soffrire anziche' far soffrire Molti si mostrano sovente spaventati dinanzi all'assioma gandhiano per cui nella lotta nonviolenta occorre essere disposti a soffrire piuttosto che a far soffrire. Ma questo e' il nostro comune comportamento quotidiano in quasi tutte le nostre relazioni sociali e scelte personali. La disponibilita' al sacrificio personale e' alla base di moltissimi nostri comportamenti sociali; e spesso si assumono sacrifici onerosi per scopi di scarso valore o per soddisfare bisogni assolutamente alienati. Vediamo qualche esempio: la disponibilita' al sacrificio da parte del tifoso sportivo per la sua squadra (che peraltro e' oggettivamente del tutto inutile); la disponibilita' al sacrificio di chi si sottopone a ristrettezze per risparmiare soldi per comprare un'automobile come status-symbol (subendo cosi' il piu' feroce e stupido dei condizionamenti pubblicitari); la disponibilita' al sacrificio nel legame d'amore (che e' invece gia' cosa nobile anche se puo' dar luogo a comportamenti inadeguati e fin patologici). In generale il differire il piacere in vista di obiettivi piu' intensi e/o piu' alti, piu' lontani nel tempo, e' caratteristico della nostra comune condotta: vedi i casi dello studio, dell'allenamento, dell'esercizio, dell'ascesi, etc. Ugualmente frequente e' la disponibilità al sacrificio della propria liberta' a vantaggio del rispetto degli altri e quindi della comune convivenza (non c'e' bisogno di chiamare in causa i concetti di altruismo e di egoismo, basti pensare alle semplici regole condominiali); analoga la disponibilita' al sacrificio nella famiglia da parte dei genitori a vantaggio dei figli. Insomma, la disponibilita' a sacrificarsi non e' affatto cosa rara, ma comportamento il piu' frequente. Certo, la proposta nonviolenta chiede di fare un passo ulteriore: di applicare la disponibilita' a sacrificarsi proprio nel conflitto, ovvero laddove si scatena la nostra aggressivita' e piu' predisposti siamo a fare del male ad altri. E chiede anche di imparare a lottare cercando di ridurre al minimo la violenza senza pretendere che l'avversario segua la nostra stessa condotta. Ci chiede di preferire la nostra sofferenza alla sofferenza altrui, di preferire subirla anziche' infliggerla. Non e' facile, ed implica una contraddizione. Ma ad essere intrinsecamente contraddittoria e' la situazione del conflitto, eppure il conflitto e' necessario; così come e' evidente che l'aggressivita' esiste, e quindi non va repressa ma incanalata e resa costruttiva. La scelta di lottare con le tecniche della nonviolenza e' il contrario della vilta'; la scelta di lottare con le tecniche della nonviolenza, e quindi la consapevole decisione di esser disposti a subire sofferenze piuttosto che a provocarne richiede certamente un grande coraggio. Ma non e' forse vero che proprio il coraggio e' la virtu' morale piu' apprezzata nel conflitto? * 3. Sulla questione dei casi estremi Sovente chi si oppone alla nonviolenza pone il problema della sua praticablita' in casi estremi, ovvero di lotta contro avversari particolarmente efferati. E' una questione importante e complessa, che va affrontata in modo preciso ed articolato, cercando di far luce su diversi aspetti. 3.1. Sulla questione dei casi estremi posta come sofisma Dinanzi a chi fa questione di casi estremi con l'intento di negare sempre e comunque la validita' della nonviolenza, va innanzitutto rilevato che appunto in quanto estremi, questi casi raramente si danno, e possono pertanto essere considerati a tutti gli effetti come eccezionali. E quindi poiche' una regola di condotta non si fonda sulle eccezioni ma sulla sua efficacia nelle situazioni piu' frequenti, da questo punto di vista si puo' agevolmente dimostrare che la condotta nonviolenta sarebbe una scelta corretta anche se essa fosse inane o errata in situazioni estreme. Cosicche' in linea di principio e' solitamente preferibile evitare di impantanarsi in discussioni teoriche speciose su casi estremi ed eroici, ma si inizi intanto, e si esorti, a praticare la nonviolenza nei casi piu' frequenti di conflitto: ci si incammini sulla via della nonviolenza, dopo il primo passo tutto man mano si chiarira' nella pratica, nell'esperienza e nella riflessione sull'esperienza che si conduce. 3.2. La nonviolenza come forma di gestione del conflitto comunque preferibile alla violenza Tuttavia poiche' la nonviolenza non e' la semplice buona creanza o il semplice civile condursi, ma e' appunto intervento di lotta in situazioni di conflitto, il problema puo' essere legittimamente posto e non deve essere eluso. Argomenteremo qui di seguito in primo luogo perche' la nonviolenza sia una forma di gestione del conflitto comunque semrpe preferibile all'uso della violenza. In un conflitto l'uso della nonviolenza e' migliore dell'uso della violenza poiche' l'uso della prima (anche da una sola delle parti in lotta) riducendo complessivamente la seconda, con cio' riduce altresi' la sofferenza complessiva che il conflitto comporta e quindi anche l'ingiustizia e la sofferenza preesistenti che il conflitto hanno provocato. La nonviolenza e' migliore della violenza perche' tutti i suoi effetti interiori ed esterni sono preferibili: la nonviolenza facilita l'autostima, la comprensione, la solidarieta', la pace, la democrazia, la promozione dei diritti e della dignita' umana; la violenza facilita l'interiore incertezza, l'incomprensione, l'esclusione, lo stato di inimicizia, di minaccia, di dolore e di paura, l'autoritarismo e la repressione, la riduzione e la negazione dei diritti e della dignita' umana. La nonviolenza e' adesione alla verita', qundi esclude l'uso della menzogna, dell'inganno, della mistificazione e della dissimulazione; la violenza fa uso dell'inganno, dei sotterfugi, della frode; e' evidente che chi in un conflitto fa uso della frode, e' capace di ingannare gli altri anche quando il conflitto sara' finito: chi usa la menzogna non e' affidabile mai. La nonviolenza rispetta l'umanita' di tutti, anche degli avversari, e punta ad agire secondo regole sulle quali sia possibile fondare una civile convivenza; le regole della lotta violenta sono intrinsecamente tali che su di esse non e' possibile fondare una civile convivenza, esse non rispettano l'umanita' altrui. 3.3. La nonviolenza e' lotta Tutti i grandi animatori e studiosi di lotte nonviolente mettono in chiaro che la nonviolenza e' innanzitutto lotta. Essa si oppone all'ingiustizia e alla passivita' che favorisce l'ingiustizia; essa si oppone alla vilta' che e' complicita' con gli oppressori. Nella sua lotta contro l'ingiustizia e per l'umanita' la nonviolenza si pone sempre l'obiettivo di ridurre la violenza al minimo possibile. La nonviolenza non e' mai equidistante tra oppressori ed oppressi, essa si schiera con gli oppressi, essa li incita alla lotta, essa li esorta a ribellarsi contro l'ingiustizia. Tutti i grandi protagonisti di lotte nonviolente hanno chiarito la loro solidarieta' con gli oppressi in lotta, ma hanno altresi' posto agli oppressi la necessita' di orientare la loro lotta in direzione dell'illimpidimento, della coerenza, del rigore morale ed intellettuale, insomma della scelta della nonviolenza. Tuttavia, anche in mancanza di questa scelta da parte degli oppressi in lotta, gli amici della nonviolenza sono al loro fianco nella lotta contro l'oppressione. 3.4. Come reagire alla violenza personale Anche qui, partiamo dalla realta'. Ad eccezione dei film di Charles Bronson, nella nostra stessa societa', pur cosi' violenta, e' condotta abituale e condivisa che alla violenza personale non si debba replicare con la legge del taglione: "occhio per occhio, dente per dente"; si e' ragionevolmente preferito delegare istituzioni specializzate all'ordine pubblico ed all'amministrazione della giustizia, cosicche' abitualmente se si subisce un torto o un danno rilevanti si reagisce con una denuncia, e non a coltellate. E' evidente che intervenendo specificamente nel conflitto sociale e politico occorre essere coscienti che la possibilita' che il nostro oppositore usi violenza e' reale, e quindi e' ineludibile il problema di riuscire a controllarla e ridurla a misura che non possa farci del male oltre una certa soglia che riteniamo accettabile per affermare le nostre ragioni. Tale problema e' piu' frequente di quanto non si creda: l'attivista per i diritti umani sa che il regime autoritario lo perseguitera' con ogni mezzo praticabile; il giornalista che denuncia efficacemente la mafia sa che rischia di essere assassinato; il militante politico e sindacale sa che esistono i picchiatori ed i killer al soldo degli sfruttatori e degli oppressori; il pubblico amministratore onesto sa quanto pericolosa sia la lotta contro corrotti e criminali negli enti pubblici; e cosi' via. Ma in tutti i casi citati e' evidente che l'esigenza che si pone a chi lotta contro l'oppressione e il crimine non e' quella di alzare il livello dell'impiego della violenza nello scontro, ma il suo esatto contrario, ovvero come contrastare e ridurre tale impiego della violenza, proprio per poter condurre nel modo piu' energico ed efficace la lotta e per poter rendere la stessa piu' ampiamente condivisa e praticata. La scelta della nonviolenza anche di fronte alla violenza personale ha solide ragioni non solo di ordine teorico (filosofiche, morali, di teoria del diritto e della politica) ma anche di ordine pratico (strategiche e tattiche, concrete). Certo, questa scelta non e' affatto facile. 3.5. Il giudizio sulla violenza La nonviolenza si contrappone alla violenza. Ma e' cosciente che al conflitto e' inerente l'uso della forza, e che essa e' piu' frequentemente coercitiva che non persuasiva. Da questo punto di vista e' evidente che l'obiettivo della nonviolenza e' non la negazione del conflitto, ma la riduzione al minimo della violenza. La nonviolenza si contrappone radicalmente alla violenza, ovvero si pone l'obiettivo concreto di contrastarla alla radice; questo implica uno sforzo di analisi capace di risalire alla violenza originaria, alla condizione di ingiustizia strutturale, che determina il conflitto e le violenze successive. La nonviolenza giudica e contrasta la violenza concretamente, senza fermarsi alle apparenze, sapendo che molto spesso la violenza peggiore e' quella incancrenita, cronicizzata, organizzata, sistematizzata, che si presenta come normalita', come "ordine costituito". Pertanto nel suo ripudio assoluto della violenza essa e' sempre decisa alla lotta. La nonviolenza sa di essere proponibile solo se dimostra di essere piu' coerente logicamente e piu' efficace praticamente nel contrastare l'ingiustizia delle forme di lotta violente. Per questo essa non e' mai astensione, ma impegno di lotta il piu' intenso e tenace e creativo e costante e severo (anche con se stessi); la nonviolenza non e' la scappatoia del debole, ma la resistenza del forte. 3.6. La nonviolenza e' ripudio assoluto dell'uccisione di esseri umani Sulla ammissibilita' o meno dell'uccisione come e' noto e' tuttora in corso un macabro dibattito giuridico e filosofico, mentre tantissimi esseri umani continuano ad essere assassinati. Molti stati fortunatamente si vanno orientando verso l'abolizione della pena di morte, la cui intrinseca disumanita' e' cosi' palese che non dovrebbe esserci bisogno di parlarne; tuttavia pressoche' tutti gli stati mantengono un esercito e prevedono la possibilita' di eseguire guerre; e' evidente che la guerra consiste specificamente nel minacciare ed eseguire omicidi, peraltro senza neppure il simulacro di un processo, ed a livello di massa. Il nostro punto di vista e' che l'uccisione di esseri umani e' sempre inammissibile; vale per noi il principio assoluto del "non uccidere"; per motivi di coerenza logica, e per motivi di coerenza morale. Questa nostra opinione prescinde da istanze religiose e da istanze ideologiche particolari, la affermiamo come un convincimento radicale di carattere intellettuale ed etico: il riconoscimento della dignita' di ogni essere umano implica necessariamente il suo diritto a vivere. 3.7. Nonviolenza e Resistenza Alla frequente domanda di quale sia il giudizio della nonviolenza sulla Resistenza antifascista, la risposta e' semplice: il sostenitore della nonviolenza e' dalla parte di chi si batte per ridurre la violenza, contro l'ingiustizia, per difendere la dignita' umana; e' quindi sempre dalla parte della resistenza; anzi: la nonviolenza e' innanzitutto e sempre appello alla resistenza contro l'oppressione. Il sostenitore della nonviolenza e' quindi sostenitore della Resistenza. A questo si aggiunga che gran parte della Resistenza contro il nazifascismo e' stata disarmata e nonviolenta: limitandoci all'esempio italiano, si considerino i grandi scioperi nelle fabbriche; tutta la rete di sostegno ai partigiani, agli antifascisti, ai perseguitati; l'esperienza stessa dell'antifascismo e della lotta partigiana e' stata innanzitutto una grande vicenda politica e morale ancor prima che militare. Cio' e' ovvio al punto che nelle stesse esperienze di resistenza armata, e fin nelle stesse esperienze dei movimenti di liberazione che praticano la guerra di guerriglia, costantemente si marca la necessita' della prevalenza del momento politico su quello militare, e di come lo scopo della lotta non e' il proseguimento della violenza e dell'oppressione, ma la cessazione delle stragi e delle violenze, e che a differenza degli eserciti in cui si combatte per il soldo e/o per l'autorita', nelle loro esperienze si combatte per un ideale di giustizia e liberta', ideale alla cui realizzazione la pratica della solidarieta' e la conquista della pace sono ritenute coessenziali. 3.8. La nonviolenza dinanzi al nazismo Sovente si ripete che la lotta gandhiana sarebbe stata impossibile se come avversario invece dell'impero britannico avesse avuto il nazismo. Questo argomento sottovaluta enormemente la violenza dell'imperialismo inglese e dell'oppressione coloniale. Ma e' opportuno non eludere la domanda che esso comporta: e' possibile usare la nonviolenza contro il nazismo? E quale sarebbe la condotta nonviolenta da adottare? Questo tema costituisce certo un caso estremo, ed e' particolarmente arduo da esaminare. Muoviamo da alcuni dati certi: a) come e' noto Gandhi sostenne in alcuni suoi scritti che le vittime del nazismo dovevano resistere nonviolentemente, disposti a lasciarsi massacrare fino a sciogliere il cuore dei loro aguzzini e comunque mantenendo fino in fondo la propria integrita' morale; le posizioni gandhiane diedero luogo ad una serrata discussione (complicata dal fatto che in quegli scritti Gandhi parlava anche della questione palestinese sostenendo la tesi che la Palestina appartenesse agli arabi), discussione cui presero parte anche illustri intellettuali come Martin Buber e Judah L. Magnes, ed i cui materiali sono stati parzialmente pubblicati sul n. 2/1991 della rivista "Micromega"; una efficace messa a punto della questione, cui rinviamo, e' nel capitolo Gandhi, il sionismo e la persecuzione degli ebrei, in Giuliano Pontara, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; ovviamente si veda anche Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino (particolarmente la parte su "La resistenza nonviolenta al nazismo", alle pp. 242-273); b) vi sono state esperienze concrete ed efficaci di Resistenza nonviolenta e di massa al nazismo (cfr. Pontara, op. cit.; Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino; gli opuscoli di Jeremy Bennet, La Resistenza contro l'occupazione tedesca in Danimarca, e di Magne Skodvin, Resistenza nonviolenta in Norvegia sotto l'occupazione tedesca, entrambi nei Quaderni di "Azione nonviolenta"; altri esempi sono citati nella cronologia in Christian Mellon, Jacques Semelin, La non-violence, P.U.F., Paris 1994) [a questi testi, che segnalavamo nel '99, va ovviamente aggiunto il fondamentale lavoro bibliografico di Enrico Peyretti, che abbiamo piu' volte presentato su questo notiziario - nota del 2003]; c) persino nell'orrore assoluto dei lager vi e' stata una Resistenza attraverso esperienze di solidarieta' e mantenimento della dignita' umana di cui testimoniano le opere di Primo Levi e di altri sopravvissuti; d) un crimine come la "soluzione finale" richiese una complicita' di massa enorme (cfr. al riguardo almeno le grandi ricerche di Raul Hilberg e di Leon Poliakov). Proviamo a ricavarne alcune riflessioni (che aggiungiamo a quelle relative a questo punto svolte da Pontara nel testo citato, cui rinviamo): se un regime totalitario come quello hitleriano per poter realizzare i suoi mostruosi crimini ebbe bisogno di una gigantesca complicita' di massa, ne consegue che esso era vulnerabile ad una lotta fondata sulla noncollaborazione di massa, ed una lotta di questo tipo non poteva che essere nonviolenta; se in alcune fasi persino un regime come quello hitleriano fu costretto da una protesta morale della societa' civile a recedere dall'esecuzione di alcuni suoi efferati crimini (il programma di sterminio dei sofferenti psichici e dei portatori di handicap fu interrotto a seguito delle proteste di rilevanti settori dell'opinione pubblica), ne consegue che anche in una societa' totalitaria e' possibile esercitare un'opposizione nonviolenta di massa concreta ed efficace; infine, se vi sono stati uomini che hanno avuto l'eroismo di resistere quando tutto sembrava renderlo impossibile, allora resistere e' un dovere necessario, e se cosi' e', allora si deve resistere nel modo piu' coerente, piu' integro, piu' limpido che sia possibile: nel modo che non puo' essere vinto della violenza perche' alla violenza tutto si contrappone e in nulla cede. Ordunque, noi proporremmo qui le seguenti conclusioni del tutto provvisorie e naturalmente discutibili: - dinanzi al formarsi, all'imporsi e all'agire di un potere oppressivo, ed a maggior ragione dinanzi a un potere totalitario, occorre lottare subito, rompere subito le complicita', opporsi subito nel modo piu' intransigente; - occorre la lotta di massa, che in quanto tale non puo' e non deve essere armata e clandestina, ma la piu' ampia, esplicita e risoluta possibile; - una volta che il potere dittatoriale si sia insediato, occorre persistere nel cercare di conseguire la noncollaborazione di massa; - rispetto all'attivita' di Resistenza armata contro un regime dittatoriale che sta eseguendo stragi o genocidi, occorre sostenere quella Resistenza anche se non si condivide la scelta delle armi e personalmente ci si astiene dal loro uso, sulla base della consapevolezza che essa Resistenza riduce la violenza e salva delle vite. * 4. Chi aderisce alla nonviolenza può collaborare con strutture e persone che non condividono la scelta nonviolenta? Si', ponendo alcuni punti fermi e poi facendo un'analisi caso per caso. Sicuramente chi aderisce alla nonviolenza non puo' cooperare con chi opprime. La collaborazione tra nonviolenti e non-nonviolenti (usiamo questo infelice neologismo per evidenziare che non si tratta di violenti tout court ma di persone che ritengono che la violenza possa essere una risorsa o uno strumento utilizzabile in determinate situazioni per fini ritenuti apprezzabili) in un movimento di lotta contro l'ingiustizia (ad esempio: contro la guerra) puo' essere persino ovvia, ma insieme essa va precisamente delimitata, deve essere accompagnata da un impegno da parte degli amici della nonviolenza a chiarificare le implicazioni e le conseguenze della lotta che si conduce ed a proporre la scelta di metodi che siano rigorosamente coerenti con i fini della lotta stessa (nell'esempio proposto: la pace). * 5. Occorre essere nonviolenti per utilizzare/praticare la nonviolenza? No. In primo luogo perche' non e' possibile essere nonviolenti tout court, la nonviolenza e' una condotta ideale cui tendere, ognuno di noi ha i suoi limiti e le sue debolezze. In secondo luogo perche' solo nel conflitto e' possibile adottare in senso pieno la nonviolenza, pertanto finche' non ci si trova nella lotta non si sa se si e' capaci di aderire alla nonviolenza o meno, e del resto ogni occasione di lotta pone problemi diversi, richiede soluzioni creative, puo' dar luogo ad esiti inattesi; quindi un atteggiamento modesto e vigile, critico ed autocritico, e' decisamente opportuno. In terzo luogo perche' la forza e la grandezza della nonviolenza e' proprio nella sua utilizzabilita'/praticabilita' da parte di tutti: in questo senso essa e' "il potere di tutti", in quanto e' sia appello a tutti, sia strumento da tutti utilizzabile, sia proposta di protagonismo di tutti, sia infine sentimento di solidarieta' con l'umanita' intera. * 6. Allora chiunque puo' utilizzare la nonviolenza? Si', come possibilita': in quanto chiunque puo' farne uso; ma in concreto per farlo effettivamente deve compiere un percorso di riflessione, di coscientizzazione, di preparazione, tutt'altro che facile. Ex abrupto, senza preparazione, non e' possibile usare la nonviolenza. Per usare la nonviolenza occorre l'addestramento alla nonviolenza. Ad esempio: una campagna di lotta nonviolenta richiede una preparazione della campagna attentissima e rigorosamente pianificata; ed una preparazione dei partecipanti di gran lunga piu' impegnativa dell'allenamento sportivo, dell'addestramento militare, della psicoterapia relazionale, dello studio scientifico di varie branche dello scibile. Anche una semplice e puntuale azione diretta nonviolenta richiede non solo una grande preparazione, ma una disciplina ed un impegno assai rigorosi. Ci permettiamo di riportare qui da un nostro scritto precedente, a titolo di esempio, uno schema di regole di condotta cui attenersi nella realizzazione di un'azione diretta nonviolenta. Quattro regole di condotta per l'azione diretta nonviolenta: I. A un'iniziativa nonviolenta possono partecipare solo le persone che accettano incondizionatamente di attenersi alle regole della nonviolenza. II. Tutti i partecipanti devono saper comunicare parlando con chiarezza, con tranquillita', con rispetto per tutti, e senza mai offendere nessuno. III. Tutti i partecipanti devono conoscere perfettamente senso, fini, modalita' e conseguenze dell'azione diretta nonviolenta; devono averne piena conoscenza, e devono esserne completamente convinti, in particolare sottolineiamo la necessita' di essere pienamente informati e consapevoli delle conseguenze cui ogni singolo partecipante puo' andare incontro, conseguenze che vanno accettate pacificamente e onestamente, ed alle quali nessuno deve cercare di sottrarsi. IV. Tutti devono rispettare i seguenti principi della nonviolenza: a) non fare del male a nessuno (se una sola persona dice o fa delle stupidaggini, o una sola persona si fa male, l'azione diretta nonviolenta e' irrimediabilmente e totalmente fallita, e deve essere immediatamente sospesa); b) spiegare a tutti (amici, autorita', interlocutori, interpositori, eventuali oppositori) cosa si intende fare, e che l'azione diretta nonviolenta non e' rivolta contro qualcuno, ma contro la violenza; c) dire sempre e solo la verita'; d) fare solo le cose decise prima insieme con il metodo del consenso ed annunciate pubblicamente (cioe' a tutti note e da tutti condivise); nessuno deve prendere iniziative personali di nessun genere; la nonviolenza richiede lealta' e disciplina; e) assumersi la responsabilita' delle proprie azioni e quindi subire anche le conseguenze che ne derivano; f) mantenere una condotta nonviolenta anche di fronte all'eventuale violenza altrui. Chi non accetta queste regole non puo' partecipare all'azione diretta nonviolenta, poiche' sarebbe di pericolo per se', per gli altri e per la riuscita dell'iniziativa che deve essere, appunto, rigorosamente nonviolenta. Per poter partecipare ad un'azione diretta nonviolenta e' necessario aver partecipato prima alla discussione ed all'organizzazione che ha portato alla sua decisione e realizzazione, ed e' altresi' assolutamente indispensabile aver partecipato ad un training di addestramento alla nonviolenza. * 7. Amici della nonviolenza, e non nonviolenti Un argomento sovente usato dagli oppositori della nonviolenza e' quello ad personam: per questo, conoscendo i nostri limiti e la grandezza della nonviolenza, sara' sempre bene, come consigliava Capitini, che coloro che propongono la nonviolenza si presentino non presuntuosamente come "nonviolenti", come se se ne ritenessero delirantemente la compiuta incarnazione, bensi' come semplici amici della nonviolenza, ovvero come persone che si sono messe in cammino lungo la via della teoria-prassi nonviolenta. * 8. Una polemica ineludibile Un sofisma, che riteniamo particolarmente subdolo (il sofisma, beninteso, non le persone che lo hanno proposto), e' emerso in alcuni settori del movimento pacifista italiano in questi mesi. Il sofisma e' il seguente: contro l'ingiustizia (in questo caso: la guerra) non conta tanto la scelta tra violenza e nonviolenza, quanto la scelta della disobbedienza civile. Chi propugna questo argomento e' in errore, poiche' in questa logica si manifesta una subalternita' totale al potere e alla violenza; per un verso, la disobbedienza civile, se non e' legata alla prospettiva della resistenza nonviolenta (come strategia e come progetto), postula l'accettazione di fatto del potere ingiusto come forzosa conseguenza della propria incapacita' a costruire e costituire un'alternativa; per l'altro lo sminuire la rilevanza assiologica ed operativa dell'alternativa violenza/nonviolenza implica una ambiguita' di giudizio sulla violenza che e' inaccettabile sempre, ma particolarmente in un movimento che vuole e deve essere contro la guerra e per la pace; e' infatti evidente che il sofisma della "guerra giusta" si puo' contrastare correttamente solo se si ripudia integralmente l'ideologia della "violenza buona"; e' altresi' evidente che per costruire la pace non e' sufficiente opporsi alla guerra, occorre altresi' difendere e promuovere i diritti umani, di cui l'esercizio della violenza, e la sua approvazione, costituisce la negazione assoluta. Non a caso poi nella circostanza concreta di questi mesi la disobbedienza civile non e' stata praticata, ed anzi con questa etichetta si e' scandalosamente preteso di rivestire comportamenti che non sono di disobbedienza civile, ma di mera provocazione, di compromissione, di minaccia ed esecuzione di atti di violenza idiota e corruttrice. Decisiva quindi e' invece proprio la scelta della nonviolenza; e nel caso particolare dell'opposizione alla guerra, a maggior ragione: peraltro solo una posizione rigorosamente nonviolenta poteva contestare radicalmente la guerra sterminista della Nato senza essere complice della guerra razzista di Milosevic. E non a caso da anni i movimenti di solidarieta' pacifisti e nonviolenti, e solo essi, avevano concretamente costantemente sostenuto l'esperienza nonviolenta di resistenza e riconciliazione in Kosovo. Su questo punto della crucialita' della scelta nonviolenta non solo per la credibilita', ma propriamente per la necessaria coerenza e concreta efficacia del movimento pacifista, abbiamo ritenuto di dover insistere con la massima chiarezza ed energia, proprio perche' anche voci autorevoli della cultura pacifista hanno purtroppo avuto un atteggiamento ambiguo in merito. * 9. Una definizione sintetica per concludere La nonviolenza e' una scelta e un metodo di lotta contro la violenza, la menzogna e l'ingiustizia. Essa si realizza nel conflitto e si contrappone tanto alla vilta' quanto alla violenza. Essa si fonda sulla convinzione che ognuno e' responsabile di tutto, che il potere oppressivo si regge fondamentalmente sulla complicita' e che quindi occorre rompere quella complicita'. La nonviolenza richiede a chi la adotta la disponibilita' a soffrire anziche' a far soffrire; un atteggiamento limpido e coerente in termini logici e morali (di ragionamento e di comportamento); coerenza tra mezzi e fini; l'obiettivo di ridurre la violenza al minimo; esemplarita' di comportamenti che abbiano valore educativo; agire concretamente ed assumersi la responsabilita' piena delle proprie azioni e delle loro conseguenze. La nonviolenza non e' statica e dogmatica, ma critica e creativa, dialettica e sperimentale. La nonviolenza e' un appello alla lotta: una lotta che e' eminentemente comunicazione ed amore. Non e' possibile scegliere la nonviolenza senza amore per l'umanita'. * 10. Due piccoli corollari 10.1. L'approccio alla nonviolenza qui proposto Come e' evidente l'approccio alla nonviolenza che qui abbiamo proposto e' di carattere meramente critico; la abbiamo analizzata da un punto di vista logico, etico e politico, e prescindendo da un retroterra religioso e metafisico, da una ontologia fondativa. E' noto che molti militanti e pensatori della nonviolenza hanno una visione del mondo ed una motivazione profondamente religiosa; per fare alcuni esempi: sia Gandhi, sia Lanza del Vasto, sia Capitini, sia King, sono in primo luogo personalita' religiose: per loro la noviolenza e' la conseguenza di una primaria, fondamentale scelta religiosa. Ugualmente e' noto che alcune grandi religioni recano il ripudio della violenza, e la scelta della nonviolenza, come uno dei loro tratti o attributi caratteristici: ad esempio il buddhismo e il cristianesimo. Nella nostra esposizione abbiamo preferito argomentare su un piano meramente immanentistico, prescindendo dal riferimento ai convincimenti religiosi. 10.2. nonviolenza e riflessione filosofica Di grande interesse sarebbe un confronto tra la teoria-prassi nonviolenta ed alcune tradizioni ed esperienze della riflessione filosofica classica e contemporanea: qui vi abbiamo rinunciato, sebbene sia evidente che alcune scelte terminologiche ed alcuni schemi argomentativi rinviavano implicitamente volta a volta a referenti pressoche' obbligati. A mo' di semplice elencazione, e per cosi' dire come segnalazione di un debito e come atto di gratitudine, vorremmo qui indicare almeno la Critica della ragion pratica di Immanuel Kant tra i classici, e tra i pensatori contemporanei la grande importanza che hanno avuto per la nostra riflessione sulla scelta nonviolenta i seguenti autori (che citiamo un po' alla rinfusa in ordine alfabetico): Guenther Anders, Hannah Arendt, Ernesto Balducci, Franco Basaglia, Ernst Bloch, Norberto Bobbio, Elias Canetti, Enrique Dussel, Hans Jonas, Primo Levi, Herbert Marcuse, Giuliano Pontara, Vandana Shiva, Simone Weil, Virginia Woolf. * 11. Una postilla necessaria In questo scritto abbiamo analizzato soprattutto una dimensione della nonviolenza: la nonviolenza come metodo di lotta, che Gandhi designa con il termine satyagraha (che traduciamo appunto come nonviolenza, ma che potremmo tradurre letteralmente come "forza della verita'", "adesione alla verita'"); segnaliamo che la nonviolenza ha anche altre dimensioni non meno importanti: essa e' altresi' una scelta etico-politica; una strategia; un progetto di societa'; una visione dell'uomo. 4. MATERIALI. LE RAGIONI DELLA NONVIOLENZA IN ALCUNI SCRITTI DI GIULIANO PONTARA [Riproponiamo ancora una volta questa scheda recante riassunti ed estratti da alcuni scritti di Giuliano Pontara, uno dei piu' autorevoli studiosi della nonviolenza viventi. Giuliano Pontara e' nato a Cles (Trento) nel 1932, antimilitarista, rifiuto' il servizio militare e preferi' emigrare, vivendo e lavorando in Svezia dal 1953; docente di filosofia all'Universita' di Stoccolma ed in altre istituzioni culturali, impegnato nella peace research e nei movimenti nonviolenti, tra i massimi studiosi di etica, da anni anima l'esperienza dell'Universita' per la pace a Rovereto. Tra le opere di Giuliano Pontara: Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1974; Il satyagraha, Movimento Nonviolento, Perugia 1983; Filosofia pratica, Il Saggiatore, Milano 1988; Antigone o Creonte. Etica e politica nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990; Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995; La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Breviario per un'etica quotidiana, Pratiche, Milano 1998. Ha curato (premettendovi un fondamentale saggio introduttivo) l'antologia di scritti di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino (nel 1996 ne e' apparsa una nuova edizione in una collana economica)] I. Da Giuliano Pontara, Nonviolenza (per la critica radicale della violenza) Elenchiamo alcune ragioni essenziali per cui occorre essere rigidamente contro la violenza. Citiamo da Giuliano Pontara, voce Nonviolenza, in AA.VV. (a cura di Bobbio, Matteucci, Pasquino), Dizionario di politica, Tea, Milano 1992: 1. il primo argomento "mette in risalto il processo di escalation storica della violenza. Secondo questo argomento, l'uso della violenza (...) ha sempre portato a nuove e piu' vaste forme di violenza in una spirale che ha condotto alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella distruzione dell'intero genere umano"; 2. il secondo argomento "mette in risalto le tendenze disumanizzanti e brutalizzanti connesse con la violenza" per cui chi ne fa uso diventa progressivamente sempre piu' insensibile alle sofferenze ed al sacrificio di vite che provoca; 3. il terzo argomento "concerne il depauperamento del fine cui l'impiego di essa puo' condurre (...). I mezzi violenti corrompono il fine, anche quello piu' buono"; 4. il quarto argomento "sottolinea come la violenza organizzata favorisca l'emergere e l'insediamento in posti sempre piu' importanti della societa', di individui e gruppi autoritari (...). L'impiego della violenza organizzata conduce prima o poi sempre al militarismo"; 5. il quinto argomento "mette in evidenza il processo per cui le istituzioni necessariamente chiuse, gerarchiche, autoritarie, connesse con l'uso organizzato della violenza, tendono a diventare componenti stabili e integrali del movimento o della societa' che ricorre ad essa (...). 'La scienza della guerra porta alla dittatura' (Gandhi)". A questi argomenti ne vorremmo aggiungere altri due: 6. un argomento, per cosi' dire, di tipo epistemologico: siamo contro la violenza perche' siamo fallibili, possiamo sbagliarci nei nostri giudizi e nelle nostre decisioni, e quindi e' preferibile non esercitare violenza per imporre fini che potremmo successivamente scoprire essere sbagliati; 7. soprattutto siamo contro la violenza perche' il male fatto e' irreversibile (al riguardo Primo Levi ha scritto pagine indimenticabili soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati). Agli argomenti contro la violenza Pontara aggiunge opportunamente un ultimo decisivo ragionamento: "I fautori della dottrina nonviolenta sono coscienti che ogni condanna della violenza come strumento di lotta politica rischia di diventare un esercizio di sterile moralismo se non e' accompagnata da una seria proposta di istituzioni e mezzi di lotta alternativi. Di qui la loro proposta dell'alternativa satyagraha o della lotta nonviolenta positiva, in base alla duplice tesi a) della sua praticabilita' anche a livello di massa e in situazioni conflittuali acute, e b) della sua efficacia come strumento di lotta" per la realizzazione di una societa' fondata sulla dignita' della persona, il benessere di tutti, la salvaguardia dell'ambiente. * II. Da Giuliano Pontara, Gandhismo (definizione del satyagraha) Sunteggiamo qui alcuni passaggi essenziali della voce Gandhismo scritta da Pontara per il gia' citato Dizionario di politica curato da Bobbio, Matteucci e Pasquino, Utet, Torino, poi Tea, Milano. Nello stesso volume Pontara ha steso altresi' le voci Nonviolenza, Ricerca scientifica sulla pace, Utilitarismo. La voce di dizionario di cui qui citeremo e riassumeremo alcuni punti essenziali esordisce ricordando che Gandhi insistette sempre nell'affermare che "non esiste qualcosa come il gandhismo", cosi' rimarcando il carattere aperto e sperimentale delle sue concezioni etiche, sociali e politiche, ed il suo rifiuto di ogni forma di settarismo che si richiamasse al suo nome (come e' noto, non altrimenti Marx affermava di non essere marxista). Gandhi non scrisse alcun trattato sistematico sulla sua concezione della nonviolenza, la sua opera letteraria e' fondamentalmente costituita di migliaia di articoli giornalistici, lettere, appelli, sempre stesi con un fine immediato ed interlocutori specifici; del resto la sua autobiografia conferma questo carattere sperimentale della sua riflessione ed azione, recando fin nel titolo esplicitamente l'espressione esplicativa di Storia dei miei esperimenti con la verita'. Ovviamente dal complesso dell'opera gandhiana, palesemente asistematica (e Pontara sottolinea una somiglianza in questo con l'opera gramsciana), e' possibile ricavare alcuni elementi teorici originali, persistenti e coerenti che grosso modo possiamo considerare particolarmente caratteristici dell'elaborazione teorica e della proposta pratica gandhiana. Pontara sottolinea particolarmente: "a) la critica all'industrialismo in quanto tale, e non soltanto alla variante capitalistica di esso; b) la concezione di uno 'stato nonviolento'; c) le idee sull'educazione fondata sulla partecipazione al lavoro produttivo, soprattutto a quello manuale; d) la sua filosofia dei conflitti di gruppo; e) la sua concezione dei rapporti tra etica e politica; f) la sua dottrina del satyagraha come modalita' del tutto particolare della lotta politica". La parte piu' perspicua del testo e' ovviamente la caratterizzazione della specifica modalita' di lotta nonviolenta che Gandhi definisce satyagraha, "termine coniato da Gandhi che significa, all'incirca, modalita' di lotta caratterizzata dalla fermezza nella verita'. Siffatta modalita' di lotta e' definita da sei princìpi fondamentali. In tutta brevita' essi sono i seguenti. 1) In una situazione conflittuale non si debbono porre obiettivi incompatibili con la concezione etica che soggiace alla dottrina nonviolenta: 'E' impossibile praticare il satyagraha al servizio di una causa ingiusta'. 2) In una situazione conflittuale si deve impostare sin dall'inizio la lotta in modo tale da non minacciare l'avversario nei suoi interessi vitali (la vita, l'integrita' fisica e psichica), scegliendo tecniche di lotta deliberatamente volte a minimizzare le sofferenze che il conflitto puo' comportare per la parte avversaria. 3) In una situazione conflittuale bisogna essere disposti a sobbarcarsi di sacrifici che possono essere anche assai notevoli (...). 4) Il quarto principio del satyagraha prescrive di attenersi in ogni fase del conflitto alla massima obiettivita' e imparzialita', di appellarsi alla ragione cercando di comprendere i motivi e gli argomenti della parte avversaria, di non operare nella clandestinita'. 5) Un requisito fondamentale del satyagraha e' quello di un impegno continuo e costante in un programma costruttivo fondato in parte sulla individuazione di fini sovraordinati, ossia tali che la loro realizzazione e' nell'interesse delle parti in conflitto ed e' possibile soltanto merce' una certa collaborazione tra di esse. Cio' serve a creare quel minimo di comunicazione senza la quale una lotta di tipo satyagraha non e' possibile (...). 6) Un ultimo principio fondamentale della lotta satyagraha e' quello che Gandhi chiamava 'la legge di progressione dei mezzi': si puo' ricorrere a forme piu' radicali di lotta nonviolenta soltanto dopo che quelle piu' blande si sono mostrate chiaramente inefficaci. Gandhi riteneva che i suoi 'esperimenti' di lotta satyagraha in Sud Africa e in India avessero dimostrato la validita' delle tre seguenti ipotesi: a) che con una dovuta preparazione e organizzazione e' possibile portare delle vaste masse a praticare forme di lotta che soddisfano in misura notevole i requisiti del satyagraha; b) che il metodo satyagraha costituisce una concreta ed efficace alternativa alla violenza armata nella lotta per delle cause giuste; c) che il satyagraha tende a bloccare, in forza di fattori morali, psicologici e politici, la reazione violenta dell'oppositore, a condurre a soluzioni accettate e costruttive dei conflitti, e di conseguenza ad una riduzione massima della violenza nel mondo". * III. Da Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta Nel secondo capitolo che ha lo stesso titolo dell'intero volume: La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, Giuliano Pontara evidenzia dieci qualita' di quella che definisce la "personalita' nonviolenta" (contrapposta alla "personalita' autoritaria"), qualita' che cosi' elenca e descrive: 1. Il ripudio della violenza (su cui svolge un'analisi molto fine ed articolata che qui non possiamo adeguatamente riassumere ma alla quale rinviamo anche perche' e' assai caratteristica del modo di argomentare dell'autore); 2. La capacita' di identificare la violenza (ovvero di riconoscerla anche laddove si presenti mascherata o cronicizzata; "la capacita' di individuare la violenza a tutti i livelli, da quello personale a quello istituzionale, da quello individuale a quello strutturale, da quello internazionale a quello intergenerazionale. Altrettanto importante e' la capacita' di individuarla in tutte le forme che essa puo' assumere, e non soltanto in quelle piu' appariscenti della violenza armata"); 3. La capacita' di empatia (ovvero di identificazione con gli altri e in primo luogo con quelli che soffrono di piu'); 4. Il rifiuto dell'autorita' ("una persona nonviolenta ritiene che la responsabilita' per quello che fa non puo' essere addossata ad altri... fa dunque propria la massima di don Milani: l'obbedienza, in quanto tale, non e' una virtu'"); 5. La fiducia negli altri (che si contrappone alla logica militare: "Uno dei principi fondamentali della nonviolenza prescrive di impostare la conduzione di un conflitto in modo tale da fare appello ai lati migliori di coloro che ci si trova di fronte come oppositori, usando tecniche di lotta volte ad ingenerare in un numero sempre maggiore degli individui che costituiscono il gruppo oppositore una crescente fiducia nei confronti del gruppo nonviolento. Si tratta di un continuo tentativo di sostituire la spirale della sfiducia, propria della logica della violenza, con la spirale della fiducia"); 6. La capacita' di dialogare, ovvero la disposizione al dialogo (qui Pontara svolge una efficace perorazione in favore del principio fallibilista, di cui riportiamo ampi stralci: "Un assunto che soggiace alla disposizione al dialogo e' l'accettazione del principio del fallibilismo. Questo principio ci dice che siamo tutti esseri mortali con poteri di conoscenza limitati onde nessuno puo' mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento crede essere vero, in effetti sia tale: puo' benissimo darsi che sia falso. Il fallibilismo vale in primo luogo nel campo della scienza. Ma vale ugualmente nel campo delle credenze etiche. I nostri giudizi morali possono infatti essere distorti dai nostri piccoli interessi egoistici, o fondati su ipotesi empiriche false o su informazioni incomplete. Possono anche essere fondati su assunti di valore che non abbiamo visitato criticamente o tali per cui se esaminati criticamente saremmo stati disposti ad abbandonare. (...) Il fallibilismo in etica e' profondamente compatibile con l'avere delle profonde convinzioni morali (...). Un individuo fornito di una personalita' nonviolenta... non vorra' escludere a priori la possibilita' di aver lui torto e l'avversario ragione. Per questo egli rifiuta metodi di conduzione dei conflitti che comportano la distruzione dell'avversario (...). Il fallibilismo abbraccia anche le credenze religiose ed essere fallibilista in religione e' pur sempre compatibile con l'avere una profonda fede religiosa (...). L'interiorizzazione del principio del fallibilismo e' dunque uno dei migliori vaccini contro tutte le forme di fanatismo...; e' altresi' fondamentale per il buon funzionamento delle istituzioni democratiche e costituisce un grande incentivo alla tolleranza (...). Il fallibilismo vale nei confronti di tutti i giudizi, anche quelli in cui si articola il fallibilismo stesso: non possiamo escludere che la credenza stessa per cui siamo tutti fallibili in effetti sia falsa. Ben poco pero' induce a credere che tale essa sia. Il contrario del fallibilismo e' il dogmatismo"); 7. La mitezza (che ovviamente si armonizzi con le altre qualita' indicate); 8. Il coraggio; 9. L'abnegazione; 10. La pazienza. * IV. Da Giuliano Pontara, Etica e generazioni future Pontara e' autore di un bel libro introduttivo, chiaro ed essenziale, su Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995. Il libro muove dalla consapevolezza che "le possibilita' che l'attuale generazione di adulti e quelle immediatamente successive hanno di influire, nel bene e nel male, e a livello globale, sulle generazioni future, anche su quelle che esisteranno in un futuro remoto, parrebbero essere enormemente maggiori di quelle che ogni altra generazione precedente abbia mai avute. Questo comporta che il problema della nostra responsabilita' nei confronti dei posteri assume un'importanza molto maggiore che non quella che ragionevolmente poteva avere per generazioni precedenti" (p. 6). Pontara delinea tre possibilita' di incidere sulle generazioni future, anche di un futuro remoto: "a) e' possibile incidere su quanti individui esisteranno in futuro - con lo zero come limite inferiore, caso che si verificherebbe, ad esempio, in seguito allo scoppio (magari per errore) di una guerra termonucleare che ponesse fine all'umanita'; b) e' possibile incidere su quali individui esisteranno in futuro: cio' non soltanto in seguito agli sviluppi della scienza biomedica e dell'ingegneria genetica, bensi' anche in quanto (e come si vedra' meglio in seguito) le scelte di certe linee di politica energetica, economica, sociale, demografica, militare, ecc., hanno effetti tali per cui nessuno degli individui che esisteranno tre-quattro secoli dopo che una certa linea politica e' stata scelta sarebbe esistito ove fosse stata mandata ad effetto una qualche linea politica alternativa; c) e' possibile incidere sul tenore e la qualita' della vita di vaste masse di individui che esisteranno in futuro" (p. 15). Stante questa situazione, si pone il problema della nostra responsabilita' morale verso le generazioni future, che Pontara articola cosi': "1. Vi sono obblighi o doveri morali di natura generale che soggetti, individuali o collettivi, esistenti in un qualsiasi periodo di tempo hanno nei confronti di generazioni di individui i quali rispetto ad essi vivranno nel futuro? (...) 2. Quali sono piu' precisamente gli obblighi generali cui si soggiace, e possono essi trovare una spiegazione plausibile, vale a dire un fondamento in una teoria etica sostenibile? (...) 3. Quali obblighi più specifici si possono dedurre da quelli generali per quanto riguarda la nostra responsabilità verso le generazioni a noi future? (...) 4. Quali sono le misure educative, sociali, giuridiche, politiche - sia a livello locale sia a livello globale, sia a livello di singoli stati sia a livello internazionale - necessarie al fine di far rispettare gli obblighi morali verso le generazioni future?" (pp. 15-16). Al termine di una vasta, approfondita e problematica disamina di tutti i nodi considerati, Pontara giunge alla formulazione di un approccio che propone "alcune norme di morale intergenerazionale tra le quali vorrei mettere in rilievo almeno le quattro seguenti: N1. Non fare scelte che abbiano effetti irreversibili, o comunque la cui reversibilita' e' molto difficile ed estremamente costosa; N2. Massimizzare il tenore di vita sostenibile; N3. Salvaguardare la biodiversita'; N4. Salvaguardare il patrimonio artistico, scientifico, culturale. Il rispetto generale di queste norme parrebbe essere condizione necessaria affinche' alle generazioni future siano almeno lasciate aperte opzioni non minori di quelle che hanno le generazioni oggi esistenti" (p. 160). Il filosofo pone anche il problema delle misure giuridiche e politiche necessarie affinche' queste norme siano rispettate, ed evidenzia come ad esempio la Costituzione italiana "non soltanto non contiene alcun accenno a diritti di generazioni future, ma non contiene nemmeno alcun accenno a obblighi di salvaguardia dell'ambiente" (p. 161); ed esaminando il contesto e le relazioni internazionali evidenzia la necessita' di una svolta profonda. "Chiudo con due osservazioni che sono ovvie, ma che vale la pena ribadire. La prima e' che bisogna stare in guardia contro l'errore di ritenere che ogni stato, come oggi esiste, abbia obblighi soltanto o particolarmente forti nei confronti delle generazioni future di propri cittadini. Infatti, come la storia, anche piu' recente, ci insegna, gli stati sono istituzioni che nascono, si modificano, spariscono. Non ha quindi molto senso parlare di obblighi che lo stato ha soltanto nei confronti delle generazioni di propri futuri cittadini. Il problema della responsabilita' verso le generazioni future e' un problema globale, non nazionale. La seconda osservazione che va ribadita e' che una politica responsabile (improntata, tra l'altro, alla osservanza dei dettami delle quattro norme sopra messe in rilievo) nei confronti delle generazioni future e' necessariamente connessa con una politica responsabile nei confronti delle generazioni oggi viventi nei paesi del Terzo mondo. (...) E' quindi della massima importanza che i rapporti tra Nord e Sud siano radicalmente ridimensionati: di questo ridimensionamento fa certamente parte la cancellazione regolata dell'enorme debito del Terzo mondo che si aggira sull'astronomica somma di 1.400 miliardi di dollari. E' una delle misure necessarie per salvaguardare vitali interessi di generazioni future" (pp. 165-166). 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 544 del 23 marzo 2003
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