La nonviolenza e' in cammino. 544



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 544 del 23 marzo 2003

Sommario di questo numero:
1. Fermare la guerra, far cessare le stragi
2. Hannah Arendt, il male nella sua dimensione radicale
3. Alcune risposte alle principali obiezioni che più frequentemente vengono
rivolte a chi propone la scelta della nonviolenza come metodologia di lotta
4. Le ragioni della nonviolenza in alcuni scritti di Giuliano Pontara
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. FERMARE LA GUERRA, FAR CESSARE LE STRAGI
Tutte le iniziative che manifestano opposizione all'uccisione di esseri
umani siano lodate. E siano lodate tutte le iniziative intese a salvare le
vite di esseri umani. Siano lodati gli interpositori, i soccorritori, gli
obiettori tutti, che alla guerra e alla violenza e alla morte si oppongono.
E cosi' appoggiamo tutte le manifestazioni di pace e per la pace: dalle
bandiere ai balconi ai cortei per le strade, dalle assemblee ai digiuni.
Hanno il nostro plauso tutte le manifestazioni pacifiche e democratiche,
civili e umanitarie, che si oppongono alla guerra (il piu' grande dei
crimini, il piu' grande dei terrorismi, la piu' grande delle dittature).
Hanno il nostro consentimento e sostegno tutte le iniziative che rispettano
e promuovono tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani.
*
Ma occorre qualcosa di piu', e questa aggiunta e' la nonviolenza.
Come illimpidimento del nostro riflettere ed agire; come coerenza tra cio'
che pensiamo, diciamo, facciamo; come concretezza ed efficacia delle nostre
azioni.
E per essere espliciti: opporsi alla guerra richiede di opporsi anche alla
sua logica, ai suoi, strumenti, ai suoi apparati, alle sue finalita'; e
dunque:
- opporsi alla denegazione dell'altrui umanita', opporsi alla menzogna e
alla violenza sempre;
- opporsi alla produzione di armi, oltre che al loro commercio e al loro
uso: una delle cose da fare e' far cessare la produzione di armi;
- impegnarsi per il disarmo unilaterale, che e' la sola strada per il
disarmo generale;
- opporsi alle organizzazioni alla guerra preposte, cioe' agli eserciti:
l'azione antimilitarista e' la condizione "sine qua non" per opporsi alla
guerra;
- lavorare alla difesa popolare nonviolenta come efficace concreta
alternativa al modello militare di difesa;
- opporsi a un modello di relazioni (internazionali, politiche, sociali,
economiche, culturali, di genere, interpersonali) fondate sul dominio, sullo
sfruttamento, sul privilegio: dunque opporsi al modello di sviluppo (e di
pratiche e di relazioni e di consumi) che sul dominio, lo sfruttamento, il
privilegio si regge: occorrono scelte di giustizia nella propria stessa
personale condotta ed esistenza;
- praticare la convivenza, nel riconoscimento della dignita' umana di ogni
essere umano, nella condivisione delle risorse e delle conoscenze, nella
solidarieta' e reciprocita', nella dialettica di eguaglianza e differenze
nel mutuo rispetto e sostegno, nella cooperazione e nell'attenzione.
*
Ma qui e adesso per cercare di far cessare la guerra cosa occorre fare, e
cosa si puo' fare, dal punto di vista della nonviolenza in quanto
opposizione concreta e immediata alla violenza?
- Contrastare la macchina bellica con l'azione diretta nonviolenta:
bloccando l'operativita' delle basi militari americane (e di alleanze
dominate dagli Usa: come la Nato) presenti in Italia, e nella guerra in
quanto tali direttamente coinvolte.
- Denunciare all'autorita' giudiziaria i detentori di poteri politici ed
istituzionali che hanno cooperato allo scatenamento della guerra violando la
legalita' costituzionale e il diritto internazionale; chiedere ed ottenere
che essi siano arrestati, processati e puniti come promotori e
fiancheggiatori dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanita' di cui
la guerra in corso consiste, come golpisti, terroristi e stragisti.
- Con lo sciopero generale ad oltranza fino alle dimissioni del governo
golpista e fiancheggiatore dei promotori della guerra terrorista e
stragista; affinche' cada il governo del colpo di stato e del  crimine
bellico, e si addivenga a un nuovo governo democratico e rispettoso delle
leggi, che fedele alla Costituzione della Repubblica Italiana agisca nel
contesto internazionale secondo l'ispirazione, il vincolo e l'impulso del
principio fondamentale del ripudio della guerra, ovvero si adoperi con tutta
la forza ed autorevolezza del nostro paese e del nostro ordinamento
giuridico contro la guerra, per la sua immediata cessazione.
- Con scelte di giustizia nella propria personale condotta: non accettando
piu' di sostenere con i propri consumi, con il proprio tenore di vita, con
la propria collocazione sociale di privilegio, il sistema di relazioni che
condanna alla miseria, alla violenza, alla fame e alla morte i quattro
quinti dell'umanita' presente e devasta irreversibilmente l'unica terra che
abbiamo.
- Con l'accoglienza e l'aiuto a tutti i bisognosi: umani tra gli umani.
Poiche' una e' l'umanita'.
*
La guerra puo' essere fermata: con la nonviolenza. La dittatura planetaria
dei signori della guerra puo' essere sconfitta: con la forza della
nonviolenza. E' possibile salvare la terra da un'Auschiwitz e da
un'Hiroshima planetarie: con la scelta della nonviolenza.
E questa e' l'ora. Ed e' per te che suona la campana.

2. MAESTRE HANNAH ARENDT: IL MALE NELLA SUA DIMENSIONE RADICALE
[Da Hannah Arendt, Karl Jaspers, Carteggio, Feltrinelli, Milano 1989, p. 104
(e' un passo di una lettera di Hannah Arendt a Karl Jaspers del 4 marzo
1951). Una breve notizia biobibliografica su Hannah Arendt e' nel n. 534 di
questo notiziario]
Che cosa sia realmente oggi il male nella sua dimensione radicale, non lo
so, ma mi sembra che esso in certo modo abbia a che fare con i seguenti
fenomeni: la riduzione di uomini in quanto uomini ad esseri assolutamente
superflui...

3. MATERIALI. ALCUNE RISPOSTE ALLE PRINCIPALI OBIEZIONI CHE PIU'
FREQUENTEMENTE VENGONO RIVOLTE A CHI PROPONE LA SCELTA DELLA NONVIOLENZA
COME METODOLOGIA DI LOTTA
[Riproponiamo pressoche' integralmente questo testo gia' diffuso nel 1999 e
successivamente raccolto ne La nonviolenza contro la guerra, Centro di
ricerca per la pace, Viterbo 2000]
La proposta della nonviolenza come metodologia di lotta ha un impatto cosi'
forte gia' solo a livello psicologico che i propugnatori della lotta
politica e sociale senza esclusione della violenza hanno spesso una reazione
di chiusura difensiva consistente non nel considerare se e quanto essi le
tecniche della nonviolenza gia' adottino (poiche' cosi' e' nella gran parte
dei conflitti) e se essa non sia preferibile come istitutiva di relazioni
umane e sociali, bensi' nel cercare immediatamente dei casi-limite atti a
falsificare (in senso epistemologico) la congruita' e l'efficacia della
proposta gandhiana.
Poiche' questo avviene frequentemente anche nell'area impegnata per la pace,
per la democrazia, per i diritti umani e per la difesa della biosfera, aree
di impegno politico e sociale in cui sono generosamente impegnate anche
molte persone che mantengono sulla violenza un atteggiamento ambiguo (si
badi bene: dal nostro punto di vista e' ambiguo l'atteggiamento di chi
ammette l'uso delle armi, l'esistenza degli eserciti, ritiene lecite le
guerre, et similia: come e' noto tale ambiguita' e' condivisa dalla
stragrande maggioranza della popolazione planetaria ed e' inscritta negli
ordinamenti giuridici di tutti i paesi e gli stati del mondo), ci e'
sembrato opportuno mettere per iscritto alcune considerazioni in merito e
svolgere alcuni schemi argomentativi, cercando di sistematizzare alcune
riflessioni che abbiamo spesso esposto in occasione di dibattiti su questo
tema.
*
1. Le tecniche della nonviolenza sono usate spontaneamente nei conflitti
1.1. Nelle discussioni e nel prendere decisioni
Nella discussione e nei processi decisionali tutte le volte che non si
giunge alle mani si e' preferito usare forme democratiche di persuasione e
di deliberazione.
Certo, la proposta nonviolenta chiede di fare un passo ulteriore: la scelta
del metodo deliberativo del consenso, che cerca di estendere ulteriormente
la prassi democratica nei processi decisionali; ma il principio e' il
medesimo: per dirlo con la bella formula di Guido Calogero: contare le
teste, anziche' spaccarle.
1.2. Nelle lotte sociali
Le forme di lotta piu' consuete nelle lotte sociali sono altrettante
tecniche che la nonviolenza ha fatto proprie e sistematizzato: lo sciopero,
il boicottaggio, la manifestazione di protesta, e cosi' via.
Certo, la proposta nonviolenta chiede di fare un passo ulteriore: la
noncollaborazione, la disobbedienza civile, l'azione diretta nonviolenta,
ovvero le forme di lotta nonviolente piu' limpide e piu' radicali implicano
un impegno personale che puo' essere anche molto pesante da sostenere; ma il
principio e' il medesimo: opporsi all'ingiustizia, ed all'ingiustizia ci si
oppone tanto piu' concretamente ed efficacemente quanto piu' lo si fa con
onesta', lealta', radicalita'.
*
2. Scegliere di soffrire anziche' far soffrire
Molti si mostrano sovente spaventati dinanzi all'assioma gandhiano per cui
nella lotta nonviolenta occorre essere disposti a soffrire piuttosto che a
far soffrire. Ma questo e' il nostro comune comportamento quotidiano in
quasi tutte le nostre relazioni sociali e scelte personali.
La disponibilita' al sacrificio personale e' alla base di moltissimi nostri
comportamenti sociali; e spesso si assumono sacrifici onerosi per scopi di
scarso valore o per soddisfare bisogni assolutamente alienati. Vediamo
qualche esempio: la disponibilita' al sacrificio da parte del tifoso
sportivo per la sua squadra (che peraltro e' oggettivamente del tutto
inutile); la disponibilita' al sacrificio di chi si sottopone a ristrettezze
per risparmiare soldi per comprare un'automobile come status-symbol (subendo
cosi' il piu' feroce e stupido dei condizionamenti pubblicitari); la
disponibilita' al sacrificio nel legame d'amore (che e' invece gia' cosa
nobile anche se puo' dar luogo a comportamenti inadeguati e fin patologici).
In generale il differire il piacere in vista di obiettivi piu' intensi e/o
piu' alti, piu' lontani nel tempo, e' caratteristico della nostra comune
condotta: vedi i casi dello studio, dell'allenamento, dell'esercizio,
dell'ascesi, etc. Ugualmente frequente e' la disponibilità al sacrificio
della propria liberta' a vantaggio del rispetto degli altri e quindi della
comune convivenza (non c'e' bisogno di chiamare in causa i concetti di
altruismo e di egoismo, basti pensare alle semplici regole condominiali);
analoga la disponibilita' al sacrificio nella famiglia da parte dei genitori
a vantaggio dei figli. Insomma, la disponibilita' a sacrificarsi non e'
affatto cosa rara, ma comportamento il piu' frequente.
Certo, la proposta nonviolenta chiede di fare un passo ulteriore: di
applicare la disponibilita' a sacrificarsi proprio nel conflitto, ovvero
laddove si scatena la nostra aggressivita' e piu' predisposti siamo a fare
del male ad altri. E chiede anche di imparare a lottare cercando di ridurre
al minimo la violenza senza pretendere che l'avversario segua la nostra
stessa condotta. Ci chiede di preferire la nostra sofferenza alla sofferenza
altrui, di preferire subirla anziche' infliggerla. Non e' facile, ed implica
una contraddizione. Ma ad essere intrinsecamente contraddittoria e' la
situazione del conflitto, eppure il conflitto e' necessario; così come e'
evidente che l'aggressivita' esiste, e quindi non va repressa ma incanalata
e resa costruttiva. La scelta di lottare con le tecniche della nonviolenza
e' il contrario della vilta'; la scelta di lottare con le tecniche della
nonviolenza, e quindi la consapevole decisione di esser disposti a subire
sofferenze piuttosto che a provocarne richiede certamente un grande
coraggio. Ma non e' forse vero che proprio il coraggio e' la virtu' morale
piu' apprezzata nel conflitto?
*
3. Sulla questione dei casi estremi
Sovente chi si oppone alla nonviolenza pone il problema della sua
praticablita' in casi estremi, ovvero di lotta contro avversari
particolarmente efferati. E' una questione importante e complessa, che va
affrontata in modo preciso ed articolato, cercando di far luce su diversi
aspetti.
3.1. Sulla questione dei casi estremi posta come sofisma
Dinanzi a chi fa questione di casi estremi con l'intento di negare sempre e
comunque la validita' della nonviolenza, va innanzitutto rilevato che
appunto in quanto estremi, questi casi raramente si danno, e possono
pertanto essere considerati a tutti gli effetti come eccezionali. E quindi
poiche' una regola di condotta non si fonda sulle eccezioni ma sulla sua
efficacia nelle situazioni piu' frequenti, da questo punto di vista si puo'
agevolmente dimostrare che la condotta nonviolenta sarebbe una scelta
corretta anche se essa fosse inane o errata in situazioni estreme. Cosicche'
in linea di principio e' solitamente preferibile evitare di impantanarsi in
discussioni teoriche speciose su casi estremi ed eroici, ma si inizi
intanto, e si esorti, a praticare la nonviolenza nei casi piu' frequenti di
conflitto: ci si incammini sulla via della nonviolenza, dopo il primo passo
tutto man mano si chiarira' nella pratica, nell'esperienza e nella
riflessione sull'esperienza che si conduce.
3.2. La nonviolenza come forma di gestione del conflitto comunque
preferibile alla violenza
Tuttavia poiche' la nonviolenza non e' la semplice buona creanza o il
semplice civile condursi, ma e' appunto intervento di lotta in situazioni di
conflitto, il problema puo' essere legittimamente posto e non deve essere
eluso.
Argomenteremo qui di seguito in primo luogo perche' la nonviolenza sia una
forma di gestione del conflitto comunque semrpe preferibile all'uso della
violenza.
In un conflitto l'uso della nonviolenza e' migliore dell'uso della violenza
poiche' l'uso della prima (anche da una sola delle parti in lotta) riducendo
complessivamente la seconda, con cio' riduce altresi' la sofferenza
complessiva che il conflitto comporta e quindi anche l'ingiustizia e la
sofferenza preesistenti che il conflitto hanno provocato.
La nonviolenza e' migliore della violenza perche' tutti i suoi effetti
interiori ed esterni sono preferibili: la nonviolenza facilita l'autostima,
la comprensione, la solidarieta', la pace, la democrazia, la promozione dei
diritti e della dignita' umana; la violenza facilita l'interiore incertezza,
l'incomprensione, l'esclusione, lo stato di inimicizia, di minaccia, di
dolore e di paura, l'autoritarismo e la repressione, la riduzione e la
negazione dei diritti e della dignita' umana.
La nonviolenza e' adesione alla verita', qundi esclude l'uso della menzogna,
dell'inganno, della mistificazione e della dissimulazione; la violenza fa
uso dell'inganno, dei sotterfugi, della frode; e' evidente che chi in un
conflitto fa uso della frode, e' capace di ingannare gli altri anche quando
il conflitto sara' finito: chi usa la menzogna non e' affidabile mai.
La nonviolenza rispetta l'umanita' di tutti, anche degli avversari, e punta
ad agire secondo regole sulle quali sia possibile fondare una civile
convivenza; le regole della lotta violenta sono intrinsecamente tali che su
di esse non e' possibile fondare una civile convivenza, esse non rispettano
l'umanita' altrui.
3.3. La nonviolenza e' lotta
Tutti i grandi animatori e studiosi di lotte nonviolente mettono in chiaro
che la nonviolenza e' innanzitutto lotta. Essa si oppone all'ingiustizia e
alla passivita' che favorisce l'ingiustizia; essa si oppone alla vilta' che
e' complicita' con gli oppressori.
Nella sua lotta contro l'ingiustizia e per l'umanita' la nonviolenza si pone
sempre l'obiettivo di ridurre la violenza al minimo possibile.
La nonviolenza non e' mai equidistante tra oppressori ed oppressi, essa si
schiera con gli oppressi, essa li incita alla lotta, essa li esorta a
ribellarsi contro l'ingiustizia. Tutti i grandi protagonisti di lotte
nonviolente hanno chiarito la loro solidarieta' con gli oppressi in lotta,
ma hanno altresi' posto agli oppressi la necessita' di orientare la loro
lotta in direzione dell'illimpidimento, della coerenza, del rigore morale ed
intellettuale, insomma della scelta della nonviolenza. Tuttavia, anche in
mancanza di questa scelta da parte degli oppressi in lotta, gli amici della
nonviolenza sono al loro fianco nella lotta contro l'oppressione.
3.4. Come reagire alla violenza personale
Anche qui, partiamo dalla realta'. Ad eccezione dei film di Charles Bronson,
nella nostra stessa societa', pur cosi' violenta, e' condotta abituale e
condivisa che alla violenza personale non si debba replicare con la legge
del taglione: "occhio per occhio, dente per dente"; si e' ragionevolmente
preferito delegare istituzioni specializzate all'ordine pubblico ed
all'amministrazione della giustizia, cosicche' abitualmente se si subisce un
torto o un danno rilevanti si reagisce con una denuncia, e non a coltellate.
E' evidente che intervenendo specificamente nel conflitto sociale e politico
occorre essere coscienti che la possibilita' che il nostro oppositore usi
violenza e' reale, e quindi e' ineludibile il problema di riuscire a
controllarla e ridurla a misura che non possa farci del male oltre una certa
soglia che riteniamo accettabile per affermare le nostre ragioni.
Tale problema e' piu' frequente di quanto non si creda: l'attivista per i
diritti umani sa che il regime autoritario lo perseguitera' con ogni mezzo
praticabile; il giornalista che denuncia efficacemente la mafia sa che
rischia di essere assassinato; il militante politico e sindacale sa che
esistono i picchiatori ed i killer al soldo degli sfruttatori e degli
oppressori; il pubblico amministratore onesto sa quanto pericolosa sia la
lotta contro corrotti e criminali negli enti pubblici; e cosi' via. Ma in
tutti i casi citati e' evidente che l'esigenza che si  pone a chi lotta
contro l'oppressione e il crimine non e'  quella di alzare il livello
dell'impiego della violenza nello scontro, ma il suo esatto contrario,
ovvero come contrastare e ridurre tale impiego della violenza, proprio per
poter condurre nel modo piu' energico ed efficace la lotta e per poter
rendere la stessa piu' ampiamente condivisa e praticata.
La scelta della nonviolenza anche di fronte alla violenza personale ha
solide ragioni non solo di ordine teorico (filosofiche, morali, di teoria
del diritto e della politica) ma anche di ordine pratico (strategiche e
tattiche, concrete). Certo, questa scelta non e' affatto facile.
3.5. Il giudizio sulla violenza
La nonviolenza si contrappone alla violenza. Ma e' cosciente che al
conflitto e' inerente l'uso della forza, e che essa e' piu' frequentemente
coercitiva che non persuasiva. Da questo punto di vista e' evidente che
l'obiettivo della nonviolenza e' non la negazione del conflitto, ma la
riduzione al minimo della violenza.
La nonviolenza si contrappone radicalmente alla violenza, ovvero si pone
l'obiettivo concreto di contrastarla alla radice; questo implica uno sforzo
di analisi capace di risalire alla violenza originaria, alla condizione di
ingiustizia strutturale, che determina il conflitto e le violenze
successive.
La nonviolenza giudica e contrasta la violenza concretamente, senza fermarsi
alle apparenze, sapendo che molto spesso la violenza peggiore e' quella
incancrenita, cronicizzata, organizzata, sistematizzata, che si presenta
come normalita', come "ordine costituito". Pertanto nel suo ripudio assoluto
della violenza essa e' sempre decisa alla lotta.
La nonviolenza sa di essere proponibile solo se dimostra di essere piu'
coerente logicamente e piu' efficace praticamente nel contrastare
l'ingiustizia delle forme di lotta violente. Per questo essa non e' mai
astensione, ma impegno di lotta il piu' intenso e tenace e creativo e
costante e severo (anche con se stessi); la nonviolenza non e' la scappatoia
del debole, ma la resistenza del forte.
3.6. La nonviolenza e' ripudio assoluto dell'uccisione di esseri umani
Sulla ammissibilita' o meno dell'uccisione come e' noto e' tuttora in corso
un macabro dibattito giuridico e filosofico, mentre tantissimi esseri umani
continuano ad essere assassinati. Molti stati fortunatamente si vanno
orientando verso l'abolizione della pena di morte, la cui intrinseca
disumanita' e' cosi' palese che non dovrebbe esserci bisogno di parlarne;
tuttavia pressoche' tutti gli stati mantengono un esercito e prevedono la
possibilita' di eseguire guerre; e' evidente che la guerra consiste
specificamente nel minacciare ed eseguire omicidi, peraltro senza neppure il
simulacro di un processo, ed a livello di massa. Il nostro punto di vista e'
che l'uccisione di esseri umani e' sempre inammissibile; vale per noi il
principio assoluto del "non uccidere"; per motivi di coerenza logica, e per
motivi di coerenza morale. Questa nostra opinione prescinde da istanze
religiose e da istanze ideologiche particolari, la affermiamo come un
convincimento radicale di carattere intellettuale ed etico: il
riconoscimento della dignita' di ogni essere umano implica necessariamente
il suo diritto a vivere.
3.7. Nonviolenza e Resistenza
Alla frequente domanda di quale sia il giudizio della nonviolenza sulla
Resistenza antifascista, la risposta e' semplice: il sostenitore della
nonviolenza e' dalla parte di chi si batte per ridurre la violenza, contro
l'ingiustizia, per difendere la dignita' umana; e' quindi sempre dalla parte
della resistenza; anzi: la nonviolenza e' innanzitutto e sempre appello alla
resistenza contro l'oppressione. Il sostenitore della nonviolenza e' quindi
sostenitore della Resistenza.
A questo si aggiunga che gran parte della Resistenza contro il nazifascismo
e' stata disarmata e nonviolenta: limitandoci all'esempio italiano, si
considerino i grandi scioperi nelle fabbriche; tutta la rete di sostegno ai
partigiani, agli antifascisti, ai perseguitati; l'esperienza stessa
dell'antifascismo e della lotta partigiana e' stata innanzitutto una grande
vicenda politica e morale ancor prima che militare.
Cio' e' ovvio al punto che nelle stesse esperienze di resistenza armata, e
fin nelle stesse esperienze dei movimenti di liberazione che praticano la
guerra di guerriglia, costantemente si marca la necessita' della prevalenza
del momento politico su quello militare, e di come lo scopo della lotta non
e' il proseguimento della violenza e dell'oppressione, ma la cessazione
delle stragi e delle violenze, e che a differenza degli eserciti in cui si
combatte per il soldo e/o per l'autorita', nelle loro esperienze si combatte
per un ideale di giustizia e liberta', ideale alla cui realizzazione la
pratica della solidarieta' e la conquista della pace sono ritenute
coessenziali.
3.8. La nonviolenza dinanzi al nazismo
Sovente si ripete che la lotta gandhiana sarebbe stata impossibile se come
avversario invece dell'impero britannico avesse avuto il nazismo. Questo
argomento sottovaluta enormemente la violenza dell'imperialismo inglese e
dell'oppressione coloniale. Ma e' opportuno non eludere la domanda che esso
comporta: e' possibile usare la nonviolenza contro il nazismo? E quale
sarebbe la condotta nonviolenta da adottare?
Questo tema costituisce certo un caso estremo, ed e' particolarmente arduo
da esaminare.
Muoviamo da alcuni dati certi: a) come e' noto Gandhi sostenne in alcuni
suoi scritti che le vittime del nazismo dovevano resistere nonviolentemente,
disposti a lasciarsi massacrare fino a sciogliere il cuore dei loro aguzzini
e comunque mantenendo fino in fondo la propria integrita' morale; le
posizioni gandhiane diedero luogo ad una serrata discussione (complicata dal
fatto che in quegli scritti Gandhi parlava anche della questione palestinese
sostenendo la tesi che la Palestina appartenesse agli arabi), discussione
cui presero parte anche illustri intellettuali come Martin Buber e Judah L.
Magnes, ed i cui materiali sono stati parzialmente pubblicati sul n. 2/1991
della rivista "Micromega"; una efficace messa a punto della questione, cui
rinviamo, e' nel capitolo Gandhi, il sionismo e la persecuzione degli ebrei,
in Giuliano Pontara, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1996; ovviamente si veda anche Mohandas Gandhi, Teoria
e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino (particolarmente la parte su
"La resistenza nonviolenta al nazismo", alle pp. 242-273); b) vi sono state
esperienze concrete ed efficaci di Resistenza nonviolenta e di massa al
nazismo (cfr. Pontara, op. cit.; Gene Sharp, Politica dell'azione
nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino; gli opuscoli di Jeremy Bennet,
La Resistenza contro l'occupazione tedesca in Danimarca, e di Magne Skodvin,
Resistenza nonviolenta in Norvegia sotto l'occupazione tedesca, entrambi nei
Quaderni di "Azione nonviolenta"; altri esempi sono citati nella cronologia
in Christian Mellon, Jacques Semelin, La non-violence, P.U.F., Paris 1994)
[a questi testi, che segnalavamo nel '99, va ovviamente aggiunto il
fondamentale lavoro bibliografico di Enrico Peyretti, che abbiamo piu' volte
presentato su questo notiziario - nota del 2003]; c) persino nell'orrore
assoluto dei lager vi e' stata una Resistenza attraverso esperienze di
solidarieta' e mantenimento della dignita' umana di cui testimoniano le
opere di Primo Levi e di altri sopravvissuti; d) un crimine come la
"soluzione finale" richiese una complicita' di massa enorme (cfr. al
riguardo almeno le grandi ricerche di Raul Hilberg e di Leon Poliakov).
Proviamo a ricavarne alcune riflessioni (che aggiungiamo a quelle relative a
questo punto svolte da Pontara nel testo citato, cui rinviamo): se un regime
totalitario come quello hitleriano per poter realizzare i suoi mostruosi
crimini ebbe bisogno di una gigantesca complicita' di massa, ne consegue che
esso era vulnerabile ad una lotta fondata sulla noncollaborazione di massa,
ed una lotta di questo tipo non poteva che essere nonviolenta; se in alcune
fasi persino un regime come quello hitleriano fu costretto da una protesta
morale della societa' civile a recedere dall'esecuzione di alcuni suoi
efferati crimini (il programma di sterminio dei sofferenti psichici e dei
portatori di handicap fu interrotto a seguito delle proteste di rilevanti
settori dell'opinione pubblica), ne consegue che anche in una societa'
totalitaria e' possibile esercitare un'opposizione nonviolenta di massa
concreta ed efficace; infine, se vi sono stati uomini che hanno avuto
l'eroismo di resistere quando tutto sembrava renderlo impossibile, allora
resistere e' un dovere necessario, e se cosi' e', allora si deve resistere
nel modo piu' coerente, piu' integro, piu' limpido che sia possibile: nel
modo che non puo' essere vinto della violenza perche' alla violenza tutto si
contrappone e in nulla cede.
Ordunque, noi proporremmo qui le seguenti conclusioni del tutto provvisorie
e naturalmente discutibili:
- dinanzi al formarsi, all'imporsi e all'agire di un potere oppressivo, ed a
maggior ragione dinanzi a un potere totalitario, occorre lottare subito,
rompere subito le complicita', opporsi subito nel modo piu' intransigente;
- occorre la lotta di massa, che in quanto tale non puo' e non deve essere
armata e clandestina, ma la piu' ampia, esplicita e risoluta possibile;
- una volta che il potere dittatoriale si sia insediato, occorre persistere
nel cercare di conseguire la noncollaborazione di massa;
- rispetto all'attivita' di Resistenza armata contro un regime dittatoriale
che sta eseguendo stragi o genocidi, occorre sostenere quella Resistenza
anche se non si condivide la scelta delle armi e personalmente ci si astiene
dal loro uso, sulla base della consapevolezza che essa Resistenza riduce la
violenza e salva delle vite.
*
4. Chi aderisce alla nonviolenza può collaborare con strutture e persone che
non condividono la scelta nonviolenta?
Si', ponendo alcuni punti fermi e poi facendo un'analisi caso per caso.
Sicuramente chi aderisce alla nonviolenza non puo' cooperare con chi
opprime. La collaborazione tra nonviolenti e non-nonviolenti (usiamo questo
infelice neologismo per evidenziare che non si tratta di violenti tout court
ma di persone che ritengono che la violenza possa essere una risorsa o uno
strumento utilizzabile in determinate situazioni per fini ritenuti
apprezzabili) in un movimento di lotta contro l'ingiustizia (ad esempio:
contro la guerra) puo' essere persino ovvia, ma insieme essa va precisamente
delimitata, deve essere accompagnata da un impegno da parte degli amici
della nonviolenza a chiarificare le implicazioni e le conseguenze della
lotta che si conduce ed a proporre la scelta di metodi che siano
rigorosamente coerenti con i fini della lotta stessa (nell'esempio proposto:
la pace).
*
5. Occorre essere nonviolenti per utilizzare/praticare la nonviolenza?
No. In primo luogo perche' non e' possibile essere nonviolenti tout court,
la nonviolenza e' una condotta ideale cui tendere, ognuno di noi ha i suoi
limiti e le sue debolezze. In secondo luogo perche' solo nel conflitto e'
possibile adottare in senso pieno la nonviolenza, pertanto finche' non ci si
trova nella lotta non si sa se si e' capaci di aderire alla nonviolenza o
meno, e del resto ogni occasione di lotta pone problemi diversi, richiede
soluzioni creative, puo' dar luogo ad esiti inattesi; quindi un
atteggiamento modesto e vigile, critico ed autocritico, e' decisamente
opportuno. In terzo luogo perche' la forza e la grandezza della nonviolenza
e' proprio nella sua utilizzabilita'/praticabilita' da parte di tutti: in
questo senso essa e' "il potere di tutti", in quanto e' sia appello a tutti,
sia strumento da tutti utilizzabile, sia proposta di protagonismo di tutti,
sia infine sentimento di solidarieta' con l'umanita' intera.
*
6. Allora chiunque puo' utilizzare la nonviolenza?
Si', come possibilita': in quanto chiunque puo' farne uso; ma in concreto
per farlo effettivamente deve compiere un percorso di riflessione, di
coscientizzazione, di preparazione, tutt'altro che facile. Ex abrupto, senza
preparazione, non e' possibile usare la nonviolenza. Per usare la
nonviolenza occorre l'addestramento alla nonviolenza.
Ad esempio: una campagna di lotta nonviolenta richiede una preparazione
della campagna attentissima e rigorosamente pianificata; ed una
preparazione dei partecipanti di gran lunga piu' impegnativa
dell'allenamento sportivo, dell'addestramento militare, della psicoterapia
relazionale, dello studio scientifico di varie branche dello scibile.
Anche una semplice e puntuale azione diretta nonviolenta richiede non solo
una grande preparazione, ma una disciplina ed un impegno assai rigorosi.
Ci permettiamo di riportare qui da un nostro scritto precedente, a titolo di
esempio, uno schema di regole di condotta cui attenersi nella realizzazione
di un'azione diretta nonviolenta.
Quattro regole di condotta per l'azione diretta nonviolenta: I. A
un'iniziativa nonviolenta possono partecipare solo le persone che accettano
incondizionatamente di attenersi alle regole della nonviolenza. II. Tutti i
partecipanti devono saper comunicare parlando con chiarezza, con
tranquillita', con rispetto per tutti, e senza mai offendere nessuno. III.
Tutti i partecipanti devono conoscere perfettamente senso, fini, modalita' e
conseguenze dell'azione diretta nonviolenta; devono averne piena conoscenza,
e devono esserne completamente convinti, in particolare sottolineiamo la
necessita' di essere pienamente informati e consapevoli delle conseguenze
cui ogni singolo partecipante puo' andare incontro, conseguenze che vanno
accettate pacificamente e onestamente, ed alle quali nessuno deve cercare di
sottrarsi. IV. Tutti devono rispettare i seguenti principi della
nonviolenza: a) non fare del male a nessuno (se una sola persona dice o fa
delle stupidaggini, o una sola persona si fa male, l'azione diretta
nonviolenta e' irrimediabilmente e totalmente fallita, e deve essere
immediatamente sospesa); b) spiegare a tutti (amici, autorita',
interlocutori, interpositori, eventuali oppositori) cosa si intende fare, e
che l'azione diretta nonviolenta non e' rivolta contro qualcuno, ma contro
la violenza; c) dire sempre e solo la verita'; d) fare solo le cose decise
prima insieme con il metodo del consenso ed annunciate pubblicamente (cioe'
a tutti note e da tutti condivise); nessuno deve prendere iniziative
personali di nessun genere; la nonviolenza richiede lealta' e disciplina; e)
assumersi la responsabilita' delle proprie azioni e quindi subire anche le
conseguenze che ne derivano; f) mantenere una condotta nonviolenta anche di
fronte all'eventuale violenza altrui. Chi non accetta queste regole non puo'
partecipare all'azione diretta nonviolenta, poiche' sarebbe di pericolo per
se', per gli altri e per la riuscita dell'iniziativa che deve essere,
appunto, rigorosamente nonviolenta. Per poter partecipare ad un'azione
diretta nonviolenta e' necessario aver partecipato prima alla discussione ed
all'organizzazione che ha portato alla sua decisione e realizzazione, ed e'
altresi' assolutamente indispensabile aver partecipato ad un training di
addestramento alla nonviolenza.
*
7. Amici della nonviolenza, e non nonviolenti
Un argomento sovente usato dagli oppositori della nonviolenza e' quello ad
personam: per questo, conoscendo i nostri limiti e la grandezza della
nonviolenza, sara' sempre bene, come consigliava Capitini, che coloro che
propongono la nonviolenza si presentino non presuntuosamente come
"nonviolenti", come se se ne ritenessero delirantemente la compiuta
incarnazione, bensi' come semplici amici della nonviolenza, ovvero come
persone che si sono messe in cammino lungo la via della teoria-prassi
nonviolenta.
*
8. Una polemica ineludibile
Un sofisma, che riteniamo particolarmente subdolo (il sofisma, beninteso,
non le persone che lo hanno proposto), e' emerso in alcuni settori del
movimento pacifista italiano in questi mesi. Il sofisma e' il seguente:
contro l'ingiustizia (in questo caso: la guerra) non conta tanto la scelta
tra violenza e nonviolenza, quanto la scelta della disobbedienza civile. Chi
propugna questo argomento e' in errore, poiche' in questa logica si
manifesta una subalternita' totale al potere e alla violenza; per un verso,
la disobbedienza civile, se non e' legata alla prospettiva della resistenza
nonviolenta (come strategia e come progetto), postula l'accettazione di
fatto del potere ingiusto come forzosa conseguenza della propria incapacita'
a costruire e costituire un'alternativa; per l'altro lo sminuire la
rilevanza assiologica ed operativa dell'alternativa violenza/nonviolenza
implica una ambiguita' di giudizio sulla violenza che e' inaccettabile
sempre, ma particolarmente in un movimento che vuole e deve essere contro la
guerra e per la pace; e' infatti evidente che il sofisma della "guerra
giusta" si puo' contrastare correttamente solo se si ripudia integralmente
l'ideologia della "violenza buona"; e' altresi' evidente che per costruire
la pace non e' sufficiente opporsi alla guerra, occorre altresi' difendere e
promuovere i diritti umani, di cui l'esercizio della violenza, e la sua
approvazione, costituisce la negazione assoluta.
Non a caso poi nella circostanza concreta di questi mesi la disobbedienza
civile non e' stata praticata, ed anzi con questa etichetta si e'
scandalosamente preteso di rivestire comportamenti che non sono di
disobbedienza civile, ma di mera provocazione, di compromissione, di
minaccia ed esecuzione di atti di violenza idiota e corruttrice.
Decisiva quindi e' invece proprio la scelta della nonviolenza; e nel caso
particolare dell'opposizione alla guerra, a maggior ragione: peraltro solo
una posizione rigorosamente nonviolenta poteva contestare radicalmente la
guerra sterminista della Nato senza essere complice della guerra razzista di
Milosevic. E non a caso da anni i movimenti di solidarieta' pacifisti e
nonviolenti, e solo essi, avevano concretamente costantemente sostenuto
l'esperienza nonviolenta di resistenza e riconciliazione in Kosovo.
Su questo punto della crucialita' della scelta nonviolenta non solo per la
credibilita', ma propriamente per la necessaria coerenza e concreta
efficacia del movimento pacifista, abbiamo ritenuto di dover insistere con
la massima chiarezza ed energia, proprio perche' anche voci autorevoli della
cultura pacifista hanno purtroppo avuto un atteggiamento ambiguo in merito.
*
9. Una definizione sintetica per concludere
La nonviolenza e' una scelta e un metodo di lotta contro la violenza, la
menzogna e l'ingiustizia. Essa si realizza nel conflitto e si contrappone
tanto alla vilta' quanto alla violenza. Essa si fonda sulla convinzione che
ognuno e' responsabile di tutto, che il potere oppressivo si regge
fondamentalmente sulla complicita' e che quindi occorre rompere quella
complicita'. La nonviolenza richiede a chi la adotta la disponibilita' a
soffrire anziche' a far soffrire; un atteggiamento limpido e coerente in
termini logici e morali (di ragionamento e di comportamento); coerenza tra
mezzi e fini; l'obiettivo di ridurre la violenza al minimo; esemplarita' di
comportamenti che abbiano valore educativo; agire concretamente ed assumersi
la responsabilita' piena delle proprie azioni e delle loro conseguenze. La
nonviolenza non e' statica e dogmatica, ma critica e creativa, dialettica e
sperimentale. La nonviolenza e' un appello alla lotta: una lotta che e'
eminentemente comunicazione ed amore. Non e' possibile scegliere la
nonviolenza senza amore per l'umanita'.
*
10. Due piccoli corollari
10.1. L'approccio alla nonviolenza qui proposto
Come e' evidente l'approccio alla nonviolenza che qui abbiamo proposto e' di
carattere meramente critico; la abbiamo analizzata da un punto di vista
logico, etico e politico, e prescindendo da un retroterra religioso e
metafisico, da una ontologia fondativa.
E' noto che molti militanti e pensatori della nonviolenza hanno una visione
del mondo ed una motivazione profondamente religiosa; per fare alcuni
esempi: sia Gandhi, sia Lanza del Vasto, sia Capitini, sia King, sono in
primo luogo personalita' religiose: per loro la noviolenza e' la conseguenza
di una primaria, fondamentale scelta religiosa.
Ugualmente e' noto che alcune grandi religioni recano il ripudio della
violenza, e la scelta della nonviolenza, come uno dei loro tratti o
attributi caratteristici: ad esempio il buddhismo e il cristianesimo.
Nella nostra esposizione abbiamo preferito argomentare su un piano meramente
immanentistico, prescindendo dal riferimento ai convincimenti religiosi.
10.2. nonviolenza e riflessione filosofica
Di grande interesse sarebbe un confronto tra la teoria-prassi nonviolenta ed
alcune tradizioni ed esperienze della riflessione filosofica classica e
contemporanea: qui vi abbiamo rinunciato, sebbene sia evidente che alcune
scelte terminologiche ed alcuni schemi argomentativi rinviavano
implicitamente volta a volta a referenti pressoche' obbligati.
A mo' di semplice elencazione, e per cosi' dire come segnalazione di un
debito e come atto di gratitudine, vorremmo qui indicare almeno la Critica
della ragion pratica di Immanuel Kant tra i classici, e tra i pensatori
contemporanei la grande importanza che hanno avuto per la nostra riflessione
sulla scelta nonviolenta i seguenti autori (che citiamo un po' alla rinfusa
in ordine alfabetico): Guenther Anders, Hannah Arendt, Ernesto Balducci,
Franco Basaglia, Ernst Bloch, Norberto Bobbio, Elias Canetti, Enrique
Dussel, Hans Jonas, Primo Levi, Herbert Marcuse, Giuliano Pontara, Vandana
Shiva, Simone Weil, Virginia Woolf.
*
11. Una postilla necessaria
In questo scritto abbiamo analizzato soprattutto una dimensione della
nonviolenza: la nonviolenza come metodo di lotta, che Gandhi designa con il
termine satyagraha (che traduciamo appunto come nonviolenza, ma che potremmo
tradurre letteralmente come "forza della verita'", "adesione alla verita'");
segnaliamo che la nonviolenza ha anche altre dimensioni non meno importanti:
essa e' altresi' una scelta etico-politica; una strategia; un progetto di
societa'; una visione dell'uomo.

4. MATERIALI. LE RAGIONI DELLA NONVIOLENZA IN ALCUNI SCRITTI DI GIULIANO
PONTARA
[Riproponiamo ancora una volta questa scheda recante riassunti ed estratti
da alcuni scritti di Giuliano Pontara, uno dei piu' autorevoli studiosi
della nonviolenza viventi. Giuliano Pontara e' nato a Cles (Trento) nel
1932, antimilitarista, rifiuto' il servizio militare e preferi' emigrare,
vivendo e lavorando in Svezia dal 1953; docente di filosofia all'Universita'
di Stoccolma ed in altre istituzioni culturali, impegnato nella peace
research e nei movimenti nonviolenti, tra i massimi studiosi di etica, da
anni anima l'esperienza dell'Universita' per la pace a Rovereto. Tra le
opere di Giuliano Pontara: Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino,
Bologna 1974; Il satyagraha, Movimento Nonviolento, Perugia 1983; Filosofia
pratica, Il Saggiatore, Milano 1988; Antigone o Creonte. Etica e politica
nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990; Etica e generazioni future,
Laterza, Roma-Bari 1995; La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1996; Breviario per un'etica quotidiana, Pratiche, Milano
1998. Ha curato (premettendovi un fondamentale saggio introduttivo)
l'antologia di scritti di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza,
Einaudi, Torino (nel 1996 ne e' apparsa una nuova edizione in una collana
economica)]
I. Da Giuliano Pontara, Nonviolenza (per la critica radicale della violenza)
Elenchiamo alcune ragioni essenziali per cui occorre essere rigidamente
contro la violenza. Citiamo da Giuliano Pontara, voce Nonviolenza, in AA.VV.
(a cura di Bobbio, Matteucci, Pasquino), Dizionario di politica, Tea, Milano
1992:
1. il primo argomento "mette in risalto il processo di escalation storica
della violenza. Secondo questo argomento, l'uso della violenza (...) ha
sempre portato a nuove e piu' vaste forme di violenza in una spirale che ha
condotto alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella
distruzione dell'intero genere umano";
2. il secondo argomento "mette in risalto le tendenze disumanizzanti e
brutalizzanti connesse con la violenza" per cui chi ne fa uso diventa
progressivamente sempre piu' insensibile alle sofferenze ed al sacrificio di
vite che provoca;
3. il terzo argomento "concerne il depauperamento del fine cui l'impiego di
essa puo' condurre (...). I mezzi violenti corrompono il fine, anche quello
piu' buono";
4. il quarto argomento "sottolinea come la violenza organizzata favorisca
l'emergere e l'insediamento in posti sempre piu' importanti della societa',
di individui e gruppi autoritari (...). L'impiego della violenza organizzata
conduce prima o poi sempre al militarismo";
5. il quinto argomento "mette in evidenza il processo per cui le istituzioni
necessariamente chiuse, gerarchiche, autoritarie, connesse con l'uso
organizzato della violenza, tendono a diventare componenti stabili e
integrali del movimento o della societa' che ricorre ad essa (...). 'La
scienza della guerra porta alla dittatura' (Gandhi)".
A questi argomenti ne vorremmo aggiungere altri due:
6. un argomento, per cosi' dire, di tipo epistemologico: siamo contro la
violenza perche' siamo fallibili, possiamo sbagliarci nei nostri giudizi e
nelle nostre decisioni, e quindi e' preferibile non esercitare violenza per
imporre fini che potremmo successivamente scoprire essere sbagliati;
7. soprattutto siamo contro la violenza perche' il male fatto e'
irreversibile (al riguardo Primo Levi ha scritto pagine indimenticabili
soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati).
Agli argomenti contro la violenza Pontara aggiunge opportunamente un ultimo
decisivo ragionamento: "I fautori della dottrina nonviolenta sono coscienti
che ogni condanna della violenza come strumento di lotta politica rischia di
diventare un esercizio di sterile moralismo se non e' accompagnata da una
seria proposta di istituzioni e mezzi di lotta alternativi. Di qui la loro
proposta dell'alternativa satyagraha o della lotta nonviolenta positiva, in
base alla duplice tesi a) della sua praticabilita' anche a livello di massa
e in situazioni conflittuali acute, e b) della sua efficacia come strumento
di lotta" per la realizzazione di una societa' fondata sulla dignita' della
persona, il benessere di tutti, la salvaguardia dell'ambiente.
*
II. Da Giuliano Pontara, Gandhismo (definizione del satyagraha)
Sunteggiamo qui alcuni passaggi essenziali della voce Gandhismo scritta da
Pontara per il gia' citato Dizionario di politica curato da Bobbio,
Matteucci e Pasquino, Utet, Torino, poi Tea, Milano. Nello stesso volume
Pontara ha steso altresi' le voci Nonviolenza, Ricerca scientifica sulla
pace, Utilitarismo.
La voce di dizionario di cui qui citeremo e riassumeremo alcuni punti
essenziali esordisce ricordando che Gandhi insistette sempre nell'affermare
che "non esiste qualcosa come il gandhismo", cosi' rimarcando il carattere
aperto e sperimentale delle sue concezioni etiche, sociali e politiche, ed
il suo rifiuto di ogni forma di settarismo che si richiamasse al suo nome
(come e' noto, non altrimenti Marx affermava di non essere marxista). Gandhi
non scrisse alcun trattato sistematico sulla sua concezione della
nonviolenza, la sua opera letteraria e' fondamentalmente costituita di
migliaia di articoli giornalistici, lettere, appelli, sempre stesi con un
fine immediato ed interlocutori specifici; del resto la sua autobiografia
conferma questo carattere sperimentale della sua riflessione ed azione,
recando fin nel titolo esplicitamente l'espressione esplicativa di Storia
dei miei esperimenti con la verita'.
Ovviamente dal complesso dell'opera gandhiana, palesemente asistematica (e
Pontara sottolinea una somiglianza in questo con l'opera gramsciana), e'
possibile ricavare  alcuni elementi teorici originali, persistenti e
coerenti che grosso modo possiamo considerare particolarmente caratteristici
dell'elaborazione teorica e della proposta pratica gandhiana. Pontara
sottolinea particolarmente:
"a) la critica all'industrialismo in quanto tale, e non soltanto alla
variante capitalistica di esso;
b) la concezione di uno 'stato nonviolento';
c) le idee sull'educazione fondata sulla partecipazione al lavoro
produttivo, soprattutto a quello manuale;
d) la sua filosofia dei conflitti di gruppo;
e) la sua concezione dei rapporti tra etica e politica;
f) la sua dottrina del satyagraha come modalita' del tutto particolare della
lotta politica".
La parte piu' perspicua del testo e' ovviamente la caratterizzazione della
specifica modalita' di lotta nonviolenta che Gandhi definisce satyagraha,
"termine coniato da Gandhi che significa, all'incirca, modalita' di lotta
caratterizzata dalla fermezza nella verita'. Siffatta modalita' di lotta e'
definita da sei princìpi fondamentali. In tutta brevita' essi sono i
seguenti.
1) In una situazione conflittuale non si debbono porre obiettivi
incompatibili con la concezione etica che soggiace alla dottrina
nonviolenta: 'E' impossibile praticare il satyagraha al servizio di una
causa ingiusta'.
2) In una situazione conflittuale si deve impostare sin dall'inizio la lotta
in modo tale da non minacciare l'avversario nei suoi interessi vitali (la
vita, l'integrita' fisica e psichica), scegliendo tecniche di lotta
deliberatamente volte a minimizzare le sofferenze che il conflitto puo'
comportare per la parte avversaria.
3) In una situazione conflittuale bisogna essere disposti a sobbarcarsi di
sacrifici che possono essere anche assai notevoli (...).
4) Il quarto principio del satyagraha prescrive di attenersi in ogni fase
del conflitto alla massima obiettivita' e imparzialita', di appellarsi alla
ragione cercando di comprendere i motivi e gli argomenti della parte
avversaria, di non operare nella clandestinita'.
5) Un requisito fondamentale del satyagraha e' quello di un impegno continuo
e costante in un programma costruttivo fondato in parte sulla individuazione
di fini sovraordinati, ossia tali che la loro realizzazione e'
nell'interesse delle parti in conflitto ed e' possibile soltanto merce' una
certa collaborazione tra di esse. Cio' serve a creare quel minimo di
comunicazione senza la quale una lotta di tipo satyagraha non e' possibile
(...).
6) Un ultimo principio fondamentale della lotta satyagraha e' quello che
Gandhi chiamava 'la legge di progressione dei mezzi': si puo' ricorrere a
forme piu' radicali di lotta nonviolenta soltanto dopo che quelle piu'
blande si sono mostrate chiaramente inefficaci.
Gandhi riteneva che i suoi 'esperimenti' di lotta satyagraha in Sud Africa e
in India avessero dimostrato la validita' delle tre seguenti ipotesi:
a) che con una dovuta preparazione e organizzazione e' possibile portare
delle vaste masse a praticare forme di lotta che soddisfano in misura
notevole i requisiti del satyagraha;
b) che il metodo satyagraha costituisce una concreta ed efficace alternativa
alla violenza armata nella lotta per delle cause giuste;
c) che il satyagraha tende a bloccare, in forza di fattori morali,
psicologici e politici, la reazione violenta dell'oppositore, a condurre a
soluzioni accettate e costruttive dei conflitti, e di conseguenza ad una
riduzione massima della violenza nel mondo".
*
III. Da Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta
Nel secondo capitolo che ha lo stesso titolo dell'intero volume: La
personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, Giuliano
Pontara evidenzia dieci qualita' di quella che definisce la "personalita'
nonviolenta" (contrapposta alla "personalita' autoritaria"), qualita' che
cosi' elenca e descrive:
1. Il ripudio della violenza (su cui svolge un'analisi molto fine ed
articolata che qui non possiamo adeguatamente riassumere ma alla quale
rinviamo anche perche' e' assai caratteristica del modo di argomentare
dell'autore);
2. La capacita' di identificare la violenza (ovvero di riconoscerla anche
laddove si presenti mascherata o cronicizzata; "la capacita' di individuare
la violenza a tutti i livelli, da quello personale a quello istituzionale,
da quello individuale a quello strutturale, da quello internazionale a
quello intergenerazionale. Altrettanto importante e' la capacita' di
individuarla in tutte le forme che essa puo' assumere, e non soltanto in
quelle piu' appariscenti della violenza armata");
3. La capacita' di empatia (ovvero di identificazione con gli altri e in
primo luogo con quelli che soffrono di piu');
4. Il rifiuto dell'autorita' ("una persona nonviolenta ritiene che la
responsabilita' per quello che fa non puo' essere addossata ad altri... fa
dunque propria la massima di don Milani: l'obbedienza, in quanto tale, non
e' una virtu'");
5. La fiducia negli altri (che si contrappone alla logica militare: "Uno dei
principi fondamentali della nonviolenza prescrive di impostare la conduzione
di un conflitto in modo tale da fare appello ai lati migliori di coloro che
ci si trova di fronte come oppositori, usando tecniche di lotta volte ad
ingenerare in un numero sempre maggiore degli individui che costituiscono il
gruppo oppositore una crescente fiducia nei confronti del gruppo
nonviolento. Si tratta di un continuo tentativo di sostituire la spirale
della sfiducia, propria della logica della violenza, con la spirale della
fiducia");
6. La capacita' di dialogare, ovvero la disposizione al dialogo (qui Pontara
svolge una efficace perorazione in favore del principio fallibilista, di cui
riportiamo ampi stralci: "Un assunto che soggiace alla disposizione al
dialogo e' l'accettazione del principio del fallibilismo. Questo principio
ci dice che siamo tutti esseri mortali con poteri di conoscenza limitati
onde nessuno puo' mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento crede
essere vero, in effetti sia tale: puo' benissimo darsi che sia falso. Il
fallibilismo vale in primo luogo nel campo della scienza. Ma vale ugualmente
nel campo delle credenze etiche. I nostri giudizi morali possono infatti
essere distorti dai nostri piccoli interessi egoistici, o fondati su ipotesi
empiriche false o su informazioni incomplete. Possono anche essere fondati
su assunti di valore che non abbiamo visitato criticamente o tali per cui se
esaminati criticamente saremmo stati disposti ad abbandonare. (...) Il
fallibilismo in etica e' profondamente compatibile con l'avere delle
profonde convinzioni morali (...). Un individuo fornito di una personalita'
nonviolenta... non vorra' escludere a priori la possibilita' di aver lui
torto e l'avversario ragione. Per questo egli rifiuta metodi di conduzione
dei conflitti che comportano la distruzione dell'avversario (...). Il
fallibilismo abbraccia anche le credenze religiose ed essere fallibilista in
religione e' pur sempre compatibile con l'avere una profonda fede religiosa
(...). L'interiorizzazione del principio del fallibilismo e' dunque uno dei
migliori vaccini contro tutte le forme di fanatismo...; e' altresi'
fondamentale per il buon funzionamento delle istituzioni democratiche e
costituisce un grande incentivo alla tolleranza (...). Il fallibilismo vale
nei confronti di tutti i giudizi, anche quelli in cui si articola il
fallibilismo stesso: non possiamo escludere che la credenza stessa per cui
siamo tutti fallibili in effetti sia falsa. Ben poco pero' induce a credere
che tale essa sia. Il contrario del fallibilismo e' il dogmatismo");
7. La mitezza (che ovviamente si armonizzi con le altre qualita' indicate);
8. Il coraggio;
9. L'abnegazione;
10. La pazienza.
*
IV. Da Giuliano Pontara, Etica  e generazioni future
Pontara e' autore di un bel libro introduttivo, chiaro ed essenziale, su
Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995. Il libro muove dalla
consapevolezza che "le possibilita' che l'attuale generazione di adulti e
quelle immediatamente successive hanno di influire, nel bene e nel male, e a
livello globale, sulle generazioni future, anche su quelle che esisteranno
in un futuro remoto, parrebbero essere enormemente maggiori di quelle che
ogni altra generazione precedente abbia mai avute. Questo comporta che il
problema della nostra responsabilita' nei confronti dei posteri assume
un'importanza molto maggiore che non quella che ragionevolmente poteva avere
per generazioni precedenti" (p. 6).
Pontara delinea tre possibilita' di incidere sulle generazioni future, anche
di un futuro remoto:
"a) e' possibile incidere su quanti individui esisteranno in futuro - con lo
zero come limite inferiore, caso che si verificherebbe, ad esempio, in
seguito allo scoppio (magari per errore) di una guerra termonucleare che
ponesse fine all'umanita';
b) e' possibile incidere su quali individui esisteranno in futuro: cio' non
soltanto in seguito agli sviluppi della scienza biomedica e dell'ingegneria
genetica, bensi' anche in quanto (e come si vedra' meglio in seguito) le
scelte di certe linee di politica energetica, economica, sociale,
demografica, militare, ecc., hanno effetti tali per cui nessuno degli
individui che esisteranno tre-quattro secoli dopo che una certa linea
politica e' stata scelta sarebbe esistito ove fosse stata mandata ad effetto
una qualche linea politica alternativa;
c) e' possibile incidere sul tenore e la qualita' della vita di vaste masse
di individui che esisteranno in futuro" (p. 15).
Stante questa situazione, si pone il problema della nostra responsabilita'
morale verso le generazioni future, che Pontara articola cosi':
"1. Vi sono obblighi o doveri morali di natura generale che soggetti,
individuali o collettivi, esistenti in un qualsiasi periodo di tempo hanno
nei confronti di generazioni di individui i quali rispetto ad essi vivranno
nel futuro? (...)
2. Quali sono piu' precisamente gli obblighi generali cui si soggiace, e
possono essi trovare una spiegazione plausibile, vale a dire un fondamento
in una teoria etica sostenibile? (...)
3. Quali obblighi più specifici si possono dedurre da quelli generali per
quanto riguarda la nostra responsabilità verso le generazioni a noi future?
(...)
4. Quali sono le misure educative, sociali, giuridiche, politiche - sia a
livello locale sia a livello globale, sia a livello di singoli stati sia a
livello internazionale - necessarie al fine di far rispettare gli obblighi
morali verso le generazioni future?" (pp. 15-16).
Al termine di una vasta, approfondita e problematica disamina di tutti i
nodi considerati, Pontara giunge alla formulazione di un approccio che
propone "alcune norme di morale intergenerazionale tra le quali vorrei
mettere in rilievo almeno le quattro seguenti:
N1. Non fare scelte che abbiano effetti irreversibili, o comunque la cui
reversibilita' e' molto difficile ed estremamente costosa;
N2. Massimizzare il tenore di vita sostenibile;
N3. Salvaguardare la biodiversita';
N4. Salvaguardare il patrimonio artistico, scientifico, culturale.
Il rispetto generale di queste norme parrebbe essere condizione necessaria
affinche' alle generazioni future siano almeno lasciate aperte opzioni non
minori di quelle che hanno le generazioni oggi esistenti" (p. 160).
Il filosofo pone anche il problema delle misure giuridiche e politiche
necessarie affinche' queste norme siano rispettate, ed evidenzia come ad
esempio la Costituzione italiana "non soltanto non contiene alcun  accenno a
diritti di generazioni future, ma non contiene nemmeno alcun accenno a
obblighi di salvaguardia dell'ambiente" (p. 161); ed esaminando il contesto
e le relazioni internazionali evidenzia la necessita' di una svolta
profonda.
"Chiudo con due osservazioni che sono ovvie, ma che vale la pena ribadire.
La prima e' che bisogna stare in guardia contro l'errore di ritenere che
ogni stato, come oggi esiste, abbia obblighi soltanto o particolarmente
forti nei confronti delle generazioni future di propri cittadini. Infatti,
come la storia, anche piu' recente, ci insegna, gli stati sono istituzioni
che nascono, si modificano, spariscono. Non ha quindi molto senso parlare di
obblighi che lo stato ha soltanto nei confronti delle generazioni di propri
futuri cittadini. Il problema della responsabilita' verso le generazioni
future e' un problema globale, non nazionale.
La seconda osservazione che va ribadita e' che una politica responsabile
(improntata, tra l'altro, alla osservanza dei dettami delle quattro norme
sopra messe in rilievo) nei confronti delle generazioni future e'
necessariamente connessa con una politica responsabile nei confronti delle
generazioni oggi viventi nei paesi del Terzo mondo.
(...) E' quindi della massima importanza che i rapporti tra Nord e Sud siano
radicalmente ridimensionati: di questo ridimensionamento fa certamente parte
la cancellazione regolata dell'enorme debito del Terzo mondo che si aggira
sull'astronomica somma di 1.400 miliardi di dollari. E' una delle misure
necessarie per salvaguardare vitali interessi di generazioni future" (pp.
165-166).

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 544 del 23 marzo 2003