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La nonviolenza e' in cammino. 495
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 495
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 2 Feb 2003 03:27:34 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 495 del 2 febbraio 2003 Sommario di questo numero: 1. Giovanni Scotto, contro la guerra, cambiare modello di sviluppo 2. Maria G. Di Rienzo, parlare la pace con occhi amanti 3. Suzette H. Elgin, patologie del comportamento umano nei gruppi 4. Monica Lanfranco, nei movimenti il nodo del linguaggio (e la violenza del sessismo) 5. Amelia Alberti, negli occhi dei bambini 6. Lia Cigarini, liberta' relazionale 7. Letture: Fatima Mernissi, La terrazza proibita 8. Letture: Salwa Salem, Con il vento nei capelli 9. Letture: Tom Segev, Il settimo milione 10. Riletture: Claude Levi-Strauss, Primitivi e civilizzati 11. Riletture: Elena Pigozzi, Susi de Pretis (a cura di), Letteratura al femminile 12. Riletture: Francesca Pozzi (a cura di), Le sante 13. La "Carta" del Movimento Nonviolento 14. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. GIOVANNI SCOTTO: CONTRO LA GUERRA, CAMBIARE MODELLO DI SVILUPPO [Ringraziamo Giovanni Scotto (per contatti: e-mail: gscotto at zedat.fu-berlin.de, sito: http://userpage.fu-berlin.de/~gscotto/) per averci messo a disposizione come anticipazione questo suo articolo che comparira' su "Azione nonviolenta". Giovanni Scotto e' uno dei piu' importanti studiosi italiani nell'ambito della peace research, studioso e amico della nonviolenza; ricercatore presso il "Berghof Research Center for Constructive Conflict Management" di Berlino; collabora con l'"Institute for Peace Work and Nonviolent Settlement of Conflicts" di Wahlenau e con il "Centro studi difesa civile" di Roma. Tra le opere di Giovanni Scotto: con Emanuele Arielli, I conflitti, Bruno Mondadori, Milano 1998; sempre con Emanuele Arielli, La guerra del Kosovo, Editori Riuniti, Roma 1999] Continuiamo ad augurarci che i governi degli Stati Uniti e dell'Iraq, e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite decidano di evitare una nuova guerra del Golfo. Cerchiamo di mantenere la serenita', e nello stesso tempo di trovare strade per un lavoro incisivo e costruttivo di opposizione alla guerra. Come in altre guerre degli anni novanta, il consenso dell'opinione pubblica all'attacco viene garantito da un misto di retorica, disinformazione e riscrittura del passato. A dicembre, Andreas Zumach, del quotidiano tedesco "Tageszeitung", ha rivelato che numerose imprese statunitensi e tedesche, e addirittura agenzie governative Usa, hanno aiutato negli ultimi venti anni il regime iracheno a dotarsi di armi di distruzione di massa (in particolare gli agenti chimici usati contro l'Iran e contro i curdi). Ma del fatto che il dittatore Saddam Hussein sia stato "amico dell'occidente" per oltre un decennio oggi non si parla. Per fortuna nel nostro paese abbiamo gia' visto diverse manifestazioni contro la guerra che si avvicina, e senz'altro la protesta crescera'. Essa potra' diventare incisiva solo se nascera' un movimento capillare genuinamente nonviolento, anzitutto nelle forme di protesta. L'opposizione nonviolenta non puo' esaurirsi nelle manifestazioni di piazza. La strada dell'azione diretta nonviolenta potra' forse intralciare il funzionamento della macchina da guerra e questo sara' un segnale di speranza. A questo proposito e' doveroso ricordare, tra le altre, l'iniziativa delle "mongolfiere di pace", animata da Peppe Sini, che durante la guerra del Kosovo impedi' per qualche ora la partenza dei bombardieri. Riusciremo a ostacolare di nuovo, anche solo per poco, la macchina bellica statunitense e i suoi aiutanti italiani? La cultura della nonviolenza mette in primo piano la realizzazione di un programma costruttivo, come alternativa praticabile alla violenza e alla sopraffazione. Il collegamento tra l'opposizione alla violenza e il programma costruttivo e' di grandissima attualita': credo che, alla vigilia della "guerra annunciata", proprio il programma costruttivo dovrebbe diventare il centro dell'azione politica dei nonviolenti e dei movimenti per la pace. Non c'e' dubbio infatti che la guerra contro l'Iraq verra' combattuta per garantire agli Stati Uniti il controllo della materia prima oggi piu' preziosa, il petrolio. Per depotenziare il sistema di guerra nel quale siamo immersi la via maestra e' quindi costruire con pazienza alternative all'attuale politica energetica e quindi al modello di sviluppo odierno nel suo complesso. A dimostrazione che un tale programma costruttivo non e' roba da utopisti ci sono tanti esperimenti di nuove forme di economia e di vita. Un compendio delle esperienze piu' interessanti e' contenuto nel volume Short circuit, scritto gia' qualche anno fa dall'economista irlandese Richard Douthwaite (in Germania e' uscita un'edizione ampliata con esempi di alternative pratiche nei paesi di lingua tedesca). La tesi dell'autore e' che per contrastare gli effetti devastanti della globalizzazione occorre costruire forme di economia solidale a livello locale e regionale: anziche' fluire dalla periferia al centro, le risorse possono in questo modo rimanere a disposizione della comunita' che le produce. Douthwaite propone esempi concreti di alternative economiche in diversi campi: dalle banche del tempo allo sfruttamento di risorse energetiche rinnovabili locali. Proprio quest'ultimo punto assume un'importanza centrale per un modello di sviluppo alternativo a quello basato sul petrolio. Douthwaite sostiene che pressoche' ogni comunita' locale puo' valorizzare fonti energetiche proprie (ad esempio con piccoli impianti idroelettrici o eolici). Oggi la liberalizzazione del mercato energetico europeo permette di realizzare questa alternativa con una certa facilita', creando societa' locali di produzione e consumo dell'energia: in Germania i consumatori possono scegliere la societa' da cui comprare energia elettrica. L'elettricita' necessaria a scrivere queste righe al computer proviene dalla rete di Berlino, la mia bolletta viene versata a una societa' di Amburgo che vende solo energia rinnovabile. Prevedibilmente il movimento contro la guerra in Iraq caratterizzera' la societa' italiana nei prossimi mesi. La cultura della nonviolenza puo' permettere all'opposizione contro la guerra un salto di qualita': l'obiettivo e' di saldare insieme l'azione diretta nonviolenta nella societa', la prospettiva di un'opposizione politica alla guerra nelle istituzioni, e la costruzione di alternative locali al modello di sviluppo basato sul petrolio. 2. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: PARLARE LA PACE CON OCCHI AMANTI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione questo testo predisposto per una conferenza nell'agosto del 1999. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] Per riuscire a creare e a mantenere politiche di pace, pratiche nonviolente, dobbiamo innanzitutto chiederci come la guerra nasce nelle nostre menti, in che modi - spesso del tutto inconsapevolmente - ne siamo complici, che ruolo recitiamo in uno scenario in cui siamo presenti comunque, al di la' delle nostre scelte e delle nostre opinioni. Innanzitutto, dobbiamo prendere atto che il nostro pensiero non possiede la qualita' del "neutro"; stante l'impossibilita' manifesta di una separazione corpo/mente, noi pensiamo con un cervello parte integrante e non divisibile di un corpo sessuato. Per di piu', il nostro pensiero non si forma in un nulla iperuranio, non e' sospeso e libero in orizzonti metafisici (anche se ci piace, e' consolatorio pensare che lo sia), ma si forma in un "framework", una cornice o struttura concettuale gia' data all'interno della quale noi impariamo a parlare e a pensare. Essa consiste nelle credenze, valori, attitudini di base che danno forma e riflettono il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri: e' una sorta di "lente sociale" attraverso la quale i nostri occhi guardano. La struttura concettuale a cui faro' riferimento e' ovviamente quella occidentale/patriarcale, stante non solo il fatto che si tratta della cornice in cui il mio pensiero ed il vostro si sono necessariamente formati, ma anche perche' si tratta di una cornice estremamente invasiva che - con maggior o minor fortuna, e di questo potremo magari dibattere un'altra volta - sta interessando e inglobando, oggi come in passato, cornici formatesi in differenti segmenti spazio-temporali dei nostro pianeta. * La struttura che ci interessa, quindi, e' quella che ha prodotto il linguaggio attraverso il quale stiamo comunicando; il linguaggio umano e' sostanzialmente "tecnica", una tecnica che deriva da un accordo logico fra comunicanti: ogni parola ha il significato o i significati che noi abbiamo desiderato dare ad essa. Questa tecnica non e' limitata alla mera descrizione del reale, ma crea continuamente il "mondo immaginato" nel quale viviamo: noi immaginiamo confini, ad esempio, decretando che qui finisce uno Stato e ne inizia un altro; immaginiamo "comunita'" basate sulla presenza o l'assenza di determinate caratteristiche nelle persone che fanno parte della comunita' stessa; immaginiamo che tutto cio' che esiste su questo pianeta sia relativo a noi, e lo descriviamo mediante un florilegio di aggettivazioni arbitrarie, che valutano esseri viventi e ambiente in base al tornaconto ed al godimento umano. In poche parole, il linguaggio che stiamo parlando, a causa della struttura in cui prende forma, e' attraversato da quello che gli studiosi e le studiose chiamano "bias", ovvero un "rumore di fondo", una serie di "errori tendenziosi" costituiti da supposizioni imprecise ed interpretazioni illogiche e/o arbitrarie. Se volete formularvi una visione della cornice occidentale/patriarcale pensatela come una piramide: la sua forma e' gerarchica e si basa sull'attribuzione di minor o maggior valore a cose e persone; il suo modo di procedere funziona per polarizzazioni ed opposizioni concettuali (viene infatti definito "il pensiero o... o"), in cui i termini si sostengono e si definiscono reciprocamente, ma senza poter entrare ne' in relazione, ne' in commistione. Ad esempio, la pretesa razionalita' ascritta al sesso maschile come innata, puo' esistere solo quando il femminile incarni l'emotivita' pura, la cecita' pulsionale. * La forma gerarchica funziona cosi': a) gli esseri umani hanno, e le piante non hanno, la capacita di cambiare radicalmente secondo il proprio volere la comunita' in cui vivono; b) chiunque abbia la capacita di cambiare radicalmente, secondo il proprio volere, la comunita' in cui vive e' moralmente superiore a chi non ce l'ha; c) percio', gli esseri umani sono moralmente superiori alle piante; d) essendolo, sono moralmente giustificati se subordinano le piante al proprio volere. E la struttura patriarcale prosegue: a) le donne sono identificate con la natura e la fisicita'; gli uomini sono identificati con l'"umano" ed il regno del "mentale"; b) chiunque sia identificato con 1'"umano" ed il "mentale" e' moralmente superiore a chi sia identificato con la natura e la fisicita'; c) percio' gli uomini sono moralmente giustificati se subordinano le donne al proprio volere. La composizione, come vedete, funziona nello spiegare e mantenere un sistema di "dominanti" e "dominati"; le caratteristiche che si intersecano all'interno di tale cornice sono le seguenti: - la valutazione gerarchica, che conferisce valore a particolari categorie: uomini, "razza bianca", eterosessualita', ecc.; - il costituirsi del pensiero per dicotomie concettuali, ovvero tramite un dualismo esasperato che costruisce la realta' in coppie di opposti escludenti (anziche' ad esempio in coppie complementari); ogni ramo della coppia presentera' caratteristiche univoche che non possono entrare in commistione con le caratteristiche dell'altro ramo, ma solo uno di essi presentera' caratteristiche desiderabili: avra' quindi maggior status il ramo "mente, ragione, maschile" rispetto al ramo "corpo, emozione, femminile"; - la concezione del potere come mantenimento delle relazioni gerarchiche; - il conferimento di privilegi al ramo dominante; - la giustificazione "in se stesso" del ramo dominante: alla domanda sul perche' sia dominante, come abbiamo visto, viene risposto che esso possiede caratteristiche desiderabili e superiori; alla domanda sul perche' queste caratteristiche siano desiderabili e superiori, la risposta sara'... perche' appartengono al ramo dominante. Se codesto ramo domina, e' ovviamente superiore! * All'interno di tale quadro concettuale, persino molti di quelli che dicono di combattere il sistema inferiori/superiori contribuiscono a perpetuarlo, usando le medesime logiche delle quali il sistema si sostenta (una di esse e' la violenza, termine in cui comprendo ovviamente la guerra). Voi potete verificarlo semplicemente ascoltando cosa dice e cosa non dice chi afferma di rigettare la logica del dominio: a volte dice, per esempio, che la superiorita' non giustifica la subordinazione... continuando esplicitamente a mantenere il concetto di "superiorita'" che ritiene solo dislocato sul gruppo "sbagliato"; dice anche che le differenze vanno ricomprese in un universale (fate attenzione al significato delle parole: universale e' cio' che va in una direzione unica), un universale che di fatto le annulla, comprime, assimila e gerarchizza, giacche la uni-versalita', l'unico verso in cui si puo' andare, produrra' giocoforza "differenze piu' importanti" e "differenze meno importanti"; dice che per ottenere l'accesso alle risorse ed ai privilegi dislocati sul gruppo dominante, chi appartiene al gruppo subordinato puo' e deve usare gli stessi mezzi che il gruppo dominante usa per mantenerli avocati a se', e quindi, una volta raggiunto l'accesso a risorse e privilegi, potra' usare delle discriminanti per negarli ad un gruppo inferiore. Questo e' l'effetto che la struttura concettuale del patriarcato (poiche' la primissima distinzione in superiori/inferiori riguarda la relazione fra i sessi) ha sui nostri cervelli e sulle nostre logiche discorsive. Il nostro linguaggio ne e' pesantemente informato: persino una discussione si trasforma in una guerra; pensate, per esempio, a come viene definito un "buon ragionamento" all'interno di una discussione. Un "buon ragionamento", una "ragione valida", sono cose che spezzano, distruggono, cancellano le argomentazioni diverse dalle loro. I "buoni ragionatori" sono quelli che battono l'avversario, che travolgono le opinioni altrui. I "cattivi ragionatori", viceversa, sono quelli le cui parole vengono definite in termini di non durezza: fanno ragionamenti sfilacciati ed il loro argomentare e' pieno di buchi. Soffermatevi solo un attimo, ora, a riflettere sulle parole che vengono usate per descrivere le donne e le armi. Le prime hanno a disposizione: 1. termini "animali"; 2. termini "sessuali; 3. termini "di gioco". Queste parole suggeriscono che le donne sono come animali o bambini; queste parole dicono che donne, animali e bambini sono esseri irrazionali e inferiori. Queste parole ci indicano come le donne vengano costantemente "naturalizzate" all'interno del processo discorsivo. E la natura, la cui equivalenza femminile e' ormai un classico (anche se storicamente tale equivalenza ha assunto significati differenti), lo sapete, va: violata, dominata, assoggettata, conquistata, sottomessa. Nei segreti della natura si penetra ed essi vengono svelati. Nel framework occidentale/patriarcale la connessione e' donna - bimbo - animale - natura, fusi in una condizione di inferiorita'. Non si tratta di semplici associazioni, di metafore senza significato, di note a margine alle quali possiamo permetterci di non prestare attenzione: la terminologia suddetta indica un clima culturale ed informa i modi in cui ci si avvicina alle donne, ai bambini, agli animali ed alla natura: non si desidera entrare in relazione con essi, si desidera dominarli. Veniamo alle armi. Esse sono descritte principalmente come potenza sessuale e secondariamente con termini che esprimono l'esatto opposto delle loro funzioni. Per il primo caso, potete pensare alla forza di penetrazione delle bombe, alla potenza di fuoco di un'arma, all'erezione di una batteria missilistica, al potenziale nucleare rilasciato in un'esplosione orgasmica (queste ultime sono le precise parole di un consigliere militare al Consiglio nazionale di sicurezza statunitense); pensate ai giornali che scrivono, quando l'India fa esplodere la sua prima bomba nucleare, che tale nazione ha perso la verginita'. Per il secondo caso, potete riflettere sul nome dato al missile Mx, ovvero "Peacekeeper" (mantenitore della pace) oppure sul fatto che il Pentagono definisce "effetto collaterale" di un'esplosione la morte di esseri umani, perche' le bombe hanno per bersaglio gli edifici. Le parole usate per descrivere le armi sono estatiche, trionfalistiche (e lo spostamento di senso nel chiamare "pacificatore" un missile e' prova di una cecita' idolatra che va oltre il nostro sorriso ironico); non a caso alcuni studiosi - in particolare Robert Lifton e Richard Falk - hanno classificato il rapporto che gli esseri umani hanno con le armi come una malattia o una dipendenza: "le bombe - essi dicono - diventano fondamento del discorso, nonche' la soluzione a qualsiasi problema: nel contempo, restaurano il nostro perduto senso d'immortalita'". E difatti, aggiungo, dare la morte non e' forse sentirsi un po' Dio? * Quindi: abbiamo visto che la violenza ha la sua radice primaria nel linguaggio con cui parliamo, nella struttura in cui si formano i nostri pensieri; una struttura che funziona come un sistema di dissociazione attraverso il quale gli esseri umani tentano di separarsi dalle relazioni che hanno con gli altri e con l'ambiente. La percezione dell'altro come inferiore e della differenza come gerarchia permette la presa di distanza dall'altro e giustifica la sua subordinazione. Se vogliamo dare una definizione concreta della violenza, essa ci appare come effetto di una mancanza di risorse o come una manifesta incapacita'/impossibilita' di usare risorse non violente. Vi faccio alcuni esempi: 1. sono un membro di una minoranza oppressa; non ho modo di farmi ascoltare: divento un terrorista; 2. sono un dittatore, eppure non ho modo di forzarvi a pensare cio' che io voglio pensiate: vi metto in prigione, affamo i vostri figli, vi torturo; 3. sono una donna che vive un matrimonio con un uomo autoritario e tradizionale; mi sento inferiore e priva di potere rispetto al continuo disprezzo di cui mi fa oggetto mio marito: percio' comincio a minare la sua sicurezza, rendendolo ridicolo agli occhi dei suoi figli; 4. sono una bambina alla quale e' impossibile far cessare i continui alterchi fra i miei genitori e difendermi dagli improvvisi scoppi di rabbia che mia madre ha verso di me: rompo qualcosa di prezioso e fuggo; comincio a rubare; posso arrivare ad uccidermi; 5. sono il Presidente degli Usa: nonostante tutte le forze a mia disposizione, non conosco un modo per essere sicuro che le nazioni in via di sviluppo, soprattutto quelle produttrici di petrolio, ballino alla mia musica; percio' uso il cibo come arma politica, provoco un crescendo di armamenti incrementando il potenziale bellico delle nazioni confinanti, finanzio un golpe. * Trovare risorse nonviolente, offrire ad altri tali risorse, o insegnare ad altri l'uso di tali risorse e' il cardine primo su cui costruire una politica di pace. Per attuare strategie nonviolente di opposizione al sistema del dominio (che fa di tutti e tutte noi dei pre-giudicati - giudicati prima che noi ci si mostri quali sentiamo e sappiamo di essere - e ci suggerisce di continuo l'impossibilita' di abbandonare o modificare la struttura concettuale di riferimento) dobbiamo necessariamente passare per stadi di "riconoscimento": L'individuazione del framework ed il suo smascheramento; l'individuazione della connessione tra i vari tipi di violenza (compresa la violenza su di se'); il riconoscimento che la violenza e' una questione globale e sistemica e che si alimenta, prima di tutto, nelle nostre teste. Quando ridiamo ad una battuta sessista, o quando copriamo di apprezzamenti a sfondo sessuale una sconosciuta per strada noi stiamo nutrendo il futuro violentatore del nostro apprezzamento; stiamo giustificando i bordelli etnici dell'ex Jugoslavia, stiamo affilando il coltello che sgozzera' la prossima donna algerina. La destrutturazione del sistema dominatori/dominati passa inevitabilmente per un cambiamento radicale dei rapporti fra i sessi. Vorrei fosse chiaro che quest'ultimo punto vi riguarda tutti, femmine e maschi, se il vostro desiderio sara' (o e') il poter formare il vostro pensiero e le vostre azioni all'interno di una cornice concettuale differente: vorrei fosse chiaro, cioe', che non sto trattando di una "lotta rivendicativa" delle donne, o del desiderio di passare a far parte del gruppo dei dominatori, o di una pretesa "uguaglianza" che conferisca alle donne gli stessi privilegi ascritti arbitrariamente al sesso maschile. Io, come tutte e tutti voi, sono uguale solo a me stessa e non intendo affatto diventare "uguale" a un maschio reale o ipotetico. Il pensiero delle donne, nella costruzione di processi di pace come in quella di democrazia non sta chiedendo nulla: sta offrendo qualcosa. Ma questo sara' piu' chiaro al termine del mio intervento. * Una delle risorse nonviolente che possiamo trovare in noi stessi e' l'uso appropriato delle nostre emozioni. Persino la rabbia puo' essere una risorsa nonviolenta. Pensate per un attimo ad una situazione in cui vi siete arrabbiate o arrabbiati; forse la vostra rabbia stava dicendo "Io merito di essere trattato meglio di cosi!", oppure stava dicendo "No, fermati! Questo causa dolore a me, ad altri". L'uso della rabbia e' una risorsa quando produce un cambiamento necessario rifiutandosi nel contempo di adottare comportamenti oppressivi o privi di rispetto. L'uso della rabbia e' inappropriato quando vuol coprire di vergogna un altro essere vivente, dominarlo, manipolarlo o controllarlo. Le studiose ecofemministe chiamano l'uso della rabbia come risorsa nonviolenta "rabbia con compassione", ovvero l'offerta di rispetto verso noi stessi e verso chi ci opprime, unita al rifiuto di cooperare con l'oppressore o di adottare i suoi metodi. Focalizzarci unicamente sulla rabbia esaurisce le nostre forze e ci obbliga a fare concessioni ai metodi della violenza e della distruzione; viceversa, focalizzarsi unicamente sulla compassione ci rende impotenti e ci seduce ad un indifferenziato umanitarismo. * Una politica di pace puo' funzionare in misura direttamente proporzionale al grado in cui riesce a sottrarsi al quadro concettuale (occidentale/patriarcale) che vi ho precedentemente descritto. Puo' funzionare se viene costruita come un "quilt", ovvero una di quelle coperte formate da quadretti diversi; si tratta di "cucire", all'interno di una nuova cornice, "quadretti" che mantengono la propria specificita': poiche' ognuno di essi rimanda a persone umane di sesso diverso, di eta' diversa, di appartenenza geografica diversa, di orientamenti sessuali ed affettivi diversi, di condizioni socioeconomiche diverse, e via discorrendo. Ma come cucire la coperta? 1. Opponendoci a qualunque pratica comporti dolore e danno agli esseri umani, agli animali e all'ambiente; 2. rendendo visibile che razzismo, classismo, sessismo, militarismo, eccetera si generano e sono mantenuti e rinforzati dalla struttura concettuale del patriarcato e che quindi ignorano il sapere delle donne o le considerano naturalmente inferiori e bisognose di aiuto: i disastri ambientali causati dagli "esperti" dell'occidente nei paesi del sud del mondo non si contano piu'; ne sanno qualcosa le contadine dell'India (inferiori) che hanno visto il proprio ecosistema devastato dagli scienziati occidentali (superiori); 3. riconducendo la teoria politica a processo in costruzione che interagisce con cornici storiche, socioeconomiche, ambientali: basta con le teorizzazioni statiche e astoriche, "buone per qualunque epoca", e falsamente "neutre" rispetto ai generi sessuati; 4. conferendo ai processi di pace una struttura plurale, incoraggiando la presa di parola di una molteplicita' di voci, ognuna delle quali riconosciuta ed ascoltata nella sua prospettiva particolare: dare voce significa effettivamente dare potere, aprire scenari, offrire possibilita'; 5. riconoscendo competenza a chi ce1'ha: non coinvolgere le donne nelle problematiche relative alla produzione ed al consumo di alimenti significa escludere dalla discussione chi produce piu' del 60% del cibo in tutto il mondo; non coinvolgere le donne e i bambini quando si disegnano sistemi di irrigazione nei paesi in via di sviluppo significa escludere dalla discussione chi ha l'assoluta maggioranza nel ruolo di raccoglitore e distributore di acqua potabile; 6. riconoscendo che la struttura di dominio si basa anche sul consenso, poiche' la dicotomia concettuale dominatori/dominati offre a segmenti di dominati di dominare a loro volta, e percio' essi consentono tacitamente od esplicitamente alla continuazione della struttura; 7. cominciando a concepire gli esseri umani per cio' che essi sono effettivamente ovvero esseri in relazione, e non in modo accidentale o fortuito. La relazione e' la "conditio sine qua non" grazie alla quale non solo essi sopravvivono, ma che li crea come esseri umani. Considerare, percio', che ogni donna ed ogni uomo sono un nodo unico ed irripetibile della rete della vita e che non esistono categorie "superflue" ne' fra gli esseri umani, ne' fra gli animali o le piante; 8. focalizzando le nostre azioni sulla cura, la reciprocita', l'amicizia, le relazioni affettive, la fiducia e l'amore: cioe' lo spostamento di valore, energie e risorse dall'impersonale al relazionale, ove per relazionale si intende anche la relazione con esseri non umani; 9. sorvegliando il nostro linguaggio ed i modi con cui comunichiamo; nominare i due generi (maschile e femminile), interrogare gli stereotipi e i ragionamenti basati su opposizioni binarie, bandire la nostra approvazione agli atti di violenza, rifiutare la mistica dell'"eroe", riconoscere che senza la cura e l'affetto degli altri e delle altre non potremmo vivere ne' saremmo quali siamo (ma gli esempi potrebbero continuare all'infinito). * Una studiosa ecofemminista, Marilyn Frye, ha provato ad immaginare un framework basato piu' o meno sui presupposti suddetti ed ha coniato, per lo sguardo che tale struttura produrrebbe sul mondo, un termine che mi piace molto: "occhi amanti". Lo sguardo di tali occhi viene a sapere parecchie cose: sa la complessita' dell'altro, e cioe' che chiunque l'altro sia, egli o ella o esso/a mi presentera' sempre cose nuove da conoscere; questo sguardo sa che per vedere l'altro non serve ridurlo ai propri voleri, interessi, paure ed immaginari... "riducendolo", essi lo vedrebbero meno bene. Gli "occhi amanti" sono pieni d'attenzione, quasi concentrassero in se stessi tutti i sensi: vedere, ascoltare, esaminare diventano inseparabili. Questo sguardo non tenta di assimilare l'altro o di formarlo secondo lo stampo del proprio desiderio. Non c'e' fusione di due ma sempre relazione fra due. Le entita' sono riconosciute come differenti, indipendenti e pur sempre in relazione. Questo e' cio' che il pensiero delle donne sta offrendo a tutti; donne ed uomini. Non ci interessa produrre un "quilt" di un solo colore, basato sull'univoco (tante voci, ma che dicono la stessa cosa nello stesso tono); la coperta che cuciamo vuol dare conto di tutto cio' che la struttura occidentale/patriarcale assimila, gerarchizza o nega. Noi sappiamo che non esiste qualcosa come una "percezione oggettiva" da parte del genere umano e che non esiste una struttura concettuale priva di "bias"; da cio' sappiamo che non esiste alcuna azione umana ed alcun pensiero umano che non sia responsabile di se', proveniente da qualcuno che appartiene ad un genere sessuato, ad un sistema familiare, ad una societa' specifica e cosi' via, e che ne riflette necessariamente i valori dati. Poiche' riconosciamo le differenze, la nostra visione e' paradossalmente piu' inclusiva e piu' unitaria di chi non le riconosce o le annulla nel concetto di "universale". * Voi sapete che le donne Chipko, per salvare il proprio ecosistema dalla deforestazione voluta dalle multinazionali hanno abbracciato gli alberi. Era l'unico gesto dotato di senso, poiche' sfuggiva alla struttura concettuale che vi ho descritto, e che prevede il combattere una violenza solo usando un'altra violenza. La logica del dominio separa e non prevede l'abbraccio. Tanto peggio, concludo io, per chi ha scelto la logica del dominio: perche', fatte salve tutte le altre considerazioni, e' veramente molto bello stare abbracciati. * Sono debitrice, per questo intervento, agli "occhi amanti" ed alle sagge parole di: Carol Adams, Stacy Alaimo, Chris J. Cuomo, Francoise d'Eaubonne, Evelyn Fox-Keller, Marilyn Frye, Marija Gimbutas, Luce lrigaray, Gloria Orenstein, Vandana Shiva, Starhawk, Karen J. Warren. 3. RIFLESSIONE. SUZETTE H. ELGIN: PATOLOGIE DEL COMPORTAMENTO UMANO NEI GRUPPI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo per averci messo a disposizione la traduzione di questo testo di Suzette H. Elgin. Abbiamo adattato la terminologia proposta per la tipizzazione (rinunciando conseguentemente alla brillantezza metaforica) al fine di evitare possibili equivoci. Suzette H. Elgin, cristiana, femminista, linguista e amica della nonviolenza, e' autrice di sf e dell'apprezzato, in ambito anglosassone, La gentile arte della difesa verbale (ma ha scritto un'altra dozzina di interessanti libri sulle relazioni umani e il linguaggio)] Ci sono circa mezza dozzina di atteggiamenti sociali patologici nel comportamento umano: conoscerli significa avere uno strumento importante per risolvere i conflitti ad ogni livello. Come metafora per spiegarli, ho usato denominazioni di gruppi e pratiche correnti in culture antiche e la loro interazione. Gli stessi schemi si ripetono al giorno d'oggi e si sono ripetuti in ogni tempo e luogo, ma ho trovato la metafora particolarmente calzante per gli odierni rapporti nei gruppi. * Primo: Il "detentore della verita'" L'essenza di questo approccio e' l'uso dei propri sofismi per estirpare l'errore e la superstizione da "cio' che conta veramente". Spesso le persone che usano questo modulo sono violente verso chi non e' d'accordo con loro e reagiscono violentemente (in modo fisico o verbale) alle "superstizioni". Cio' che e' patologico e' il derivare il proprio senso di identita' dallo schernire le masse ignoranti e dal sentirsi "troppo intelligente" per accettare qualsiasi altro ragionamento che non sia il proprio. Spesso il moderno "detentore della verita'" si sente investito di una missione, sentimento che deriva dall'aver abbracciato cio' che l'elite sociale o accademica di sua scelta ha deciso essere la verita'. La richiesta che il "detentore della verita'" pone al gruppo e' di avere la precedenza, in nome e per conto della superiore corrente di pensiero a cui appartiene. * Secondo: Lo scriba L'approccio di questa persona e' di tipo "legale", basato su molteplici regole che vengono usate per giudicare gli altri. Sono capaci di cercare l'ago nel pagliaio ma non di usare giustizia, compassione e fiducia. Cio' che e' patologico e' il derivare il proprio senso d'identita' dalla condanna degli altri, colpevoli di non riuscire a rispondere al proprio irrazionale "legalismo". La missione di cui il moderno scriba si sente spesso investito e' il richiedere rispetto ed onore per i valori del passato, per nessun'altra ragione che si tratta di valori del passato e lui li ha abbracciati. La discussione degenera spesso in aperto conflitto quando sono presenti i "detentori della verita'" da una parte e gli scribi dall'altra * Terzo: Lo squadrista Il vero squadrista si distingue dal convincimento che ogni disaccordo o conflitto possa e debba essere risolto con l'uso della forza. Generalmente, prima tenta di usare la forza e poi tutti gli altri metodi. Gli squadristi sono assuefatti alla scarica di adrenalina che producono in loro le azioni che promuovono o comportano violenza. Questa patologia e' rintracciabile in ogni gruppo dall'estrema destra all'estrema sinistra (e in tutte le sfumature intermedie). Dalla distruzione di oggetti alla rapina, dal crimine di strada all'avventurismo militare, la missione dei moderni squadristi e' l'uso della forza fisica. Molti gruppi pacifisti o nonviolenti scoprono spesso con sorpresa di avere un significativo numero di squadrista fra i loro membri. * Quarto: Il riscossore I riscossori sono coloro che invece di tentare di cooperare con gli altri, di assimilare sapere dal gruppo, sono in grado solo di assimilare "cose". La forma piu' comune di questa patologia e' il ritenere che il denaro abbia maggiori diritti degli esseri umani, e che i diritti umani derivino direttamente dal possesso di denaro. Quando vi capita di sentire un ragionamento del tipo: "Sono autorizzato a fare questo perche' devo/voglio guadagnare dei soldi", avete incontrato un riscossore in azione. * Quinto: Il prostituto Questa e' una persona che sta al mondo unicamente per ricercare soddisfazione ai propri piaceri, senza limiti di sorta. I prostituti sono spesso sfruttati dagli altri o diventano loro vittime. Questo comportamento e' patologico in quanto si concentra esclusivamente sulla gratificazione immediata e non ne considera alcuna conseguenza. "Ma ne avevo bisogno", e' il ritornello di questo tipo di persone. Molto spesso, altri individui affetti da patologie comportamentali insisteranno di avere il diritto di abusare di un prostituto o di sfruttarlo solo in ragione della sua appartenenza al loro medesimo gruppo, o in ragione del suo essere prostituto. * Sesto: L'escapista Gli escapisti sono la figurazione di quelli che usano la fuga come strategia risolutiva del conflitto. I gruppi che organizzano campi di sopravvivenza a destra e i collettivi utopisti a sinistra sono un buon esempio per la patologia degli escapista. I problemi sorgono quando questo tipo di persone si trova in una situazione in cui non puo' fuggire; ogni gruppo contiene la sua parte di escapista come contiene le altre tipologie: il punto e' riuscire a capire come e dove i comportamenti patologici si reiterano. * Queste sei classificazioni di massima sono quelle che maggiormente si ripetono nel lavoro di gruppo. La loro evidenza diviene manifesta nei tipi di negoziazione che vengono proposti: gli scribi useranno "la legge", i "detentori di verita'" le loro analisi; gli squadristi mostreranno i propri schemi aggressivi; i riscossori discuteranno, ma trattando le persone come cose e le cose come persone; I prostituti tremeranno ed esiteranno; gli escapisti fuggiranno via. Non c'e' nulla di sbagliato in alcuni meccanismi di base per affrontare le situazioni: dedicarsi alla verita' e all'analisi non e' patologico in se'. Ma ogni meccanismo puo' "andare a male", dando un esito patologico all'interno del gruppo. Riconoscere come questo limiti le attivita' e la coesione del gruppo puo' aiutare a capire la natura dei conflitti e puo' essere un utile primo passo sulla strada della soluzione e della riconciliazione. 4. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO: NEI MOVIMENTI IL NODO DEL LINGUAGGIO (E LA VIOLENZA DEL SESSISMO) [Ringraziamo Monica Lanfranco (per contatti: e-mail: mochena at village.it, siti: www.marea.it, www.village.it/lanfranco/) per averci messo a disposizione questo suo articolo scritto per il settimanale "Carta". Monica Lanfranco, giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo 1959, vive a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il paese delle donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con il quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili "Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e'' socia fondatrice della societa' di formazione Chance. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995 ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo di storia sociale e politica scritto anche in braille e disponibile in floppy disk utilizzabile anche dai non vedenti e rintracciabile anche in Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della partoriente (La Clessidra). Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e sulla comunicazione] "Una parola e' morta quando viene detta, dicono alcuni. Io dico che comincia a vivere soltanto allora". E' in una poesia di Emily Dickinson, che di parole, e del loro uso, si intendeva. Ma se preferite ecco quello che affermava Ann Godin, pedagogista: "Le parole sono i chiodi per attaccare le idee". Ci sara' un motivo per il quale in moltissime, le storiche, le antropologhe, le studiose femministe centrano l'attenzione sull'uso delle parole, e mettono in guardia sulla stretta connessione tra violenza del linguaggio comune e violenza reale, nelle relazioni quotidiane come nella politica e quindi nel tessuto sociale. Rilevando una banale ma rilevante falla nel buonsenso, falla che pero' diventa baratro se si riflette piu' a fondo sulla cancellazione della realta' anche quando questa e' evidente agli occhi, la filosofa Adriana Cavarero spiegava come persino all'universita' ci fossero docenti che, dinanzi ad un auditorio di sole ragazze, o con pochissimi maschi presenti, continuassero imperterrite a parlare al maschile: la frase "buongiorno ragazzi" pronunciata ad un pubblico evidentemente a maggioranza femminile non appare affatto quello che e', ovvero una straordinaria bugia. Proviamo a riflettere sulla neutralita' del linguaggio, e su come la sua non sessuazione, il non dichiarare il maschile e il femminile includendo quest'ultimo nel neutro sia una porta aperta sul sessismo. "Uffa, che barba, che vuoi che conti se diciamo uomo intendendo anche le donne? Insomma sappiamo bene che vogliamo dire tutti, no?". Centinaia di volte ho sentito questo argomento, trasversale si badi bene a ambienti culturali, generazionali e politici, e centinaia di volte mi sono impuntata, spostando l'asse del ragionamento su altri versanti, che evidentemente fanno meno paura, o aprono meno conflitti. Per esempio sul fronte geopolitico. Se diciamo male degli americani, non stiamo forse generalizzando a scapito anche dei cileni, o dei messicani? Nordamericani si dovrebbe allora dire, e ancor meglio si dovrebbe parlare di statunitensi, ma forse sarebbe ancora meglio definire di chi abbiamo cosi' nausea, perche' dentro il popolo americano ci sono milioni di brave persone. E questo vale per ogni neutra generalizzazione. Parlo di questo argomento perche' nei movimenti il nodo del linguaggio (quindi della comunicazione, quindi dei contenuti che attribuiamo alle parole, quindi della nostra politica, at last) e' un tema difficile: come per la sessualita', dove i comportamenti sbagliati sono sempre attribuiti agli altri, cosi' l'uso della parola, che e' poi il tramite simbolico, la moneta di scambio dei propri contenuti reali sembra essere un terreno infimo, un fastidioso tormentone ("nel documento va aggiunto donne, cittadine, etc.") che certe femministe moraliste noiose e poco rivoluzionarie tendono a tirar fuori, come se non ci fossero altre cose ben piu' importanti delle quali occuparsi. Eppure, se e' vero che la lingua batte dove il dente duole, anche nel simbolico doloroso conflitto della contraddizione di genere, fare attenzione al perche' si insiste nell'uso del neutro non e' poi cosi' secondario: l'identita' e' il principio attraverso il quale si affermano le differenze. Per essere detta, e valorizzata, la differenza va nominata, anche nel discorso minuto della quotidianita', senza il quale la grande politica e' poca cosa. 5. RIFLESSIONE. AMELIA ALBERTI: NEGLI OCCHI DEI BAMBINI [Ringraziamo Amelia Alberti (per contatti: lambient at tiscalinet.it) per questo intervento. Amelia Alberti e' presidente del circolo verbano di Legambiente, e collaboratrice di questo foglio] Da "La Stampa" del primo febbraio: "Eric Hoskins, capo della delegazione canado-norvegese e direttore della ong War Child Canada, che lavora regolarmente in Iraq da dodici anni... pensa che 'se si traggono le conclusioni da cio' che ha insegnato la guerra del Golfo, si vede che i tredici milioni di bambini iracheni nel caso di un nuovo attacco, rischieranno la morte, la malnutrizione e gravi traumi psichici'. A suo parere 'L'Iraq ha riserve di cibo e di medicinali sufficienti appena per un mese' e, considerato come un decennio di sanzioni economiche abbia devastato il paese di Saddam Hussein, 'la popolazione infantile oggi e' molto piu' esposta alle conseguenze drammatiche di una guerra di quanto lo fosse nel 1991'". La nostra coscienza si ritrae dalla pre-visione del terrore negli occhi dei bambini iracheni, nei giorni apocalittici in cui le bombe pioveranno dal cielo come grandine impazzita. Guardiamo con amore impotente i nostri bambini felici e spensierati, chiedendoci disperati di che cosa e' impastata mai la natura umana, se ancora l'odore del sangue e della carne straziata sollecita la bramosia degli uomini fino a dimenticare l'istinto primordiale della perpetuazione della specie. 6. RIFLESSIONE. LIA CIGARINI: LIBERTA' RELAZIONALE [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il testo della relazione di Lia Cigarini al decimo simposio dell'Associazione internazionale delle filosofe, svoltosi a Barcellona dal 2 al 5 ottobre 2002. Lia Cigarini e' una delle piu' prestigiose intellettuali femministe italiane] Vorrei fare una premessa: penso che la liberta' sia un'esperienza e un'idea non riducibile ad un insieme di diritti costituzionali civili e politici in capo ad una individua e ad un individuo. Anzi penso che la cristallizzazione in diritti finisca con l'essere un ostacolo all'esperienza e al processo infinito della liberta', all'infinita' della liberta'. Per me materialista ed atea liberta' e' l'unico nome che mi da' l'emozione dell'infinito come il mare e il deserto. Credo, percio', sia necessario spiegare che cosa io intendo per liberta' femminile. * Insieme ad altre ho pensato che la questione prioritaria da porsi fosse quella di trovare un senso al mio essere donna. Questa e' stata la rottura (fatta dai primi gruppi femministi) con la precedente politica piu' o meno tormentata dell'assimilazione al mondo maschile, politica che aveva un nome e uno statuto ben preciso: l'emancipazione delle donne. Ponendo dall'inizio la questione dell'essere donna, abbiamo cominciato a lottare sul terreno della liberta' femminile perche' la liberta' ad una donna spetta a causa del suo essere una donna e non a prescindere dal suo sesso come recitano le varie Costituzioni e tutte le leggi di parita' che ne sono seguite. Se io dico sono una donna e a partire da questa materialita' affermo la mia liberta', e' cosa diversa che dire: i principi di uguaglianza e di liberta' elaborati dal mondo maschile devono valere per uomini e donne. Da queste premesse mi pare chiaro che io e molte altre, ci siamo collocate in un luogo di pratiche di relazione tra donne. Considerando, quindi la relazione, quale via e modalita' della liberta'. Viene cosi' a configurarsi un "luogo" (di rapporti e di pratiche) che precede o supera l'ordine delle leggi e da cui dipende a mio parere che vi sia generazione di liberta' femminile. * La liberta' e' un'esperienza in comune. Io preferisco usare questo termine - in comune - piuttosto che dire, come fa Hannah Arendt, che liberta' e politica coincidono o che la politica non e' separabile dalla liberta'. Per me la relazione duale o piu' relazioni duali sono gia' politica, perche' la questione sostanziale in politica sono le mediazioni che si mettono in atto, piu' che le forme finali (Parlamenti, ecc.). Il problema, dunque, e' la relazione, o meglio la relazione di differenza, come mediazione per l'agire delle donne. Relazione di differenza da intendersi come relazione con l'altro, senza arrivare a un noi, a un soggetto collettivo. Il sopra la legge e' in questa prospettiva il luogo dell'esistenza simbolica, dell'esperienza messa in parola del rapporto con l'altro/a. Questa figura del sopra la legge, e le pratiche di relazione che abbiamo creato, mi sembra sia coerente con la politica della differenza nel suo insieme: e' stata efficace per quel che riguarda l'opposizione alla politica di parita'. Infatti le stesse sostenitrici e i gli stessi sostenitori della politica della parita' hanno presentato le leggi di parita' come una mediazione al ribasso tra differenza ed uguaglianza con gli uomini. Cio' lascia uno spazio vuoto all'agire della liberta' femminile. * Vorrei tornare sulla rottura di cui parlavo prima tra la politica dell'emancipazione che si trascinava stancamente da circa cento anni e l'imprevista apparizione o piu' precisamente esperienza per alcune, poi molte, della liberta' femminile. Riflettendo su quel momento imprevisto, siamo nel 1967, posso dire che il mio io politico di giovane donna comunista, che insieme a quella operaia voleva la liberazione delle donne, si e' dileguato, e' defluito da me in brevissimo tempo. Ho riflettuto molto su quella radicale trasformazione. Non c'e' stato un particolare trauma bensi' un assommarsi di coincidenze: avevo deciso di iniziare un'analisi perche' mi sentivo stordita, in sostanza senza parole, muta, anche di fronte agli accadimenti politici che fino allora mi avevano tanto coinvolto e alla fraterna amicizia con i tanti uomini che frequentavano la politica comunista; nel contempo ho incontrato una donna che si aggirava insieme a me nelle piu' svariate riunioni del pre-sessantotto milanese, anche lei senza parlare ma con in mano un documento un po' contorto dove si parlava di trascendenza femminile. Fatto sta che la mia decisione dopo quell'incontro di aggregare un gruppo di donne per parlare e riflettere su di noi, e' stata repentina. Cio' significa, - e qui sono d'accordo con il testo di Luisa Muraro "Vita passiva", dove Luisa sottolinea che nella capacita' di agire vi e' sempre una parte di passivita' e accetta la coincidenza delle liberta' con il potere agire a patto che si tenga conto del non potere agire - che io c'ero gia' passivamente dove la presa di coscienza mi ha poi collocato. E significa, inoltre, che l'esperienza della mia giovanile emancipazione, di fare cioe' tutte le imprese che facevano gli uomini, che ora ricordo come un incubo fallico, era in realta' una vera anche se contraddittoria esperienza femminile dove la mancanza di senso della differenza sessuale in questo mondo metteva silenziosamente ma positivamente in scacco i miei piu' baldanzosi progetti. E significa, infine, che la tensione conflittuale tra liberta' ed emancipazione sara' permanente nella esperienza delle donne, perlomeno di quelle occidentali. D'altra parte la liberta' non segue un ordine cronologico: io mi accorgo quando c'e' liberta' e poi poco tempo dopo sento la ripetizione o il prevalere della legge. La vicenda della liberta' femminile non puo' essere pensata come conclusa e progressiva. Non puo' essere storicizzata. La separazione, dunque, dalla politica maschile e in molti casi dagli uomini in carne ed ossa - coi gruppi di sole donne - e' stata un'azione attraverso la quale la liberta' femminile ha parlato. Un gesto dirompente: un mio amico psicanalista, acuto osservatore della realta' che cambia, diceva che le donne, quelle che conosceva, all'improvviso erano entrate in clandestinita'. Non sapeva cosa succedesse in quei gruppi. Non poteva osservarle. E cio' lo metteva in ansia. Attraverso i suoi pazienti donne e uomini aveva capito che quel fatto aveva colpito l'inconscio ma non poteva interpretarlo perche' in preda alla sua stessa angoscia. Racconto questa vicenda per dire - e sottolineo che e' uno scherzo della liberta' e della asimmetria dei sessi - che da allora e' iniziato il silenzio maschile, l'incapacita' a capire e la loro evasione dal conflitto tra i sessi. Da allora, gia' dagli anni settanta (e so di andare controcorrente), io penso che la politica degli uomini ha cominciato a restringersi, a ridursi all'economia e alla guerra che e' quello che abbiamo sotto gli occhi. Con la separazione, le donne, si sono prese una grande liberta'. Il tempo, ad esempio, di narrare la propria esperienza piu' intima mai prima detta. * Il luogo. La relazione sentita e nominata, anche quella duale, come pubblica, ha fatto si' che attraverso le relazioni tra donne sempre piu' articolate e ampie, attraverso la narrazione, la filosofia, la storia, l'arte, il linguaggio insomma, attraverso le relazioni di differenza con alcuni uomini, si sia formata un'altra agora' (di cui anche questo incontro e' la prova) costituita da molte donne e pochissimi uomini. Si e' spaccata la "scena pubblica". In questi trent'anni io mi sono mossa, ho pensato e parlato per l'essenziale, in questa altra agora' di cui intuisco molte caratteristiche. Per esempio la sua forma non-finita, il privilegio della prossimita'. A mio parere non bisogna avere esitazione a dire che la polis, la scena pubblica, l'agire politico, e' spaccato. Tali figure non possono piu' essere usate come figure significative in presenza della politica delle donne. Tuttavia il simbolico che stiamo creando e che a sua volta sta creando noi, si basa sull'esperienza dell'alterita' (anche questa riflessione e' soprattutto di Luisa Muraro). Cio' ci ha impedito fortunatamente di identificarci con le donne. Mantenendo vive, con la consapevolezza della differenza sessuale e il conflitto tra i sessi, anche le differenze tra noi e il senso della singolarita'. Un'agora' aperta, dunque, anche agli uomini perche' costituita da relazioni, scambi, pensiero, arte, saperi, linguaggio, il cui significato anche un uomo puo' afferrare e condividere. D'altra parte il pensiero maschile piu' critico ha sottolineato che la liberta' non e' riducibile alla democrazia che conosciamo, al sistema elettorale, al dominio della maggioranza; neppure ai diritti, alla politica dei partiti e degli Stati. Un esempio per tutti, un giurista-filosofo della scuola di Vienna che io apprezzo, Kelsen, che ha cercato gia' ottanta anni fa di superare il conflitto tra liberta' e democrazia con la formulazione della "liberta' democratica", ha scritto "la democrazia e' una societa' senza padre. Essa vuole essere una societa' di equiordinati, possibilmente senza capi. Il suo principio e' il coordinamento e la fratellanza matriarcale la sua forma primitiva". Per questo pensatore quindi la liberta' democratica non era affidata alle regole ne' all'apparato della democrazia rappresentativa. La sua posizione si avvicina alla pratica politica della differenza che si rifiuta di ridurre l'insieme delle relazioni dell'agora' di cui parlavo prima, al politico. Naturalmente Kelsen che era un geniale giurista ha trovato nel formalismo giuridico, nel diritto una qualche soluzione, tralasciando tuttavia la questione che aveva posto. * Oggi che la democrazia e' franata nelle dittature delle maggioranze ottenute per pochi voti di elettori frastornati dai media, o illegalmente come negli Stati Uniti, e nelle decisioni di enti bancari internazionali non eletti per definizione da nessuno, si apre un vuoto pratico-teorico enorme davanti a tutte e tutti. Certo l'agora' dove ci muoviamo e' fragile ma ampia, comprende paesi lontanissimi, (penso al mio speciale rapporto con le artiste e in genere le donne dell'Iran) e ha gia' un grande pensiero e ulteriore potenzialita'. Le donne, la' dove non possono agire, possono pensare ed esercitarsi a farlo in comune. La liberta' resta affidata, nella prospettiva che io qui avanzo, alla forza delle pratiche politiche. E prima, ancora, alle coincidenze e all'infinita' del desiderio di liberta' delle singole e dei singoli. 7. LETTURE. FATIMA MERNISSI: LA TERRAZZA PROIBITA Fatima Mernissi, La terrazza proibita, Giunti, Firenze 1996, 2001, pp. 236, euro 9,50. La grande intellettuale marocchina rievoca la sua infanzia e la vita di allora in un harem di Fez. Fatima (ma il nome puo' essere traslitterato anche in Fatema) Mernissi e' nata a Fez, in Marocco, nel 1940, docente di sociologia, studiosa del Corano, narratrice; tra i suoi libri disponibili in italiano: Le donne del Profeta, Ecig, 1992; Le sultane dimenticate, Marietti, 1992; Chahrazad non e' marocchina, Sonda, 1993; La terrazza proibita, Giunti, 1996; L'harem e l'Occidente, Giunti, 2000; Islam e democrazia, Giunti, 2002. 8. LETTURE. SALWA SALEM: CON IL VENTO NEI CAPELLI Salwa Salem, Con il vento nei capelli, Giunti, Firenze 1993, 2001, pp. 190, euro 8,50. Un libro di vibrante intensita': l'autrice (1940-1992), intellettuale palestinese, gia' colpita dalla malattia che la portera' alla morte racconta la sua vita con passione di verita' e finezza grandi. Con una testimonianza di Elisabetta Donini e una postfazione di Laura Maritano. 9. LETTURE. TOM SEGEV: IL SETTIMO MILIONE Tom Segev, Il settimo milione, Mondadori, Milano 2001, 2002, pp. 540, euro 9. Un libro di grande interesse del prestigioso giornalista e saggista, su "come l'olocausto ha segnato la storia di Israele". 10. RILETTURE. CLAUDE LEVI-STRAUSS: PRIMITIVI E CIVILIZZATI Claude Levi-Strauss, Primitivi e civilizzati, Rusconi, Milano 1970, 1997, pp. 128, lire 20.000. La trascrizione delle conversazioni radiofoniche del grande antropologo con Georges Charbonnier nel 1959. 11. RILETTURE. ELENA PIGOZZI, SUSI DE PRETIS (A CURA DI): LETTERATURA AL FEMMINILE Elena Pigozzi, Susi de Pretis (a cura di), Letteratura al femminile, Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 1998, pp. 112, lire 12.000. Una sintetica, agile "storia delle scrittrici e dello scrivere al femminile". 12. RILETTURE. FRANCESCA POZZI (A CURA DI): LE SANTE Francesca Pozzi (a cura di), Le sante, Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 1999, pp. 96, euro 6. Nella collana di agili monografie introduttive "Atlante al femminile" un volume su "i modelli della santita' femminile dall'antichita' a oggi". Nei limiti di una esposizione di scorcio ed a carattere cursorio e di primo accostamento, una lettura interessante e non banale. 13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 14. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 495 del 2 febbraio 2003
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