DUE ARTICOLI DI MARIO AGOSTINELLI



Carissimi,
come sapete, il tema del terzo forum sociale mondiale, che si sta'
svolgendo in questi giorni, è "le strategie del movimento".
Vi invieremo presto i resoconti da Porto Alegre.
Intanto vi inviamo due articoli scritti da Mario Agostinelli, che sono un
contributo interessante alla riflessione sulle strategie, sulla fase che il
movimento attraversa e sulle prospettive.
Un caro saluto a tutti.



MARIO AGOSTINELLI



DA FIRENZE A PORTO ALEGRE. TEMI E PERCORSI DEL MOVIMENTO.







Dal rifiuto alla proposta



«Un paese con le pile scariche»: così De Rita ha definito la società
italiana, probabilmente confondendo, come ormai fa gran parte della classe
dirigente, la salute dell'economia con la società e le sue risorse di
autonomia e di reattività.

Chi ha vissuto l'esperienza del Social Forum Europeo, chi lotta
quotidianamente per i diritti e la giustizia, chi riempie settimanalmente
piazze e strade di un paese che le televisioni e gli organi di stampa
vorrebbero assopito, distratto e domo di fronte a un'offensiva sociale e
istituzionale avventurista ma non per questo meno devastante nelle
intenzioni di quella intentata dalla Thatcher sulla sconfitta delle Unions
inglesi, avrà avuto un sussulto di stupore e di irritazione.

Aldo Bonomi, per solito molto acuto, sul «Corriere della Sera» ha provato a
contraddire l'impressione del noto sociologo citando la vitalità del
capitalismo molecolare sopravvissuto al tracollo degli aggregati più
tradizionali, in ciò compiendo, credo, lo stesso errore di prospettiva del
suo 'maestro'. I motori che hanno spinto questo sviluppo ineguale, e che
hanno culturalmente informato il pensiero unico, in effetti cominciano a
battere in testa, ma, al contrario, nella società e, in particolare tra le
nuove generazioni, si fanno largo il desiderio e la ricerca creativa di un
futuro che non sia la semplice proiezione di questo presente.



§



Che questa sensazione sia emersa a Firenze in occasione di uno
straordinario appuntamento di massa in Europa, cioè in un punto alto di
produzione di ricchezza e di appropriazione delle risorse, è ancora più
significativo di quanto accaduto a Porto Alegre, nel Sud meglio organizzato
del pianeta. Non si dovrebbe dimenticarlo tanto facilmente. Questo
percorso, da Seattle a Genova e poi, da Porto Alegre 2002 a Firenze verso
Porto Alegre 2003, registra una trasformazione profonda del movimento da
oppositivo ad alternativo, dal rifiuto alla proposta. Non a caso
nell'identità di cittadini del mondo in costruzione viene a maturazione
l'esclusione definitiva della violenza, lasciata come la guerra, all'altro
campo, strumento di esclusione e di mantenimento di rapporti permanenti di
sudditanza. Si capisce l'insistenza con cui gli avversari cercano di
riportare la valutazione sulle giornate toscane (e poi sulle imponenti e
tranquille manifestazioni di Cosenza, Genova e Copenaghen in risposta alle
provocazioni dei giudici e della polizia) alle questioni dell'ordine
pubblico, del mancato incidente, di un passato confezionato con simboli
atti a cancellare le novità di questa fase nuova.

C'è una linea tenace che ispira l'azione di lunga lena dei poteri
conservatori per assediare e isolare il più grande, promettente e duraturo
fenomeno sociale di massa degli ultimi trent'anni: negare che sia fonte di
ragionamenti ampiamente condivisi e non solo di piazze calde; cancellare
incontri, assemblee, strade piene, seminari, scambi fitti nelle reti in
costruzione con l'arroganza di una politica che ha fatto a pezzi ogni
rappresentanza sociale non riconducibile agli interessi dominanti, fino a
ridurre lo spazio democratico pubblico a una rappresentazione mediatica tra
élites professionali in cui il cittadino figura solo come spettatore. Ma
questa pericolosa forzatura va vanificata ribattendo colpo su colpo a ogni
azione repressiva e, nel contempo, svincolandosi dalla presa che vorrebbe
costringere il movimento su posizioni di rifiuto, per valorizzare tutte le
componenti progettuali, gli sforzi di competenza, i dialoghi, gli ascolti,
gli scambi fruttuosi, le alternative praticate da cui l'opinione pubblica è
abilmente distolta.

C'è una capacità ormai di procedere, convergendo anche da identità
differenziate e conservate tali, che include e assimila culture e soluzioni
non coincidenti, ma messe tra loro in contaminazione feconda. Questa
caratteristica è nuova anche per la sinistra e produce modifiche anche nei
comportamenti politici, come si ha frequentemente occasione di verificare
nelle innumerevoli assemblee e riunioni che si attivano a cascata nei
territori. Questa vitalità, questa innovazione di metodo e contenuto, la
coscienza di percorsi non episodici, il protagonismo di una generazione che
prova attenzione per la cosa pubblica, la riemersione del lavoro come
valore, la prospettiva di costruzione di un'Europa dal basso, inducono a
ragionare su tempi lunghi e a superare la sindrome da sconfitta che ha
spinto la sinistra troppo a lungo su posizioni rinunciatarie. C'è un tratto
di radicalità e di unità così 'ragionevolmente' evidente che ha spinto in
secondo piano la rincorsa al centro di ogni programma politico elettorale
in cui si è dovuto identificare negli ultimi anni l'impegno dei gruppi
dirigenti.

Il compito che ci assegnano le giornate di Firenze potrebbe essere
vanificato solo dalla sottovalutazione delle potenzialità già in atto o
dallo scarso ascolto che la politica riserva a un processo che non si è
dato i tempi della contesa elettorale e che reclama ben altra
partecipazione di quella prefigurata dall'ingegneria istituzionale
avvitatasi sulla governabilità. Per queste ragioni tralascio ogni
descrizione ulteriore del Forum Sociale Europeo, che pure richiederà
supplementi di analisi e di recupero di documentazione, per provare ad
avventurarmi su tre punti di prospettiva che si sono aperti e che
andrebbero ulteriormente confermati dopo la manifestazione fiorentina.





La critica all'organizzazione del lavoro

e alle finalità della produzione



Nel documento conclusivo di Porto Alegre 2002 un punto distinto era
dedicato al 'lavoro informale', quello deprivato di diritti contrattuali e
giuridicamente ignorato come aspetto patologico di un dumping sociale
praticato dalle imprese transnazionali alla minimizzazione dei costi su
scala planetaria. Una sottospecie, in concorrenza, del lavoro strutturato
confinato nei paesi industriali in forme sempre più ridotte. Il 'cuore' del
lavoro nei punti di massimo sviluppo, la sua crescente precarizzazione, la
decontrattualizzazione che ne colpiva già la sostanza e che frammentava gli
antichi soggetti sociali come conseguenza del superamento del patto
fordista e dell'abbandono del modello taylorista, erano del tutto assenti
dal dibattito del Forum Mondiale. La presenza dei grandi sindacati - della
Cut brasiliana, dell'Afl-Cio americana, della Ces europea, del Cosatu
sudafricano e della Cisl internazionale - portava il segno di una
testimonianza di preziosa vicinanza ai movimenti convenuti nel Rio Grande
do Sul, soprattutto (a parte la CUT più direttamente impegnata nel dialogo)
con le grandi organizzazioni sociali come i Sem Terra, per una timida
condivisione della critica alla globalizzazione. In occasione della
preparazione del Fse, anche a seguito delle manifestazioni comuni di Nizza,
Læken e Barcellona e della spinta impressa in Italia dalla Fiom e dalla
Cgil, vengono invece messe in comunicazione le lotte per il lavoro e i suoi
diritti con la convinzione che la crescita economica nel modello liberista
non equivalga allo sviluppo sociale e alla solidarietà con le future
generazioni.

Il movimento dei movimenti riesce a portare in cortocircuito europeo e a
dare valenza sovraterritoriale a questioni emblematiche, e non solo
nazionali, come quella dell'Art.18 e dello smantellamento delle garanzie
nel rapporto di lavoro, che il sindacato europeo, al contrario, non è stato
ancora in grado di portare al centro di una vertenza su scala comunitaria.
Così, mettendo al centro dell'attenzione le questioni della precarietà
strutturale e della flessibilizzazione unilaterale della prestazione di
lavoro si fondano le motivazioni per dar vita a un nuovo soggetto della
rappresentanza, a un obiettivo della contrattazione, alla ricostruzione
della democrazia sindacale, cessando confinarle a oggetto di attenzione
solidaristica o di preoccupazione formale della concertazione. Si apre qui
una possibilità nuova per porre in relazione, attraverso la critica del
modello di consumo, diritti e potere nei luoghi di lavoro e finalità della
produzione.

Non siamo alle riscoperta di indirizzi alternativi che, attraverso i
partiti operai, i piani del lavoro dei sindacati di classe, gli obiettivi
di sviluppo nazionale della Federazione sindacale unitaria, venivano
rivendicati sul versante dell'offerta, soprattutto con le politiche
industriali. Siamo invece di fronte a un vincolo di comportamento
collettivo e individuale vissuto sotto il profilo della responsabilità, che
richiede un impegno, come parte del movimento, anche ai lavoratori in
quanto consumatori e che impone modelli di vita compatibili con l'ambiente
e la giustizia sociale, pena la distruzione della base naturale e la messa
in discussione della possibilità di sopravvivenza delle future generazioni.
Un'ambizione di lungimiranza squisitamente politica, non raccolto dal
paradigma economico che domina la globalizzazione, una pressione diffusa
sul versante della domanda, un cambiamento dei prodotti, un carico
energetico e alimentare qualitativamente e quantitativamente mutato, che
deriva dal sentirsi cittadini del mondo e che si lega ragionevolmente al
rifiuto della guerra. Quella guerra che Bush, prima di definire preventiva
e permanente in nome del terrorismo, aveva già evocato con la non
negoziabilità dell''american way of life'.

Questa importante novità di una rappresentanza del lavoro che, grazie alla
contaminazione con le culture con cui entra in contatto nel movimento,
torna a discutere anche di 'cosa produrre', non dispiega ancora del tutto
la sua carica dirompente perché, credo, è ancora troppo debole la critica
del 'come produrre', ovvero dell'organizzazione del lavoro, il nodo più
estromesso dalla pratica di contrattazione sui luoghi di lavoro.

Nell'analisi, negli anni più recenti notevolmente raffinata, della
globalizzazione neoliberista è sorprendentemente uscita di scena la
constatazione che al modello taylorista abbiamo sostituito paradigmi
incerti e confusi, accomunati solo dal prefisso 'post', senza sufficiente
sforzo interpretativo e unificante, con scarsa attitudine a ricostruire i
nessi, i flussi, i raccordi e le concatenazioni nel ciclo produttivo, ben
lontani dall'impegno scientifico e tecnico che invece le forze produttive
capitalistiche hanno immesso in quella direzione. Non sappiamo quasi nulla
dei software che scandiscono le modalità organizzative del decentramento,
dei protocolli che governano le reti, dei criteri di accesso e di
costruzione delle banche dati, dell'organizzazione e della struttura delle
conoscenze e della stessa gerarchia del Web o, infine, della progettazione
dei motori di ricerca che così tanto incidono sulla pratica lavorativa di
milioni di persone messi in relazioni da strumenti di natura neurale e non
più meccanica. Ma nemmeno siamo sufficientemente a conoscenza della fine
che hanno fatto i controlli o le macchine transfer dopo lo smembramento dei
grandi reparti; o quale sia la logistica effettiva che incontriamo
quotidianamente sotto la forma degli ingorghi stradali; o cosa presieda
alla localizzazione delle centrali ormai integrate su scala continentale e
sottratte a qualsiasi pianificazione pubblica. Così può capitare che in una
vertenza cruciale come quella FIAT si fondano lavoratori e organizzazioni
di movimento ai presidi dei cancelli in rivendicazioni comuni per la difesa
dell'occupazione; che le donne di Termini Imerese diventino un soggetto
fino a ieri impensabile per una battaglia di civiltà; che ad Arese si
individui lo spazio per un discorso sulla mobilità che vada oltre l'auto
tradizionale. Ma anche che, alla fine, scivoli in secondo piano il fatto
inaudito che azienda e governo firmino insieme un accordo che impone ai
lavoratori di tutti gli stabilimenti l'adozione della stessa organizzazione
del lavoro - tempi, ritmi, carichi, saturazioni -di Cassino l'unità a più
intenso sfruttamento. Siamo cioè di fronte a un'azienda globale e
all'esecutivo di uno Stato 'fondato sul lavoro' che in assoluta sintonia
travisano il ruolo più genuino di rappresentanza dei lavoratori e pongono
in relazione diretta la salute dell'impresa con lo sfruttamento intensivo
del lavoro.





La costruzione di un'Europa dal basso



Quando a gennaio 2002, nella città del Rio Grande do Sul, era stata
lanciata la proposta di Forum regionali in vari continenti per specificare
e 'territorializzare' gli spunti provenienti dal grande raduno brasiliano
valorizzando le differenze, apparve subito problematico riconiugare la
linea antiliberista elaborata a partire dal Sud del mondo in uno dei punti
alti dello sviluppo e della concentrazione del potere globale. Infatti già
nella preparazione del Fse emergevano temi inediti e rilevantissimi come
quello della 'fortezza' Europa, delle destre xenofobe, della
privatizzazione dell'istruzione e dei sistemi di Welfare. Inoltre, rischi
di 'terzomondismo' o di 'internazionalismo caritatevole' - a copertura
delle responsabilità di dominio del vecchio continente, o perfino di
acritica esaltazione di un modello sociale invidiato, ma in arretramento
sotto i colpi di una competizione a cui la stessa Ue non offre alternative
- avrebbero potuto depotenziare l'appuntamento e ridurlo a un incontro più
rituale che problematico e creativo. Invece, proprio in Europa si è
assistito, più che altrove, alla liberazione di forze oltre lo Stato
Nazione e alla ricerca di una dimensione politica continentale che si va
materializzando nel comune rifiuto della guerra, nell'estensione dei
diritti sociali, nella ridefinizione dei confini, sia nei confronti
dell'Est, che delle barriere ai migranti.

Si può ben dire che si è posta la questione di una alternativa dal basso
per l'Europa e che essa, entrata nel Fse per la finestra in modo confuso,
vi ha fatto un rientro solenne per la porta principale. La sensazione che
sia nato un movimento sociale con orientamenti veramente globali aiuta a
superare i timori che l'eurocentrismo e la concezione di una 'fortezza
Europa' contribuiscano a rafforzarne l'appartenenza alla costellazione
dominante del mondo. D'altra parte, la prospettiva che si realizzi
un'Europa politica diventa realistica con il superamento di una pura
contrapposizione o divaricazione tra i movimenti sociali e le azioni dei
governi: solo facendo incontrare e confliggere questi attori si avvicina la
possibilità di un'Europa di un modello di democrazia sociale funzionale
alla rottura dell'asse neoliberista mondiale, oggi altrimenti in via di
rafforzamento. Perché questo accada, è necessaria una lotta politica per
recuperare e attualizzare una eredità sociale e culturale per rimettere a
frutto il lascito di forme politiche indebolite dalla riduzione del
pluralismo sociale dovuto all'estensione del maggioritario e dalla scarsa
rilevanza del lavoro nei programmi dei partiti.

I presupposti per uno sviluppo positivo ci sono tutti.

Dopo l'11 settembre è venuta alla luce una definizione dell'Europa per
contrasto al progetto di Bush di esercitare il governo mondiale attraverso
la guerra permanente sostenuta da una visione 'morale' (in realtà
fortemente ideologica e integralistica) del proprio compito nel mondo. Il
movimento del Fse se ne è fatto carico in positivo, collegando il rifiuto
della guerra all'unità del mondo, all'universalità dei diritti, alla
conversione a modelli di vita e di consumo sostenibili, alla democrazia e
alla partecipazione. Ha così dato vita a una embrionale idea di sovranità
in formazione. Così, il 'popolo europeo', fonte sostanziale di sovranità
finora elusa nella moltiplicazione di rappresentanze corporative degli
interessi liberisti, ha trovato in questo movimento una traduzione seppur
parziale delle sue richieste in tema di bisogni, scelte e contenuti
attraverso cui la società riprende il sopravvento sull'economia. E la
stessa Convenzione presieduta da Giscard d'Estaing dovrà fare i conti con
questa sorprendente novità, già a partire dall'esito dell'accoglimento e
della modifica migliorativa della Carta di Nizza.



§



Tutto ciò influenzerà lo svolgimento del Forum Mondiale di Porto Alegre
2003. Nel paese in cui l'esperienza di una sinistra radicale ha trovato,
con Lula, una rappresentanza che ha conquistato la maggioranza elettorale,
la crescita di una possibile alternativa in Europa ben distante ai
compromessi regressivi di Blair sarà accolta molto favorevolmente. Inoltre
in America Latina c'è non solo una grande attenzione al modello sociale
europeo (un modello senza precisi soggetti sociali di riferimento, che
trova una sua identità nel rifiuto della guerra e nella ricerca di un
contesto territoriale ancora non ben definito entro cui portare ad
efficacia la sua azione futura nello spazio e nel tempo della
globalizzazione), ma anche un'inquieta apprensione per il consenso che il
centro-sinistra di Clinton-Blair-D'Alema aveva accordato alla politica del
precedente governo di Cardoso. Una sinistra sociale in crescita è dunque
una buona notizia per chi si batte per l'affrancamento dalla pressione
vorace dell'Alca, mai contrastata dalle reticenze della burocrazia della Ue
e delle sue impacciate istituzioni.

Meno ripresa invece dai commenti successivi allo svolgimento del Fse è la
questione dei migranti, che risulta centrale nello svolgimento della
riflessione e della conclusione fiorentina. Forse la sorpresa dentro la
Fortezza da Basso dell'affluenza di 45.000 partecipanti in più rispetto
alle previsioni ha contribuito ad attenuare l'impatto di una presenza molto
vasta e qualificata, preparata da una 'carovana' itinerante e di un
dibattito di importanza fondamentale e del tutto specifico nel contesto del
vecchio continente.

In fondo è anche sul passato coloniale dell'Europa e sul crollo più recente
del Muro di Berlino che si sono innestate le grandi ondate migratorie che
varcano i suoi 'confini impensati'. Lo scontro per l'imposizione del
modello economico occidentale riguarda le risorse almeno quanto le
dinamiche demografiche transnazionali. Da questo punto di vista possiamo
dire che i confini d'Europa si sono diversificati anche in dipendenza della
mobilitazione o meno dell'opinione pubblica contro i migranti. Basti
pensare ai diversi atteggiamenti delle popolazioni della Puglia rispetto a
quelle del Veneto o della Lombardia. L'identità europea sarà definita anche
dalla capacità di 'allargare' i suoi confini e di disporsi a contemplare la
possibilità dei migranti di vivere a pieno diritto là dove la ricchezza
viene consumata e non solo come produttori in casa propria.

Il concetto di 'flussi' legato esclusivamente alle necessità produttive dei
paesi ricchi contrasta con la concezione universale dei diritti e con la
valorizzazione della persona senza la mediazione dell'attività economica
attraverso cui può essere resa produttiva. Perciò a Firenze la lotta alla
Bossi-Fini si è caricata di una prospettiva paneuropea. Si può ben dire che
i migranti sono portatori di un universalismo fondamentale. Se ci si
riferisce alla futura 'Costituzione europea' come processo capace di
includere programmaticamente i conflitti, non si può non tener conto della
dimensione universalistica che traspare nei nuovi movimenti globali dal
basso.





L'economia di domani



Per quanto riguarda la straordinaria partecipazione di Firenze rimane la
domanda su chi fossero le migliaia di persone che nessuno si aspettava e
che hanno cercato risposte, ascoltato e discusso. È possibile che il flusso
di giovani e meno giovani sia stata una reazione al fallimento della
politica di riforma degli Stati europei nazionali e all'indebolimento del
ruolo democratico e di partecipazione dei partiti. Ma forse è più
plausibile pensare che, a fronte della radicalità e della simmetrica
mancanza di risposte disponibili, si sia diffusa la consapevolezza che il
sistema di regolazione dei paesi industriali europei non funzioni più e che
il bisogno di futuro parta da questa constatazione drammatica.

La crisi delle economie occidentali ha rafforzato nei governi (per esempio,
in quello italiano) la mentalità industrialista/sviluppista, cioè la
speranza di poter riavviare la macchina economica tramite una ripresa di
crescita, con megaprogetti come il Ponte sullo Stretto, le bretelle
autostradali, le dighe mobili nella Laguna. In Europa, solo il governo
tedesco ha avviato in campagna elettorale una risposta più cauta. Per
quanto riguarda il contributo che ciascuno di noi può dare, Bush ha parlato
chiaro e Berlusconi gli ha fatto eco: consumare.

Il movimento si è dotato di una forte componente immaginativa, che sa dare
di sé una narrazione e che resiste all'accelerazione che le reazioni
istintive portano nella direzione sbagliata. Fortunatamente, il discorso e
la prassi di un'economia a basso impatto ambientale ha messo radici in
tutti i paesi industriali e in Europa in particolare. Qui le esperienze
locali tedesche e del Nord Europa sono importantissime e qui conta la
capacità di comunicazione, e di rendere attive le reti, innescata a
Firenze. La minaccia dei cambiamenti climatici e la frequenza crescente di
eventi meteorologici estremi hanno creato uno spazio fisico europeo che
impegna risorse tecniche scientifiche e finanziarie già comuni ed è già
condizionato da comportamenti interdipendenti. La riduzione della
biodiversità, l'erosione del suolo e altri fenomeni di crisi dell'ambiente
non sono più visti come aspetti lontani e mettono sempre più in discussione
il vecchio paradigma delle risorse naturali come gratuite e illimitate.

Anche in Europa la base naturale non è più in grado di sostenere lo
sviluppo: la politica agricola comunitaria, la politica della pesca
dell'Unione, le sovvenzioni per le energie fossili sono il residuo di
interessi ormai nocivi mentre cambia il quadro di solidarietà entro cui si
può pensare la compatibilità dello sviluppo. E' stata data un'immagine del
"futuro possibile" come se il confronto fosse tra due sfere distanti:
quella del pensiero più realista, che fa parte del potere economico e che
orienta la scienza convenzionale e che ha alle spalle la storia delle
società industriali dove crescita e ricchezza sono considerate sinonimi e
quella dell'ingenua utopia, che, nella marginalità del mondo accademico, si
ritira nel cielo dei valori della superiorità morale e, convinta della
distruttività del modello di sviluppo, pensa che il futuro le darà ragione.
Il movimento che viene da Porto Alegre e da Firenze è in grado di
accelerare processi di rimescolamento e revisione fin qui impensabili, dato
che può rimettere in discussione nella società e per via politica rapporti
di forza cristallizzati nella sfera economica. Se si guarda al di là del
proprio naso, bisogna offrire un orizzonte creativo e non soltanto
"riparatorio" alle nuove generazioni. D'altra parte, quale prospettiva si
delinea per un giovane se i danni irreparabili di chi governa il pianeta lo
vedranno all'opera soltanto per ripulire spiagge, ripristinare foreste,
arginare fiumi, ricostruire abitazioni ed opere distrutte? Quando si parla
di riconversione ecologica dell'economia la discussione intorno a
'neoliberismo' e 'liberismo' può trarre in inganno, dato che suggerisce che
ci sono quelli che promuovono le regole e gli altri che ne vogliono fare a
meno. Invece il tema è più che altro quali regole, dato che il mercato
deregolato scatena forze distruttive che solo la politica e una nuova
cultura che vi conquisti uno spazio rilevante può contenere, deviare,
volgere ad altre destinazioni.

Nella fase attuale, le regole vengono definite sostanzialmente da
organizzazioni internazionali non democratiche, come il Wto, la Bm, il Fmi,
e il dibattito si rivolge unicamente alle condizioni di apertura dei
mercati e non certo agli standard sociali, ambientali e di qualità della
produzione e dei consumi. A fronte di questa restrizione dei soggetti
protagonisti e delle procedure delle decisioni planetarie, grande è la
prospettiva che il movimento di Porto Alegre può dischiudere mettendo a
frutto le elaborazioni regionali in corso. Il tema dell'economia di domani,
della sua sostenibilità ambientale e sociale è ormai vecchio d molti anni,
ma non ha mai camminato su gambe e forze così coscienti e determinate.
Basti pensare alla carenza di idee e di dibattito registrate a
Johannesburg, dove ha prevalso una dimensione istituzionale burocratica e
soffocante, e, comparativamente, alla creatività che ogni appuntamento del
Forum riesce a stimolare. Nei seminari si è parlato di strumenti
conoscitivi nuovi, di indicatori ambientali, di misure di flussi di
materiale ed energia, di fiscalità trasferita dal lavoro all'uso delle
risorse ambientali, di deprezzamento del capitale naturale, di Tobin Tax
sulle transazioni sovranazionali. I temi sono stati affrontati come
tasselli di un mosaico ancora da comporre, come singole campagne utilissime
nella fase di accumulo di idee e di forze. Ora però è venuto il momento di
formare un punto di vista complessivo in una chiave nuova.

Difficile dire se questa impresa spetti al movimento o a una politica
rinnovata e che sappia riportarsi all'altezza della sfida imposta da un
livello di partecipazione che non rifluisce e, anzi, si espande nelle forme
della democrazia diretta, man mano che assume coscienza di sé e della
concretezza delle sue utopie. In ogni caso l'occasione è davanti a noi e la
rappresentanza di grandi episodi di trasformazione si può soltanto meritare
sul campo.









MARIO AGOSTINELLI



CONOSCERE E UNIRE PER LOTTARE. UNA RIFLESSIONE SUL FORUM PANAMAZZONICO

.

"Conoscere e unire per lottare". Questo lo spirito con cui si è intessuta
una fittissima rete nelle foreste, lungo i fiumi, nelle grandi e tumultuose
aree urbane, ai margini dei villaggi più sperduti, nelle coltivazioni
rurali, tra le palafitte dei pescatori dell'Amazzonia. Una rete che si è
organizzata in cinquecentotrentuno associazioni e che si è data una
rappresentanza democratica, cosciente, pienamente attiva, che sconvolge il
panorama sociale, politico e culturale di questa immensa regione del mondo.

 José Saramago, e la citazione è pertinente in quanto lusitano e come punto
di riferimento del movimento contadino brasiliano, da par suo, nella Terra
chiamata Alentejo, apriva con la sorprendente e umile verità che il
paesaggio, la terra, è la cosa più abbondante nel mondo. In Brasile, e
ancor più a Belem do Parà, il primo pensiero, la prima sensazione, la prima
umile verità per noi occidentali è la straordinaria "presenza" di corpi, di
vivente e pulsante carne, di pelli scure, colorate, della straordinaria
presenza di umanità, di donne, uomini, giovani, bambini. I figli come
ricchezza. Belem: "citade criança", la città dei bambini, per i bambini. La
sovrabbondante presenza dell'elemento "popolare" di indios, neri, meticci,
di contadini, di lavoratori. Vocianti, allegri, passionali nelle assemblee
i neri e meticci dei Sem Terra-Via Campesina, silenziosi e seri gli indios.

Belem città del "movimento dei movimenti" con una identità e con
caratteristiche del tutto inedite ed irripetibili. Il Forum Panamazonico è
nato come Forum tematico-regionale del Forum Sociale Mondiale, fortemente
voluto da Edmilson Rodrigues, sindaco di Belem e dai suoi giovani
collaboratori, in un lavoro duro e paziente di convergenza, di tessitura di
rapporti e di legami delle numerosissime comunità indie dell'area (indie
sì, ma che spesso non si conoscono affatto), dei vari paesi afferenti a
questo cuore pulsante mondiale: Brasile, Venezuela, Colombia, Bolivia,
Ecuador, Perù, Suriname, Guyana .Solo in un'unica occasione storica a Belem
si era compiuto il miracolo dell'unione tra neri, indios, contadini e
sparuti gruppi di lavoratori nella vittoriosa "rivoluzione cabana" del
lontano 1835, poi repressa nel sangue. Il lavoro necessario per attirare
l'attenzione mondiale dei movimenti su un'area cruciale, strategicamente
decisiva per il controllo di risorse indispensabili per un  futuro di
civiltà e per dar forza ad una prospettiva autonoma per l'America Latina,
verso la quale gli Stati Uniti e i potenti del mondo hanno già rivolto
l'attenzione e che hanno in programma di affrontare con più determinazione
non appena gli affari in Asia Centrale, in Iraq e nel Medio Oriente non
saranno "regolati". Essere e diventare cittadini del mondo in Amazzonia è
una grande meta, una sfida fino a ieri impossibile, con quella storia alle
spalle, con quei colori della pelle, con quella frattura tra colonizzati e
colonizzatori che nemmeno i due grandi filoni culturali del cristianesimo
sociale e del socialismo marxista hanno voluto e saputo affrontare fino in
fondo. Il Forum Panamazzonico di Belem, tenuto tra il 16 e il 19 gennaio,
rappresenta una delle sconvolgenti novità su cui il movimento di Porto
Alegre ha aperto un credito che riscuoteranno le future generazioni, con
una accelerazione dell'accesso al nuovo paradigma di civiltà da parte di
popoli, esperienze e territori, che nessuna previsione geopolitica astratta
avrebbe potuto prevedere, senza il corto circuito dei Forum sociali.

Occorrerà tornare su queste giornate di Belem, messe un po' in ombra dalla
prossimità temporale del Forum  Social Mundial, per valutare  a fondo le
implicazioni di una discussione sulla globalizzazione che esula dal
contesto stretto della "civiltà" e del conflitto politico-sociale
interpretato sempre e soltanto dai bianchi. Era stupefacente, dopo l'avvio
del corteo di apertura tra canti indii e saluti in lingua Kajapò, ascoltare
leader indigeni molto giovani, spesso donne, parlare in ottimo portoghese
dei beni comuni delle loro terre come dell'oggetto di un modernissimo
conflitto che implica nuove tecnologie, saperi, distribuzione di ricchezze,
controllo sociale, poteri democratici, relazioni internazionali.

Io, come tutti gli europei giunti numerosi, ho imparato moltissimo, in
quella rara condizione che solo un movimento generale, non corporativo,
lungimirante, capace di futuro, riesce ad offrire a chiunque partecipa e
ascolta fiducioso il mobilitarsi di masse che cessano di essere solo
spettatrici.

La confluenza della maggioranza dei partecipanti attraverso le vie d'acqua
che disegnano il bacino del Rio delle Amazzoni ha reso anche fisicamente
visibile l'indivisibilità delle donne e degli uomini dalla natura che li
ospita e l'intreccio indissolubile tra i loro futuri. L'ambiente ha assunto
qui tutta la sua centralità: un contributo indispensabile per una
riflessione verso Porto Alegre, dopo che il Forum europeo aveva espresso su
questo tema il suo punto forse di minore approfondimento. La originalità
dell'approccio di Belem è evidente. Non si rimpiange un'immagine
"rousseauiana" del "selvaggio" e della natura incontaminata, ma si parte da
tre grandi questioni strategiche per il 21° secolo: il passaggio dalla
matrice energetica fondata sul petrolio a quella fondata sulla fotosintesi
e sull'idrogeno; la scarsità d'acqua e il controllo d'accesso alle fonti
d'acqua dolce; l'emergere di un nuovo ciclo tecnologico fondato sulla
biologia, da cui dipenderà l'evoluzione dell'alimentazione,
dell'agricoltura, della salute, dei materiali. Sono nate e sono state
discusse questioni cruciali: a chi appartengono le risorse strategiche, in
quale rapporto esse stanno con i popoli che le hanno preservate e con
quelli che invece se ne appropriano e le stanno  sprecando, quale
caratterizzazione giuridica e proprietaria dovrà essere loro riservata
perché ne possano godere anche le generazioni future? Anche in ragione di
questa consapevolezza "regionale-globale" è nata la proposta di
un'Amazzonia interetnica, in cui i confini brasiliano, boliviano,
peruviano, colombiano, ecquadoregno, venezuelano, delle Guyane si sono
mescolati, come già era avvenuto nei tre incontri preparatori del Forum
tenuti nelle città di confine di Santa Elena, Leticia e Amapa. E
l'opposizione all'Alca, il mercato senza cittadinanza perseguito da Bush,
ha assunto toni inflessibili, capovolgendo le logiche di mercato e
ponendosi in forte sintonia con la lotta per i diritti sociali e di
cittadinanza che, nelle conferenze organizzate in comune, gli esponenti del
Fse hanno dichiarato di voler introdurre nella futura Costituzione della
Unione europea. Infine, il netto sostegno a Chavez ed al governo
venezuelano ha rinvigorito la sua motivazione nel consenso che le modifiche
costituzionali introdotte a favore delle popolazioni indigene hanno
suscitato in tutti gli abitanti di questa regione del pianeta.

I temi - sovranità dei popoli, acqua, terra e foreste, identità amazzonica
e unità latinoamericana - sono stati dibattuti in affollatissime assemblee
e perfezionati in quarantadue laboratori, coivolgendo le città e le
delegazioni dei sette Stati brasiliani dell'Amazzonia e realizzando
visivamente un'unità di tutti i paesi del bacino fluviale.

Al calendario del Forum si è intrecciato, con cadenze proprie ma anche con
coincidenze e sovrapposizioni volute, il Congresso della Città, l'organismo
assembleare di settemila delegati che discute il bilancio partecipativo,
costruisce consenso popolare attivo e assicura il controllo sociale a
livello municipale.

Un'autentica festa di democrazia e solidarietà che ha saldato la città e i
suoi rappresentanti - a cominciare dall'amatissimo sindaco Edmilson
Rodrigues - alle prospettive del movimento di Porto Alegre. Un abbraccio
spontaneo, ospitale e convinto di tutta la popolazione, nel Brasile di
Lula. Uno stringersi attorno al movimento assai diverso da quello sofferto
di Firenze, liberata solo alla fine di tre splendide giornate dalle paure e
dalle polemiche oscurantiste sollevate nell'Italia di Fini Bossi e
Berlusconi















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