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Perché quella striscia di sangue ha lacerato il petalo della tua guancia?
- Subject: Perché quella striscia di sangue ha lacerato il petalo della tua guancia?
- From: "luisa rizzo" <lu-sa at mail.clio.it>
- Date: Mon, 20 Jan 2003 00:38:08 +0100
Nurit Peled è insegnante, traduttrice, scrittrice e madre israeliana. Attivista per la pace tra Palestina e Israele, nonostante l'assassinio di una sua bambina in un attentato terroristico. Nel 2001 ha ricevuto dal Parlamento europeo il Premio Sakharov per i diritti umani. L'intervento che proponiamo e stato fatto da lei a Bari, nel corso dell'incontro internazionale Guerra e pace-Esistere oltre il terrore organizzato dalla Società italiana delle letterate e tenutosi a Santa Teresa dei Maschi nei giorni 23 e 24 novembre 2002. Allo stesso incontro hanno partecipato Hebe Bonafini e Juana Pargament, madri di Plaza de Majo, e Rima Hammami docente di antropologia, attiva nel movimento delle donne palestinesi e nelle iniziative di pace promosse con pacifiste/i israeliani e palestinesi. Nurit Peled-Elhanan, Israele, Docente di "Linguaggio ed educazione" presso la Hebrew University http://www.libreriadelledonne.it/news/articoli/contrib040103.htm Vi ringrazio per essere qui. Sono molto felice di partecipare a questo incontro. Anche se la mia presenza è legata al mio percorso privato, vorrei basare il mio contributo sulle conoscenze professionali di linguista che lavora nell'ambito dell'educazione. Credo che l'importanza di tali incontri sia quella di rafforzare la voce di tutte le madri. Perché la maternità è l'unico e comune denominatore che vince sulla nazionalità, sulla razza e sulla religione. Le madri sono le sole che riescono a far fronte ai politici e ai generali e ci sono sempre riuscite, fin dai tempi biblici, quando le mogli ebree riuscivano a spuntarla sul Faraone sfuggendo al suo ordine di uccidere i neonati. Inoltre, gli studi sull'apprendimento del linguaggio indicano le madri come le migliori insegnanti al mondo. Difatti, non c'è mai stata alcuna madre che abbia fallito nell'insegnare ai propri figli tutto ciò che volesse, qualunque fosse la cultura di provenienza o quanto grave fosse l'handicap del suo bambino. Questa è la ragione per cui le madri possono essere le agenti principali di un cambiamento nell'educazione. Per educazione si intende il processo attraverso cui si insegnano al bambino le classificazioni della società. Il linguaggio stesso è un sistema di classificazioni, classificazioni con cui diamo significato al mondo in cui viviamo. La scuola - in quanto agente educativo primario nella società - ha la responsabilità di insegnare ai bambini le classificazioni particolari della loro cultura. Nel processo educativo, i bambini imparano a classificare persone, cose ed idee per far sì che venga loro inculcato quel sapere che la loro società trasmette come verità. Gli scolari di oggi saranno i politici e i cittadini del futuro, così come i politici di oggi e i loro sostenitori furono gli scolari di un tempo. Se, dunque, il linguaggio è un sistema di classificazione e se l'educazione è l'insegnamento di tali classificazione, dettare regole significherà imporre la tua classificazione ad altri, negando le loro. Per esempio, quando i bambini israeliani imparano le prime cose sulla popolazione del proprio paese, imparano a distinguere tra ebrei e non-ebrei, imparano che la loro è una società frantumata, divisa e stordita, lungi dall'essere multiculturale. Imparano che la terra è o fertile o non fertile, e questo significa che il deserto potrebbe essere reso fertile qualunque fosse il rischio per il paesaggio o per i beduini che vi risiedono. Imparano anche che Gerusalemme è sempre stata la nostra capitale, tranne che per i 2000 anni in cui non ci siamo stati. In tal modo, imparano a dire l'esclusivo "noi", che include solo gli ebrei come cittadini legittimi della terra di Israele. Lo stesso "noi" che li relaziona con quella gente che ha vissuto lì 4000 anni fa. Quel "noi" che li separa dai loro vicini con cui devono invece condividere la quotidianità. So bene che una tale situazione si trova anche nel sistema educativo palestinese, in Kosovo e in altre aree del mondo lacerate, dove etnicità, identità e patriottismo sono sinonimi di "condanna a morte". Probabilmente questo è il motivo per cui i bambini israeliani imparano a non vedere alcuna contraddizione nella loro tradizione scolastica; imparano a celebrare ogni anno l'anniversario dell'albero, piantando alberi d'ulivo sulle colline di Gerusalemme, della Galilea e di tutte le valli; imparano ad obbedire come automi ai loro ufficiali che gli ordinano di sradicare gli alberi dei loro vicini, spesso per spostare quegli stessi alberi nei parchi giochi e perfino nel parco della Pace di Gerusalemme. Questo annullamento dell'altro, e ancor più, la demonizzazione dell'altro identificato come il cattivo, l'ingiusto e colui che non dovrebbe affatto essere lì, non è una condizione preludere l'avvio del dialogo. I bambini israeliani non imparano come parlare all'altro. Perché come è ben noto, il dialogo è il luogo delle differenze, il luogo in cui le differenze di potere, di saperi e di principi, le differenze di desideri, in sostanza le differenze nella classificazione, vengono costantemente negoziate. Le persone che non accettano le differenze e non sono ancora pronte ad aprire sé stessi ad ogni tipo di conoscenza e valore, non possono parlare all'altro. Possono continuare a prendersi in giro, ingannarsi e umiliarsi reciprocamente, ma non riusciranno a parlare con l'altro. Le persone che non possono - o che non accetterebbero differenze o la possibilità di parlare l'uno all'altro perché siamo differenti, o che non accetterebbero quella eterogeneità come una benedizione - hanno un approccio monolitico al discorso, e quindi vogliono imporre la loro conoscenza all'altro e dominare il pensiero dell'altro. Il loro discorso è totalitario, intollerante e ingiurioso ed è proprio questo tipo di approccio che riscontriamo durante la maggior parte delle negoziazioni di pace tra israeliani e palestinesi. La scelta di un approccio dialogico nelle relazioni implica la consapevolezza di dimenticare o trattenere la propria conoscenza, la propria verità o storia personale e nazionale, per aprirsi alla verità e alla storia dell'altro. Le persone che parlano da una prospettiva dialogica non credono nelle identità fisse, in un pensiero consolidato o in realtà eterne. Un fatto interessante è che in ebraico i termini scoperta, realtà ed invenzione hanno tutti la stessa radice. E dunque questo significa che la realtà è ciò che noi inventiamo, la realtà è il mezzo che scopriamo per dare significato a quello che sta accadendo intorno a noi, e di conseguenza si può cambiare. Le madri sono ben coscienti di questa relazione dialogica perché sono costantemente in dialogo con i loro bambini, differenti l'uno dall'altro nell'indole, nel pensiero e nelle inclinazioni. Fortunatamente ci sono persone, perfino in Israele, desiderose di mutare il loro sistema di classificazione, reinventando i loro "noi". Purtroppo non è una volontà molto diffusa, specialmente in quelle società multiculturali e multilinguistiche che, come Israele, desiderano avere l'assetto di stato-nazione e perpetuare un discorso estremamente monologico, che si basa su un sistema di classificazione razzista e immutabile, e dove il messaggio politico è che "noi" siamo una società monolingue e monoculturale. In tali luoghi, l'altro è sempre poco apprezzato, per non dire disprezzato, e il sangue diventa la mercanzia più economica nel mercato politico. I nostri bambini muoiono perché crescono secondo principi di discriminazione tra sangue e sangue e sull'assunto che noi siamo più degni degli altri. I nostri bambini muoiono o diventano assassini di altri bambini perché la voce della madre è stata soffocata e sminuita per secoli; perché la voce della madre è sempre sostituita dalle voci dei politici corrotti e dei generali assetati di sangue, di avidi uomini d'affari e dei così detti leader senza scrupoli che sono, per la maggior parte, uomini ma che non parlano mai come genitori. Come ho detto prima, nessuna parola è così ideologicamente ed emotivamente carica come la parola "noi". Sono cresciuta imparando che quando dicevo "noi" intendevo il perseguitato che risorgeva dalle ceneri, che decideva di ricostruire una nazione, di ristabilire una civiltà e di far rivivere un lingua, sfidando un intero mondo illuminato che aveva dato prova di essere spietatamente indifferente al destino del diseredato, del torturato e del massacrato. Questo "noi", questa identità collettiva che veniva fuori dalle ceneri dell'Olocausto, era destinata a riportare dignità ad un popolo logorato, per proteggere i suoi membri contro la peggior forma di razzismo che il mondo avesse mai conosciuto, e assicurarsi che un male, come quello inflitto agli ebrei, avrebbe cessato di ripetersi. Ma negli ultimi 35 anni questo "noi" è diventato un Golem, un mostro che minaccia di distruggere chi l'ha creato e che ci condanna tutti. Dopo che mia figlia, Smadari, è stata uccisa perché era una ragazza israeliana, da un giovane uomo furioso e stravolto dall'umiliazione e dalla disperazione, al punto da uccidere sé stesso e altri solo perché palestinese, un reporter mi chiese come potevo accettare le condoglianze dall'altra parte. La mia risposta, proprio spontanea, fu che io non accettavo le condoglianze dell'altra parte, così quando il sindaco di Gerusalemme venne ad offrirmi le sue condoglianze, mi chiusi nella mia stanza. Solo più tardi ho capito che per quel reporter l'altra parte era il popolo palestinese. Ma io non ho mai usato il NOI nazionale e razziale. La gente che considero la mia parte non si può definire con alcun criterio sociale, né nazionale. Quando dico "noi", non intendo gli ebrei o gli israeliani. Intendo la gente che vede la vita come la vedo io. E alcuni tra questa gente sono segnati dalla morte per sempre. Quando dico "noi", intendo i miei amici israeliani che hanno giurato di fronte alle tombe aperte dei loro figli che nonostante avessero perso i loro bambini non avrebbero mai perso la testa. Mi riferisco al professor Gazawi, che si è laureato con me e che, dopo essere stato confinato in una cella di isolamento perchè desiderava essere un uomo libero e dignitoso nella sua terra, dopo aver visto suo figlio quindicenne venire ucciso nel cortile della sua scuola mentre aiutava un compagno ferito, si rifiuta ancora di pensare che l'essere umano sia cattivo, e dice che siamo noi a dover creare il mito della speranza per coloro che non ce l'hanno. Mi riferisco a Najakh, palestinese, che ha viaggiato con me verso New York per parlare di pace, dopo aver visto suo figlio di 10 anni ucciso e che provava un grande affetto per mio figlio di 10 anni, israeliano. Mi riferisco a Widad Sartawi che mi chiama la sua piccola sorella e che ha perso suo marito che aveva osato essere amico di mio padre e sognare la pace. Mi riferisco ad Haled che ha trovato suo figlio maggiore con 50 pallottole nel corpo, senza che gli abbiano mai detto come sia accaduto e perché, e che 20 giorni dopo chiamò sua moglie e le disse di smettere di piangere per il suo bambino e di iniziare a piangere per il mio. Mi riferisco alle madri che si rifiutano di desiderare la vendetta per la morte dei loro figli uccidendo i figli di un'altra donna. Oggi, quando "terrore" è il termine coniato per definire gli atti assassini dei poveri e dei deboli, e "guerra contro il terrore" è il termine usato per definire gli atti assassini dei ricchi e dei forti, quando le più grandi democrazie commettono i più terribili crimini contro l'umanità usando termini come "libertà", "giustizia" e "scontro tra civiltà", per giustificare i loro crimini, noi, gli afflitti, le vittime del terrore o del terrorismo anti-terrore, siamo gli unici rimasti che possano dire al mondo che non esiste alcuna uccisione civile degli innocenti né un'uccisione barbarica degli innocenti, ma c'è solo un'uccisione criminale degli innocenti. Noi siamo quelli che devono dire al mondo che non c'è nessuno scontro tra civiltà, che giù nel regno dei bambini morti che cresce costantemente, non c'è nessuno scontro tra civiltà. Al contrario: lì prevale il vero multiculturalismo, la vera uguaglianza e la vera giustizia. E forse noi siamo coloro che dovrebbero ricordare al mondo che l'età dell'oro dell'Islam e dell'Ebraismo si è avuta quando essi vivevano l'uno accanto all'altro, nutrendosi a vicenda e fiorendo insieme. Noi siamo coloro che devono dire al mondo che la morte di un bambino, qualsiasi bambino, in Palestina o in Israele, in Afghanistan o in Cecenia, è la morte del mondo intero, che dopo la morte di un bambino, qualsiasi bambino, non ce n'è più un altro; che nessuno può vendicarne il sangue, perché il bambino si porta nella sua piccola tomba, con le sue piccole ossa, il passato e il futuro, le ragioni della guerra e le sue conseguenze. Noi siamo quelli che devono dire al mondo che termini come "libertà" e "onore", "Dio" e "pace", "il bene del Paese" e anche "democrazia", possono essere armi letali. Poiché noi siamo quelli che sanno che non c'è pace o libertà, nessun bene e nessun Dio dopo la morte di un bambino. Dunque siamo quelli che dovrebbero dire al mondo che l'unico modo per l'umanità di sopravvivere è di unirsi per gridare questa antica voce, che è sempre stata lì, la voce della maternità, gridarla fino a che renda sorde tutte le altre voci. Noi siamo coloro che devono chiedere che il mondo ridefinisca i propri valori e priorità, ridefinisca il crimine, la colpa, i diritti dei bambini e i doveri degli adulti e quindi ridefinisca l'educazione e la giustizia, e faccia in modo che sia ben chiaro che chiunque uccida un bambino non sarà mai in grado di vivere in pace in questo mondo. Neanche come Caino. Noi siamo coloro che sanno che se non alziamo la voce al più presto, non rimarrà niente da dire o da scrivere o da sentire tranne il perpetuo lamento di lutto e le voci mute dei bambini morti. Per questo noi siamo quelli che dovrebbero finire la guerra, perché sappiamo che non importa quale bandiera è posta su quale montagna, non importa chi guarda dove quando prega, e che niente è più importante del rendere sicura la strada che percorrerà una ragazza andando a lezione di danza. Ed è perché noi siamo coloro che si rendono conto, in ogni ora di ogni giorno, che in quanto genitori e adulti abbiamo tradito i nostri figli, perché non siamo stati attenti, non abbiamo lottato per le loro vite con tutta l'energia che avremmo dovuto usare, pur avendogli promesso una vita felice e un mondo migliore. Noi siamo coloro che hanno pianto con la poeta russa Anna Akhmotova, che conosceva lo stesso dolore, quando abbiamo guardato la nostra piccola bambina o il nostro piccolo bambino per l'ultima volta, prima di girare le spalle e lasciarli nelle mani di estranei: Perché quella striscia di sangue ha lacerato il petalo della tua guancia? (Traduzione di Samanta Machich e Annarita Taronna)
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