La nonviolenza e' in cammino. 452



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 452 del 21 dicembre 2002

Sommario di questo numero:
1. A cosa servono i geniali furbacchioni
2. Elisabetta Donini: della guerra. Vita e morte, natura e cultura
3. Un'intervista collettiva a Pietro Pinna
4. Letture: Gino Strada, Buskashi'
5. Riletture: Eva Cantarella, Passato prossimo
6. Riletture: Evelyn Fox Keller, Vita, scienza & cyberscienza
7. Riletture: Francoise Heritier, Maschile e femminile. Il pensiero della
differenza
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. A COSA SERVONO I GENIALI FURBACCHIONI
A cosa servono i geniali furbacchioni?
A far la gioia della famiglia Bush.
I geniali furbacchioni che negli ultimi anni e ancora negli ultimi mesi
hanno corrotto decine e forse centinaia di migliaia di anime ingenue e
generose a far l'elogio della violenza giusta, a dichiararsi tutti
sovversivi, ad intrupparsi nella rivendicazione della cultura
dell'illegalita' e del fine che giustifica i mezzi, con cio' stesso hanno
tolto a non poche persone ogni credibilita' se volessero oggi contribuire ad
opporsi alla guerra in nome del diritto internazionale, dell'articolo 11
della Costituzione della Repubblica Italiana, dei diritti umani per tutti
gli esseri umani.
I geniali furbacchioni che cooperarono con mesi di proclami deliranti,
insensati ed effettualmente suicidi allo scatenarsi delle efferate e
barbariche violenze da parte di singoli e gruppi di sadici e nazisti
presenti nelle forze dell'ordine (con evidenti avalli e corresponsabilita'
dirigenziali e fin governativi) in quel di Genova, e che non hanno avuto una
parola di pentimento per aver contribuito allo scatenamento dell'altrui
feroce violenza (con gli esiti terribili e fin mostruosi che essa ha avuto),
e che ancor oggi non dicono chiaro neppure che un tentativo di linciaggio
non e' giammai ammissibile, con cio' stesso tolgono credibilita' alla
richiesta di verita' e giustizia, di diritto e di pace.
I geniali furbacchioni che fanno in piccolo i replicanti (autoritari e
carrieristi, ipocriti e menzogneri, militaristi e maschilisti) dei potenti
piu' prepotenti, e che come i potenti piu' prepotenti pretendono di parlare
a nome degli oppressi che va da se' non hanno mai rilasciato loro alcuna
delega, con cio' stesso danneggiano la causa che dicono di sostenere, e sono
nemici (e nemici di classe, anche, per dirsela tutta) di coloro che
pretendono allucinatamente di rappresentare.
I geniali furbacchioni pensano di potersi opporre alla guerra senza
impegnarsi a costruire la pace; pensano che si possa contrastare la violenza
senza essere impegnati per la nonviolenza; pensano di poter contrastare il
terrore, le dittature e le guerre senza fare l'unica scelta che il terrore,
le ditatture e le guerre combatte in concreto e alla radice in modo limpido
ed intransigente, che e' la scelta della lotta nonviolenta. E sulla base di
queste ambiguita', inadeguatezza e pusillanimita' rendono la loro azione
contro la guerra e l'ingiustizia ad un tempo surreale e subalterna, ed in
definitiva inetta e velleitaria, e non persuasiva e non mobilitante e non
cogente perche' interiormente fessa e falsa.
Solo la scelta della nonviolenza, ovvero della nonmenzogna (la forza della
verita'), puo' fondare un movimento per la pace che affronti e sconfigga i
signori della guerra e salvi innumerevoli vite umane.
A cosa servono i geniali furbacchioni?
A far la gioia della famiglia Bush.

2. RIFLESSIONE. ELISABETTA DONINI: DELLA GUERRA. VITA E MORTE, NATURA E
CULTURA
[Ringraziamo Claudio Vedovati (per contatti: cvedovati at excite.com) per
averci trasmesso questo testo di Elisabetta Donini, che se non andiamo
errati dovrebbe essere il testo del suo contributo al Convegno "La
polveriera. I Balcani tra guerre umanitarie e nazionalismi" (Bari, 14-15
gennaio 2000), promosso dall'Assopace di Bari e dalla Convenzione Permanente
di donne contro le guerre. Elisabetta Donini e' docente di fisica
all'Universita' di Torino, ed e' da sempre attiva nel movimento femminista e
in quello pacifista]
Quando Maria Geneth mi ha proposto di intervenire nella discussione, mi ha
mandato una traccia delle riflessioni fatte dal gruppo che ha preparato il
seminario: ho trovato molto suggestive alcune sollecitazioni intellettuali
che rinviano a prospettive di lungo, lunghissimo periodo, in quanto si parla
dei meccanismi di base dell'agire umano, si parla dei meccanismi di natura
economica e sociale che da sempre governano la storia dell'umanita', ma
tutto questo assume particolare importanza perche' l'ultima delle molte
guerre in corso ci ha coinvolte in modo piu' diretto, perche' l'Italia e'
stata paese in guerra con l'intervento Nato contro la ex-Jugoslavia.
La guerra della Repubblica Federale Jugoslava contro la popolazione albanese
del Kosovo, le guerre in Cecenia o a Timor Est o in Africa, in una parola la
persistenza della guerra in tanti paesi diversi avalla in qualche modo la
sensazione, talvolta piu' rassegnata talvolta piu' inasprita, che la guerra
faccia parte del retaggio della storia dell'umanita', che appartenga a
quelle dimensioni dell'umano ineliminabili ed e' per questo che un
ragionamento di lungo periodo mi e' parso necessario. Vorrei confrontarmi
con questa dimensione, ma non soltanto, perche' proprio i 79 giorni dei
Balcani, Serbia, Kosovo, se vogliamo caratterizzarli etnicamente, anche se
non credo sia troppo giusto farlo, hanno ciascuno la loro specificita' ed e'
di tali specificita' che bisogna ragionare, con esse bisogna confrontarsi
per capire come e' potuto succedere che quella guerra scoppiasse, che
l'Italia vi prendesse parte contribuendo ai bombardamenti, che in Italia ci
fosse un movimento pacifista in cui le donne hanno avuto una voce abbastanza
vivace ma che non e' riuscito a fermare la guerra.
Da un lato mi attrae infatti una prospettiva di ragionamento sul lunghissimo
periodo, dall'altro mi sento pero' almeno altrettanto coinvolta nell'impegno
di responsabilita' politica di misurarci con l'immediato: nel presente e nel
futuro vicino, che cosa sappiamo, possiamo e vogliamo tentare di fare per
evitare il rischio di guerra? Di sicuro non lo evitiamo nel breve periodo,
quindi ragionare sui meccanismi di base dell'agire umano puo' dare qualche
altro strumento, perche' e' cambiando nel profondo le culture e le
mentalita' che possiamo forse sperare di attenuare i rischi di guerra.
*
Come titolo ho proposto "Vita e morte, natura e cultura" ed ero fortemente
tentata di aggiungere un terzo binomio, "donne e uomini", dopo di che la
lettura trasversale avrebbe potuto diventare "vita, natura, donne" rispetto
a "morte, cultura, uomini". Ho poi scelto di non esplicitare il terzo
binomio, che pero' sara' alla base di tutto quello che mi sono ripromessa di
discutere con voi. Non l'ho proposto sin dal titolo per non irrigidire
eccessivamente il nesso "morte, cultura e uomini", che credo esista
profondamente nella storia, ma che non vorrei fare apparire come cogente,
come necessitante, cosi' come non mi illudo che "vita, natura, donne" sia
altrettanto immediatamente indicativo che le donne siano spontaneamente
pacifiche, mentre gli uomini sarebbero spontaneamente aggressivi. Non e'
riscontrabile come universalmente vero, non mi illudo che sia in questi
termini cosi' semplicistici: non tutte le donne sono pacifiche ne' pacifiste
e per fortuna non tutti gli uomini sono aggressivi ne' guerrieri, ma questi
nessi ci sono e vanno messi in discussione, con cautela, perche' e'
all'interno di tali cautele che credo ci sia lo spazio del cambiamento. C'e'
spazio perche' l'associazione tra vita-natura e morte-cultura possa essere
trasformata e non e' un fatto "naturale" che gli uomini siano
prevalentemente soggetti portatori di morte nelle guerre; anzi, che essi
abbiano elaborato una cultura di guerra e', a sua volta, un fatto non
naturale, che quindi puo' essere trasformato.
Quello che vi voglio proporre e' proprio un ragionamento che guardi a
natura/cultura, vita/morte come a dimensioni storiche. In quanto storiche,
esse sono strettamente soggette a dinamiche di cambiamento e quindi
strettamente legate agli impegni che donne e uomini, come soggetti della
storia, riescono o non riescono a mettere in campo per cambiare l'assetto
delle cose esistenti, come ad esempio la dinamica della guerra.
Anticipo qui uno dei punti centrali della mia relazione: mi preme un
ragionamento culturale che non si limiti alla dimensione della riflessione e
della rimessa in discussione di mentalita' ricevute, ma che sia soprattutto
un ragionamento progettuale, che trovi uno spazio per una prospettiva
realistica di cambiamento. Nel presente si possono individuare soggetti e
modi di agire, di ragionare, di atteggiarsi che non soltanto dichiarano di
non volersi riconoscere nella cultura della guerra ma che praticano
orizzonti che non sono quelli della guerra. Questo sara' l'approdo,
attraverso alcune elaborazione in parte mie, in parte riprese da altre
autrici; e proprio attorno a questi nessi, che non vorrei rendere troppo
stringenti, ma che ritengo nello stesso tempo sensati, si svolgera' il
ragionamento.
*
La dominanza del maschile nella storia si puo' accostare alla dominanza
della guerra sulla pace e della morte sulla vita: si tratta di nessi da
disarticolare, ma sostanzialmente questo e' il tema che vi voglio proporre a
partire da due autrici: Rada Ivekovic, per me una delle figure piu'
importanti nell'analisi della guerra in genere e di quelle dei Balcani in
particolare; l'altra e' Barbara Ehrenreich, della quale e' stato tradotto
recentemente Riti di Sangue, pubblicato da Feltrinelli, un libro con cui
vale la pena di misurarsi, pur evitando meccanismi di identificazione,
attraverso una lettura in profondita'.
Ehrenreich sostiene che il fatto stesso che il nesso fra guerra e maschile
sia ritenuto cosi' ovvio da non dovere essere nemmeno argomentato, tanto e'
evidente, viene a costituire un problema. Scrive: "la guerra e', anzi, una
delle attivita' piu' rigidamente connotate secondo il genere che l'umanita'
conosca". Genere, cioe' quella dimensione che non attiene alle differenze
biologiche tra femmine e maschi, ma alle differenze culturali, costruite
attraverso i secoli, le diverse societa', l'evoluzione differente in
contesti differenti. Ci sono infatti delle attribuzioni privilegiate: il
ruolo dei guerrieri in tutte le culture e' attribuito agli uomini; possiamo
trovare le amazzoni, ma si tratta di anomalie. Se oggi si va verso
l'esercito professionale con la partecipazione delle donne e' perche' molte
cose stanno cambiano e magari vale la pena di ragionarci, pero' la
tradizione culturale porta a considerare naturale il binomio "maschile e
guerra". Ehrenreich segnala che e' proprio un problema che non faccia
problema, che sia stato accettata, interiorizzata la convinzione che al
maschile attiene fare la guerra e che gli uomini non sarebbero tali se non
fossero anche guerrieri: "la guerra e', anzi, una delle attivita' piu'
rigidamente connotate secondo il genere che l'umanita' conosca".
Talmente esclusivo e' il nesso tra guerra e maschilita' che gli studiosi
maschi ne parlano senza quasi sentire la necessita' di nominare i due sessi.
In un'antologia di scritti di antropologia della guerra, tutti di autori
maschi, pubblicata nel 1990, non esistono neppure nell'indice le voci
"genere" o "maschile", e le donne sono citate non piu' di una dozzina di
volte, come mogli, come prigioniere di guerra, come partecipi del banchetto
cannibalico. Se a porsi il problema sono autrici, lo fanno su un altro
versante, che rischia di essere altrettanto riduttivo, altrettanto rigido:
sembrano cosi' sopraffatte da questo nesso da considerate la mascolinita',
intesa a volte come mero dato biologico, come una spiegazione sufficiente ed
esauriente del fenomeno guerra. In questa ottica la guerra diventa
l'inevitabile esito dell'aggressivita' maschile, mentre le armi, la forza
intrusiva delle lance e dei missili, la penetrazione e l'esplosione,
mimerebbero l'aspetto fallico della sessualita'. La forma delle bombe, dei
missili, tale era e anche oggi rimane uguale, ma a me pare troppo facile e
semplicistico dire: "Ah, dunque la guerra c'e' perche' il maschile e'
aggressivo da sempre". Questi "da sempre" sono proprio i nodi da mettere
piu' strettamente in discussione.
Se Ehrenreich si riferisce a tutte le guerre, Rada Ivekovic riflette invece
sulle guerre dei Balcani e nell'ultimo volume pubblicato in italiano,
Autopsia dei Balcani, scrive: "Questa guerra e' sessuata, come ogni guerra,
o forse lo e' di piu', poiche' e' anche una guerra per la restaurazione del
patriarcato, per l'eliminazione di ogni 'corpo estraneo'"; e qui si apre un
ragionamento complesso sulla restaurazione del patriarcato nei Paesi della
ex-Jugoslavia, per i quali c'e' tanta nostalgia, chiamata ironicamente
"jugonostalgia". Ormai la categoria delle/degli "jugonostalgici" e' uno dei
termini con cui si definiscono tante donne e tanti uomini che le dinamiche
correnti vorrebbero costringere a dichiararsi come serba o serbo, croata o
croato, slovena, bosniaca e che invece dicono: "non sono nulla di tutto
cio', piuttosto mi rassegno a dirmi jugonostalgico/a". Nostalgico/a di un
mondo in cui la convivenza di diverse storie culturali, prima ancora che
etniche, era certo non idilliaca, ma in qualche modo reggeva. Rispetto a
quel mondo, l'immissione del patriarcato e del nazionalismo militarista e'
una restaurazione, che Rada Ivekovic riconosce come profondamente impregnata
di maschile. Quindi, almeno in queste due citazioni, tanto la guerra come
dimensione metastorica, quanto ciascuna guerra nella sua specificita',
vengono trattate come profondamente legate al maschile.
Il ragionamento che vi propongo vuole giungere a mettere in discussione che
il maschile sia "naturalmente" aggressivo, che quindi la guerra debba
continuare ad esistere e che essa sia una componente irrinunciabile della
natura umana e della storia, quindi anche del destino umano.
*
Ora, natura e destino sono a loro volta termini gravidi di infiniti pericoli
in tempi di guerre e le guerre dei Balcani se ne sono abbondantemente
caricate. Esse sono state infatti largamente associate ai risentimenti
nazionalistici: ci sono tuttora donne e uomini che non vorrebbero farsi
schiacciare da queste identificazioni etnico-nazionalistiche, pero' la
Slovenia, la Croazia, la Serbia, la Bosnia e adesso il Kosovo, la Macedonia
si sono a poco a poco frammentate nella "esplosione delle nazioni" (come
suggerisce efficacemente il titolo di un libro di Nicole Janigro), proprio
in nome di una identita' etnica incompatibile con le altre identita'
etniche. La "jugonostalgia" e' la nostalgia di un mondo multietnico che si
e' frammentato, separando le etnie, le culture e le lingue. Maria Mitrovic,
relatrice nell'estate 1999 alla Scuola delle Societa' delle Storiche di
Siena, parlava con grande dolore del serbo-croato, la lingua madre che le e'
stata sottratta. Era un misto di serbo, croato, bosniaco, che non poteva
essere annesso a nessuna delle identita' cosiddette etniche, ma ora e' stato
rielaborato, separando a forza la componente serba da quella croata e da
quella slovena, inventando lingue che non esistevano in nome della purezza
etnico-culturale, una purezza, come in tutti i processi di invenzione delle
nazioni, assolutamente posticcia, fittizia, creata a posteriori.
C'e' un modo secondo me molto appropriato di definire tutto cio', quello di
Benjamin Anderson quando parla di "comunita' immaginate". Le nazioni sono
state volta per volta inventate nella storia come comunita' immaginate;
"immaginate" non significa pero' che non siano costrutti assai efficaci,
cosi' efficaci da giustificare guerre devastanti. Queste operazioni di
immaginazione si reggono fondamentalmente su due componenti, che talvolta
vanno insieme, talvolta si separano: l'idea di una comune origine e quella
di un destino comune. La nazione, come inscritto nel termine, e' tale "per
natura", per nascita e per legami di sangue, per cui figli della nazione
sono tutti coloro che discendono dal comune antenato, che in realta' non
esiste ma viene ricostruito attraverso una genealogia che disegna origini
comuni, una stirpe comune. Le donne sono allora essenziali per garantire la
purezza della nazione, purche' vengano tenute sotto controllo e non vengano
inseminate dal maschio sbagliato; la nazione di sangue e' costruita con
un'operazione di dominanza maschile che si serve delle donne per garantire
la purezza di sangue; il controllo sulle donne esiste in tutte le civilta'
patriarcali, variamente messo in opera sotto diversi cieli; tutte le
civilta' patriarcali se ne sono servite. La nazione rimanda quindi alle
origini e pretende origini comuni che non sono mai esistite: semmai l'unica
origine comune - se e' sensata una tra le tante teorie sulla storia
dell'umanita' - e' la comune Madre Africana, da cui proverremmo tutte e
tutti; questo pero' non e' il tipo di origine comune su cui invece si
pretende di sostenere la diversita' irriducibile fra uno sloveno e una
croata o un serbo e un'albanese. La nazione per nascita rimanda quindi del
tutto surrettiziamente al lontanissimo passato, pretendendo di esistere da
sempre e il "da sempre" viene poi generalmente rielaborato in un "per
sempre". Cosi' la nazione serba, magari a partire da una componente illirica
antichissima, si ripropone come una comunita' che vuole restare se stessa e
aderire attorno a quell'identita' "per sempre".
L'altra componente portante nella costruzione delle comunita' immaginate,
attorno a cui si organizzano i nazionalismi, e' quella del "comune destino".
Anziche' risalire all'antico passato, ci si proietta in una missione per il
futuro.
Vi leggo a questo proposito un passo di una americanista francese, Elise
Marienstras, tratto dal saggio Nous, le peuple: les origines du nationalisme
americain, dove si parla degli Stati Uniti d'America. Nel caso degli Stati
Uniti e' chiaro che il legame di sangue proprio non potrebbe essere
invocato, anche se c'e' una componente, quella wasp, che esercita un ruolo
dominante. Essendo gli Stati Uniti il piu' mescolato dei melting pot,
proclamatosi aperto agli apporti di tutto il mondo, la nazione americana ha
dovuto cercarsi un altro tipo di legittimazione e se l'e' data nel "comune
destino". Le affermazioni di questa autrice sono molto suggestive: "una
comunita', contemporaneamente profana e sacra. Ogni tentativo di spezzare
l'unita' nazionale sarebbe dunque blasfemo. L'Unione non e' solamente un
grande fatto politico, e' un comandamento divino e una necessita' della
storia". Quanto afflato mistico nei discorsi di tanti presidenti americani
nel corso della storia, dai primi Jefferson o Lincoln ai piu' recenti
Kennedy o Clinton: la mistica della missione della nazione americana nel
mondo, la mistica che ha preteso di avallare il cosiddetto intervento
umanitario in nome di ragioni superiori di civilta'!
Mentre il legame di sangue cerca di garantirsi con un "da sempre", la
missione si garantisce con un "per sempre", cioe' "ci riconosciamo in
questo, che e' la nostra vocazione, la nostra missione, il nostro destino".
Ci riconosciamo talmente che diventa una necessita' della storia. Mi
interessa segnalarvi questi due diversi modi e come entrambi convergano nel
carattere di necessita': non potrebbe che essere cosi', o perche' veniamo da
antiche origini che ci hanno fatti essere cosi' o perche' ci realizziamo in
una missione per cui dobbiamo essere cosi'. Una forza che diventa quasi
ineludibile, come necessita' della natura e/o della storia. Rispetto a
questo, i miti delle origini esercitano una funzione irrinunciabile,
diventando poi proiezione verso il futuro; cosi' la guerra spesso esercita
la funzione di inverare tanto la natura quanto il destino attorno a cui una
nazione si riconosce.
*
Considero ora un testo di Rada Ivekovic, La balcanizzazione della ragione,
di grandissima importanza concettuale e politica, per la pregnanza della
messa in discussione del patriarcato come categoria della storia sociale,
dei rapporti tra uomini e donne, dell'esercizio del primato degli uomini
sulle donne, ma anche come categoria filosofica, connessa a tutte le basi
dell'impianto della filosofia occidentale. Viene analizzato come questo
costrutto, da secoli vincente nel pensiero occidentale, si basi su un
soggetto, come scrive Ivekovic, "autistico", un soggetto che pretende di
fondarsi su di se', che pretende, in quanto monocentrato, di espellere da
se' l'altro da se'; l'altro non viene riconosciuto alla pari, viene rimosso
e svalorizzato. Si istituisce immediatamente una gerarchia per cui l'altro
e' oggetto e inferiore e diventa anche il nemico da contrastare. Il percorso
concettuale, teorico della Ivekovic e' ovviamente molto piu' complesso di
come ve lo sto proponendo io ora, pero' quello che mi ha affascinata
teoricamente e che ho trovato di grandissima portata anche politica, e'
proprio questo nocciolo: avere identificato un meccanismo filosofico che si
e' legittimato nel pensiero occidentale come l'inveramento della ragione,
mentre di per se' erode la possibilita' di una ragione aperta, in cui i
soggetti siano - come poi la Ivekovic arriva ad elaborare - dei co-soggetti,
che si riconoscano alla pari, alla pari come gerarchia filosofica.
Giusto per fare una rapida incursione nel mio campo, analogo discorso si
trova nella scienza, cosi' come si e' costituita in epoca moderna, dove la
dinamica e' del tipo osservatore/osservato, quindi soggetto/oggetto con una
gerarchia molto forte: il ruolo dominante e' esercitato dal soggetto
conoscente, che riesce a diventare il soggetto che trasforma il mondo; la
conoscenza infatti non e' innocente, e' una conoscenza mirata alla
trasformazione. Allo stesso modo il soggetto del cogito e' l'elemento forte,
che fonda se stesso nel saper pensare; tutto il resto e' materia, materia
del pensiero. La Ivekovic e' anche acutissima nel mettere in relazione
queste forme del pensiero filosofico occidentale, che da Platone arrivano a
Descartes e fino ai contemporanei, con le forme politiche e il pensiero
della politica, che fin dalle origini in cui si riconosce il mondo
occidentale sono pensiero di guerra, pensiero non soltanto di rimozione
dell'altro da se', proiezione fuori di se' dell'altro da se', ma anche
uccisione dell'altro.
Ci sono pagine acutissime sulla genealogia al maschile, patriarcale, che
sottende i miti delle origini di tutte le culture dell'occidente: quella
greco-latina, quella ebraica e ebraico-cristiana, quelle delle componenti
barbariche (cosi' chiamate dai nostri antenati), confluite comunque nelle
storia dell'occidente. Per evocare tali miti schematicamente, ma spero in
modo efficace, basti pensare che le vicende di parricidi, o di padri che
uccidono figli, si ritrovano in quasi tutti i racconti delle origini. Per
esempio nella mitologia greca Urano sprofonda i Ciclopi suoi figli dopo che
questi hanno tentato di spodestarlo, ma viene castrato e spodestato dal
figlio Crono, che a sua volta divora i figli finche' uno di essi, Zeus,
riesce a sua volta a spodestarlo: una continua vicenda, tutta maschile, di
padri e di figli e di un potere che si instaura sulla negazione del
precedente potere del padre ed e' continuamente insidiato dai figli. Oppure,
altra versione, sempre maschile, con genealogie un po' diverse, in cui la
rimozione dell'altro da se' e' ricondotta a un legame piu' simmetrico,
quello tra fratelli: Caino e Abele, Romolo e Remo. Troviamo anche, nella
prima figura, il "sacrificio": di Isacco da parte di Abramo, oppure, ancora
nella figura padre-figlio, il figlio di Dio mandato a morire dal padre.
Tornando alla mitologia greca, troviamo Eteocle e Polinice; ma per fortuna
c'e' Antigone, mito piu' antico di una cultura piu' antica, in cui la
sorella e' sorella di entrambi e mantiene il rispetto del legame con
entrambi, mentre le vicende maschili sembra possano essere soltanto di
negazione, o tra padre e figli o tra fratelli.
Mi sono soffermata su questi miti, che Rada Ivekovic tratta con maggiore
ampiezza, per riprendere da lei tanto la dimensione della critica filosofica
al soggetto occidentale autistico, quanto quella della critica politica al
racconto delle origini che ha legittimato tante guerre nel corso della
storia dell'umanita'. Il tutto per giungere a un punto che io considero
assolutamente centrale: questi racconti delle origini sono per l'appunto
racconti di come le nazioni e le comunita' sono state immaginate, inventate
secondo origini altrettanto immaginate, inventate; ma da chi? Dai soggetti
che le hanno raccontate, prevalentemente uomini, uomini connotati al
maschile.
Bisogna allora chiedersi se possano essere efficaci racconti delle origini
diversi, per proporre altre prospettive nel presente e per il futuro. Ed
anche se possano esistere mitologie che, anziche' di parricidi, di
infanticidi e fratricidi, si nutrano magari di sorelle pietose: pietose
proprio nel senso del provare simpatia, condividere il rispetto, come
Antigone, per la vita di entrambi i fratelli, o per tutte le parti che
convivono su un territorio, come nei progetti di convivenza di cui voglio
parlarvi, che tuttora sono progetti per lo piu' di donne, anche se, per
fortuna non solo di donne.
*
Rispetto ai miti densi di morte, che ho evocato prima e che si fondano
sostanzialmente sulla figura del maschio dominante, del guerriero e piu'
anticamente dell'uomo cacciatore, c'e' stato tutto un percorso di
reinvenzione, di revisione del racconto delle origini, fatto da donne.
Revisione non solo come cambiamento di prospettiva, ma proprio come diversa
visione del mondo, in quanto per riuscire a cambiare ottica sono convinta
che occorra essere un altro soggetto che guarda con altri occhi.
Questo e' accaduto in anni recenti; vi voglio citare alcuni passaggi: "uomo
cacciatore/donna raccoglitrice" e' stato una delle prime revisioni
scientifiche prodotte dalla soggettivita' del neofemminismo. Negli anni
'70-'80 ha cominciato a circolare fra scienziate, primatologhe,
paleoantropologhe, un ripensamento radicale della storia correntemente
accettata, che voleva i maschi cacciatori protagonisti della transizione
dalla natura alla cultura, cioe' della transizione dalla condizione
primigenia di animali alla condizione pienamente umana di soggetti
culturali, dotati di strumenti, di capacita' di comunicazione, di un
progetto collettivo: il gruppo dei cacciatori che si era armato delle selci.
Alcune donne, non riconoscendosi in quel racconto, anzi sentendosi oppresse
da millenni di patriarcato insediatosi su quel racconto, hanno provato a
metterne in discussione con metodo scientifico la plausibilita' e la
validita', con molti argomenti per sostenere che la donna raccoglitrice ha
prodotto cultura almeno quanto, e forse prima, del maschio cacciatore.
Un altro passo, piu' recente, e' rappresentato dalla revisione dei miti
delle origini con al centro la figura delle dee madri: il titolo del libro
piu' noto sull'argomento e' Il calice e la spada di Riane Eisler. Qui le
donne, molto piu' degli uomini, sono descritte come protagoniste della
cultura della convivialita' e della convivenza, attraverso il simbolo del
calice, proprio perche' per via femminile si trasmetteva la capacita' di
generare e di nutrire, molto prima che si costituisse una societa' basata
sulla capacita' di uccidere.
Si discute da decenni sull'origine della dominanza maschile: se essa sia
nata nel momento in cui gli uomini si imposero culturalmente come coloro che
sapevano rischiare e dare la morte, mentre le donne vennero svalorizzate
perche' protagoniste del dare la vita, fatto, invece, naturale-biologico.
Secondo le teorie di Maria Gimbutas, archeologa, e di Riane Eisler,
socioantropologa della preistoria, la dea madre trasmetteva la potenza
generativa e nutritiva delle donne, non solo in quanto concretamente mettono
al mondo bambini e li allattano, ma anche perche' stava diventando
"culturale" che fossero le donne ad occuparsi delle attivita' da cui
ricavare cibo.
Barbara Ehrenreich in Riti di sangue prende le distanze da queste posizioni
e sostiene che non vi sono prove, ad esempio da reperti archeologici, che la
dea madre fosse buona, dolce e nutriente, ma anzi molti elementi depongono
per dee delle origini assai inquietanti e minacciose. Del resto la natura,
fino all'eta' moderna, e' stata definita culturalmente sotto il duplice
segno di madre-nutrice e matrigna-devastatrice. In questo testo viene
argomentato che c'e' un'eredita' antichissima, che non puo' spiegare la
guerra, ma che in qualche misura descrive i sentimenti che tuttora vengono
agiti nelle guerre. Sentimenti ancestrali che provengono da un lontano
passato e che Barbara Ehrenreich fa risalire, prima che all'uomo cacciatore,
all'angoscia di essere prede.
I primi ominidi erano infatti assai deboli e quindi facili vittime dei
grandi animali che ancora esistevano e l'angoscia delle prede potrebbe
essere ritrovata in molti sentimenti, in molte ossessioni che ci portiamo
appresso. Un "ci" onnicomprensivo di tutte le culture, di donne e di uomini.
Dopo di che la Ehrenreich ricostruisce il passaggio da prede a predatori,
che avvenne in modo molto complesso: in una prima fase questi gruppi di
umani assai deboli, per difendersi, si organizzarono in comunita';
successivamente, rafforzandosi, riuscirono anche a diventare a loro volta
cacciatori. Probabilmente le prime attivita' di caccia venivano condotte in
gruppi con la partecipazione di tutta la comunita', donne incluse, come
avveniva ancora in tempi recenti presso i nativi d'America. Successivamente,
pur se si estinsero i grandi animali e diminui' il pericolo di essere prede,
ne rimase l'orrore ancestrale, ad esempio nelle figure di quelle dee, non
madri ma mostri, in genere corredate di simboli di animali pericolosi,
serpenti, etc. Mentre diventavano meno numerose le prede, diventava anche
meno praticata la caccia collettiva e cominciava ad emergere la figura del
cacciatore singolo, un uomo piuttosto che una donna. E su questo la
Ehrenreich argomenta che le figure dei guerrieri derivino dalle figure dei
cacciatori singoli, che a loro volta si erano staccate dal gruppo della
comunita' cacciatrice, affermando un primato di potenza e forza di pochi
uomini rispetto ad altri uomini e alla generalita' delle donne. L'orrore del
sangue puo' essere stato in origine il terrore di essere preda, ma era anche
orrore (sacro rispetto) di quelle uniche manifestazioni di sangue che
appartenevano alla vita di quella comunita': quello che attiene al biologico
femminile, parto, deflorazione, ciclo mestruale, rispetto a cui la
sacralita' e' stata convertita in orrore rimuovendola dalla comunita' e
trasferendola invece in una dimensione positiva, addirittura di potenza e di
forza, nei riti di iniziazione dei guerrieri. Il ragionamento e' molto
complesso, pero' attraverso questo percorso la Ehrenreich argomenta che c'e'
una continuita', attraverso milioni di anni, dagli ominidi ai sentimenti
ancestrali che tuttora si dispiegano nelle guerre e di cui fanno parte, da
un lato l'angoscia di essere preda o vittima, dall'altro l'eccitazione di
farsi predatore.
Il salto al contemporaneo avviene attraverso altri passaggi, ad esempio
nell'epoca feudale in cui la dominanza dei guerrieri all'interno della
societa' significava un'organizzazione sociale in funzione della prevalenza
di "muscoli e metallo": occorreva un subalterno che lavorasse quel metallo
di cui poi i muscoli del guerriero si avvalevano.
La tesi forte di Barbara Ehrenreich e' che la guerra, proprio perche' si
nutre di sentimenti ancestrali, e' diventata quasi una realta'
"autoreplicante", capace di rigenerarsi, riprodursi da se stessa; perche' le
sue dinamiche richiamano incessantemente altre guerre. I mezzi di
distruzione nella versione contemporanea sono tanto piu' inquietanti oggi,
quando le tecnologie della guerra sono assai piu' avanzate e sembrano
veramente generare guerra da loro stesse, quasi per forza intrinseca, come
se non fossero atti umani quelli che arrivano a scatenare le guerre .
Pensate a tutto l'immaginario, ma anche al concreto, delle cosiddette "armi
intelligenti": viene trasferita alle armi la scelta di colpire o non colpire
un certo obiettivo. Gli attuali missili hanno dei sistemi di puntamento che
incorporano il riconoscimento dell'obiettivo: certo, e' stato immesso da
mano e mente umana, ma una volta che l'abbiano incorporato, i missili
"intelligenti" puntano su quell'obiettivo fino a che lo colpiscono.
L'entita' autoreplicante di Barbara Ehrenreich assume pero' anche una
connotazione che non condivido, quando viene presentata come una unita' a
se' stante in cui si inscrivono le eredita' culturali con la stessa
pregnanza quasi materiale che ha il gene per l'eredita' biologica. Questo e'
il "meme", cosi' elaborato e definito da Richard Dawkins, uno degli autori
piu' esecrati della sociobiologia. Parlandone con una certa cautela, il meme
sarebbe un complesso culturale in cui si deposita un insieme di sentimenti,
emozioni, riassetti psicologici e mentali e che diventa a sua volta un
fattore molto condizionante, molto deterministico: e' questo l'aspetto piu'
inquietante e su cui meno mi sento d'accordo.
*
Inaspettatamente, pero', l'ultimo capitolo del volume, fino a quel punto
condotto come una trattazione della pervasivita' di quest'eredita' di guerra
attraverso la storia dell'umanita', diventa invece un discorso di "guerra
alla guerra", cioe' si apre alla possibilita' che su questa storia si
innesti un rovesciamento radicale. Qui c'e' un elemento molto forte che
cerco di segnalarvi con passo veloce: in sostanza, proprio perche' secondo
tale analisi la guerra diventa un'entita' quasi autonoma, non si tratta oggi
di criticare le singole guerre e coloro che le fanno, ma e' proprio la
guerra quella che va smontata. Barbara Ehrenreich infatti scrive: "Percio'
e' una conquista enorme passare dall'odiare il guerriero all'odiare la
guerra, e una conquista ancora piu' grande arrivare a capire che il "nemico"
e' la guerra come istituzione astratta e che la sua presa su di noi non
viene mai meno, neppure in quegli intervalli che chiamiamo pace".
Questa e' la dimensione positiva che mi pare piu' importante da riprendere.
I singoli episodi sono gravissimi, spesso tragici, comportano lutti, morti e
distruzioni, ma ogni singolo episodio ci puo' illudere che sia stato il
portato nefasto di una dinamica di cause ed effetti che avrebbe potuto
sdipanarsi diversamente. Se invece ci convinciamo che tutto il vivere e
l'agire umano sono ancora - e dico ancora con intenzione - pervasi da una
adesione alla guerra come una dimensione quasi assoluta, allora forse anche
i momenti di pace sono quelli che un'amica di Torino ha chiamato "intervalli
tra una guerra e l'altra", quindi in realta' non inveramento di pace. Allora
forse possiamo cercare di attrezzarci per smontare non ogni singolo percorso
di guerra, ma la praticabilita' della guerra in assoluto.
Tralasciando molti aspetti, vorrei richiamarne uno in particolare, che
appartiene a molte elaborazioni femministe recenti, in un'ottica dalla quale
apparentemente io mi sono scostata, non misurandomi con le dinamiche
donne-uomini, maschile-femminile, quanto piuttosto con il tema guerra-pace:
apparentemente, perche' in realta' l'analisi su come raccontare la storia
delle origini e' pervasa dall'intenzionalita' femminista di chi non soltanto
non si e' riconosciuta nella cultura del patriarcato, ma ha anche cercato di
darsi strumenti per fondare un'altra cultura. Ma ci sono indubbiamente molti
altri percorsi che potrebbero essere seguiti e proprio perche' Ehrenreich
accenna all'immaginario fallico delle armi, dalle lance ai missili, vorrei
almeno evocare la critica femminista della scienza e della tecnologia
applicata alle guerre e alle armi, che ha cercato di fare emergere quanto di
maschilismo aggressivo ci sia in una passione distruttiva che e' anche
pulsione di morte e che alimenta la produzione di armi, sia come scienza che
come tecnologia.
Essendo fisica per formazione e insegnando tuttora fisica, mi sono misurata
piu' volte con questi aspetti, in particolare per il nucleare. La storia del
nucleare e' una storia di ossessione di morte e di ossessione di generare
strumenti di morte, affermando in questo la creativita' maschile. Un uomo,
Brian Easlea, l'ha detto molto bene parlando di "falli gravidi". Le bombe,
pensate sempre al maschile, erano il figlio cercato: falli gravidi, potenza
del fallo e capacita' di generare bombe, mezzi di distruzione. Forse la
rilettura della storia attraverso i mezzi di distruzione avrebbe davvero una
sua macabra suggestione.
*
Voglio concludere tornando al filone che avrei potuto seguire come percorso
alternativo: invece di "morte-cultura-maschile", "vita-natura-femminile".
Non sono peraltro affatto convinta che il femminile, al di la' della
biologia, si sia attrezzato culturalmente ad esprimere sempre scelte di
vita; ma vorrei concludere con spirito positivo leggendo un brano tratto da
un testo sulla violenza di Hannah Arendt, molto bello proprio perche'
rispetto alla violenza apre un discorso che va fuori e oltre questa.
"Filosoficamente parlando, agire e' la risposta umana alla condizione di
essere nato. Dato che tutti noi veniamo al mondo in virtu' della nascita, in
quanto nuovi arrivati e principianti, siamo in grado di dare inizio a
qualcosa di nuovo; senza il fatto della nascita non sapremmo neanche cos'e'
la novita', ogni 'azione' sarebbe semplice comportamento o conservazione.
Nessun'altra facolta': ne' la ragione, ne' la coscienza, a parte il
linguaggio, ci distingue in modo cosi' radicale da tutte le specie
animali... Procreare e dare la vita non sono altro che due fasi diverse
dello stesso ricorrente ciclo in cui tutte le cose sono tenute assieme come
per incantesimo. Ne' la violenza ne' il potere sono fenomeni naturali, cioe'
manifestazioni di un processo vitale: appartengono alla sfera politica delle
cose umane".
Ogni parola di questo brano meriterebbe di essere ripresa e analizzata, per
andarci dentro e scavare con attenzione. A me, per esempio, piacerebbe molto
andarci dentro immettendovi la mia soggettivita' e sono consapevole che se
questo brano mi affascina e' anche perche' lo leggo con occhi di femminista
degli anni '80-'90 e quindi investo in alcune parole altro da quello che vi
investiva Hannah Arendt, che non era una femminista; quindi il suo modo di
ragionare in relazione alla nascita, al procreare, al dare la vita, non e'
assolutamente assimilabile al modo in cui ne ragiona ad esempio Riane
Eisler, da femminista di fine '900, ma e' come vorrei ragionarne io
femminista e pacifista contemporanea. Pur con tutte queste cautele, mi
sembra un testo che ha una grandissima capacita' di apertura di orizzonti,
proprio perche' richiama a quella dimensione aperta che e' il guardare alla
nascita come il proporsi, l'emergere di un'innovazione continua. Allora, si
deve tener conto di quanto di culturale puo' essere elaborato in questi
termini e culturale vuol dire che donne e uomini possono farsi protagonisti
di una cultura della nascita e di una pratica dell'innovazione attraverso
l'emergere di sempre nuovi soggetti; il che vuol dire anche pensiero della
diversita'.
*
Qui davvero concludo citando esperienze di gruppi politici di donne che
hanno fatto del misurarsi con "l'altro da se' dentro di se'" il tessuto
portante della loro soggettivita', intenzionalita', capacita' di progettare
un futuro diverso da quello della guerra.
Accenno molto velocemente alle Donne in nero, della cui rete io stessa
faccio parte.
In ciascun gruppo di Donne in nero ci sono pratiche e soggetti differenti;
pero' la filosofia, il progetto politico delle Donne in nero, come a me e'
parso di intravedere a partire da Gerusalemme 1988, quando sono nate come
gruppo, e' quello di manifestare in silenzio, come femministe e pacifiste,
secondo modalita' riprese in decine di paesi del mondo. Qual e' il nucleo
piu' intenso di innovazione e di presa sulla realta' che fa si' che le Donne
in nero continuino ad esistere attraverso vicende di guerra che non hanno
mai tolto senso alle loro pratiche? Prima dicevo con Rada Ivekovic che la
filosofia e la politica della guerra si innestano sul soggetto
autoreferenziale che pretende di negare l'altro da se': un modo di vita che
rende impraticabile la guerra, perche' la svuota dall'interno, risiede
allora nel riconoscere che e' entro la propria parte che bisogna ricomporre
la pluralita'. Di questo oggi sono convinta, mentre fino ad ora non l'avevo
configurato in questi termini filosofici: il nucleo che piu' mi e' parso
straordinario delle Donne in nero, di Gerusalemme e di Israele prima, di
Belgrado poi, e' il fatto che il loro lutto era dolore perche' dentro la
loro societa' veniva negata la compresenza del diverso. La guerra contro i
palestinesi, o contro i croati e i bosniaci, ha avuto come prima conseguenza
la negazione del poter essere multiformi dentro la propria societa'. I
co-soggetti di Rada Ivekovic non devono porsi come co-soggetti per prima
cosa separati e che poi si parlano, ma proprio co-soggetti che convivono in
ciascuna/o di noi. Forse soltanto cosi' si riesce a non esportare guerra;
soltanto se, appunto, la societa' riesce a percepirsi come complessa.
Il messaggio delle Donne in nero e' stato di critica radicale al
nazionalismo, al militarismo, al patriarcato, ma a partire da questa
convinzione profonda: e' alla nostra societa' che ci rivolgiamo, perche' e'
dentro la nostra societa' che va ricomposta la compresenza di piu' soggetti,
se vogliamo sperare che questa societa' smetta di fare la guerra al resto
del mondo. In questi termini, e' il progetto politico per cui mi sembra
sensato lavorare: molto sinteticamente e banalmente (ma sono la prima a
sapere che e' complicatissimo praticare un percorso verso quell'orizzonte)
si tratta di un progetto di convivenza. So che puo' sembrare semplicistico
dirlo cosi', ma non e' semplice che la convivenza si instauri a partire dal
ripensare se stessi/e, ogni soggetto, come una miscela di infiniti apporti e
infinite potenzialita', non cercando invece un'identita' forte attraverso
cui connotarsi. Convivenza in ciascun soggetto o gruppo sociale o comunita'
nazionale: su queste basi e' anche praticabile la convivenza fra piu'
soggetti, piu' gruppi sociali, piu' comunita'.
Teniamo infine conto che i mezzi di distruzione di cui discute la Ehrenreich
sono gli stessi per cui la globalizzazione impone che si insegua il bene dei
capitali anziche' il bene delle persone. Si parla allora di merci e di
mercato mentre non si parla di economia di sussistenza: parola che non
significa che si voglia ridurre ciascuna e ciascuno ai bisogni primari, ma
che prima di tutto varrebbe la pena di impegnarsi perche', ovunque, ciascuna
e ciascuno possa prima di tutto sopravvivere. Al contrario, in questo mondo
l'economia di sussistenza sembra un residuo di primitivismo su cui il
mercato deve imporsi per risolvere tutti i problemi. Questo per suggerirvi,
appena appena per squarci, che la prospettiva della convivenza e' molto
semplicistica come termine, ma e' poi straordinariamente densa di
ripensamenti su tutte le dimensioni della vita singola ed associata.

3. MAESTRI. UN'INTERVISTA COLLETTIVA A PIETRO PINNA
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo questa
intervista collettiva a Pietro Pinna, sintesi di tre diversi colloqui avuti
recentemente con Pietro Pinna da Mao Valpiana, Filomena Perna, Fabio Bacci e
Alessandra Viana; essa e' stata pubblicata anche su "Azione nonviolenta" n.
12 del dicembre 2002. Pietro Pinna e' una delle figure piu' prestigiose
della nonviolenza in Italia]
Pietro Pinna ha 75 anni e vive a Firenze. E' stato il primo obiettore di
coscienza italiano del dopoguerra. Successivamente divenne il piu' stretto
collaboratore di Aldo Capitini, con cui condivise la nascita e lo sviluppo
del Movimento Nonviolento. Ancor oggi e' una delle figure di riferimento per
tutti gli amici della nonviolenza. Lo abbiamo intervistato.
- Puoi raccontarci la storia del tuo rifiuto del servizio militare? Quali
furono le motivazioni profonde del tuo gesto?
- All'epoca, nel '48, si era appena usciti dalla tragedia della guerra.
Guerra che aveva segnato in maniera indelebile gli anni della mia
adolescenza. Allora non conoscevo i presupposti teorici della nonviolenza.
Non avevo letto Gandhi. Semplicemente, avevo vissuto gli orrori delle
stragi, dei bombardamenti, e mi ripugnava l'idea di diventare parte di uno
strumento, l'esercito, che e' essenziale allíazione bellica. Sai qual e'
l'immagine piu' laida della guerra che io conservo nella mia memoria? E'
quella di una casa sventrata. Hai letto il libro di Bassani, Una notte del
'43?
- Si', una delle Cinque storie ferraresi...
- Bene, quel racconto narra di un episodio che accadde a Ferrara in quegli
anni e del cui esito io sono stato testimone involontario. C'era stato un
eccidio compiuto dai repubblichini, durante la notte, e il mattino dopo,
mentre andavo al lavoro, ho visto i cadaveri abbandonati per la strada come
monito per la popolazione... Fu allora che i repubblichini crearono
l'espressione "bisogna ferrarizzare l'Italia". Poi sono stato testimone dei
rastrellamenti tedeschi, delle scene di terrore provocate dai bombardamenti.
Non ti sembra sufficiente per diventare antimilitarista?
- Che cos'e' per te l'obiezione di coscienza?
- E' l'impegno a rifiutare la partecipazione alla preparazione e
all'effettuazione della guerra. Per me la guerra e' un crimine collettivo.
Non volevo sentirmi complice di questo crimine, cosi' rifiutai la divisa e
finii in carcere.
- Cosa ricordi di piu' dell'esperienza carceraria?
- La cosa che mi mancava di piu' era il verde, li' si vive circondati dal
cemento. Ho fatto anche un periodo di cella di rigore. A volte il caporale,
per troppo zelo, mi portava il rancio un'ora dopo e allora era proprio
immangiabile. Ero un traditore della Patria...
- C'e' stato qualche momento in cui ha sentito di non farcela?
- Quando ero in cella di rigore cominciavo ad accusare la stanchezza. C'e'
stato un momento in cui ho perso anche la pazienza. Una volta un colonnello
mi chiese se non pensavo a mia madre, al dolore che le davo. Ebbene, a quel
punto mi sono davvero seccato. "Mia madre", gli ho detto, "soffre, ma
comprende il mio gesto e mi pensa vivo, seppur in galera. Pensi lei,
piuttosto, a tutte le madri a cui la guerra ha stroncato i figli, a cui ora
possono rivolgersi solo come defunti".
- Da allora sono passati piu' di 50 anni, ma tu hai mantenuto integra la tua
idea contro la guerra.
- Anzi, si e' rafforzata. Ma resta molto semplice: disarmo unilaterale, inte
grale e immediato. Capisci cosa voglio dire?
- Che cosa dovrebbe fare oggi uno Stato che decidesse di impegnarsi davvero
per la pace?
- Cominciare a cambiare mentalita'. Disarmarsi. Per sempre. A livello
internazionale bisognerebbe, poi, superare il concetto della sovranita'
assoluta degli Stati. L'Onu ha solo un potere fittizio sugli Stati, al
giorno d'oggi, come sai bene.
- Secondo te e' davvero possibile che qualche governo adotti una soluzione
del genere?
- Siccome difficilmente potra' avvenire sul piano politico, il disarmo
unilaterale lo si puo' realizzare solo dal basso. E' qui che devono dare un
contributo le Chiese, i partiti e tutti gli uomini di buona volonta'... il
popolo, insomma. Questa era l'idea di Capitini.
- Secondo la logica corrente il disarmo unilaterale costituirebbe un rischio
per lo Stato che lo adottasse.
- Sai cosa rispondeva Capitini a questa obiezione? Che potremmo anche
arrivare a pensare ad un popolo che si sacrifichi fino a questo punto, un
popolo-Cristo. Un popolo che accetta la croce per salvare l'umanita'. La
pace per tutti e' ancora il problema piu' urgente.
- Come vedi il futuro dell'umanita'?
- C'e' una sola speranza, secondo me, per il nostro futuro. Il disarmo. Il
ripudio della guerra. Senza mistificazioni di sorta (una guerra di difesa e'
pur sempre una guerra). Ma non e' un obiettivo che si riuscira' a realizzare
a breve termine, forse prima ci vorra' la terza guerra mondiale... Noi
abbiamo solo iniziato.
- Cosa ti sentiresti di dire oggi al movimento "no global" che si prepara ad
una grande mobilitazione contro la guerra in Irak?
- Cominciamo dal punto d'arrivo; ossia dal pacifismo assoluto, quello della
nonviolenza: se davvero non vogliamo la guerra dobbiamo abolirne lo
strumento che la consente e la produce, vale a dire l'esercito. Si tratta
dell'unica risposta che possiamo dare al semplice rifiuto verbale, perche'
se a manifestare il rifiuto sono in molti, a livello pratico le cose vanno
in tutt'altro modo. La conclusione mi sembra semplice: l'abolizione
unilaterale dell'esercito. Devo ripeterlo ancora una volta: contro la
politica che vige da secoli, ingannevole, del disarmo multilaterale, cioe'
concordato ed equilibrato, bisogna partire dal basso. Tutti i tentativi che
sono stati fatti fino a oggi si sono rivelati fallimentari, anziche' il
disarmo abbiamo avuto il suo opposto, vale a dire la corsa al riarmo. Ecco
allora che dobbiamo procedere attraverso una diversa politica, basata su
atti di disarmo unilaterale.
- Puoi farci un esempio?
Un esempio e' arrivato dalla politica di Gorbaciov: promulgo' un atto
unilaterale di disarmo atomico, al quale gli Stati Uniti dovettero adeguarsi
per la sua inequivocabile valenza disarmista, per non sfigurare davanti
all'opinione pubblica di tutto il pianeta. Questo e' il principio. Un atto
di questo tipo, di disarmo unilaterale, toglie la giustificazione primaria
per il riarmo. E' una costante storica che i governanti esprimano al popolo
la necessita' di correre al riarmo quando gli altri Stati sono armati
(accade oggi fra l'America e l'Irak). Se io invece sono disarmato, privo gli
altri della giustificazione primaria e fondamentale del riarmo e
dell'accaparramento del potenziale bellico.
- Pensi alla menzogna della "guerra preventiva"?
- Piu' che di menzogna parlerei di autoinganno, quello di presumere di
tutelare la pace preparando invece la guerra. Si tratta, ripeto, di un
inganno plurisecolare, che segue il principio latino "si vis pacem, para
bellum" (se vuoi la pace prepara la guerra). E' una politica schizofrenica
da bancarotta fraudolenta. Noi dobbiamo uscire da questo inganno, altrimenti
sarebbe meglio mettersi l'anima in pace con l'ineluttabilita' della guerra e
finirla con qualsiasi discussione in merito.
- 1972-2002: che giudizio dai di questi 30 anni di obiezione di coscienza in
Italia?
- Negativo. Negativo, intendo, rispetto al significato dell'obiezione di
coscienza, cioe' dell'opposizione integrale alla guerra. Mi pare che in
questi decenni non sia venuto nessun concreto contributo significativo alla
ragion d'essere dell'obiezione, che e' l'antimilitarismo.
- Cioe' pensi che generazioni di obiettori di coscienza, dagli anni '70 ad
oggi, non abbiano influito politicamente per l'affermazione dei valori della
pace?
- Singoli obiettori si sono espressi con forza e nettezza su posizioni
antimilitariste, e ci sono stati anche gruppi o collettivi che hanno preso
seriamente i valori dell'obiezione (penso ad esempio ad alcune esperienze in
Caritas), ma sono state esperienze individuali, che non sono riuscite ad
avere evidenza e incidenza pubblica.
- Trent'anni tutti da buttare?
- No, naturalmente. So ben vedere anche il lato positivo di questa
esperienza: molti giovani si sono avvicinati al servizio civile acquisendo
una certa consapevolezza di far parte di una societa' a cui bisogna dare un
contributo; forse possiamo dire anche che nel servizio civile si e' espresso
uno stato d'animo particolare che puo' aver portato un certo "valore" nel
tessuto sociale italiano, anche se non credo che alla fine dell'esperienza
rimarra' nulla di organico.
- Come vedi il futuro del servizio civile volontario?
- Non so bene, ma forse il nuovo tipo di servizio potra' prendere come
spunto dall'esperienza precedente un certo spirito di serieta' e di maggior
impegno.
- Da una parte avremo il servizio volontario, dall'altra l'esercito
professionale: dove potra' esprimersi l'antimilitarismo?
- L'antimilitarismo e le istanze profonde dell'obiezione restano affidati a
quegli organismi che si riferiscono esplicitamente alla nonviolenza. Penso
anche ad iniziative specifiche come la marcia nonviolenta "Mai piu' eserciti
e guerre". Il Movimento Nonviolento deve continuare a mettere in rilievo il
concetto di disarmo unilaterale. Finche' ci saranno gli eserciti ci dovra'
essere qualcuno che promuove le istanze dell'obiezione e del disarmo
unilaterale.
* A chi vuole approfondire questi temi, consigliamo la lettura del diario
giovanile di Pietro Pinna, La mia obbiezione di coscienza, Edizioni del
Movimento Nonviolento, euro 5,15, che puo' essere richiesto alla redazione
di "Azione nonviolenta", tel. 0458009803, e-mail: azionenonviolenta at sis.it

4. LETTURE. GINO STRADA: BUSKASHI'
Gino Strada, Buskashi', Feltrinelli, Milano 2002, pp. 182, euro 12. Il
diario dall'Afghanistan in guerra, dal settembre 2001 al giugno 2002, del
medico chirurgo fondatore di Emergency. Una intensa, illuminante
testimonianza.

5. RILETTURE. EVA CANTARELLA: PASSATO PROSSIMO
Eva Cantarella, Passato prossimo, Feltrinelli, Milano 1996, 2001, pp. 192,
euro 6,71. La condizione della donna nella Roma antica, una accurata
ricognizione e profonda riflessione dell'illustre studiosa.

6. RILETTURE. EVELYN FOX KELLER: VITA, SCIENZA & CYBERSCIENZA
Evelyn Fox Keller, Vita, scienza & cyberscienza, Garzanti, Milano 1996, pp.
136, lire 19.000. Un libro che vivamente raccomandiamo della grande storica
e filosofa della scienza del prestigioso Massachusetts Institute of
Technology.

7. RILETTURE. FRANCOISE HERITIER: MASCHILE E FEMMINILE. IL PENSIERO DELLA
DIFFERENZA
Francoise Heritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza,
Laterza, Roma-Bari 1997, 2002, pp. XII + 244, euro 7,50. Un saggio che e'
gia' un classico dell'antropologia della celebre studiosa succeduta a
Levi-Strauss al College de France.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 452 del 21 dicembre 2002