Operazione Colomba: due passi nella striscia di Gaza



Due passi nella Striscia di Gaza di Andrea 
Giovedì 12 dicembre ci vengono a chiamare a casa i nostri amici del villaggio, il problema è delicato: ci sono diverse famiglie alluvionate, a causa delle piogge di questi giorni tutto il loro quartiere si è allagato e si ritrovano con un metro d'acqua in casa; l'allagamento è dovuto al fatto che quest’estate gli israeliani hanno "spianato" il terreno attorno alle case, chiudendo anche la strada sterrata e le vie di deflusso dell'acqua piovana, così alle prime violente piogge della stagione si è creato un lago. Il problema è delicato poiché questo quartiere è a poche decine di metri dalla strada dei coloni, controllata costantemente dall'esercito.
I nostri amici ci chiedono di andare sul posto, sta già arrivando una ruspa dalla città, ma si teme che gli israeliani creino qualche problema a causa della vicinanza alla strada israeliana, meglio se ci siamo noi stranieri a negoziare in caso di bisogno. Quando arriviamo sul posto la ruspa è già impantanata in mezzo al fango; ne serve un'altra per tirarla fuori. Intanto sulla strada israeliana si ferma una jeep bianca, appartiene al corpo della polizia militare che di solito annuncia l'inizio e la fine del coprifuoco, che decide dove e quando distruggere coltivazioni e case, che indica dove piazzare i check point e alzare il filo spinato; per gli israeliani sono quelli che garantiscono la sicurezza, per i palestinesi sono quelli che preannunciano guai. Decidiamo di fare qualcosa, l'ideale sarebbe che venissero più vicini per poter parlare con loro e chiedere una mano, ma la strada è distante e in mezzo c'è una barriera di filo spinato. Arriviamo fino ad esso e sbracciamo, ci urlano al megafono di aspettare. Dopo cinque minuti arriva un palestinese di corsa e mi porge il suo cellulare, rispondo e scopro che all'altro capo del telefono c'è il militare a bordo della jeep bianca. Gli spiego il problema, chiedo se ci può mandare un loro bulldozer, ne hanno tanti e funzionano bene a quanto pare. La risposta è di aspettare, stanno "facendo il possibile" anche se non so cosa significhi. Aspettiamo, ma non succede niente, intanto si fa buio. Tutto è rimandato al giorno dopo. La gente è contenta lo stesso, ci ringraziano, ci offrono il tè, ci invitano a dormire a casa loro. Per loro è importante vedere qualcuno vicino, e anche se non abbiamo fatto niente apprezzano che c'eravamo e che abbiamo a cuore il loro problema. E' gente molto povera, i bambini sono tutti scalzi in mezzo al fango e la notte fa anche freddo. I poveri apprezzano anche quel poco che possiamo dare. Il mattino dopo arriva la seconda ruspa (sempre palestinese), nel giro di un'ora libera dal fango la prima e assieme iniziano a lavorare. Decidiamo di restare per un po', sulla strada ci sono due jeep militari che osservano. Il lavoro delle ruspe prosegue, le jeep se ne vanno, ormai vuol dire che hanno dato il loro tacito assenso. Ce ne andiamo anche noi; in seguito veniamo a sapere che è tutto a posto, la strada è libera e l'acqua è defluita.
Ieri mattina siamo andati a Rafah, una ragazza conosciuta qualche giorno fa ad un incontro all'università ci ha invitato a casa della sua famiglia. Ci accolgono col solito calore, ci raccontano di loro: vengono da Gerusalemme, 10 anni fa sono stati costretti a trasferirsi perché gli israeliani hanno tolto il permesso di lavoro al padre, e senza di esso a poco a poco sono stati costretti a trasferirsi nel campo profughi di Rafah. Qua la vita è dura, anche perché la cultura è più chiusa, le donne poco libere. Da pochi giorni vivono nella casa dove ci troviamo adesso, prima vivevano vicino al confine con l'Egitto, dove centinaia di case sono state abbattute e la loro era costantemente colpita dalle mitragliatrici israeliane. Andiamo con loro a vedere la casa, la situazione è la solita orrenda normalità: macerie dappertutto, i palazzi rimasti in piedi crivellati di colpi. Era impossibile vivere qui, ci racconta, ci siamo trasferiti. Ora demoliranno anche questa casa; è la solita squallida normalità. Frattanto, mentre ci troviamo dentro l'abitazione, i soldati israeliani ci salutano sparando qualche raffica contro il palazzo. Proseguiamo sulla linea delle case demolite, a piedi. Un tank si sposta parallelo a noi, lungo il confine con l'Egitto. Ad un certo punto -siamo in un posto scoperto- si ferma e inizia a sparare, in aria e per terra qualche metro davanti a noi. Ci rifugiamo di corsa dietro un muro, il tank continua a spararci contro. Qualcuno del gruppo non è riuscito a raggiungere il nascondiglio, rimangono sdraiati per terra in attesa che i soldatini decidano che può bastare. I nostri amici locali ridono, dicono che se fossimo stati tutti palestinesi avrebbero mirato meglio. Dopo andiamo a visitare il luogo in cui è stata uccisa una donna, qualche giorno fa. Si tratta di una serie di casette a schiera, tutte nuove, costruite dalle Nazioni Unite. Una cosa che ancora non capisco è come mai queste case -costruite per chi l'ha persa- vengono realizzate sempre vicino agli insediamenti o nelle zone più pericolose. E infatti anche stavolta abbiamo la recinzione dell'insediamento davanti a noi. La donna è stata uccisa mentre rientrava a casa con i suoi tre figli. C'e' ancora del sangue per terra. Le pallottole hanno bucato il muro di cinta prima e le pareti delle abitazioni poi. Non c'era motivo di ucciderla, né di ferire i suoi tre bambini (uno di questi è ancora in ospedale in condizioni critiche). Ma è successo, e nessuno si chiede il perché visto che succede spesso. Non si può più pensare ad un errore dei soldati di turno, o a circostanze accidentali. Tutti i giorni muoiono persone innocenti, tutti i giorni i soldati sparano senza motivo sulle abitazioni, ai check point, per le strade. Ma questi innocenti non sono menzionati nei nostri telegiornali, non fanno notizia come quelli uccisi dagli uomini bomba in Israele. Così da una parte vediamo queste esplosioni al mercato, sugli autobus, per le strade e giustamente ci indigniamo anche aiutati dalle crude immagini che ci arrivano. Ma non arrivano in Italia molte immagini della donna di Rafah, o dei dieci morti nell'invasione al campo profughi di Bureij, o dei tanti altri che tutti i giorni vengono uccisi, in nome della sicurezza, dai soldati israeliani. E' pesante sentirsi chiamare antisemiti perché ci permettiamo di criticare la folle politica di Israele (il cui primo ministro ha sempre osteggiato qualsiasi processo di pace e sta realizzando un'enorme opera di ghettizzazione e distruzione della già fragile identità palestinese) e l'operato del suo esercito all'interno dei territori. E tutto succede con il silenzioso assenso della comunità internazionale.
La sicurezza di Israele si ottiene attuando una politica esattamente contraria a quella attuale. E questo il primo ministro Sharon lo sa. Il problema è che il suo obiettivo è la conquista di tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza e il trasferimento del maggior numero di palestinesi nei paesi arabi circostanti. Lo ha dichiarato lui stesso, l'anno scorso, durante un'intervista ad un giornale israeliano. La sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo sono solamente due utilissimi pretesti per ottenere consenso popolare. E in questa logica -ovviamente- è necessario che il terrorismo palestinese continui.