La nonviolenza e' in cammino. 402



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 402 del primo novembre 2002

Sommario di questo numero:
1. Pasquale Pugliese, i movimenti e la guerra
2. Cornelia Dell'Eva intervista Rosemary Lynch
3. Judith Malina ricorda Dorothy Day
4. Norberto Bobbio commemora Erasmo da Rotterdam
5. Strumenti: Amnesty International, Rapporto annuale 2002
6. Strumenti: Nessuno tocchi Caino, La pena di morte nel mondo. Rapporto
2002
7. Strumenti: Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino (a cura
di), Dizionario di politica
8. Strumenti: Luciano Gallino, Dizionario di sociologia
9. Strumenti. Franco Volpi (a cura di), Dizionario delle opere filosofiche
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. PASQUALE PUGLIESE: I MOVIMENTI E LA GUERRA
[Ringraziamo Pasquale Pugliese (per contatti: puglipas at interfree.it) per
averci permesso di anticipare qui un suo articolo che uscira' sul numero di
novembre di "Pollicino gnus", mensile reggiano su pace, solidarieta',
ambiente, convivenza (sito: www.pollicinognus.it). Pasquale Pugliese e'
impegnato nel Movimento Nonviolento e nella Rete Lilliput, ed e' una delle
figure di riferimento della nonviolenza in Italia]
I movimenti e la guerra: di fronte alla guerra "ordinaria" occorrono
iniziative strutturali.
Nel nuovo assetto imperiale del mondo - con gli USA che si ergono a
dominatori assoluti come una nuova Roma (1), ma immensamente piu' potente
rispetto agli altri Stati di quanto qualunque impero lo sia mai stato in
passato - la guerra e' diventata progressivamente elemento strutturale e
ordinario di dominio: se non serve a risolvere le controversie
internazionali o a sconfiggere i terroristi, le si da' una inedita
legittimita', usandola in funzione preventiva. E solo l'impero potra'
decidere quando, dove e che cosa e' necessario prevenire.
Se pure questo passaggio di paradigma strategico fa fare all'umanita', di
colpo, un brutale salto all'indietro, il mantenimento e l'espansione del
dominio economico, energetico e militare sul pianeta non poteva che portare
"naturalmente" alla guerra permanente come elemento ad essi strutturalmente
funzionale.
Di fronte a questo inquietante scenario, che si e' venuto man mano
delineando dall'89 ad oggi, guerra dopo guerra, il movimento dei movimenti
non ha ancora saputo dare una risposta situata all'altezza ed alla gravita'
della situazione.
I popoli di Seattle e Porto Alegre - e con essi le ong, i Centri di ricerca
alternativi, gli intellettuali, le case editrici e le riviste impegnate -
hanno raggiunto in questi anni sui temi ecologico-economici un livello di
competenza scientifica (basti pensare alla capacita' di analisi e
progettazione del Wuppertal Institut), di capacita' di proposta alternativa
(basti pensare all'introduzione del modello di misurazione della "impronta
ecologica" o ai Forum Sociali Mondiali) e di mobilitazione efficace (per es.
ritiro del "Mai" o fallimento del Wto a Seattle) che li ha resi una
controparte temuta dal potere. Sul tema della guerra, al contrario, cio' non
e' avvenuto, o almeno non e' avvenuto allo stesso livello d'incidenza e di
efficacia. E sicuramente non e' avvenuto in Italia.
Il movimento per la pace attuale, pure costituito in gran parte dalle stesse
organizzazioni, e spesso dalle stesse persone, che si impegnano nel
movimento per la giustizia globale, non riesce ad uscire da una debolezza
storica di tutti i movimenti pacifisti: l'essere prevalentemente
straordinario e di testimonianza. Il suo attivarsi, cioe', in occasione
dello scoppio delle guerre (e magari non di tutte, perche' non si puo' stare
sempre in piazza), considerate come eventi straordinari, di fronte alle
quali correre ai ripari, improvvisando le risposte e organizzando grandi
manifestazioni (splendida l'ultima Perugia-Assisi), che pero' di norma non f
ermano nessun jet ne' impongono nessuna pace. Senza cioe' la costanza - se
non di piccoli e piccolissimi gruppi - di un lavoro continuativo e
approfondito, delineando in tempo di pace scenari e proposte alternative
alla guerra, agli armamenti e per la risoluzione dei conflitti e preparando,
inoltre, forme di mobilitazione e di contrasto efficaci.
Straordinario e di testimonianza, il movimento per la pace non disturba il
manovratore imperiale che infatti, nell'ultimo decennio, ha attivato una
escalation della guerra su scala globale (con una conseguente impennata
delle spese militari): dal 1991 ad oggi si contano almeno cinque interventi
diretti degli USA, compreso quello in preparazione (Irak 1, Somalia,
Jugoslavia, Afghanistan, Irak 2), che ne dimostrano il ricorso assolutamente
ordinario e strutturale al mantenimento della supremazia planetaria.
In un libro ormai classico della letteratura pacifista degli anni ottanta,
Johan Galtung (2) sostiene che la preparazione militare alle guerre segue le
seguenti fasi:
- software: dottrina - organizzazione (capitale) - forza-lavoro (numero) -
ricerca - sviluppo - sperimentazione;
- hardware: produzione - stoccaggio - proliferazione - esercitazioni -
manovre - schieramento - azione.
Il problema dei movimenti pacifisti e' quello di concentrare la propria
attenzione - e di avviare la propria macchina organizzativa - solo
sull'ultimo anello della catena, sull'azione, ossia sull'esplosione del
conflitto armato, laddove ormai le possibilita' di bloccare la guerra sono
in realta' quasi nulle, trascurando quasi completamente le fasi preliminari.
"Se vuoi la pace prepara la pace" e' dunque un monito da rivolgere non solo
ai governanti ma anche ai movimenti, che spesso vengono risvegliati dai
tuoni e fulmini di guerra quando purtroppo non c'e' piu' molto da fare.
*
Allora che fare, prima? Come lavorare per la pace in tempo di pace,
concentrando gli sforzi su elementi cruciali del sistema
politico-industriale-militare, in modo tale da essere, almeno un po',
efficaci nel ridurre la legittimita' e l'uso della guerra?
Sono almeno cinque le iniziative che il movimento dei movimenti impegnato
per la pace potrebbe e, a mio parere, dovrebbe far proprie:
1. Approfondire gli studi in materia di guerra, pace, disarmo e
trasformazione dei conflitti, i cosiddetti peace studies, che in Italia
fanno fatica a prendere piede; solo quest'anno ha visto la luce la prima
rivista di approfondimento scientifico, "Quaderni Satyagraha" (3).
2. Riprendere il tema fondamentale dell'approccio nonviolento alla pace
basato sul disarmo e sul superamento delle strutture militari, a cominciare
dalla lotta per lo smantellamento di tutti gli eserciti.
3. Preparare forme nuove e inedite d'intervento per la trasformazione
nonviolenta dei conflitti prima, durante e dopo la loro esplosione,
sostitutive di quelle militari, e sostenere dunque iniziative come quelle
dei Corpi Civili di Pace, che elaborano e sperimentano in questa direzione.
4. Collegare le campagne per il disarmo militare con quelle per il disarmo
economico, essendo la guerra uno dei tre corni complementari della violenza
di questo sistema di domino: violenza diretta, strutturale e culturale;
5. Formarsi alla nonviolenza attiva per imparare a compiere azioni dirette
nonviolente, come forma concreta ed incisiva di contrasto alla macchina
bellica attraverso la messa in campo di grandi campagne nonviolente di tipo
satyagraha.
L'insieme di questi cinque punti, assunti in maniera seria, impegnata e
continuativa, potrebbe fare del movimento per la pace un autorevole ed
efficace oppositore al sistema di guerra ed un costruttore di alternative
praticabili.
Il movimento lillipuziano, che si sta lentamente incamminando su questa
strada, ha in cantiere due importanti progetti riferiti ai punti 4 e 5 sui
quali e' utile soffermarsi: la Campagna "Scelgo la nonviolenza" e la
costituzione dei Gruppi di Azione Nonviolenta.
*
"Scelgo la nonviolenza" e' una "campagna di obiezione di coscienza alla
guerre e opzione nonviolenta per il disarmo economico e militare", proposta
congiuntamente da MIR, Rete Lilliput e Movimento Nonviolento, ormai in fase
di partenza dopo una lunga preparazione. L'obiettivo della Campagna e'
quadruplice:
a) mantenere vivo il diritto all'obiezione di coscienza al militare e
impedire che venga annullato in coincidenza della sospensione dell'obbligo
di leva;
b) estendere la pratica dell'obiezione al sistema militare-industriale - che
in passato interessava in particolare i giovani al momento della chiamata a
svolgere il servizio militare - verso una forma di obiezione piu' diffusa e
articolata che coinvolga tutti i cittadini;
c) coordinare in un'unica "campagna-quadro" diverse campagne gia' attive
(per esempio Campagna di obiezione alle spese militari e Campagna di
pressione sulle banche armate);
d) associare al rifiuto della politica militare del nostro paese e della
Nato una scelta positiva di nonviolenza attraverso una serie di impegni (o
opzioni) personali che vanno dalla formazione ed educazione alla pace ed
alla nonviolenza all'obiezione di coscienza attiva all'interno delle
campagne in corso, dalle azioni nonviolente al consumo critico e
all'economia sostenibile e nonviolenta.
Si tratta di una campagna complessa e ambiziosa, inedita nel nostro paese,
che va nella direzione giusta, ossia di opposizione individuale e di
coscienza, permanente e fattiva, strutturale e coordinata all'intero sistema
di guerra.
La Segreteria operativa della Campagna e' presso il Centro Sereno Regis di
Torino. A Reggio Emilia si possono avere informazioni e materiali presso il
Movimento Nonviolento e il locale nodo della Rete Lilliput (4).
*
Ma quando scoppia la guerra, nonostante tutti gli sforzi preventivi, come
opporsi efficacemente ad essa?
A questa domanda Peppe Sini, nel n. 233 de "La nonviolenza e' in cammino",
foglio telematico di approfondimento del Centro di ricerca per la pace di
Viterbo, forniva,  tra le altre, le seguenti indicazioni (era in
preparazione la guerra all'Afghanistan):
"- Preparandoci all'azione diretta nonviolenta.
Per contrastare la guerra praticamente, operativamente, e non solo
simbolicamente, non solo a chiacchiere.
L'azione diretta nonviolenta contro la guerra o e' concreta o non e'.
Questo richiede una preparazione rigorosa, training di formazione,
un'autentica persuasione alla nonviolenza, la profonda introiezione dei suoi
valori, lo studio sistematico delle sue tecniche.
Ed occorre essere intransigenti nello stabilire che ad una azione diretta
nonviolenta contro la guerra possono partecipare solo le persone che hanno
fatto la scelta della nonviolenza, e che ad essa intendono attenersi fino in
fondo; gli altri, i non persuasi, non possono partecipare poiche' sarebbero
di pericolo per se' e per gli altri, e farebbero fallire irrimediabilmente
l'azione nonviolenta anche solo con una parola sbagliata.
- Preparando la disobbedienza civile di massa.
La quale disobbedienza civile e' una cosa seria che richiede serieta' di
comportamenti e piena responsabilita', consapevolezza e preparazione.
Essa e' quindi il contrario delle iniziative equivoche ed irresponsabili che
personaggi stolti e fin inquietanti hanno recentemente preteso di spacciare
sotto questa denominazione".
E concludeva: "Un movimento per la pace che non scelga la nonviolenza non e'
un movimento per la pace".
Anche a questo scopo, all'interno della Rete Lilliput si e' sviluppato il
progetto della costituzione dei Gruppi di Azione Nonviolenta (in sigla: GAN)
presso i nodi locali. Ossia della formazione teorica e pratica di gruppi di
lillipuziani all'azione diretta nonviolenta.
La diffusione di questi gruppi, i GAN, presso tutti i nodi della Rete
potrebbe portare nel giro di qualche anno alla diffusione, su quasi tutto il
territorio nazionale, di una rete di attivisti capaci di praticare, con
consapevolezza e preparazione, una lotta nonviolenta e intransigente contro
la macchina bellica.
Naturalmente la costituzione dei GAN non potra' avvenire a ridosso dei
preparativi di guerra, ma svolgersi per tempo, con lungimiranza ed in
maniera costante, perche' il tempo apparentemente "perso" in mesi e anni di
formazione - anche sul campo ed anche a scapito di attivita' apparentemente
piu' urgenti e contingenti - e' in realta' indispensabile ad una buona
riuscita delle azioni e, soprattutto, a farsi trovare pronti al momento
opportuno.
I GAN dentro la Rete Lilliput non nascono, naturalmente, solo in funzione
anti-guerra, ma con una serie di obiettivi che vanno dal condurre le
campagne per un'economia di giustizia con la tecnica delle azioni dirette
nonviolente, alla capacita' di attivare conflitti locali su questioni
globali, al disporsi come rete di "difesa popolare nonviolenta" nei
confronti di aggressori interni alle istituzioni democratiche.
A Reggio Emilia da circa un anno e' costituito il GAN che conduce una
formazione specifica, teorica e pratica, sul tema della trasformazione del
sistema dei trasporti per una mobilita' sostenibile e nonviolenta. E
considerato quanto incide il controllo delle risorse petrolifere nelle
guerre imperiali degli USA (6), anche questo e' un impegno di lunga lena
sulle cause profonde delle guerre presenti e future (7).
Ma qui si apre un altro capitolo.
*
Note
1. Vedi Philip S. Gloub Le tentazioni imperiali degli Stati Uniti in le
monde diplomatique/il manifesto n.8/9 sett.2002;
2. Johan Galtung, Ambiente, sviluppo e attivita' militare, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1984.
3. "Quaderni Satyagraha. Il metodo nonviolento per trascendere i conflitti e
costruire la pace", Centro Gandhi,  Pisa (per contattare la redazione:
e-mail: pdpace at interfree.it).
4. Movimento Nonviolento c/o Pasquale Pugliese, tel. 0522434767, e-mail:
puglipas at interfree.it; Rete Lilliput, c/o Mag 6, via Vittorangeli 7/d,
Reggio Emilia.
5. Sul sito del Movimento Nonviolento, www.nonviolenti.org, e' consultabile
l'archivio, quotidianamente aggiornato.
6. Vedi, per esempio, Michael T. Klare, Guerra e petrolio, in
"Internazionale", n. 455, settembre 2002.
7. Per informazioni e contatti: Resistenza e pace, e-mail:
ass-rep at libero.it; Movimento Nonviolento (sito: www.nonviolenti.org) e Rete
Lilliput (sito: www.retelilliput.org).

2. MAESTRE. CORNELIA DELL'EVA INTERVISTA ROSEMARY LYNCH
[Dal fascicolo di febbraio 2001 di "Sempre", mensile dell'Associazione
comunita' papa Giovanni XXIII (redazione: vicolo parallela 29/A, 37045
Legnago (Vr), tel. 044225174, fax 044225132), riprendiamo questa intervista
a suor Rosemary Lynch, una delle grandi protagoniste della nonviolenza]
Minuta e fragile nell'aspetto ma non certo nel temperamento, suor Rosemary,
francescana dell'Arizona, racconta i suoi 83 anni vissuti da protagonista
del movimento nonviolento americano per la difesa dei diritti umani e della
"madre Terra".
Nata in Arizona 83 anni fa, suor Rosemary Lynch non e' stanca di
testimoniare la sua appartenenza all'ordine francescano. Dopo il noviziato
ha insegnato per diversi anni ed ha diretto alcune scuole dell'ordine. Nel
1960 e' stata eletta membro del Capitolo generale dell'ordine, ed ha vissuto
a Roma gli anni ricchi di speranza del Concilio Vaticano II. "La mia
educazione e' cominciata con l'arrivo in Europa - racconta oggi - quando ho
conosciuto gli Stati Uniti dall'esterno. Vivevo immersa nel mito americano,
ed e' stato uno shock scoprire come il mio paese veniva visto all'estero: un
paese che opprimeva, che sfruttava; non potevo credere ai miei occhi".
Suor Rosemary ha viaggiato molto, visitando l'Africa e l'America Latina, e
vivendo in Polonia ed Indonesia, prima di tornare negli Stati Uniti,
precisamente a Las Vegas. Qui inizia, alla fine degli anni '70, l'avventura
che la impegna per diversi anni: scopre infatti che poco lontano da Las
Vegas si svolgono gli esperimenti nucleari ordinati dal governo americano.
Con un gruppo formato da suore francescane e abitanti della zona inizia una
protesta nonviolenta, che ben presto attira l'attenzione dei mass media di
tutto il mondo.
Oggi suor Rosemary guarda al passato con la soddisfazione di aver portato
avanti la logica francescana basata sulla nonviolenza, e spera in un futuro
che sappia recuperare questa eredita'.
- Cornelia Dell'Eva: Suor Rosemary, dalla sua storia emerge il volto
nonviolento degli Stati Uniti, un aspetto della grande potenza mondiale di
cui si parla poco.
- Rosemary Lynch: Effettivamente degli USA si parla sempre in riferimento
all'economia, alla politica, alla bellicosita'. Ma esiste un'altra faccia di
questo grande paese: e' un ricettacolo di persone che provengono da tutti
gli angoli del mondo e che hanno la forza di vivere insieme senza perdere la
propria identita'. Non e' cosa facile, e le tensioni certo non mancano.
Accanto a chi cavalca i disagi e li strumentalizza esiste pero' una gran
quantita' di gruppi ed associazioni che desidera fortemente un cambiamento.
Nonostante ci sia una forte tendenza bellica, che le ultime elezioni hanno
messo in evidenza, sento crescere tra la gente la ricerca del bene e della
giustizia. La sfida per il prossimo millennio e' quella di riuscire a
coordinare tutte queste persone e formare un vero e proprio movimento della
nonviolenza. Non sara' semplice, visto che oggi mancano veri e propri
leader, come furono Martin Luther King o Cesar Chavez; non vedo, nel
panorama statunitense e neppure a livello mondiale, dei personaggi che
potrebbero fungere da punto di riferimento per il popolo della pace.
Qualcosa, comunque, si muove, e non e' detto che la mancanza di un leader
sia negativa: probabilmente sara' lo stimolo per percorrere strade nuove,
ancora da inventare.
- C. D'E.: Se guardiamo al passato, gli Stati Uniti hanno avuto importanti
leader nonviolenti. Lei ha conosciuto in particolare Dorothy Day cosa
ricorda di questa amicizia?
- R. L.: Ho conosciuto Dorothy Day in occasione di una conferenza alla quale
dovevamo partecipare entrambe. Le ho telefonato per mettermi d'accordo sui
temi da trattare, e subito ho capito che si trattava di una persona di
grande integrita', attenta ai particolari. Visto che le mie telefonate
diventavano troppo frequenti e lunghe, mi invito' a scriverle: le lettere
permettevano, secondo lei, di esprimersi con maggiore profondita',
prendendosi il tempo per pensare a cio' che si voleva dire; inoltre era
inutile sperperare tanto denaro in telefonate. Dorothy aveva scelto di
dedicare la sua vita ai poveri, e come loro voleva vivere in semplicita',
senza possedere nulla. Quando mori' si diceva che avrebbe acconsentito a
seguire Gesu' in Paradiso solo se lui fosse stato vestito di stracci. Non
tutti potevano capire la sua scelta. Sua figlia, ad esempio, non volle avere
nulla a che fare con lei per molto tempo. Ma nonostante questo ed altri
dolori, Dorothy rimase sempre fedele a se stessa. Si puo' dire che il
movimento nonviolento negli Stati Uniti sia nato con lei. Della sua
incredibile esperienza rimane ancor oggi il "Catholic Worker", un giornale
al servizio dei poveri fondato da Dorothy e distribuito per le strade al
prezzo di un cent. C'e' chi vorrebbe vederla beata, ed ha cominciato a
raccogliere documenti per avviare la causa di beatificazione, ma io non
credo che ne sarebbe contenta. Ha sempre rifiutato ogni onore da viva,
figuriamoci se sopporterebbe di vedersi beatificare. Oltretutto il suo
rapporto con la Chiesa istituzionale non era dei migliori... Dorothy veniva
da una tradizione famigliare non cristiana: suo padre era un importante
punto di riferimento del partito comunista, e lei, fin dalla giovinezza,
milito' in diversi gruppi anarchici. Si avvicino' al cattolicesimo grazie ad
un'amica. Fu una scelta che pago' a caro prezzo: il suo compagno, a cui
resto' intimamente legata per tutta la vita, la lascio'. Nei confronti della
Chiesa ufficiale e' sempre stata molto critica, ma anche nell'esprimere il
suo disappunto per certe scelte, decise di rimanere fedele all'ideale
nonviolento: esercitava nei confronti di vescovi e prelati la sua
compassione, dicendo la sua opinione con fermezza ma senza rabbia o rancore.
A chi le chiedeva dei suoi rapporti con le gerarchie ecclesiastiche
rispondeva che "la Chiesa e' la croce sulla quale Gesu' viene crocifisso
tutti i giorni", e visto che "e' impossibile immaginare Gesu' senza la sua
croce", era necessario dialogare anche con quei signori.
- C. D'E: Allo stesso modo lei, nelle manifestazioni contro i test nucleari
nel deserto del Nevada, scelse la strada della disobbedienza civile e della
nonviolenza attiva.
- R. L.: Esattamente. In quel periodo, un periodo fantastico della mia vita,
eravamo in molti ad essere sulla stessa lunghezza d'onda. Tutto e'
cominciato nel 1977: vivevo a Las Vegas, e scoprii che la' vicino c'era il
cosiddetto Nevada Test Site. Si trattava di una superficie immensa (1350
miglia quadrate) di deserto, destinata a subire i test nucleari decretati
dal governo americano. A partire dal 1951 per oltre 90 volte le esplosioni
atomiche avevano scosso quella parte di deserto. Una larga fetta di
quest'area e' gia' stata chiusa e dichiarata contaminata per un periodo di
tempo stimato intorno ai 25 mila anni. Era una situazione inaccettabile,
tenuta prudentemente nascosta dal governo statunitense. Il popolo americano
non ne sapeva nulla, e gli stessi abitanti della zona venivano sapientemente
tranquillizzati dai tecnici, che garantivano l'immunita' dalle radiazioni e
misure di sicurezza eccellenti. Noi decidemmo di intervenire, ed
organizzammo semplici veglie di preghiera nelle vicinanze dei cancelli del
NTS. Con il passare del tempo imparammo a superare i cancelli della base di
esperimenti atomici e portammo la nostra testimonianza silenziosa nel
deserto radioattivo. Siamo stati piu' volte arrestati per questo, ma mai ci
siamo lasciati andare alla rabbia. Siamo riusciti a creare un rapporto di
amicizia anche con i poliziotti che, di tanto in tanto, ci ammanettavano.
Testimoniando la pace siamo riusciti a far capire a molti di loro che
abbiamo tutti la stessa Madre Terra, e che non si puo' violarla.
- C. D'E.: Quali sono le altre persone che l'hanno accompagnata nelle sue
scelte?
- R. L.: In quegli anni era forte la testimonianza di Thomas Merton. Non
l'ho conosciuto personalmente, ma era un personaggio molto popolare in
quegli anni negli Stati Uniti e le sue parole echeggiavano in ogni singolo
Paese. "Il deserto - diceva parlando degli esperimenti nucleari - e'
divenuto il luogo di una nuova terribile creazione, il terreno di prova di
un oscuro potere attraverso cui gli uomini tentano di annientare cio' che
Dio ha benedetto". Accanto a lui mi piace ricordare Cesar Chavez, una vita
impegnata a favore dei braccianti che dal Messico arrivavano in California
in cerca di lavoro e vivevano in condizioni disumane. Cesar provo' in tutti
i modi a parlare coi datori di lavoro ma, visto che la sua voce rimaneva
inascoltata, organizzo' in maniera esemplare il boicottaggio dell'uva e del
vino della California. Noi suore francescane aderimmo senza riserbo; per
anni non toccammo un acino di uva provenente da quelle zone.
- C. D'E.: Oggi, a distanza di piu' di vent'anni, cosa le sembra sia rimasto
di quest'esperienza?
- R. L.: Sicuramente non siamo riusciti a cambiare il mondo. Gli esperimenti
nucleari esistono ancora, ma credo che grazie ad azioni come la nostra, la
gente sia ora piu' informata. E' importante che i giornali parlino di tutto
cio' che avviene nel mondo, senza tralasciare i particolari scomodi per
governanti o economisti. Al di la' di questo, credo che l'esperienza del
Nevada abbia cambiato molte persone: noi avevamo deciso di rivolgerci ai
singoli, e questo metodo ha dato i suoi frutti. Molti poliziotti venuti per
arrestarci, molti giudici chiamati a condannarci, sono rimasti colpiti da
cio' che raccontavamo ed hanno cambiato lavoro. Molte persone hanno capito
che la guerra e la militarizzazione sono velenose per il paese e per il
mondo. Nel periodo delle veglie nel deserto siamo riusciti ad entrare in
contatto anche con gli indiani che un tempo abitavano quelle zone. Erano
praticamente sotto shock per quello che stava avvenendo, e non hanno esitato
ad affiancarci nella preghiera e nella lotta. Anche questo e' stato molto
importante e ci ha arricchiti: conoscere il rispetto con il quale gli
indiani si avvicinano alla Terra ci ha dato un motivo in piu' per
perseverare. Abbiamo scoperto inoltre la grande sintonia che lega il
messaggio francescano di amore per tutte le creature e la cosmologia delle
popolazioni indigene. E' stato sorprendente.
- C. D'E.: L'inizio del terzo millennio ci impone una riflessione sul
futuro; la nonviolenza, secondo lei, sapra' essere una risorsa anche nei
prossimi decenni?
- R. L.: Recentemente un grande storico americano ha pronosticato che il
seme della nonviolenza crescera' e sara' l'eredita' che il ventesimo secolo
consegnera' al nuovo millennio. Io credo che la nonviolenza abbia ancora
molto da dire e che i movimenti che vanno formandosi in questi anni abbiano
molto da dare. Certo e' che questi metodi non producono risultati immediati:
ci vuole pazienza, ci vuole tempo per far crescere le cose. Le popolazioni
indigene del continente americano hanno molto da insegnarci: ricordo che mi
impressiono' sapere che per catturare un'aquila gli indiani seguivano un
rito che poteva durare diverse settimane; dovevano purificarsi, conoscere la
preda e spiegarle perche' la sua morte era necessaria. Oggi e' forse piu'
difficile "prendersi il tempo", ma ritengo sia il primo passo da fare per
poterci incamminare pacificamente lungo la storia che ci attende.

3. MAESTRE. JUDITH MALINA RICORDA DOROTHY DAY
[Il brano seguente abbiamo ripreso da "A. Rivista anarchica" n. 254 del
maggio 1999 (in rete nel sito, eccellente, www.anarca-bolo.ch/a-rivista; per
contatti: e-mail: arivista at tin.it). Esso e' un estratto dal libro di
Cristina Valenti, Conversazioni con Judith Malina. L'arte, l'anarchia, il
Living Theatre, Eleuthera, Milano 1995, pp. 112-119. La rivista presenta i
brani di conversazione qui riportati con una nota introduttiva di Cristina
Valente, che riproduciamo qui di seguito: "Nel 1955, l'anno a cui si
riferisce il brano che segue, Judith Malina aveva fondato da otto anni
insieme a Julian Beck il Living Theatre a New York, e da un anno aveva
aperto il piccolo spazio del Loft Theater in One Hundredth St., dove stavano
provando Phedre. Nello stesso periodo fu Jackson Mc Low (interprete di
Teramene in Phedre), attore e poeta anarchico che gia' aveva introdotto
Julian Beck e Judith Malina nel gruppo anarchico Resistance, ad avvicinarli
alle iniziative pacifiste dei War Resisters e del Catholic Worker. Fu
seguendo Jackson Mc Low che Judith Malina partecipo' nel giugno 1955, presso
il City Hall Park di New York, a una dimostrazione pacifista contro le
esercitazioni in caso di incursione aerea, che consisteva nel rifiutare di
"mettersi in salvo" al suono delle sirene. In questa occasione Judith Malina
conobbe Dorothy Day, con la quale fu arrestata e incarcerata una prima volta
(un piu' lungo periodo di detenzione, sempre per un episodio di
"disobbedienza civile", l'avrebbe trascorso con Dorothy Day due anni piu'
tardi). "Santa Dorothy delle Strade" la chiama Judith in una poesia; e
Julian scrive di lei che fu accusata di tradire la causa dei poveri quando
rifiuto' di ricevere finanziamenti dalla Fondazione Ford perche' quel denaro
era sporco. Con Dorothy Day e con il Catholic Worker Julian Beck e Judith
Malina strinsero un'intensa collaborazione per iniziative pacifiste, e in
particolare promossero uno Sciopero Generale per la Pace nel 1961 che Judith
continua a ricordare come uno dei progetti piu' importanti della sua vita.
Judith Malina ricorda Dorothy Day nei suoi Diari e nel volume di
Conversazioni da cui e' tratto il brano che segue come una delle persone che
maggiormente hanno contato nella sua vita" (Cristina Valenti)]
- Judith Malina: Al mio primo arresto ebbi il grande privilegio di essere
messa in cella con questa grande donna. Dorothy Day aveva fondato il
Catholic Worker molti anni prima e viveva una vita di poverta' volontaria
fra i piu' poveri dei poveri.
- Cristina Valenti: Dorothy si definiva anarchica?
- J. M.: Si', assolutamente anarchica, e una buona anarchica anche. Il
concetto di anarchismo cattolico ovviamente e' inconcepibile per molti,
perche' implica una contraddizione fra obbedienza e disobbedienza. Dorothy
praticava la disobbedienza civile in nome del cattolicesimo. A quei tempi a
New York c'era un arcivescovo molto rigido e intollerante e, a quanti le
chiedevano se pregasse per lui, Dorothy rispondeva: "Si', prego per lui
perche' non ha posto ostacoli al Catholic Worker, che ha l'imprimatur della
Chiesa, e prego perche' non voglia ostacolarci in futuro". I cattolici
trovarono molto di che discutere con lei circa il suo modo anarchico di
accettare l'autorita' della Chiesa. Il suo lavoro di carita' era molto
conosciuto. Una volta le ho chiesto: "Fra quelli che vivono nella casa di
accoglienza quanti sono del Catholic Worker e quanti i senzatetto?" e lei ha
risposto: "Non ho notato la differenza". Dorothy si rifiutava di fare
distinzioni fra i poveri, gli ubriaconi, i miserabili e i disoccupati che
arrivavano per un piatto di minestra e la gente che la minestra la cucinava;
d'altra parte accadeva spesso che chi arrivava facesse anche la minestra,
cosi', in effetti, non si potevano fare grandi differenze.
- C. V.: Com'era la vostra vita in carcere, quale fu il vostro rapporto con
le detenute?
- J. M.: La Women's House of Detention era una prigione che sorgeva proprio
nel mezzo del Greenwich Village, il quartiere piu' vivace e artistico di New
York (...). Era un carcere molto sovraffollato nel periodo in cui eravamo
dentro noi: poteva contenere circa 400 donne e ce n'erano 900. Io ero in una
cella in cui c'era un letto e un piccolo materassino che veniva estratto da
sotto il letto, dopo di che non ci si poteva nemmeno camminare attorno.
E delle 900 donne la' dentro credo che 800 fossero prostitute e 700
tossicodipendenti. (...) E la' ho visto Dorothy incontrare queste persone
senza speranza in un modo cosi' incredibile, semplice e diretto, che mi ha
fatto imparare moltissimo della vita, del sistema delle classi, dei nostri
obblighi gli uni verso gli altri, e di me stessa.
E questa popolazione carceraria mi ha spinto a nutrire una speranza concreta
nelle possibilita' dell'anarchismo. Quando si toccano questi argomenti ci si
sente sempre chiedere: "Cosa avresti intenzione di fare con le persone
realmente cattive?". Il fatto e' che non lo sono: non lo erano neanche
quelle che stavano scontando crimini orrendi, come la giovane donna che ci
ha sfidato una volta - eravamo nella nostra cella, durante l'ora di
attivita', quando le celle sono aperte ed e' consentito parlare con le
detenute del proprio corridoio, e tutte venivano a parlare con Dorothy
perche' era meraviglioso parlare con lei - e questa donna disse: "Senti, io
ho ucciso cinque persone, cosa vorresti fare con gente come me?". E Dorothy
seppe rispondere in un modo che le disarmo' tutte, compresa la donna che
aveva ucciso cinque persone. Dorothy disse: "Come e' stato che hai ucciso
tante persone? Cosa e' successo? Raccontaci la tua storia".
Dorothy mi rimproverava spesso. Mi diceva: "Judith, non devi pensare di
poter risolvere i problemi di tutti, puoi desiderarlo, ma e' una cosa senza
speranza". E questo era oggetto di discussioni continue fra di noi. Io
sentivo di doverci provare e lei diceva: "No, ognuno deve risolvere i propri
problemi". Ma io non mi rassegnavo: "Voglio porre le condizioni perche'
tutti risolvano i loro problemi". "Perche' credi di poterlo fare?".
"Risolvero' i problemi di tutti". Un altro motivo di discussione frequente
fra di noi riguardava l'inferno. Ho scritto una poesia su questo, credo che
tu la conosca, sul fatto che l'inferno deve essere vuoto se e' vero che Dio
e' tutto misericordia [Whose Mercy Endures Forever, poesia dedicata a Paul
Goodman e Dorothy Day, in J. Malina, Poems of a wandering Jewess, Paris,
Handshake Editions, 1982, pp. 22-23. Nota di C. V.]. Discutevamo di queste
contraddizioni, della contraddizione fra il bene e il male nel cuore umano e
nella societa', del nostro desiderio di cambiare il mondo e noi stessi e del
fatto che invece dovevamo aspettare il momento in cui saremmo state in grado
di raccogliere le forze necessarie per farlo.
- C. V.: Dalle pagine del tuo diario emerge un'immagine molto bella: la
giovane Judith osserva la canuta Dorothy, l'ascolta, vede come si comporta e
prende nota di tutto. Nei lunghi tempi del carcere anche l'attenzione sembra
dilatarsi, insieme alla disponibilita' a capire, ad osservare. E
l'insegnamento di Dorothy non e' mai dichiarato, ma prende forma nel corso
dell'esperienza, pian piano, di pari passo col dispiegarsi di quella.
- J. M.: La cosa piu' importante che ho imparato da Dorothy in quella
situazione e' che e' possibile, per chi e' anarchico e pacifista, occuparsi
delle persone in modo completamente differente, avere con loro un tipo di
relazione umana, anche all'interno di un carcere pieno di violenza. Nei miei
Diari ci sono molte storie di violenza. C'era un enorme serbatoio di rabbia,
di collera e di odio la' dentro; e la nostra presenza era quella di un
piccolo gruppo che introduceva un altro tono e un altro livello di dialogo
in una situazione in cui tutto cio' sembrava assolutamente incomprensibile.
E voglio ricordare almeno un'altra donna, Deane Mowrer, un'anarchica che era
stata arrestata con noi e che pure esercito' su di me un'influenza
meravigliosa. Anche la nostra relazione con le guardie fu interessante... Il
carcere e' un microcosmo incredibile, dove le guardie sono chiaramente la
classe degli oppressori e il rapporto con loro e' insieme di odio e
dipendenza: le temiamo, ci arrabbiamo, e nello stesso tempo dipendiamo da
loro, in una forma che non e' altrettanto evidente nella societa' esterna. E
Dorothy mostrava alle detenute un modo diverso di rapportarsi col potere
dell'autorita': mostrando resistenza ma senza un atteggiamento di odio,
sapendo opporre il proprio "no" senza rabbia, ma con la fermezza delle
proprie posizioni nei confronti di un altro essere umano. Questa e' stata
certamente una delle lezioni anarchiche che ho appreso da lei. Un'altra e'
stata quella del mutuo appoggio fra detenuti. (...) Io credo che le persone,
quando sono costrette a subire dolorose forme di violenza, rispondano
aiutandosi reciprocamente, in quel modo che noi anarchici consideriamo
naturale. E con la guida di una persona come Dorothy, che conosceva assai
bene i principi base dell'anarchismo classico, queste forme di reciproca
solidarieta' si ampliarono, senza bisogno che noi parlassimo di anarchismo:
parlavamo di come vivere nel mondo, parlavamo soprattutto delle loro
sofferenze, perche' queste erano le cose di cui si doveva parlare.
In quel carcere Dorothy ci ha fatto capire come sia possibile ottenere
grandi risultati, a livello pratico e a livello ideale, a partire da una
qualita' diversa dei rapporti fra le persone. (...).
- C. V.: E' persino paradossale che due persone che rappresentavano modelli
femminili cosi' differenti, come te e Dorothy Day, abbiano pero' trovato,
nel profondo, delle affinita' cosi' grandi. Dorothy che, a un certo punto
della sua vita, ha scelto la pratica della castita', e tu che hai sempre
lottato per la liberazione sessuale e la realizzazione totale
dell'individuo. Eppure entrambe avevate scelto di non sottomettere il vostro
progetto di vita alle condizioni poste dal vostro sesso o alle convenzioni
sociali o alle norme stabilite.
- J. M.: Abbiamo parlato molto di queste cose e, rispetto alla questione
della liberazione sessuale, lei diceva che il problema non e' quello che poi
si va all'inferno, ma che si soffre, perche' non funziona. Dorothy aveva
molta esperienza di amore libero. Il problema era, secondo lei, che se si
cerca il paradiso in terra si trova l'inferno; e su questo naturalmente non
ero d'accordo con lei. Noi eravamo in una casa di detenzione con centinaia
di donne che praticavano l'amore libero... non era amore libero, in effetti,
ma fatto di dolore e sofferenza. (...) E l'unica felicita' che trovavano -
erano in molte a dirlo - era quando venivano messe in cella con una donna
che amavano e con la quale avevano una relazione omosessuale non piu' basata
sulle orribili umiliazioni che vivevano fuori. Questo era il loro piu'
grande desiderio e la loro consolazione reciproca.
Dorothy si interessava alla loro sofferenza senza esprimere un giudizio
morale. Sul piano sessuale, riteneva che la castita' fosse il miglior modo
di vivere per chi non avesse un marito. Per quanto la riguardava, diceva che
sarebbe forse stata piu' felice se avesse trovato un uomo da amare e con cui
vivere una normale vita familiare. Ma anche se era a favore della castita'
non la predicava certo alle prostitute. Con loro parlava piuttosto di come
trovare la forza per opporsi al potere dei loro magnaccia, perche' era
questo il loro problema: erano nelle mani di uomini che le maltrattavano e
dei quali di solito erano innamorate. Questo amore per chi ti fa del male,
questo desiderio masochistico di protezione era la cosa di cui parlava di
piu', perche' aveva un'utilita' pratica. Se solo fossero state in grado, una
volta ritornate ciascuna alla propria vita, di guardare le cose e le persone
in modo differente, comprendendo piu' chiaramente gli aspetti terribili dei
loro rapporti, allora forse ci sarebbe stata qualche speranza che la loro
sofferenza potesse per lo meno diminuire. Quello che Dorothy cercava di dar
loro era una piccola forza morale, una forza interiore che le aiutasse a
sopportare quelle condizioni di vita. E quando mi rimproverava perche'
cercavo di risolvere i loro problemi era perche' non potevo riuscirci. Io
volevo che smettessero di fare le prostitute, ma questo non era un consiglio
pratico e probabilmente non era nemmeno alla portata della maggior parte di
loro. Certo, noi parlavamo della possibilita' di soluzioni alternative, dal
punto di vista economico, personale e domestico. Ma d'altra parte la loro
storia la conoscevamo: al momento di uscire dal carcere avrebbero ricevuto
venticinque cents, qualcosa come poche migliaia di lire, e l'Esercito della
Salvezza avrebbe dato un vestito nuovo a ciascuna. Un vestito nuovo e poche
migliaia di lire: cosi' se ne sarebbero andate a riprendere la vita che
avevano lasciato. (...).

4. MEMORIA. NORBERTO BOBBIO COMMEMORA ERASMO DA ROTTERDAM
[La seguente commemorazione di Erasmo da Rotterdam fu tenuta nel 1996 da
Norberto Bobbio all'Universita' di Torino, in cui Erasmo si laureo'; il
testo di essa apparve in versione parziale sul quotidiano "La stampa", ed in
versione integrale nell'eccellente mensile torinese "Il foglio", nel n. 231
del luglio 1996. Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti:
peyretti at tiscalinet.it) per averci trasmesso queste parole che un grande
maestro di cultura, di diritto e di impegno civile ha dedicato al principe
degli umanisti, fondatore dell'impegno pacifista nell'eta' moderna. Norberto
Bobbio e' nato a Torino nel 1909, antifascista, filosofo della politica e
del diritto, e' autore di opere fondamentali sui temi della democrazia, dei
diritti umani, della pace. E' uno dei piu' prestigiosi intellettuali
italiani del Novecento. Opere di Norberto Bobbio: per la biografia (che si
intreccia con decisive vicende e cruciali dibattiti della storia italiana di
questo secolo) si vedano il volume di scritti autobiografici De Senectute,
Einaudi, Torino 1996; e l'Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997; tra i suoi
libri di testimonianze su amici scomparsi (alcune delle figure piu' alte
dell'impegno politico, morale e intellettuale del Novecento) cfr. almeno
Maestri e compagni, Italia civile, Italia fedele, tutti presso l'editore
Passigli. Per la sua riflessione sulla democrazia cfr. Il futuro della
democrazia; Stato, governo e societa'; Eguaglianza e liberta'; tutti presso
Einaudi. Sui diritti umani si veda L'eta' dei diritti, Einaudi. Sulla pace
si veda Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, varie
ristampe; Il terzo assente, Sonda, Torino 1989; Una guerra giusta?,
Marsilio, Venezia 1991; Elogio della mitezza, Linea d'ombra, Milano 1994. A
nostro avviso indispensabile e' anche la lettura di Politica e cultura,
Einaudi; Profilo ideologico del Novecento, Garzanti; Teoria generale del
diritto, Giappichelli. Di Bobbio recentemente e' stato pubblicato il
volume-conversazione con Maurizio Viroli, Dialogo intorno alla repubblica,
Laterza, Roma-Bari 2001. Opere su Norberto Bobbio: segnaliamo almeno Enrico
Lanfranchi, Un filosofo militante, Bollati Boringhieri, Torino 1989; Piero
Meaglia, Bobbio e la democrazia: le regole del gioco, Edizioni cultura della
pace; S. Domenico di Fiesole (Fi) 1994; Tommaso Greco, Norberto Bobbio,
Donzelli, Roma 2000]
Chi entra nel cortile di questo palazzo e percorre l'ala sinistra del
porticato per accedere allo scalone che lo porta in questa aula non puo'
fare a meno di imbattersi in una grande lapide di marmo, murata piu' di
cento anni fa (1876), in cui si legge che Erasmo da Rotterdam ebbe il titolo
di dottore in teologia in questa Universita' il 4 di settembre del 1506.  E
non puo' non essere colto da un moto di sorpresa nel trovare accostati i due
nomi del grande Erasmo e della piccola citta' di Torino (aveva allora poche
migliaia di abitanti) con la sua sconosciutissima e tutt'altro che vetusta
Universita', che, come ha scritto Luigi Firpo (che all'episodio della laurea
erasmiana ha dedicato una dottissima narrazione), era "poco frequentata e
deserta di docenti illustri", "modesta scuola di provincia, piuttosto
corriva nel concedere titoli dottorali".
Nel 1506 Erasmo aveva 37 anni. Aveva.gia' scritto una delle sue opere che lo
renderanno famoso, l'Enchiridion Militis Christiani. Il viaggio in Italia
per visitarvi le principali citta', conoscere i dottori piu' famosi,
frequentare le celebri biblioteche, era una sua vecchia aspirazione, che per
diverse circostanze sfortunate era stato costretto piu' volte a rinviare.
Questa volta, nel suo soggiorno inglese, l'occasione gli era stata offerta
da un genovese autorevole, Giovan Battista Boeri, che era medico del re
d'Inghilterra. Questi gli aveva affidato i suoi due figli perche' li
accompagnasse nel viaggio in Italia. La partenza da Londra avvenne ai primi
di giugno del 1506; attraverso la Francia, con una lunga tappa a Parigi,
sosta a Lione, traversata delle Alpi per il colle del Moncenisio, Erasmo
arrivo' a Torino alla fine di agosto. La discussione su vari temi teologici
si svolse il 4 settembre nel Palazzo dei Vescovo, alla presenza di un
collegio giudicante di teologi dell'Universita', che lo dichiararono "idoneo
e sufficiente" a ottenere il titolo di dottore. La ragione principale per
cui Erasmo si addottoro' nell'oscura Universita' torinese, anziche' in
quella illustre di Bologna verso la quale era diretto, pare sia stata la
opportunita', fattagli presente da alcuni amici, di avere un titolo di
dottore, comunque, il piu' presto possibile, prima di presentarsi ai dottori
che avrebbe voluto incontrare. Scendendo in Italia dalla Francia, la nostra
citta' fu la prima che egli trovava sul suo cammino. Scrisse piu' tardi che
aveva ricevuto il dottorato in teologia "contro voglia e sospinto dagli
amici". Firpo osserva con malizia che nelle lettere in cui parla della
laurea conseguita non indica mai il nome dell'Universita' di Torino. Si
consolino pero' i torinesi qui presenti. In una lettera di molti anni piu'
tardi (2 aprile 1533, pochi anni prima della morte) scrivera': "A Torino mi
piaceva la straordinaria cortesia (humanitas) della popolazione".
Il soggiorno di Erasmo in Italia duro' tre anni.  Tanto amo' l'Inghilterra,
paese in cui gli piaceva vivere, patria di Tommaso Moro, tanto poco amo'
l'Italia e meno ancora gli italiani: il soggiorno in Italia negli anni delle
gesta del bellicoso Giulio II, gli suggeri' non pochi argomenti per l'Elogio
della pazzia, che pubblico' nel 1511. Detestava l'arroganza dei dotti che
consideravano barbari tutti gli altri popoli, in specie i Romani "che van
sognando, nella maniera piu' spassosa, le glorie dell'antica Roma". Non
mancano peraltro anche giudizi qua e la' lusinghieri, su Venezia, per
esempio.
Erasmo, nonostante la sua cagionevole salute, viaggio' attraverso l'Europa,
soggiornando anche a lungo in vari paesi, ma non ne adotto' nessuno. La sua
lingua e' il Latino. L'unica sua patria - patria ideale cui aspira pur non
ignorando che e' piu' divisa che mai - e' l'Europa cristiana. Scrive: "Una
volta il Reno separava il Gallo dal Germano. Ora il Reno non separa il
cristiano dal cristiano". Altrove: "I Pirenei disgiungono gli spagnoli dalla
Francia, ma non dividono le comunita' della Chiesa. Il mare divide gli
inglesi dai francesi, ma non divide l'unita' della fede". La divisione in
nazioni separate e' incompatibile con l'universalita' del cristianesimo.
Scrive anche: "Ubi bene est, ibi patria est". E ancora "Se il nome di patria
serve a unire, ricordiamo che la patria comune e' il mondo".
Non e' ne' inglese ne' francese ne' tedesco, tanto meno italiano. E'
europeo. Europeo perche' cristiano. L'unica repubblica a cui ammette di
appartenere, e ne trae vanto, e' la repubblica di coloro che, in quanto
uomini di studi, si riconoscono, dialogano e disputano fra di loro, al di
sopra delle frontiere. Patriota di nessuna patria, attribuisce a se stesso
lo status di peregrinus, non quello di cittadino: "Ego mundi civis esse
cupio, communis omnium vel peregrinus".
Erasmo, principe della pace, come fu chiamato. Nel secolo in cui il problema
della pace ha due aspetti diversi. La pace religiosa e quella politica.
Entrambe, del resto, sono strettamente connesse l'una con l'altra: le
discordie religiose non sono mai disgiunte dalle lotte politiche e
territoriali, anzi sono con esse continuamente intrecciate.
I suoi scritti politici appaiono l'uno a breve distanza dall'altro in poco
piu' di un decennio, l'Elogio della pazzia nel 1511, il Dulce bellum
inexpertis (in volgare: "Chi loda la guerra non l'ha mai vista in faccia")
nel 1515 nella nuova edizione degli Adagia, l'Institutio principis
christiani nel 1516, dedicata al futuro Carlo V, la Querela pacis l'anno
dopo.
Il 1517 e' l'anno in cui Martin Lutero affigge le 95 tesi sulle porte del
duomo di Wittenberg. Nel decennio precedente si sono successe le imprese
guerresche in Italia di Giulio II, che lo indignano. Nel 1515 il giovane re
di Francia, Francesco I, invade l'Italia e vince la battaglia di Marignano.
Erasmo commenta: "C'e' forse una nazione ove non si sia combattuto
spietatamente in terra o in mare? Quale paese non s'inzuppo' di sangue
cristiano?".  Esclama: "O teologi senza lingua, o vescovi muti, che
assistete senza far motto a questo sfacelo dell'umanita'".
Due sono le ragioni della discordia che genera infelicita' e sofferenza
infinite: religiose e politiche. Il nemico della pace religiosa e' il
fanatismo, da cui nasce l'intolleranza delle idee altrui, l'ostinazione con
cui ognuna della parti sostiene con accanimento la propria verita', la
caparbieta' nel difenderla sino alla rottura irrimediabile di ogni tentativo
di dialogo ragionevole, fondato sullo scambio di argomenti, il rifiuto di
ogni invito alla pacata riflessione, alla mediazione fra tesi che non sono
sempre, come appare a un giudizio passionale, inconciliabili. Tema
ricorrente e' l'avversione per le sottili e futili dispute dei dotti, in
particolare dei teologi che tanto piu' accanitamente litigano fra loro
quanto piu' irrilevanti sono i temi della disputa.
Nella Querela pacis, la pace, come la follia nell'elogio della medesima,
parla in prima persona. Viaggia attraverso il mondo per trovare un angolo in
cui sia rispettata. Dopo averla invano cercata fra i principi, si rifugia
piena di speranza fra i dotti: "Quale pena!", esclama. Anche qui, un altro
genere di guerra, se pure non cruenta, ma non meno folle (insana). Non cessa
dallo sbeffeggiare le sottigliezze di cui costoro si compiacciono per il
gusto della disputa fine a se stessa. E pretendono di sputare sentenze
sull'universo mondo, costringendo i dissenzienti, quando ne hanno il potere,
a piegarsi alle loro stramberie.
Erasmo e' l'uomo della moderazione. La virtu' che egli apprezza, sopra ogni
altra, nei sovrani e nei grandi uomini, e' la mitezza (mansuetudo); cerca
nelle grandi idee e nei grandi uomini del passato piu' cio' che li unisce
che quello che li divide. Come accade alle persone che sono in continuo
dissidio con se stesse e non sono mai soddisfatte di se', sente il bisogno
di essere in armonia con gli altri. Disse di se' in terza persona: "Non
scrisse mai nulla di cui fosse soddisfatto, gli dispiaceva il suo stesso
aspetto, e solo le insistenza degli amici lo costrinsero a stento a farsi
ritrarre". Fu un uomo di dubbi piu' che di certezze, come conveniva al dotto
che non fu mai uomo d'azione. Alla fine del secolo, come attesta Giovanni
Botero, era diventato un modo corrente di dire per contrapporre Erasmo a
Lutero: "Erasmus dubitat, Lutherus asseverat".
Se il nemico della pace religiosa e' il fanatismo, il nemico della pace
politica e' l'ubris dei principi, la libido dominandi di cui parla Agostino,
oggi, dopo Nietzsche, diremmo la volonta' di potenza, da cui abbiamo appreso
a riconoscere quello che Gerhard Ritter ha chiamato il "volto demoniaco del
potere", considerandone capostipite Machiavelli contro Tommaso Moro, di
Erasmo amico per elettiva affinita'. Il fanatismo genera intolleranza, la
volonta' di potenza genera la guerra, che e' diventata, ma in realta' e'
sempre stata, la condizione permanente dei rapporti tra stati sovrani.
Questi, violando il principio fondamentale cui dovrebbe essere ispirata la
loro condotta, il perseguimento del bene comune e della felicita' dei loro
popoli, tendono a rendere il loro dominio non migliore ma maggiore. Tanto
piu' grave la trasgressione quanto piu' sono cristiani i principi che la
commettono.
Nel celebre adagio, gia' menzionato, Dulce bellum inexpertis, scrive: "La
nostra vita e' dominata dalla guerra. Non c'e' tregua. Imperversa tra le
nazioni ma non risparmia neppure i rapporti di parentela, non conosce
vincoli di sangue, mette fratelli contro fratelli, arma i figli contro il
padre", e, ignominia ancora piu' grande, "il cristiano contro il cristiano".
Erasmo e' assillato, ossessionato, tormentato da due pensieri che lo
perseguitano. Il primo riguarda la futilita' o frivolita' delle ragioni per
cui i sovrani sono disposti ad avventurarsi in guerre sanguinose. Ritorna il
tema della futilita', che e' follia e, come tale, l'opposto
dell'assennatezza, ma ben piu' grave per le conseguenze che ne derivano.
Questo tema anticipa anche uno dei topoi della letteratura pacifista del
futuro: la guerra come "capriccio dei principi". Il secondo pensiero si
rivolge alla guerra che imperversa nell'Europa cristiana, tra sovrani che
dovrebbero avere come somma guida il Vangelo. La guerra europea in quanto
combattuta tra principi cristiani diventa, agli occhi di Erasmo, una vera e
propria guerra civile (ricordo che "guerra civile europea" e' stata chiamata
non a caso anche la nuova guerra dei trent'anni (1914-1945) che ha sconvolto
il nostro secolo).
Nella Querela pacis Erasmo mette la civile concordia che regna fra gli
uomini all'interno della propria specie in contrasto con la belluinita'
degli uomini nei rapporti fra loro. Una delle sue massime preferite: "La
natura ha insegnato la concordia ma l'uomo vuole la discordia" (ma Kant
sosterra' la massima opposta: "L'uomo vuole la concordia ma la natura vuole,
per spingerlo a progredire, la discordia"). Nel suo vagabondaggio in cerca
di se stessa, la pace non solo apprende che ovunque c'e' guerra, ma che
ovunque ci sono anche i dottori che la giustificano. La teoria tradizionale.
da Agostino a Tommaso, della guerra giusta, non piace al principe della
pace. Il quale - affermazione scandalosa - ripete: "Meglio una pace ingiusta
che una guerra giusta". Se pure con qualche ambiguita', e' contrario alla
crociata contro i Turchi, bandita dal nuovo pontefice Leone X. Se volessimo
respingere i Turchi con la guerra - argomenta - ci faremmo noi stessi
Turchi. Correremmo il pericolo "Ut nos degeneremus in Turcis". Conclude:
anche se possa esserci nella guerra qualcosa di giusto, sarebbe ben
difficile trovarvi qualche cosa che non sia ispirato dalla collera, dalla
libidine, dalla ferocia, dall'avidita'.
Vi sono due forme di pacifismo: quello etico-religioso e quello
istituzionale o giuridico. Il pacifismo dell'autore del Lamento e' senza
ombra di dubbio il primo. Erasmo rifiuta l'ideale dantesco della monarchia
universale, che considera un ideale non di pace ma di guerra. Il pacifismo
istituzionale attraverso il diritto nascera' in Europa piu' tardi. L'unico
strumento giuridico che egli prevedeva era quello tradizionale
dell'arbitrato, ma ne attribuiva il compito non tanto ai principi quanto ai
vescovi e al papa. Il futuro della pace non puo' essere affidato, secondo
Erasmo, se non all'educazione del principe cristiano, il cui dovere
principale dovrebbe essere quello di difendere la pace interna e quella
esterna del proprio popolo. Nella Educazione del principe cristiano, che
egli scrive negli stessi anni in cui Machiavelli scrive Il Principe, che ne
e' l'antitesi, cosi' tratteggia le virtu' del principe cui e' affidato il
mantenimento della pace universale: magnanimita', temperanza, onesta'. E ne
indica i vizi che dovrebbe evitare: "Se vorrai entrare in gara con altri
principi, non ritenere di averli vinti perche' hai tolto loro parte del loro
dominio. Li vincerai veramente se sarai meno corrotto di loro, meno avaro,
arrogante, iracondo, precipitoso".
Negli stessi anni Machiavelli nel famoso cap.  XVIII del Principe scriveva,
al contrario: "Faccia dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: i
mezzi saranno giudicati onorevoli e da ciascuno laudati".
Il secolo di Erasmo era allora all'inizio. Non conobbe ne' la pace religiosa
ne' quella politica. Il sogno di Erasmo non si avvero'. Noi siamo alla fine
del nostro secolo e le due piu' grandi guerre nella storia dell'umanita', le
abbiamo alle spalle.  Non possiamo dire di essere "inexperti". Eppure anche
noi non siamo sicuri che quel sogno si avveri. Ma non e' necessario essere
sicuri, come non era Erasmo, per continuare a perseguirlo.

5. STRUMENTI. AMNESTY INTERNATIONAL: RAPPORTO ANNUALE 2002
Amnesty International, Rapporto annuale 2002, Edizioni cultura della pace,
S. Domenico di Fiesole (Fi) 2002, pp. 632, euro 18.000. Uno strumento di
lavoro indispensabile.

6. STRUMENTI. NESSUNO TOCCHI CAINO. LA PENA DI MORTE NEL MONDO. RAPPORTO
2002
Nessuno tocchi Caino, La pena di morte nel mondo. Rapporto 2002, Marsilio,
Venezia 2002, pp. 574, euro 15. Una lettura e un impegno necessari.

7. STRUMENTI. NORBERTO BOBBIO, NICOLA MATTEUCCI, GIANFRANCO PASQUINO:
DIZIONARIO DI POLITICA
Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino (a cura di),
Dizionario di politica, Utet, Torino 1983, 1990, Tea, Milano 1990, 1992, pp.
XIV + 1.244, lire 40.000. Utilissimo sempre.

8. STRUMENTI. LUCIANO GALLINO: DIZIONARIO DI SOCIOLOGIA
Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Utet, Torino 1978, 1993, Tea,
Milano 1993, pp. XVIII + 774, lire 38.000. Validissimo strumento di lavoro.

9. STRUMENTI. FRANCO VOLPI: DIZIONARIO DELLE OPERE FILOSOFICHE
Franco Volpi (a cura di), Dizionario delle opere filosofiche, Bruno
Mondadori, Milano 2000, pp. CXXVIII + 1.168, euro 38,73. Varie voci sono
autentiche gemme di finezza ermeneutica.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 402 del primo novembre 2002