pc: Il venditore di patate e la gabbia dei vecchi lupi



Corriere della Sera
Lunedì 24 Dicembre 2001
Lettera da Kabul
Il venditore di patate e la gabbia dei vecchi lupi

di TIZIANO TERZANI

KABUL - La vista è stupenda. La più bella che potessi
immaginarmi. Ogni mattina mi sveglio in un sacco a pelo
disteso sul cemento e qualche piastrella di plastica d'uno
stanzone vuoto all'ultimo piano del più alto edificio del
centro città e gli occhi mi si riempiono di tutto quel che un
viaggiatore diretto qui ha sempre sognato: la mitica corona
delle montagne di cui un imperatore come Babur, capostipite
dei Moghul, avendole viste una volta, ebbe nostalgia per il
resto della vita e desiderò che fossero la sua tomba; la valle
percorsa dal fiume sulle cui sponde è cresciuta la città a
proposito della quale un poeta, giocando sulle due sillabe del
nome Kabul in persiano, scrisse: «La mia casa? Eccola: una
goccia di rugiada fra i petali di una rosa»; il vecchio Bazaar
dei Quattro Portici dove, si diceva, è possibile trovare ogni
frutto della natura e del lavoro artigiano; la moschea di
Puli-i-Khisti; il mausoleo di Timur Shah. Il santuario del Re
dalle Due Spade costruito in onore del primo comandante
musulmano che nel Settimo secolo dopo Cristo, pur avendo già
perso la testa, mozzatagli da un fendente, continuò - secondo
la leggenda - a combattere con un'arma per mano, determinato
com'era ad imporre l'Islam, una nuova, aggressiva religione
appena nata in Arabia, ad una popolazione che qui, da più d'un
millennio, era felicemente indù e buddhista; e poi, alta,
imponente sulla cresta della prima fila di colli, proprio di
fronte alle mie vetrate, la Fortezza di Bala Hissar nella cui
Residenza hanno regnato tutti i vincitori e nelle cui galere
han languito, o sono stati sgozzati, tutti i perdenti della
storia afghana.
La vista è stupenda, ma da quando sono arrivato, più di due
settimane fa, con in tasca una lettera di presentazione per un
vecchio intellettuale, nella borsa una bibliotechina di
libri-compagni-di-viaggio e in petto un gran misto di rabbia e
di speranza, questa vista non mi dà pace. Non riesco a goderne
perché mai, come da queste finestre impolverate, ho sentito, a
volte quasi come un dolore fisico, la follia del destino a cui
l'uomo, per sua scelta, sembra essersi votato: con una mano
costruisce, con l'altra distrugge; con fantasia dà vita a
grandi meraviglie, poi con uguale raffinatezza e passione fa
attorno a sé il deserto e massacra i suoi simili.
Prima o poi quest'uomo dovrà cambiare strada e rinunciare alla
violenza. Il messaggio è ovvio. Basta guardare Kabul. Di tutto
quel che i miei libri raccontano non restano che i resti: la
Fortezza è una maceria, il fiume un rigagnolo fetido di
escrementi e spazzatura, il bazaar una distesa di tende,
baracche e container ; i mausolei, le cupole, i templi, sono
sventrati; della vecchia città fatta di case in legno
intarsiato e fango non restano, a volte in file di centinaia e
centinaia di metri, che dei patetici mozziconi color ocra come
sulla battigia le guglie dei castelli di sabbia costruiti da
bambini e subito espugnati dalle onde.
Tanti monumenti sono letteralmente scomparsi. L'enigmatico
Minar-i-Chakari , Colonna della Luce, costruito, fuori Kabul
sulla vecchia via di Jalalabad, nel Primo Secolo dopo Cristo,
forse per commemorare l'illuminazione di Buddha, non ha
resistito alle cannonate e dal 1998 non è che un triste cumulo
di antichi sassi.
Kabul non è più, in nessun senso, una città, ma un enorme
termitaio brulicante di misera umanità; un immenso cimitero
impolverato. Tutto è polvere ed ho sempre di più l'impressione
che nella polvere che mi annerisce costantemente le mani, che
mi riempie il naso, che mi entra nei polmoni, in questa
polvere c'è tutto quel che resta di tutte le ossa, di tutte le
reggie, le case, i giardini, i fiori e gli alberi che hanno un
tempo fatto di quella valle un paradiso. Settanta diversi tipi
di uva, trentatré tipi di tulipani, sei grandi giardini folti
di cedri erano il vanto di Kabul. Non c'è assolutamente più
nulla. E questo non per una maledizione divina, non per
l'eruzione di un vulcano, lo straripamento di un fiume o una
qualche altra catastrofe naturale. Il paradiso è finito una
volta e poi di nuovo e poi tante altre volte per una sola,
unica causa: la guerra. La guerra degli invasori di secoli fa,
la guerra del secolo scorso e dell'inizio di questo secolo
portata qui dagli inglesi - che ora, poco delicatamente, son
voluti tornare a capo della «Forza di pace» -, la guerra degli
ultimi vent'anni, quella a cui tutti, in un modo o nell'altro,
magari solo vendendo armi ad uno dei tanti contendenti,
abbiamo partecipato; ed ora la guerra americana: una fredda
guerra di macchine contro uomini.
Forse è l'età che mi ha fatto sviluppare una sorta di isterica
sensibilità per la violenza, ma dovunque poso lo sguardo vedo
buchi di pallottole, squarci di schegge, vampate nere di
esplosioni ed ho l'impressione di esserne trafitto, mutilato,
bruciato. Forse ho perso, se l'ho mai avuta, quella
obbiettività dell'osservatore non coinvolto, o forse è solo il
ricordo di un verso che Gandhi recitava nella sua preghiera
quotidiana, chiedendo di potersi «immaginare la sofferenza
degli altri» per poter capire il mondo, ma davvero non riesco
ad essere distaccato come se questa storia non mi riguardasse.
Dall'alto della mia finestra vedo un uomo camminare lento e
voltarsi continuamente a guardare una giovane donna che gli
arranca dietro senza una gamba. Forse è sua figlia. Anch'io ne
ho una e solo ora, per la prima volta nella vita, penso che
potrebbe saltare su una mina. Il freddo ora screpola la pelle
e vedo gruppi di bambini-mendicanti che accendono dei falò con
sacchetti e pezzi di plastica trovati nei cumuli di
spazzatura. Ho un nipote di quell'età e mi immagino lui a
respirare quell'aria puzzolenta e cancerogena pur di
scaldarsi. Dopo giorni di ricerca sono finalmente riuscito a
rintracciare l'anziano signore per il quale avevo una lettera
di presentazione: l'ex curatore del Museo di Kabul. L'ho
trovato al bazaar di Karte Ariana dove ora, per campare la
famiglia, vende patate. Avrebbe potuto succedere a me;
potrebbe ancora succedere ad ognuno di noi: a causa di una
guerra.
Mi hanno raccontato che, durante il periodo più duro della
guerra, fra il 1992 ed il 1996 quando quelle stesse fazioni
dell'Alleanza del Nord che ora governano Kabul, ma che allora
avevano fatto di questa città il loro campo di battaglia ed il
loro mattatoio (più di 50.000 furono i morti civili), i grandi
container di ferro, arrivati via mare e poi via Pakistan pieni
delle armi e munizioni americane per la jihad contro l'Unione
Sovietica, venivano usati dai gruppi di mujaheddin come
prigioni per i loro nemici e che a volte, per rappresaglia, i
prigionieri ci venivano dimenticati dentro, a volte arrostiti
bruciandoci attorno taniche di benzina. Non so se sia vero, ma
non riesco più a guardare uno di questi container - e ce ne
sono a migliaia, dappertutto, riciclati in abitazioni, negozi
ed officine - senza ripensare a quella storia.
Ogni oggetto, ogni muro, ogni faccia qui è segnata, mi pare,
da questa orribile violenza che è stata ed è ancora - ora, in
questo momento, mentre scrivo - la guerra.
Neppure l'alba, dopo una notte di dormiveglia col rombo
intermittente dei B-52 che passano alti, è rincuorante a
Kabul. Il sole sembra un incendio dietro il paravento delle
montagne che rimangono a lungo come ritagli di carta scura
contro l'orizzonte. Capita che, mentre la città è ancora tutta
nell'ombra, un solitario B-52 si illumini improvvisamente dei
primi raggi dorati e diventi come un misterioso, inquietante,
uccello da preda intento a scrivere con le sue quattro code di
fuoco strani messaggi di morte nel cielo nero-turchese.
I B-52 non sono qui soltanto per bombardare i rifugi degli
uomini di Bin Laden o i convogli sospetti in cui potrebbe
nascondersi il Mullah Omar. Son qui per ricordare a tutti chi
sono i nuovi poliziotti, i nuovi giudici, i nuovi
padroni-burattinai di questo paese. L'alzabandiera americano,
messo in scena lunedì scorso, giorno della grande festa
musulmana di Id, alla fine del Ramadan, era fatto esattamente
per dire questo, con la banda dei marines che intonava il «Dio
salvi l'America», i discorsi di circostanza, il picchetto
d'onore ed il lento, lentissimo issare del vessillo a stelle e
strisce sul pennone del giardino. Varie rappresentanze hanno
riaperto a Kabul i loro battenti; diplomatici iraniani,
turchi, francesi, cinesi, inglesi ed italiani hanno
rispolverato le scrivanie e tirato su la bandiera; nessuno ha
fatto di questa routine un tale evento.
Gli americani hanno una loro sorta di ossessione con la
bandiera. Quella che hanno rimesso sulla ambasciata di Kabul è
la stessa che avevano ammainato nel 1989. Ma non era la prima
che gli Stati Uniti ripiantavano sul suolo afghano. Quella
l'hanno issata i marines nella loro base alla periferia di
Kandahar agli inizi della campagna militare. La base è stata
battezzata «Campo Giustizia» e la bandiera, tanto perché sia
chiaro che «giustizia» in questo caso vuol dire soprattutto
«vendetta», porta le firme dei familiari delle vittime delle
Torri Gemelle.
Gli afghani non hanno alcuna difficoltà a capire questo tipo
di cose. Nel 1842 il grande Bazaar dei Quattro Portici con i
suoi famosi disegni murali e le sue decorazioni floreali venne
raso al suolo e saccheggiato dalle truppe inglesi per
vendicare l'uccisione di due emissari di Londra ed il
successivo sterminio, da parte degli afghani, di un corpo di
spedizione di 16.000 uomini e dipendenti sulla via da Kabul a
Jalalabad (solo un medico sopravvisse a raccontare la storia).
Nel 1880 furono di nuovo gli inglesi, dopo aver impiccato nel
cortile della Fortezza 29 capi afghani di una nuova rivolta
indipendentista, a radere al suolo gran parte di Bala Hissar
«perché - come scrisse il generale di Sua Maestà che diresse
l'operazione - indelebile resti il ricordo di come sappiamo
vendicare i nostri uomini».
Con questo tipo di «ricordi» a cui fanno riferimento vari
monumenti e nomi di strade e quartieri nella Kabul moderna,
sarebbe certo stato più corretto da parte di quella misteriosa
entità che si definisce «comunità internazionale» e che in
verità sembra sempre di più essere un club ad uso e consumo
degli Stati Uniti, affidare il comando della «Forza di pace»
ad un Paese che non fosse, come l'Inghilterra, identificato
qui col colonialismo, l'aggressione ed un poco meritevole
record: il bombardamento aereo di Kabul e della sua
popolazione civile da parte dell'aviazione inglese nel 1919 fu
il primo nella storia.
Secoli prima gli afghani avevano conosciuto un'altra ed ancor
più memorabile vendetta. Passando per la piana di Bamiyan nel
1221, Gengis Khan aveva visto morire suo nipote, colpito da
una freccia afgana, ed aveva ordinato che in quella valle non
fosse lasciato alcun segno di vita. Per giorni i soldati
mongoli sgozzarono ogni uomo, donna, bambino ed animale fino a
che, si dice, le spade erano senza filo e le braccia stanche;
poi segarono ogni albero e sradicarono ogni pianta. Fu così
che per centinaia d'anni i grandi Buddha scolpiti nella
roccia, ma già spogli dell'oro originale che li ricopriva,
guardarono con gli occhi vuoti nella valle... aspettando che
altri guerrieri, questa volta i Talebani, armati di bazooka,
venissero a vendicarsi contro la «comunità internazionale» che
si rifiutava, contro ogni evidenza, di riconoscerli come i
legittimi governanti dell'Afghanistan.
Ora tocca ai Talebani essere vittime degli americani che
vogliono vendicare i loro morti e soprattutto vogliono
ristabilire nel mondo l'idea della loro invulnerabilità. Il
fatto che i Talebani non siano direttamente - e forse neppure
indirettamente - responsabili di quei morti è ormai
irrilevante. Così come è irrilevante che gli afghani, certo
non coinvolti nel massacro delle Torri Gemelle, siano stati i
primi a pagare il conto di quella vendetta. Quanto caro sia
stato resta un mistero.
Questa è una guerra seguita da centinaia di giornalisti, una
guerra a cui è certo dedicata più carta stampata e più ore
televisive di qualsiasi altra guerra precedente, eppure è una
guerra che gli Stati Uniti con grande determinazione riescono
a mantenere invisibile e di cui non faranno mai sapere
l'intera verità.
Ci sono in questa guerra domande a cui gli Stati Uniti si
rifiutano di rispondere e che per questo nessuno pone già più.
Eccone alcune: quante sono state finora le vittime civili -
quelle assolutamente innocenti - dei bombardamenti americani?
A mio parere già più delle vittime delle Torri Gemelle. Quante
sono state le vittime fra i militari Talebani? A mio parere
oltre diecimila.
La sola prova che ho è piccola, ma significativa. Prima di
venire in Afghanistan sono ripassato da Peshawar e sono
tornato nella regione pakistana dominata dai fondamentalisti
islamici dove, subito dopo l'inizio dei bombardamenti, avevo
incontrato i giovani che partivano, entusiasti, per la jihad.
Bene, ne ho rivisto uno che era appena riuscito a tornare:
sconfitto. I bombardamenti a tappeto dei B-52, raccontava,
erano stati terrificanti e micidiali. Assieme ai suoi compagni
era andato per combattere gli americani, ma di quelli non
aveva visto neppure l'ombra. Aveva solo sentito i loro aerei
rombare in cielo e visto i devastanti risultati delle loro
bombe attorno a sé. Di un gruppo di 43 erano sopravvissuti
solo in tre. Se è successo lo stesso là dove i Talebani han
cercato di resistere e mantenere il controllo del terreno,
come hanno fatto per settimane a Kandahar, le loro perdite
debbono essere state considerevoli.
Un'altra improponibile domanda è questa: che cosa è successo
alle centinaia di famiglie degli arabi venuti in Afghanistan a
combattere, per conto degli americani, la jihad contro i
sovietici e rimasti poi qui al seguito di Osama Bin Laden? La
casa accanto a quella del mio «venditore di patate» era
abitata da un gruppo di famiglie così. «C'erano varie donne ed
almeno una decina di bambini. Una notte sono tutti partiti su
dei camioncini», dice. Dove sono ora?
Il mio giovane jehadi fuori Peshawar raccontava che, tornando
verso il Pakistan, aveva incontrato dei combattenti arabi che
andavano dai contadini pashtun della regione a pregarli di
prendere con sé le loro mogli ed i figli, facendosi promettere
che si sarebbero occupati di loro. Come certi bambini ebrei
lasciati a dei contadini ariani perché sopravvivessero alle
retate naziste. Che colpe hanno quella gente? Chi si occuperà
di loro?
Ci sono centinaia di migliaia di afghani (250.000 soltanto a
Maslakh, vicino ad Herat) che per sfuggire ai bombardamenti
americani sono finiti in zone remote del paese dove ora, a
causa della neve, è impossibile far arrivare loro del cibo e
che già muoiono di fame e rischiano di scomparire in massa. Ma
la loro è una tragedia che passa inosservata: disturba il
quadro positivo che i portavoce della Coalizione
Internazionale contro il Terrorismo intendono presentare al
mondo e, tranne qualche inorridito e ribelle funzionario delle
Nazioni Unite, nessuno ne parla, nessuno si indigna. Se
qualcuno solleva qualche dubbio la risposta è ormai sempre la
stessa: «Ricordatevi dell'11 settembre», come se quelle
vittime potessero giustificare tutto, come se quelle vite
fossero diverse dalle altre e comunque valessero molto, molto
di più.
Una forma di violenza si aggiunge ad un'altra. Solo
interrompendo questo ciclo si può sperare in una qualche
soluzione, ma nessuno sembra disposto a cominciare. Fra le
tante organizzazioni non governative che si affollano ora in
Afghanistan a portare, coi soldi dei vari governi, la loro
versione di umanità e di aiuti, non ho sentito di nessuna che
intenda venire qui a lavorare per la riconciliazione, a
proporre la non violenza, a far riflettere gli afghani - e
forse anche gli altri - sulla futilità della vendetta. E, mio
Dio, se ce ne sarebbe bisogno! Raramente ho visto un paese
così imbevuto di violenza, di ostilità, così propenso alla
guerra. Dovunque mi rivolgo sento odio. I Tagiki odiano i
Pashtun, gli Uzbeki odiano i Tagiki, i Pashtun odiano gli
Uzbeki e tutti odiano gli Hazara, visti ancora oggi come i
discendenti delle orde mongole - il loro nome significa «a
migliaia» - ed eredi di Gengis Khan.
Ho sempre creduto che la sofferenza fosse una maestra di
saggezza e venendo in Afghanistan pensavo di trovare qui, dopo
tanta sofferenza un terreno fertile per una riflessione sulla
non-violenza ed un impegno alla pace. Per niente! Neppure là
dove sarebbe più ovvio.
Il centro ortopedico del Comitato Internazionale della Croce
Rossa, è uno dei posti più commoventi di Kabul, un concentrato
di dolore e di speranza, diretto da un torinese, schivo ed
efficiente, Alberto Cairo. Lui è la sola persona del Centro ad
avere due mani e due gambe. A tutti gli altri, pazienti ed
impiegati, medici e tecnici manca regolarmente qualcosa.
Persino l'uomo delle pulizie è senza una gamba. «Lavorare qui
serve a noi a sentirci utili e serve a chi arriva qui, avendo
perso un pezzo di sé, a vedere che è possibile continuare a
vivere», dice l'uomo che mi accompagna. Era un traduttore. Un
giorno, tornando a casa in bicicletta, un cecchino della
Alleanza del Nord lo ha centrato in una gamba
spappolandogliela sopra al ginocchio. «Se non è morto, quel
tipo è ora di nuovo a Kabul», ho commentato come
soprappensiero, «Lei lo ha perdonato?». «No.No. Se potessi lo
ammazzerei con le mie mani», mi ha risposto. Tutti quelli che
ci stavano a sentire erano d'accordo.
Nella sezione delle donne una ragazzina di 13 anni, impara a
camminare con un nuovo piede di plastica, andando lentamente
lungo un tracciato di orme rosse sul pavimento. Un giorno, sei
mesi fa la madre le ha chiesto di andare a cercare un po' di
legna per il fuoco. Poco dopo ha sentito una esplosione e le
urla. Chiedo alla fisioterapista che l'aiuta, anche lei senza
una gamba, persa anni fa su una mina nascosta nel cortile
della scuola, se pensa possibile un mondo senza guerra. Ride
come avessi raccontato una barzelletta. «Impossibile.
Impossibile», dice.
Ogni politico in visita a Kabul si fa vedere al centro di
Alberto Cairo e porta aiuti perché lui continui il suo
convincentissimo lavoro. Quel che nessuno ha il coraggio di
dire è che l'unico modo di metter fine a quel lavoro, agli
aiuti ed alle visite dei politici è quello di proibire, ora,
subito il commercio e la costruzione di tutte le mine in tutto
il mondo. Che la «comunità internazionale» mandi una «Forza di
pace» a smantellare qualsiasi fabbrica, dovunque si trovi!
Cairo è in Afghanistan da 12 anni e conta di restarci il resto
della vita. Di lavoro ne ha: oltre al milione di vecchie mine,
ci sono ora tutte quelle nuove lanciate dagli americani. Anche
lui sorride della mia speranza in un mondo senza guerra. «In
Afghanistan la guerra è il sale della vita», dice, «la guerra
è più saporita della pace». Il suo non è cinismo; è
rassegnazione.
Ma io non posso rassegnarmi anche se mi rendo conto che quello
che stiamo vivendo è un momento particolarmente tragico per
l'umanità. Da settimane tutto quello che vedo e che sento a
proposito di questa guerra sembra fatto per dimostrare che
l'uomo non è affatto la parte più nobile della creazione e che
nel suo cammino di incivilimento sta subendo ora, davanti a
noi, con la nostra partecipazione, una grande battuta
d'arresto.
Proprio all'inizio del terzo millennio, all'inizio di quella
che tanti giovani pensavano fosse «l'Era Nuova», l'uomo ha
innescato un pericolosissimo processo di nuova barbarie.
Proprio quando una serie di regole del convivere umano
parevano assicurate e condivise dai più, tutto è stato
sconvolto e l'amministrazione della morte altrui torna ad
essere una routine tecnico-burocratica come alla fine per
Eichmann era diventato il trasporto degli ebrei: sotto gli
occhi di soldati occidentali, a volte con la loro attiva
partecipazione, prigionieri con le mani legate dietro la
schiena vengono fucilati ed il massacro, definito
convenientemente una «rivolta carceraria» viene archiviato.
Interi villaggi di contadini la cui unica colpa è di essere
nelle vicinanze di una montagna chiamata Tora Bora vengono
rasi al suolo dai bombardamenti a tappeto con centinaia di
vittime, ma la loro esistenza viene spudoratamente negata
ripetendo che tutti gli obbiettivi colpiti sono militari. Una
personalità di rilievo come il Segretario alla Difesa Rumsfeld
descrive i combattenti di Osama Bin Laden come «animali
feriti», per questo particolarmente pericolosi e con ciò
possibilmente da abbattere anche quando il rifiutare la resa
di un combattente disarmato è un crimine di guerra secondo le
Convenzioni di Ginevra. Il fatto che le quasi quotidiane
apparizioni del Segretario Rumsfeld al podio del Pentagono
siano diventate uno dei programmi più popolari e più seguiti
d'America, dice molto sullo stato di gran parte dell'umanità
oggi.
La tortura stessa cessa di essere un tabù nella coscienza
occidentale e nei talk-show si discute ormai apertamente sulla
legittimità di ricorrerci quando si tratti di estrarre al
sospetto-torturato delle informazioni che salvino vite
americane. Pochissimi protestano e la «comunità
internazionale» si appresta ad accettare che l'interesse
nazionale americano prevalga su qualsiasi altro principio,
compreso quello finora sacro-santo della sovranità nazionale.
La stessa stampa americana ha messo da parte molti dei vecchi
principi che l'hanno in passato resa importante nel suo ruolo
di controllo del potere. Ho visto con i miei occhi l'originale
di un articolo scritto dall'Afghanistan da un corrispondente
di un grande quotidiano e quel che poi è stato pubblicato. Un
tempo sarebbe stato motivo di scandalo. Non ora. «Ormai siamo
diventati la Pravda », diceva il giornalista.
La attuale, diffusa indifferenza verso quel che sta succedendo
agli afghani ed in fondo a noi stessi ha radici profonde. Anni
di sfrenato materialismo hanno ridotto e marginalizzato il
ruolo della morale nella vita della gente, facendo di valori
come il danaro, il successo ed il tornaconto personale il solo
metro di giudizio.
È questo nuovo tipo di uomo occidentale, cinico ed
insensibile, egoista e politicamente corretto - qualunque sia
la politica -, prodotto della nostra società di sviluppo che
oggi mi fa paura quanto l'uomo col Kalashnikov e l'aria da
grande taglia-gole che ora è ad ogni angolo di strada a Kabul.
I due si equivalgono, sono esempi diversi, dello stesso
fenomeno: quello dell'uomo che dimentica d'avere una
coscienza, che non ha chiaro il suo ruolo nell'universo e
diventa il più distruttore di tutti gli esseri viventi, ora
inquinando le acque della terra, ora tagliandone le foreste,
uccidendone gli animali ed usando sempre più sofisticate forme
di varia violenza contro i suoi simili. In Afghanistan tutto
questo mi appare chiaro. E mi brucia e mi riempie di rabbia.
Per questo, a pensarci bene, l'unico momento di gioia che ho
avuto in questo paese è stato quando ci son passato sopra.
Dall'oblò di un piccolo aereo a nove posti della Nazioni Unite
in rotta da Islamabad a Kabul, il mondo appariva come se
l'uomo non fosse mai esistito e non ci avesse lasciato alcuna
traccia di sé. Dall'alto il mondo era semplicemente
meraviglioso: senza frontiere, senza conflitti, senza bandiere
per cui morire, senza patrie da difendere.
«Ho pietà di coloro che l'amore di sé / lega alla patria; / la
patria è soltanto / un campo di tende in un deserto di sassi»,
dice un vecchio canto himalayano citato da Maraini nel suo
Segreto Tibet . Se anche ci fossero state, quelle tende non le
avrei viste.
Per stare al sicuro l'aereo volava a dieci chilometri di
altezza e la terra ora ocra, ora violetta e grigia, era come
la pelle grinzosa d'un vecchio gigante; i fiumi le sue vene.
Dinanzi, come un immenso oceano in tempesta congelatosi
all'improvviso, avevamo la barriera innevata dell'Hindu Kush,
«l'assassino di hindù», a causa delle centinaia di migliaia di
indiani morti di freddo in quelle montagne mentre venivano
trasportati come schiavi per l'Asia Centrale dai loro
conquistatori Moghul.
L'Afghanistan è stato da sempre, per la sua posizione
geografica, il grande corridoio del mondo. Da qui son passate
tutte le grandi religioni, le grandi civiltà, i grandi imperi;
da qui son passate tutte le razze, tutte le idee, tutte le
arti. L'Afghanistan è una miniera di storia umana, sepolta
nella terra di posti come Mazar-i-Sharif, Kabul, Kunduz, Herat
e Balkh. «E voi che ci fate qui?», chiese nel 1924 un
viaggiatore americano, sorpreso di vedere a Kabul, fra quelle
delle grandi potenze, anche una ambasciata italiana.
«L'archeologia», si sentì rispondere dall'allora ministro
plenipotenziario Paternò dei Marchi. Dall'inizio del secolo
scorso tanti sono stati gli scavi fatti in Afghanistan da
nostre missioni scientifiche ed era davvero penoso, nelle
prime settimane dei bombardamenti, sentire che i B-52
americani, alla caccia dei Talebani, praticavano ora una loro
nuova forma di archeologia andando a scavare, a suon di bombe
a tappeto, proprio in quei posti preziosi.
Questo d'essere al centro di un qualche interesse altrui è il
destino dell'Afghanistan. È così che, da Alessandro il
Macedone, ai mongoli, ai russi, agli inglesi nell'Ottocento,
il Paese è sempre stato la posta di un Grande Gioco. È
esattamente ancora oggi così.
Quando l'aereo delle Nazioni Unite s'è posato sulla pista di
Bagram, un posto che 2.000 anni fa fu capitale di un grande
civiltà - Kushan - di cui le guerre han spazzato via ogni
traccia in superficie, i nuovi giocatori erano tutti lì, su
quella pista di cemento in mezzo ad una valle ora deserta e
punteggiata dalla spettrale presenza di carcasse di carri
armati, elicotteri, camion, aerei e cannoni. Mentre tre
marines ed un cane lupo, anche lui americano, venivano ad
annusare meticolosamente i miei bagagli, dei soldati russi
poco lontani trafficavano attorno ad un loro aereo e ad una
fila di camion dai tendoni chiusi su cui era scritto «Dalla
Russia per i bambini dell'Afghanistan». Dinanzi alle rovine di
una caserma si vedevano le sagome di alcuni soldati inglesi.
Bisognava guardare le stupefacenti montagne che, al calar del
sole, sembrano prendere vita e muoversi col mutare delle ombre
e dei colori, per non disperarsi: la vecchia storia stava
semplicemente rincominciando.
La «comunità internazionale» pensa di aver trovato una
soluzione per i problemi dell'Afghanistan in una formula che
combina violenza e soldi, milizie afghane colpevoli di vari
misfatti, ma ora tenute a bada anche loro dai B-52, ed una
persona per bene come il nuovo capo dell'esecutivo Hamid
Karzai, unico e debole Pashtun fra i rappresentanti forti
delle altre etnie.
Spero che la formula funzioni, ma non ci credo. Certo, anche a
Kabul la vita riprende. L'ho vista riprendere a Phnom Penh
dopo la fine dei Khmer Rossi, l'ho vista riprendere nelle
foreste del Laos e del Vietnam defoliate dagli agenti chimici
e cancerogeni degli americani. Ma che vita? Una vita nuova,
una vita più consapevole, più tollerante, più serena o la
solita vita di ora: aggressiva, rapace, violenta?
Uno dei momenti che non dimenticherò di questi giorni a Kabul
è stata la visita allo zoo. «Vale la pena, mi creda», aveva
suggerito il «venditore di patate». Era venerdì, giorno di
festa per i musulmani e qualche decina di persone avevano
pagato i duemila afghani (150 lire) del biglietto per entrare
a vedere la collezione più patetica e misera di animali che
uno possa immaginarsi: un piccolo orso col naso scortecciato e
purulento, un vecchio leone che non sta più sulle gambe ed a
cui è morta di recente la leonessa, un cerbiatto, una civetta,
due aquile spennacchiate e tanti conigli e piccioni. Durante
le battaglie fra i vari gruppi mujaheddin dell'Alleanza del
Nord, prima che arrivassero i Talebani, lo zoo è stato per po'
la linea del fronte; ci son cadute sopra varie bombe e missili
e molte gabbie si sono sfasciate permettendo a vari animali di
scappare. I lupi non sono stati fortunati ed in una gabbia
puzzolentissima, senza acqua, dove un guardiano butta una
volta al giorno degli avanzi di carne, sono rimasti due vecchi
esemplari.
Sono lì da anni: soli, prigionieri, chiusi nello stesso
spazio. Si conoscono. Si conoscono bene, eppure strisciano in
continuazione guardinghi contro le pareti ormai lustre e la
rete tutta rabberciata e, incrociandosi, ogni volta ringhiano,
si mostrano i denti e si aggrediscono, aizzati da una piccola
folla di uomini che forse s'illudono d'essere diversi e non si
rendono conto d'essere, anche loro, nella gabbia
dell'esistenza solo per morirci.
Tanto varrebbe allora viverci in pace.