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pc: Il venditore di patate e la gabbia dei vecchi lupi
- Subject: pc: Il venditore di patate e la gabbia dei vecchi lupi
- From: "AriannaEditrice" <arianed at tin.it>
- Date: Wed, 26 Dec 2001 09:47:36 +0200
Corriere della Sera Lunedì 24 Dicembre 2001 Lettera da Kabul Il venditore di patate e la gabbia dei vecchi lupi di TIZIANO TERZANI KABUL - La vista è stupenda. La più bella che potessi immaginarmi. Ogni mattina mi sveglio in un sacco a pelo disteso sul cemento e qualche piastrella di plastica d'uno stanzone vuoto all'ultimo piano del più alto edificio del centro città e gli occhi mi si riempiono di tutto quel che un viaggiatore diretto qui ha sempre sognato: la mitica corona delle montagne di cui un imperatore come Babur, capostipite dei Moghul, avendole viste una volta, ebbe nostalgia per il resto della vita e desiderò che fossero la sua tomba; la valle percorsa dal fiume sulle cui sponde è cresciuta la città a proposito della quale un poeta, giocando sulle due sillabe del nome Kabul in persiano, scrisse: «La mia casa? Eccola: una goccia di rugiada fra i petali di una rosa»; il vecchio Bazaar dei Quattro Portici dove, si diceva, è possibile trovare ogni frutto della natura e del lavoro artigiano; la moschea di Puli-i-Khisti; il mausoleo di Timur Shah. Il santuario del Re dalle Due Spade costruito in onore del primo comandante musulmano che nel Settimo secolo dopo Cristo, pur avendo già perso la testa, mozzatagli da un fendente, continuò - secondo la leggenda - a combattere con un'arma per mano, determinato com'era ad imporre l'Islam, una nuova, aggressiva religione appena nata in Arabia, ad una popolazione che qui, da più d'un millennio, era felicemente indù e buddhista; e poi, alta, imponente sulla cresta della prima fila di colli, proprio di fronte alle mie vetrate, la Fortezza di Bala Hissar nella cui Residenza hanno regnato tutti i vincitori e nelle cui galere han languito, o sono stati sgozzati, tutti i perdenti della storia afghana. La vista è stupenda, ma da quando sono arrivato, più di due settimane fa, con in tasca una lettera di presentazione per un vecchio intellettuale, nella borsa una bibliotechina di libri-compagni-di-viaggio e in petto un gran misto di rabbia e di speranza, questa vista non mi dà pace. Non riesco a goderne perché mai, come da queste finestre impolverate, ho sentito, a volte quasi come un dolore fisico, la follia del destino a cui l'uomo, per sua scelta, sembra essersi votato: con una mano costruisce, con l'altra distrugge; con fantasia dà vita a grandi meraviglie, poi con uguale raffinatezza e passione fa attorno a sé il deserto e massacra i suoi simili. Prima o poi quest'uomo dovrà cambiare strada e rinunciare alla violenza. Il messaggio è ovvio. Basta guardare Kabul. Di tutto quel che i miei libri raccontano non restano che i resti: la Fortezza è una maceria, il fiume un rigagnolo fetido di escrementi e spazzatura, il bazaar una distesa di tende, baracche e container ; i mausolei, le cupole, i templi, sono sventrati; della vecchia città fatta di case in legno intarsiato e fango non restano, a volte in file di centinaia e centinaia di metri, che dei patetici mozziconi color ocra come sulla battigia le guglie dei castelli di sabbia costruiti da bambini e subito espugnati dalle onde. Tanti monumenti sono letteralmente scomparsi. L'enigmatico Minar-i-Chakari , Colonna della Luce, costruito, fuori Kabul sulla vecchia via di Jalalabad, nel Primo Secolo dopo Cristo, forse per commemorare l'illuminazione di Buddha, non ha resistito alle cannonate e dal 1998 non è che un triste cumulo di antichi sassi. Kabul non è più, in nessun senso, una città, ma un enorme termitaio brulicante di misera umanità; un immenso cimitero impolverato. Tutto è polvere ed ho sempre di più l'impressione che nella polvere che mi annerisce costantemente le mani, che mi riempie il naso, che mi entra nei polmoni, in questa polvere c'è tutto quel che resta di tutte le ossa, di tutte le reggie, le case, i giardini, i fiori e gli alberi che hanno un tempo fatto di quella valle un paradiso. Settanta diversi tipi di uva, trentatré tipi di tulipani, sei grandi giardini folti di cedri erano il vanto di Kabul. Non c'è assolutamente più nulla. E questo non per una maledizione divina, non per l'eruzione di un vulcano, lo straripamento di un fiume o una qualche altra catastrofe naturale. Il paradiso è finito una volta e poi di nuovo e poi tante altre volte per una sola, unica causa: la guerra. La guerra degli invasori di secoli fa, la guerra del secolo scorso e dell'inizio di questo secolo portata qui dagli inglesi - che ora, poco delicatamente, son voluti tornare a capo della «Forza di pace» -, la guerra degli ultimi vent'anni, quella a cui tutti, in un modo o nell'altro, magari solo vendendo armi ad uno dei tanti contendenti, abbiamo partecipato; ed ora la guerra americana: una fredda guerra di macchine contro uomini. Forse è l'età che mi ha fatto sviluppare una sorta di isterica sensibilità per la violenza, ma dovunque poso lo sguardo vedo buchi di pallottole, squarci di schegge, vampate nere di esplosioni ed ho l'impressione di esserne trafitto, mutilato, bruciato. Forse ho perso, se l'ho mai avuta, quella obbiettività dell'osservatore non coinvolto, o forse è solo il ricordo di un verso che Gandhi recitava nella sua preghiera quotidiana, chiedendo di potersi «immaginare la sofferenza degli altri» per poter capire il mondo, ma davvero non riesco ad essere distaccato come se questa storia non mi riguardasse. Dall'alto della mia finestra vedo un uomo camminare lento e voltarsi continuamente a guardare una giovane donna che gli arranca dietro senza una gamba. Forse è sua figlia. Anch'io ne ho una e solo ora, per la prima volta nella vita, penso che potrebbe saltare su una mina. Il freddo ora screpola la pelle e vedo gruppi di bambini-mendicanti che accendono dei falò con sacchetti e pezzi di plastica trovati nei cumuli di spazzatura. Ho un nipote di quell'età e mi immagino lui a respirare quell'aria puzzolenta e cancerogena pur di scaldarsi. Dopo giorni di ricerca sono finalmente riuscito a rintracciare l'anziano signore per il quale avevo una lettera di presentazione: l'ex curatore del Museo di Kabul. L'ho trovato al bazaar di Karte Ariana dove ora, per campare la famiglia, vende patate. Avrebbe potuto succedere a me; potrebbe ancora succedere ad ognuno di noi: a causa di una guerra. Mi hanno raccontato che, durante il periodo più duro della guerra, fra il 1992 ed il 1996 quando quelle stesse fazioni dell'Alleanza del Nord che ora governano Kabul, ma che allora avevano fatto di questa città il loro campo di battaglia ed il loro mattatoio (più di 50.000 furono i morti civili), i grandi container di ferro, arrivati via mare e poi via Pakistan pieni delle armi e munizioni americane per la jihad contro l'Unione Sovietica, venivano usati dai gruppi di mujaheddin come prigioni per i loro nemici e che a volte, per rappresaglia, i prigionieri ci venivano dimenticati dentro, a volte arrostiti bruciandoci attorno taniche di benzina. Non so se sia vero, ma non riesco più a guardare uno di questi container - e ce ne sono a migliaia, dappertutto, riciclati in abitazioni, negozi ed officine - senza ripensare a quella storia. Ogni oggetto, ogni muro, ogni faccia qui è segnata, mi pare, da questa orribile violenza che è stata ed è ancora - ora, in questo momento, mentre scrivo - la guerra. Neppure l'alba, dopo una notte di dormiveglia col rombo intermittente dei B-52 che passano alti, è rincuorante a Kabul. Il sole sembra un incendio dietro il paravento delle montagne che rimangono a lungo come ritagli di carta scura contro l'orizzonte. Capita che, mentre la città è ancora tutta nell'ombra, un solitario B-52 si illumini improvvisamente dei primi raggi dorati e diventi come un misterioso, inquietante, uccello da preda intento a scrivere con le sue quattro code di fuoco strani messaggi di morte nel cielo nero-turchese. I B-52 non sono qui soltanto per bombardare i rifugi degli uomini di Bin Laden o i convogli sospetti in cui potrebbe nascondersi il Mullah Omar. Son qui per ricordare a tutti chi sono i nuovi poliziotti, i nuovi giudici, i nuovi padroni-burattinai di questo paese. L'alzabandiera americano, messo in scena lunedì scorso, giorno della grande festa musulmana di Id, alla fine del Ramadan, era fatto esattamente per dire questo, con la banda dei marines che intonava il «Dio salvi l'America», i discorsi di circostanza, il picchetto d'onore ed il lento, lentissimo issare del vessillo a stelle e strisce sul pennone del giardino. Varie rappresentanze hanno riaperto a Kabul i loro battenti; diplomatici iraniani, turchi, francesi, cinesi, inglesi ed italiani hanno rispolverato le scrivanie e tirato su la bandiera; nessuno ha fatto di questa routine un tale evento. Gli americani hanno una loro sorta di ossessione con la bandiera. Quella che hanno rimesso sulla ambasciata di Kabul è la stessa che avevano ammainato nel 1989. Ma non era la prima che gli Stati Uniti ripiantavano sul suolo afghano. Quella l'hanno issata i marines nella loro base alla periferia di Kandahar agli inizi della campagna militare. La base è stata battezzata «Campo Giustizia» e la bandiera, tanto perché sia chiaro che «giustizia» in questo caso vuol dire soprattutto «vendetta», porta le firme dei familiari delle vittime delle Torri Gemelle. Gli afghani non hanno alcuna difficoltà a capire questo tipo di cose. Nel 1842 il grande Bazaar dei Quattro Portici con i suoi famosi disegni murali e le sue decorazioni floreali venne raso al suolo e saccheggiato dalle truppe inglesi per vendicare l'uccisione di due emissari di Londra ed il successivo sterminio, da parte degli afghani, di un corpo di spedizione di 16.000 uomini e dipendenti sulla via da Kabul a Jalalabad (solo un medico sopravvisse a raccontare la storia). Nel 1880 furono di nuovo gli inglesi, dopo aver impiccato nel cortile della Fortezza 29 capi afghani di una nuova rivolta indipendentista, a radere al suolo gran parte di Bala Hissar «perché - come scrisse il generale di Sua Maestà che diresse l'operazione - indelebile resti il ricordo di come sappiamo vendicare i nostri uomini». Con questo tipo di «ricordi» a cui fanno riferimento vari monumenti e nomi di strade e quartieri nella Kabul moderna, sarebbe certo stato più corretto da parte di quella misteriosa entità che si definisce «comunità internazionale» e che in verità sembra sempre di più essere un club ad uso e consumo degli Stati Uniti, affidare il comando della «Forza di pace» ad un Paese che non fosse, come l'Inghilterra, identificato qui col colonialismo, l'aggressione ed un poco meritevole record: il bombardamento aereo di Kabul e della sua popolazione civile da parte dell'aviazione inglese nel 1919 fu il primo nella storia. Secoli prima gli afghani avevano conosciuto un'altra ed ancor più memorabile vendetta. Passando per la piana di Bamiyan nel 1221, Gengis Khan aveva visto morire suo nipote, colpito da una freccia afgana, ed aveva ordinato che in quella valle non fosse lasciato alcun segno di vita. Per giorni i soldati mongoli sgozzarono ogni uomo, donna, bambino ed animale fino a che, si dice, le spade erano senza filo e le braccia stanche; poi segarono ogni albero e sradicarono ogni pianta. Fu così che per centinaia d'anni i grandi Buddha scolpiti nella roccia, ma già spogli dell'oro originale che li ricopriva, guardarono con gli occhi vuoti nella valle... aspettando che altri guerrieri, questa volta i Talebani, armati di bazooka, venissero a vendicarsi contro la «comunità internazionale» che si rifiutava, contro ogni evidenza, di riconoscerli come i legittimi governanti dell'Afghanistan. Ora tocca ai Talebani essere vittime degli americani che vogliono vendicare i loro morti e soprattutto vogliono ristabilire nel mondo l'idea della loro invulnerabilità. Il fatto che i Talebani non siano direttamente - e forse neppure indirettamente - responsabili di quei morti è ormai irrilevante. Così come è irrilevante che gli afghani, certo non coinvolti nel massacro delle Torri Gemelle, siano stati i primi a pagare il conto di quella vendetta. Quanto caro sia stato resta un mistero. Questa è una guerra seguita da centinaia di giornalisti, una guerra a cui è certo dedicata più carta stampata e più ore televisive di qualsiasi altra guerra precedente, eppure è una guerra che gli Stati Uniti con grande determinazione riescono a mantenere invisibile e di cui non faranno mai sapere l'intera verità. Ci sono in questa guerra domande a cui gli Stati Uniti si rifiutano di rispondere e che per questo nessuno pone già più. Eccone alcune: quante sono state finora le vittime civili - quelle assolutamente innocenti - dei bombardamenti americani? A mio parere già più delle vittime delle Torri Gemelle. Quante sono state le vittime fra i militari Talebani? A mio parere oltre diecimila. La sola prova che ho è piccola, ma significativa. Prima di venire in Afghanistan sono ripassato da Peshawar e sono tornato nella regione pakistana dominata dai fondamentalisti islamici dove, subito dopo l'inizio dei bombardamenti, avevo incontrato i giovani che partivano, entusiasti, per la jihad. Bene, ne ho rivisto uno che era appena riuscito a tornare: sconfitto. I bombardamenti a tappeto dei B-52, raccontava, erano stati terrificanti e micidiali. Assieme ai suoi compagni era andato per combattere gli americani, ma di quelli non aveva visto neppure l'ombra. Aveva solo sentito i loro aerei rombare in cielo e visto i devastanti risultati delle loro bombe attorno a sé. Di un gruppo di 43 erano sopravvissuti solo in tre. Se è successo lo stesso là dove i Talebani han cercato di resistere e mantenere il controllo del terreno, come hanno fatto per settimane a Kandahar, le loro perdite debbono essere state considerevoli. Un'altra improponibile domanda è questa: che cosa è successo alle centinaia di famiglie degli arabi venuti in Afghanistan a combattere, per conto degli americani, la jihad contro i sovietici e rimasti poi qui al seguito di Osama Bin Laden? La casa accanto a quella del mio «venditore di patate» era abitata da un gruppo di famiglie così. «C'erano varie donne ed almeno una decina di bambini. Una notte sono tutti partiti su dei camioncini», dice. Dove sono ora? Il mio giovane jehadi fuori Peshawar raccontava che, tornando verso il Pakistan, aveva incontrato dei combattenti arabi che andavano dai contadini pashtun della regione a pregarli di prendere con sé le loro mogli ed i figli, facendosi promettere che si sarebbero occupati di loro. Come certi bambini ebrei lasciati a dei contadini ariani perché sopravvivessero alle retate naziste. Che colpe hanno quella gente? Chi si occuperà di loro? Ci sono centinaia di migliaia di afghani (250.000 soltanto a Maslakh, vicino ad Herat) che per sfuggire ai bombardamenti americani sono finiti in zone remote del paese dove ora, a causa della neve, è impossibile far arrivare loro del cibo e che già muoiono di fame e rischiano di scomparire in massa. Ma la loro è una tragedia che passa inosservata: disturba il quadro positivo che i portavoce della Coalizione Internazionale contro il Terrorismo intendono presentare al mondo e, tranne qualche inorridito e ribelle funzionario delle Nazioni Unite, nessuno ne parla, nessuno si indigna. Se qualcuno solleva qualche dubbio la risposta è ormai sempre la stessa: «Ricordatevi dell'11 settembre», come se quelle vittime potessero giustificare tutto, come se quelle vite fossero diverse dalle altre e comunque valessero molto, molto di più. Una forma di violenza si aggiunge ad un'altra. Solo interrompendo questo ciclo si può sperare in una qualche soluzione, ma nessuno sembra disposto a cominciare. Fra le tante organizzazioni non governative che si affollano ora in Afghanistan a portare, coi soldi dei vari governi, la loro versione di umanità e di aiuti, non ho sentito di nessuna che intenda venire qui a lavorare per la riconciliazione, a proporre la non violenza, a far riflettere gli afghani - e forse anche gli altri - sulla futilità della vendetta. E, mio Dio, se ce ne sarebbe bisogno! Raramente ho visto un paese così imbevuto di violenza, di ostilità, così propenso alla guerra. Dovunque mi rivolgo sento odio. I Tagiki odiano i Pashtun, gli Uzbeki odiano i Tagiki, i Pashtun odiano gli Uzbeki e tutti odiano gli Hazara, visti ancora oggi come i discendenti delle orde mongole - il loro nome significa «a migliaia» - ed eredi di Gengis Khan. Ho sempre creduto che la sofferenza fosse una maestra di saggezza e venendo in Afghanistan pensavo di trovare qui, dopo tanta sofferenza un terreno fertile per una riflessione sulla non-violenza ed un impegno alla pace. Per niente! Neppure là dove sarebbe più ovvio. Il centro ortopedico del Comitato Internazionale della Croce Rossa, è uno dei posti più commoventi di Kabul, un concentrato di dolore e di speranza, diretto da un torinese, schivo ed efficiente, Alberto Cairo. Lui è la sola persona del Centro ad avere due mani e due gambe. A tutti gli altri, pazienti ed impiegati, medici e tecnici manca regolarmente qualcosa. Persino l'uomo delle pulizie è senza una gamba. «Lavorare qui serve a noi a sentirci utili e serve a chi arriva qui, avendo perso un pezzo di sé, a vedere che è possibile continuare a vivere», dice l'uomo che mi accompagna. Era un traduttore. Un giorno, tornando a casa in bicicletta, un cecchino della Alleanza del Nord lo ha centrato in una gamba spappolandogliela sopra al ginocchio. «Se non è morto, quel tipo è ora di nuovo a Kabul», ho commentato come soprappensiero, «Lei lo ha perdonato?». «No.No. Se potessi lo ammazzerei con le mie mani», mi ha risposto. Tutti quelli che ci stavano a sentire erano d'accordo. Nella sezione delle donne una ragazzina di 13 anni, impara a camminare con un nuovo piede di plastica, andando lentamente lungo un tracciato di orme rosse sul pavimento. Un giorno, sei mesi fa la madre le ha chiesto di andare a cercare un po' di legna per il fuoco. Poco dopo ha sentito una esplosione e le urla. Chiedo alla fisioterapista che l'aiuta, anche lei senza una gamba, persa anni fa su una mina nascosta nel cortile della scuola, se pensa possibile un mondo senza guerra. Ride come avessi raccontato una barzelletta. «Impossibile. Impossibile», dice. Ogni politico in visita a Kabul si fa vedere al centro di Alberto Cairo e porta aiuti perché lui continui il suo convincentissimo lavoro. Quel che nessuno ha il coraggio di dire è che l'unico modo di metter fine a quel lavoro, agli aiuti ed alle visite dei politici è quello di proibire, ora, subito il commercio e la costruzione di tutte le mine in tutto il mondo. Che la «comunità internazionale» mandi una «Forza di pace» a smantellare qualsiasi fabbrica, dovunque si trovi! Cairo è in Afghanistan da 12 anni e conta di restarci il resto della vita. Di lavoro ne ha: oltre al milione di vecchie mine, ci sono ora tutte quelle nuove lanciate dagli americani. Anche lui sorride della mia speranza in un mondo senza guerra. «In Afghanistan la guerra è il sale della vita», dice, «la guerra è più saporita della pace». Il suo non è cinismo; è rassegnazione. Ma io non posso rassegnarmi anche se mi rendo conto che quello che stiamo vivendo è un momento particolarmente tragico per l'umanità. Da settimane tutto quello che vedo e che sento a proposito di questa guerra sembra fatto per dimostrare che l'uomo non è affatto la parte più nobile della creazione e che nel suo cammino di incivilimento sta subendo ora, davanti a noi, con la nostra partecipazione, una grande battuta d'arresto. Proprio all'inizio del terzo millennio, all'inizio di quella che tanti giovani pensavano fosse «l'Era Nuova», l'uomo ha innescato un pericolosissimo processo di nuova barbarie. Proprio quando una serie di regole del convivere umano parevano assicurate e condivise dai più, tutto è stato sconvolto e l'amministrazione della morte altrui torna ad essere una routine tecnico-burocratica come alla fine per Eichmann era diventato il trasporto degli ebrei: sotto gli occhi di soldati occidentali, a volte con la loro attiva partecipazione, prigionieri con le mani legate dietro la schiena vengono fucilati ed il massacro, definito convenientemente una «rivolta carceraria» viene archiviato. Interi villaggi di contadini la cui unica colpa è di essere nelle vicinanze di una montagna chiamata Tora Bora vengono rasi al suolo dai bombardamenti a tappeto con centinaia di vittime, ma la loro esistenza viene spudoratamente negata ripetendo che tutti gli obbiettivi colpiti sono militari. Una personalità di rilievo come il Segretario alla Difesa Rumsfeld descrive i combattenti di Osama Bin Laden come «animali feriti», per questo particolarmente pericolosi e con ciò possibilmente da abbattere anche quando il rifiutare la resa di un combattente disarmato è un crimine di guerra secondo le Convenzioni di Ginevra. Il fatto che le quasi quotidiane apparizioni del Segretario Rumsfeld al podio del Pentagono siano diventate uno dei programmi più popolari e più seguiti d'America, dice molto sullo stato di gran parte dell'umanità oggi. La tortura stessa cessa di essere un tabù nella coscienza occidentale e nei talk-show si discute ormai apertamente sulla legittimità di ricorrerci quando si tratti di estrarre al sospetto-torturato delle informazioni che salvino vite americane. Pochissimi protestano e la «comunità internazionale» si appresta ad accettare che l'interesse nazionale americano prevalga su qualsiasi altro principio, compreso quello finora sacro-santo della sovranità nazionale. La stessa stampa americana ha messo da parte molti dei vecchi principi che l'hanno in passato resa importante nel suo ruolo di controllo del potere. Ho visto con i miei occhi l'originale di un articolo scritto dall'Afghanistan da un corrispondente di un grande quotidiano e quel che poi è stato pubblicato. Un tempo sarebbe stato motivo di scandalo. Non ora. «Ormai siamo diventati la Pravda », diceva il giornalista. La attuale, diffusa indifferenza verso quel che sta succedendo agli afghani ed in fondo a noi stessi ha radici profonde. Anni di sfrenato materialismo hanno ridotto e marginalizzato il ruolo della morale nella vita della gente, facendo di valori come il danaro, il successo ed il tornaconto personale il solo metro di giudizio. È questo nuovo tipo di uomo occidentale, cinico ed insensibile, egoista e politicamente corretto - qualunque sia la politica -, prodotto della nostra società di sviluppo che oggi mi fa paura quanto l'uomo col Kalashnikov e l'aria da grande taglia-gole che ora è ad ogni angolo di strada a Kabul. I due si equivalgono, sono esempi diversi, dello stesso fenomeno: quello dell'uomo che dimentica d'avere una coscienza, che non ha chiaro il suo ruolo nell'universo e diventa il più distruttore di tutti gli esseri viventi, ora inquinando le acque della terra, ora tagliandone le foreste, uccidendone gli animali ed usando sempre più sofisticate forme di varia violenza contro i suoi simili. In Afghanistan tutto questo mi appare chiaro. E mi brucia e mi riempie di rabbia. Per questo, a pensarci bene, l'unico momento di gioia che ho avuto in questo paese è stato quando ci son passato sopra. Dall'oblò di un piccolo aereo a nove posti della Nazioni Unite in rotta da Islamabad a Kabul, il mondo appariva come se l'uomo non fosse mai esistito e non ci avesse lasciato alcuna traccia di sé. Dall'alto il mondo era semplicemente meraviglioso: senza frontiere, senza conflitti, senza bandiere per cui morire, senza patrie da difendere. «Ho pietà di coloro che l'amore di sé / lega alla patria; / la patria è soltanto / un campo di tende in un deserto di sassi», dice un vecchio canto himalayano citato da Maraini nel suo Segreto Tibet . Se anche ci fossero state, quelle tende non le avrei viste. Per stare al sicuro l'aereo volava a dieci chilometri di altezza e la terra ora ocra, ora violetta e grigia, era come la pelle grinzosa d'un vecchio gigante; i fiumi le sue vene. Dinanzi, come un immenso oceano in tempesta congelatosi all'improvviso, avevamo la barriera innevata dell'Hindu Kush, «l'assassino di hindù», a causa delle centinaia di migliaia di indiani morti di freddo in quelle montagne mentre venivano trasportati come schiavi per l'Asia Centrale dai loro conquistatori Moghul. L'Afghanistan è stato da sempre, per la sua posizione geografica, il grande corridoio del mondo. Da qui son passate tutte le grandi religioni, le grandi civiltà, i grandi imperi; da qui son passate tutte le razze, tutte le idee, tutte le arti. L'Afghanistan è una miniera di storia umana, sepolta nella terra di posti come Mazar-i-Sharif, Kabul, Kunduz, Herat e Balkh. «E voi che ci fate qui?», chiese nel 1924 un viaggiatore americano, sorpreso di vedere a Kabul, fra quelle delle grandi potenze, anche una ambasciata italiana. «L'archeologia», si sentì rispondere dall'allora ministro plenipotenziario Paternò dei Marchi. Dall'inizio del secolo scorso tanti sono stati gli scavi fatti in Afghanistan da nostre missioni scientifiche ed era davvero penoso, nelle prime settimane dei bombardamenti, sentire che i B-52 americani, alla caccia dei Talebani, praticavano ora una loro nuova forma di archeologia andando a scavare, a suon di bombe a tappeto, proprio in quei posti preziosi. Questo d'essere al centro di un qualche interesse altrui è il destino dell'Afghanistan. È così che, da Alessandro il Macedone, ai mongoli, ai russi, agli inglesi nell'Ottocento, il Paese è sempre stato la posta di un Grande Gioco. È esattamente ancora oggi così. Quando l'aereo delle Nazioni Unite s'è posato sulla pista di Bagram, un posto che 2.000 anni fa fu capitale di un grande civiltà - Kushan - di cui le guerre han spazzato via ogni traccia in superficie, i nuovi giocatori erano tutti lì, su quella pista di cemento in mezzo ad una valle ora deserta e punteggiata dalla spettrale presenza di carcasse di carri armati, elicotteri, camion, aerei e cannoni. Mentre tre marines ed un cane lupo, anche lui americano, venivano ad annusare meticolosamente i miei bagagli, dei soldati russi poco lontani trafficavano attorno ad un loro aereo e ad una fila di camion dai tendoni chiusi su cui era scritto «Dalla Russia per i bambini dell'Afghanistan». Dinanzi alle rovine di una caserma si vedevano le sagome di alcuni soldati inglesi. Bisognava guardare le stupefacenti montagne che, al calar del sole, sembrano prendere vita e muoversi col mutare delle ombre e dei colori, per non disperarsi: la vecchia storia stava semplicemente rincominciando. La «comunità internazionale» pensa di aver trovato una soluzione per i problemi dell'Afghanistan in una formula che combina violenza e soldi, milizie afghane colpevoli di vari misfatti, ma ora tenute a bada anche loro dai B-52, ed una persona per bene come il nuovo capo dell'esecutivo Hamid Karzai, unico e debole Pashtun fra i rappresentanti forti delle altre etnie. Spero che la formula funzioni, ma non ci credo. Certo, anche a Kabul la vita riprende. L'ho vista riprendere a Phnom Penh dopo la fine dei Khmer Rossi, l'ho vista riprendere nelle foreste del Laos e del Vietnam defoliate dagli agenti chimici e cancerogeni degli americani. Ma che vita? Una vita nuova, una vita più consapevole, più tollerante, più serena o la solita vita di ora: aggressiva, rapace, violenta? Uno dei momenti che non dimenticherò di questi giorni a Kabul è stata la visita allo zoo. «Vale la pena, mi creda», aveva suggerito il «venditore di patate». Era venerdì, giorno di festa per i musulmani e qualche decina di persone avevano pagato i duemila afghani (150 lire) del biglietto per entrare a vedere la collezione più patetica e misera di animali che uno possa immaginarsi: un piccolo orso col naso scortecciato e purulento, un vecchio leone che non sta più sulle gambe ed a cui è morta di recente la leonessa, un cerbiatto, una civetta, due aquile spennacchiate e tanti conigli e piccioni. Durante le battaglie fra i vari gruppi mujaheddin dell'Alleanza del Nord, prima che arrivassero i Talebani, lo zoo è stato per po' la linea del fronte; ci son cadute sopra varie bombe e missili e molte gabbie si sono sfasciate permettendo a vari animali di scappare. I lupi non sono stati fortunati ed in una gabbia puzzolentissima, senza acqua, dove un guardiano butta una volta al giorno degli avanzi di carne, sono rimasti due vecchi esemplari. Sono lì da anni: soli, prigionieri, chiusi nello stesso spazio. Si conoscono. Si conoscono bene, eppure strisciano in continuazione guardinghi contro le pareti ormai lustre e la rete tutta rabberciata e, incrociandosi, ogni volta ringhiano, si mostrano i denti e si aggrediscono, aizzati da una piccola folla di uomini che forse s'illudono d'essere diversi e non si rendono conto d'essere, anche loro, nella gabbia dell'esistenza solo per morirci. Tanto varrebbe allora viverci in pace.
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