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donne in guerra
- Subject: donne in guerra
- From: lanfranco caminiti <lanfranco at apolis.com> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Thu, 22 Nov 2001 13:48:33 +0100
Donne in guerra di lanfranco caminiti Il primo morto italiano di questa maledetta guerra è una donna, Maria Grazia Cutuli. Il primo morto italiano di questa maledetta guerra è una donna meridionale, Maria Grazia Cutuli. Non conoscevo Maria Grazia Cutuli e ho guardato con curiosità le sue foto, contento che fosse anche bella, per lei stessa e per coloro che hanno potuto amarla. Sono anche contento che fosse siciliana, perché rende un po' migliore anche me, che sono siciliano per caso e per tigna. Non avevo mai notato prima di questa guerra la sua firma sul quotidiano per il quale lavorava, il "Corriere della sera". Avevo invece notato i suoi recenti articoli sull'Afghanistan, che spiccavano per la sua scrittura pulita e il punto di vista, foss'anche solo quel raccontare le persone e le cose per come le vedeva lei, dandoci modo di guardarle anche noi. Mi ha sempre dato una sensazione di scrittura per sottrazione, come di chi avesse urgenza di mille altre cose da dire, ma si sforzasse a trattenerle, a tenerle dentro come tornassero buone un'altra volta, pulendo, togliendo, asciugando, scarnificando. Forse era questo il suo "mestiere", forse era questo il suo carattere. Nella rarefazione di questa scrittura stava tutta la sua densità: forse è un dono, forse è il risultato di un lungo praticantato, forse è solo un modo di essere. La sua storia personale, la sua geografia interiore, la sua appartenenza ai Sud - per come l'hanno raccontata in questi giorni chi l'ha conosciuta - mi fanno pensare che questo aspetto non fosse secondario nella sua scrittura. In questa maledetta guerra, e nel maledettismo modo con cui troppi giornalisti, commentatori, opinionisti continuano a megafonarla, quegli articoli di Maria Grazia Cutuli erano già un sollievo. Proprio per questo non accetterò l'invito di Zucconi: "E la prossima volta che sarete tentati di pensare ai giornalisti come a una categoria di magnaccia, venduti, leccapiedi, untuosi, paraculi, corrotti, maggiordomi e tripponi ingrassati dal potere non dico che abbiate torto. Ce ne sono tanti, così. Ma ricordatevi, per un secondo solo, di Maria Grazia." Proprio volendo ricordarmene a lungo continuerò a pensare che ci sono troppi giornalisti magnaccia, venduti, leccapiedi, untuosi, paraculi, corrotti, maggiordomi e tripponi ingrassati dal potere, che in questa guerra ci stanno grufolando. Non sono disposto a concedere un senso di lavacro sacrificale a questa morte. Ogni morte è terribilmente singolare, anche quelle di fucilazioni collettive o di fosse comuni, così come ogni colpa e ogni merito. A ciascuno il suo. Adesso che quella scrittura è morta, che quella scrittura è stata lapidata, fucilata, io mi domando se sia un caso che il primo morto italiano di questa maledetta guerra sia una donna meridionale. Certo, forse un caso è l'agguato, forse un caso è quella ferocia, forse un caso è l'identità degli assalitori. Ma nessuno incontra la propria morte per caso. Tanto meno Maria Grazia Cutuli. Che era giornalista di "fronte", donna. Le donne. Si è parlato molto di donne afghane e di burqa fin dall'inizio di questa guerra. Proprio il "Corriere" ha pubblicato pochi giorni fa una foto della prima manifestazione a Kabul di donne afghane senza velo, a volerne dire la riconquistata libertà: andate a guardarla, cercatela se vi è sfuggita. Ci sono tre donne in primo piano, non giovanissime, con i loro volti esibiti con fierezza. Sono di una bellezza abbagliante. Davvero. E il mio primo pensiero è stato che forse è questa bellezza la ragione per la quale da quelle parti gli uomini si sono sempre dannati a nascondere il volto delle loro donne, li capisco, non farebbero altro nella vita che guardarle estasiati, niente lavoro, niente preghiere, niente guerre: solo guardare tutto il giorno quelle donne straordinariamente belle. O forse dio per ricompensare le donne di quella crudeltà e punire la stupidità degli uomini ha deciso che dietro ogni velo ci sia un volto di straordinaria bellezza: che se lo godano fra loro le donne, che se ne innamorino i bambini. E fanculo gli uomini. Sia come sia, il burqa è diventato il simbolo del carattere umanitario di questa guerra, come se noi vi andassimo non a stanare il terrorismo, non per combattere gli arabi che hanno troppo alzato la cresta, non per conquistare un territorio vitale tra l'Europa e l'Asia, non a mettere oleodotti per il petrolio che ci serve tanto, ma a liberare le donne. Autorevoli voci del governo hanno addirittura rimproverato alla sinistra e alle sue donne di non essersi mai battute abbastanza contro il burqa e le sofferenze inflitte a quelle donne: il che non è del tutto vero, perché da sempre hanno circolato semiclandestine petizioni e sono state fatte rare iniziative, ma è anche un poco vero nel senso che la disattenzione era comunque alta; ma è anche ingiusto perché rientra in quel problema più generale che affligge la sinistra nel doversi tanto preoccupare di se stessa da non aver tempo d'occuparsi d'altro, figurarsi il burqa. E le donne, a sinistra, contano come il due di coppe. Figurarsi il burqa. Le donne sono diventate il lato pretestuoso di questa maledetta guerra, il loro disvelamento l'emblema della vittoria e già d'un indaffararsi al nuovo cominciamento, il loro ritorno al lavoro, al mercato, ai negozi, il segno d'una modernità che impelle e che ci è familiare, riconoscimento di civiltà comune il cui linguaggio di identificazione è il maquillage. Perbacco, le donne vogliono le stesse cose in tutto il mondo: truccarsi, comprarsi dei vestiti, andare a far la spesa tirandosi dietro frugoletti in Cherokee jeep o tra la polvere e i muli, cucinare per i mariti, persino lavorare e fare carriera, un po' defilate: il mondo è uguale dappertutto, e i suoi istinti primari pure, ecco! "Ci sarà una donna nel nuovo governo afghano - recita un trombone dagli schermi televisivi - e questo è il segno più tangibile che le cose in Afghanistan stanno cambiando." Che poi conti come il due di coppe non importa adesso; e quando mai è importato, anche qui? Che le petizioni semiclandestine delle donne afghane continuino a circolare, allarmate di questo cambio di regime, di una impotenza, di una esclusione a determinare, a dire, a contare, tutto questo non sembra sia rilevante, non fa notizia, non fa "colore". Le donne continuano a non poter essere considerate soggetto politico, costruttori di società. Come prima. D'altronde loro non hanno "preso" Mazar-i-Sharif, non hanno bombardato Jalalabad, non hanno assediato Kunduz, non hanno tribù, clan, kalashnikov e vecchi carri armati da schierare, non hanno monarchi mummificati da tirare fuori dai sarcofaghi o paesi stranieri che tramestano per porzioni di territorio e potere. Come potrebbero contare? Anche qui da noi, le donne non "prendono" mai una Mazar-i-Sharif, non bombardano mai una Jalalabad, non assediano mai una Kunduz, non hanno tribù, clan, kalashnikov e vecchi carri armati da schierare. Come potrebbero contare? E forse sì allora, davvero sta qui, nelle donne l'emblema di quel che sta accadendo in Afghanistan, di quel che accade dovunque. E forse sì, allora, in quella raffica sparata contro Maria Grazia Cutuli c'era un supplemento d'odio, condensatosi lì per caso, contro una donna. Contro le donne. E' il primo morto italiano di questa maledetta guerra: mi auguro che sia anche l'ultimo. Per il suo peso, basta e avanza.Roma, 22 novembre 2001
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