G. Catrame, Eurasia, la guerra per l'area del "grande gioco" - Il ruolo strategico nell'economia globale dei paesi che ora sono il teatro delle operazioni belliche Usa



Fonte: Nonluoghi 18 ottobre 2001 www.nonluoghi.it
Tratto da Umanità Nova n.35 del 14 ottobre 2001)

EURASIA, LA GUERRA PER L'AREA DEL "GRANDE GIOCO"
Il ruolo strategico nell'economia globale dei paesi che ora sono il
teatro delle operazioni belliche Usa

di Giacomo Catrame

Afghanistan, Kazkostan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghisistan,
Pakistan... nomi di stati di quell'area dell'Asia Centrale diventata
familiare in queste ultime settimane.

Eppure, se questi nomi per la maggior parte della popolazione
dell'Occidente suonano ancora come qualcosa di esotico e lontano, non
altrettanto si può dire per le nostre classi dominanti e per quelle di
paesi come la Russia, l'India o la Cina.

Quando quelle terre avevano ancora nomi ancestrali come Turkestan o
Turan, esse erano già oggetto di scontro per le grandi potenze mondiali
che se le contendevano per la loro importanza strategica come asse di
transito dell'Eurasia. Laggiù, infatti, passava la via della seta che
permetteva il contatto commerciale tra l'Europa e le allora lontane
terre cinesi e indiane, le cui fiorenti economie avviarono lo scambio di
prodotti con l'Occidente fin dal tempo dell'Impero romano. Più tardi,
alla metà del secolo tredicesimo, la loro sottomissione all'Impero
mongolo, permise la ricostruzione dei rapporti commerciali eurasiatici
che, secondo avvertiti autori come Arrighi, è alla base del primo
sviluppo dell'accumulazione capitalistica, nelle città-stato italiane
dell'epoca.

In secoli più vicini quest'area è stata l'area del "Grande gioco",
combattuto dalle grandi potenze imperiali come la Russia degli zar che
avanzò nel Caucaso e in Asia centrale per tutto il Settecento e
l'Ottocento a spese dell'Impero Ottomano e di quello Persiano (gli
odierni Turchia e Iran), e di più moderne potenze imperialistiche come
l'Inghilterra che mosse dai suoi avamposti indiani (dai quali aveva
scacciato i francesi nel 1763) fino a raggiungere i confini tra gli
attuali Pakistan e Afganistan. Tra l'altro è da notare come gli Inglesi
tentarono per due volte di assoggettare l'Afganistan (allora come adesso
una fragile confederazione di tribù diverse tra loro e tra loro ostili,
ma capaci di trovare l'unità di fronte a una minaccia esterna),
rimanendo per due volte sconfitti, la prima volta con la cacciata da
Kabul nel 1842, la seconda nel 1879.

Nell'età degli imperialismi, grossomodo tra il 1870 e il 1914,
quest'area del mondo è quindi un elemento di contesa "globale" (come si
direbbe oggi) tra economie ampiamente globalizzate che fanno del
controllo delle aree strategiche del mondo una delle ragioni del proprio
successo. In più, si deve aggiungere la progressiva saldatura tra gli
interessi in gioco nell'Asia Centrale e quelli che in quest'epoca si
affaccia al Medio Oriente, non ancora appetibile per la produzione
petrolifera (la civiltà del consumo energetico a base petrolifera è
ancora di là da venire), ma reso fondamentale nel suo ruolo di corridoio
di transito dalla lunga crisi dell'Impero Ottomano. Gli inglesi si
insediano sul Canale di Suez nel 1882, negli Emirati del Golfo nel 1867
e nel Kuwait nel 1899, mentre i russi premono da nord su ciò che rimane
della vecchia Persia allo scopo di accedere all'Oceano Indiano, e la
Germania si insedia nel cuore del Medio Oriente, ottenendo concessioni
ferroviarie (la tratta Istambul-Baghdad-Bassora e quella verso La
Mecca).

Come si vede, gli interessi su queste terre sono già delineati e gli
attori principali sono già tutti presenti. Tutti meno uno, quello che
oggi è il più importante, gli Stati Uniti che inizieranno la loro
presenza nell'area attorno alla metà degli anni Trenta del secolo appena
trascorso, sostituendo l'Inghilterra nel ruolo di protettore del neonato
(1932) regno dell'Arabia Saudita. Il ruolo del Medio Oriente, però è già
mutato all'epoca, con l'affermarsi di un modello economico e sociale in
Occidente, basato sullo sviluppo energetico a base petrolifera. La
seconda guerra mondiale vedrà in quest'area l'affermazione dell'egemonia
statunitense che costruirà un sistema di alleanze basate sulle monarchie
feudali arabe, sull'Iran dello Sciah, sul Pakistan, stato nato nel 1947
dalla partizione dell'antico Impero Indiano in mano agli inglesi tra
indù e musulmani, e, naturalmente, su Israele, vero e proprio cane da
guardia occidentale in Medio Oriente.

Il "Grande gioco" dell'Asia Centrale, si viene così a saldare con il
"Grande gioco" degli interessi petroliferi mediorientali.

Questo breve e, sicuramente, incompleto excursus storico serve a
esemplificare il ruolo che nella storia dell'economia-mondo (l'economia
mondiale vista non come un insieme di economie indipendenti, ma come un
unico sistema economico interdipendente, per la cui gestione si sono
combattute e si combattono tuttora guerre tra imperialismi diversi), i
paesi quasi sconosciuti venuti alla ribalta mondiale dopo l'attentato
alle Twin Towers dell'undici di Settembre, hanno sempre giocato.

La storia più recente ha visto l'area dell'Asia centrale quale uno dei
principali terreni nei quali si è svolta la Guerra Fredda. La
rivoluzione iraniana del 1979, l'invasione russa dell'Afganistan lo
stesso anno e la successiva guerra decennale in questo paese sono
altrettanti momenti di questo confronto.

Inizia in questi anni la stretta collaborazione tra gli Stati Uniti, i
paesi islamici filoamericani (come l'Arabia Saudita, gli Emirati del
Golfo Persico e il Pakistan) e quella che negli anni seguenti verrà
definita come "l'arcipelago fondamentalista". I guerriglieri afgani
verranno addestrati in Pakistan dai servizi segreti di quel paese sotto
la supervisione americana, a loro si uniranno volontari da tutto il
mondo islamico, chiamati a combattere nel nome della jihad, ma con il
sostegno e la promozione degli Stati Uniti impegnati nella battaglia
decisiva con la superpotenza concorrente.

Osama Bin Laden, fino a allora un illustre sconosciuto, principe di
sangue reale saudita, costruisce la sua fama attraverso il ruolo di
comandante dei "volontari internazionali" accorsi a combattere l'Armata
Rossa.

Negli anni del conflitto, quindi, si struttura un'organizzazione
internazionale, addestrata dai migliori specialisti occidentali (tra i
quali le SAS inglesi, le teste di cuoio di Sua Maestà non più
imperiale), in possesso di grandi risorse finanziarie e di armamenti e,
soprattutto, coperta dall'appoggio attivo degli Stati Uniti e della Gran
Bretagna.

Negli anni successivi al conflitto, questa dotazione di armi, uomini e
tecnologie verrà utilizzata a più riprese dagli Stati Uniti per chiudere
i conti con tutti i regimi arabi non allineati con l'Occidente. Nella
guerra civile algerina tuttora in corso è documentata la presenza di
uomini e organizzazioni legate all'universo fondamentalista e incaricate
del progetto di destabilizzare il regime di quel paese colpevole di
controllare statalmente la propria produzione di gas e petrolio e,
soprattutto, di venderlo direttamente ai paesi europei senza controllo
americano. In Cecenia, dopo l'indipendenza dichiarata da una leadership
nazionalista ma laica, si presenta la stessa organizzazione che si
impadronisce del paese e oggi gestisce la guerra di resistenza contro i
russi. Non può sfuggire la coincidenza tra l'interesse americano a
sviluppare oleodotti e gasdotti che trasportino gli idrocarburi del Mar
Caspio attraverso paesi amici come Georgia e Turchia, evitando Russia e
Iran, e la fulminea entrata in scena di gruppi ben armati e
ideologicamente motivati proprio in un'area che è uno degli snodi
fondamentali degli oleodotti russi che portano greggio e gas dal Mar
Caspio al porto russo di Novorossijsk.

La stessa ascesa dei Talebani in Afganistan tra il 1996 e il 1997 è
avvenuta grazie all'intervento dell'ISI (l'inteligence pakistana) e dei
servizi anglo-americani, capaci di trasformare un armata di studenti
afgani delle Madrase (le scuole coraniche integraliste del Pakistan)
stracciona e impreparata, nei nuovi padroni dell'Afganistan. Anche qui
l'interesse è chiaro: unificare l'Afganistan, dove la guerra civile
durava ormai dal 1992 senza vincitori né vinti tra gruppi concorrenti
della ex resistenza afgana, allo scopo di utilizzarlo per un oleodotto
che, partendo dai giacimenti del Turkmenistan, passasse per il
martoriato paese asiatico e si dirigesse verso il porto di Gwadar in
Pakistan. Anche qui si trattava di escludere russi e iraniani dallo
sfruttamento e dal passaggio delle risorse energetiche del Mar Caspio.

I rapporti tra gli Stati Uniti, i servizi segreti pakistani e sauditi e
l'arcipelago fondamentalista del quale l'esponente più conosciuto è
Osama Bin Laden, sono quindi strettissimi e datano da almeno ventidue
anni. A questo proposito è interessante leggersi il materiale prodotto
dallo studioso canadese Michael Chossudowsky che ha documentato in modo
incontrovertibile l'origine, l'intensità e la durata di questi rapporti.

La fine della Guerra Fredda, però, avvia un mutamento dello scenario nel
quale operano i diversi soggetti. In primo luogo gli Stati Uniti si
trovano a ridefinire il loro intervento nelle varie aree del mondo e, in
primo luogo in quella vasta dorsale, decisiva per l'approvvigionamento
di materie prime energetiche e per il controllo su di esse, che parte
dai Balcani europei, passa attraverso il Medio Oriente e si spinge fino
all'area della quale ci stiamo interessando. La fine del bipolarismo
mondiale, infatti, rende le alleanze storiche insicure, permette
l'emergere di potenze regionali interessate a rinegoziare il controllo
occidentale sulle risorse energetiche e consente ai paesi europei (in
ordine sparso o coordinati nell'Unione Europea) di avviare un proprio
approccio nei Balcani e di tentare timidamente di stabilire propri
rapporti con i paesi petroliferi medio orientali considerati nemici
dagli Stati Uniti come l'Iran.

Se da un lato queste sono le minacce e i rischi che il dominio mondiale
unipolare degli Stati Uniti corre con la fine dell'Unione Sovietica, la
dissoluzione "dell'impero rosso" apre enormi prospettive di intervento
in quei paesi dell'Asia Centrale controllati da Mosca fino al 1991.

Il ruolo strategico di queste repubbliche (e di Pakistan e Afganistan
con loro) viene, inoltre, esaltato dalla crescita come potenze regionali
dell'India e della Cina, paesi vicini e minacciabili da eventuali basi
nell'area.

In particolare gli Stati Uniti temono lo sviluppo di un'alleanza a tre
Russia-Cina- India che potrebbe minacciare il dominio assoluto di
Washington sul mondo come e più degli alleati-competitori dell'Unione
Europea.

Nel DefensePlanning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999, possiamo
leggere "Dobbiamo operare per impedire che qualsiasi potenza ostile
domini una regione le cui risorse sarebbero sufficienti, se controllate
strettamente, a generare una potenza globale. Queste regioni comprendono
il territorio dell'ex Unione sovietica, l'Asia orientale e sud
occidentale".

Questo programma viene redatto dopo la Guerra del Golfo, che segna
l'avvio del processo di ristrutturazione del controllo del corridoio
eurasiatico. Durante quella guerra gli americani centrano tre obiettivi:
schierano gli europei e molti paesi arabi sotto la propria egemonia,
ridimensionano l'ex vassallo Saddam Hussein, impedendogli di assumere il
ruolo di potenza regionale, raggiunta la quale avrebbe potuto pensare di
diversificare la vendita del proprio petrolio, infine ottengono basi
militari e il diritto di stazionare con i propri soldati nell'area del
Golfo. Il controllo esclusivo delle risorse dell'area viene quindi
raggiunto, e con questo il ridimensionamento delle velleità europee di
autonomia dagli americani nell'approvvigionamento energetico.

Il progetto americano si rivela, quindi, come un piano preciso per
ristrutturare il mondo sotto la propria egemonia. La fine della Guerra
fredda, infatti, consegna agli Stati Uniti una situazione dove viene a
mancare il nemico comune che permetteva di tenere sotto il proprio
controllo potenze e stati altrimenti concorrenti come Francia, Germania
e Giappone. Non diversamente, nell'area delle risorse energetiche, gli
stati "amici" degli Stati Uniti iniziano a ritenere possibile di
svolgere una propria politica, parzialmente sganciata dagli imperativi
americani. Per questo diventa essenziale, per gli USA, muoversi al fine
di stabilire un controllo diretto sulle aree che il Dipartimento di
Stato classifica come di "interesse nazionale".

Questa necessità non deriva da un'astratta volontà di potenza degli
Stati Uniti, ma dalla collocazione della loro economia nel quadro
dell'economia-mondo. Dopo la crisi del modello di sviluppo industriale a
base americana durante gli anni Settanta, gli Stati Uniti avviano un
periodo di forte conflittualità tra le varie economie capitalistiche,
ponendosi come centro finanziario mondiale, assorbendo il 64% del
capitale mobile internazionale e utilizzando le istituzioni economiche
internazionali al fine di abbattere le barriere poste dai vari stati a
difesa delle proprie economie (ovviamente guardandosi bene dal diminuire
le proprie).

Il processo che viene chiamato impropriamente "globalizzazione" è
questo: il porsi delle classi dominanti americane in un ruolo di gestori
del mondo, espellendo le classi dominanti degli altri paesi sviluppati
dal controllo dell'economia-mondo e, financo, da quella del proprio
paese. In questo modo queste ultime vengono associate al paese-guida in
forma subordinata, permettendo loro l'accesso alle risorse, dal cui
controllo, però vengono escluse.

Il rischio che gli Stati Uniti non possono assolutamente accettare è,
infatti, la possibile nascita di un polo imperialista alternativo a loro
stessi. Non si avrebbe in questo caso, infatti, una competizione tra
economie differenti, ma, bensì la possibile sottrazione di quote
crescenti di capitale mobile impiegato in forma finanziaria, altrimenti
non impiegabile. L'economia americana funziona esclusivamente drenando
questo capitale da tutto il mondo e internalizzandolo. Il livello
produttivo è, oggi, simile negli USA, in Europa e in Giappone; la
supremazia dei primi può essere possibile (dal punto di vista economico)
esclusivamente controllando la liquidità monetaria mondiale.

Dopo la Guerra del Golfo, la guerra del Kosovo ha avuto la stessa
motivazione, permettendo lo stabilirsi di truppe americane nell'area,
spazzando via classi dominanti di paesi come la Jugoslavia che puntavano
a negoziare il controllo dei corridoi di passaggio delle materie prime
energetiche, e impedendo che L'Unione Europea stabilisse la propria
presenza su questi ultimi.

Tornando all'Asia Centrale, è chiara la volontà degli USA di rafforzare
la loro presenza militare e la loro influenza politica nell'area, in
modo da controllare le fonti energetiche del Caspio, i corridoi di
passaggio di queste, e i possibili stati concorrenti dell'Eurasia.

Fin dal1993 gli USA hanno dato inizio a una vera e propria "guerra degli
oleodotti", sostenendo le compagnie petrolifere anglo-americane contro i
concorrenti franco-tedeschi che cercavano di accordarsi con le compagnie
statali russa e iraniana.

Il progetto, come abbiamo visto è quello dell'oleodotto
Turkmenistan-Afganistan-Pakistan, e "l'operazione Taleban" aveva la sua
costruzione come fine.

Quello che è intervenuto nel suo svolgersi, e che è alla radice dei vari
attentati americani degli ultimi due anni, culminati nell'attacco alle
Twin Towers, è il contrasto sempre più marcato tra gli interessi degli
Stati Uniti e quelli delle élite arabo-musulmane, proprietarie delle
ricchezze energetiche, ma escluse dal loro controllo.

Osama Bin Laden non è un "pazzo di Dio", ma il più terreno
rappresentante di una guerra che le classi dominanti dei paesi arabi non
possono muovere agli Stati Uniti per evidenti motivi di ordine militare,
ma che permettono venga svolta in modo non ortodosso dalla galassia
fondamentalista. Come si può vedere, la religione ha sicuramente un
ruolo nella costruzione del consenso, ma quello che muove lo scontro che
sta culminando in questi giorni con l'assalto americano all'Afganistan,
sono ben corposi interessi materiali. Inoltre, la religione ha, nei
paesi in questione, un ruolo tutt'altro che accessorio di coesione
sociale attorno alle classi dominanti e di giustificazione del loro
ruolo. La progressiva penetrazione americana all'interno di questi
paesi, con evidenti rischi di secolarizzazione, pone alle classi
dominanti di paesi come l'Arabia Saudita, gli Emirati del Golfo o il
Pakistan, il problema della rottura delle strutture gerarchiche
tradizionali, con conseguenze disastrose per il loro potere. Il
riconoscimento dell'Afganistan dei Taleban, lo scarso entusiasmo nel
sostenere la guerra americana, il mantenimento fino all'ultimo di canali
finanziari aperti per l'organizzazione di Bin Laden, si spiegano così.

Inoltre, la preferenza mostrata dagli americani per l'asse nato nel 1998
tra Israele e Turchia, come "alleato preferenziale" nell'area, toglie il
terreno sotto i piedi a queste élite che rischiano in prospettiva di
essere liquidate come inutili al progetto strategico americano.
Oltretutto il potenziale attrattivo di questa alleanza è enorme, verso
paesi come Iran e Iraq, per ora reclusi nella lista dei "cattivi"
(almeno finché non si rassegneranno a accettare completamente il
controllo americano e insisteranno a cercare di fare affari separati con
i paesi europei), ma un domani interessantissimi partner regionali, dal
momento che le loro economie sono le uniche nella zona che potrebbero
essere complementari a quelle turca e israeliana.

La guerra, quindi, era inevitabile; il progetto di controllo
dell'Eurasia da parte degli USA si sta perfezionando con la guerra
all'Afganistan e con il massiccio spostamento di truppe e strumenti di
controllo nell'area. Inoltre, i possibili concorrenti americani no
sembrano poter articolare nessuna strategia alternativa a quella di
Washington. Così gli europei si accodano, sperando di ottenere qualche
vantaggio rinnovando la propria subordinazione e cinesi, indiani e russi
approvano l'operato americano, ognuno cercando di ottenere l'appoggio
americano contro le guerre a bassa intensità mosse dalla stessa galassia
fondamentalista alle loro periferie (Sinkiang, Kashmir e Cecenia).

Oltre a questo vi è un altro motivo che rende più che positiva per gli
USA la dichiarazione dello stato di guerra, ed è quello legato alla
situazione economica del gigante americano: la strategia di
accumulazione delle risorse monetarie mondiali in casa propria ha
permesso agli Stati Uniti la supremazia sui possibili concorrenti ma ha
anche creato una situazione alla lunga insostenibile. La concentrazione
di liquidità ha, infatti, reso necessario un dollaro forte con
conseguenze facilmente immaginabili sulla bilancia dei pagamenti con
l'estero. Questo dato era tranquillamente tollerabile dagli USA finché
il mercato interno "tirava"; nel momento in cui il mercato americano si
è saturato per raggiunti limiti di possibilità di acquisto, la
concentrazione di moneta mondiale è diventata un limite all'espansione
economica.

Da questo punto di vista la guerra è stata una manna dal cielo per
l'economia americana, permettendogli in primo luogo un'espansione
finanziata dal pubblico (per un totale di 220 miliardi di dollari) non
solo nel settore militare. In secondo luogo, i programmi di aiuto ai
paesi coinvolti "nell'alleanza contro il terrorismo", dovrebbe
permettere una prima redistribuzione della liquidità concentrata negli
Stati Uniti, rilanciando le esportazioni USA. A differenza della Guerra
del Golfo che gli americani fecero pagare a arabi, europei e giapponesi,
costringendoli anche alla partecipazione, questa guerra verrà pagata
interamente dagli USA che, anche sul piano militare preferiscono per ora
fare da soli, con la sola compagnia dei fidati inglesi. Quella guerra
apriva un processo di ristrutturazione che, ora, quest'altra chiude,
imponendo agli stessi padroni del gioco regole e necessità diverse.