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pc: gli americani e il resto del mondo
- Subject: pc: gli americani e il resto del mondo
- From: "Arianna Editrice" <arianed at tin.it>
- Date: Mon, 29 Oct 2001 18:16:41 +0100
L'America alla scoperta del mondo MARCO D'ERAMO - INVIATO A WASHINGTON brano tratto da "il Manifesto"26 ott.2001 " Il Corano è esaurito", mi dicono nella grande libreria Barnes & Noble a Georgetown, il quartiere chic di Washington città. Ed è vero che dall'attacco dell'11 settembre si è risvegliato negli Stati uniti un nuovo interesse per il grande mondo lì fuori, per quei paesi strani, incomprensibili, selvaggi e minacciosi che prima non sapevi neanche metterci il dito sopra sul mappamondo. Non foss'altro che per i presentatori dei talk shows tv che ora deambulano su un pavimento-carta-geografica con Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Iran (e i comici mimano di farci all'amore sopra, con lei che rimane scioccata da una montagna pakistana che le preme da qualche parte verso le natiche). Otto dei primi 10 best-seller venduti da Amazon.com dopo l'11 settembre riguardano argomenti collegati con il Medio oriente. Fino ad agosto aveva venduto pochissime copie un libro sui Talibani scritto dal giornalista Ahmed Rashid (Taliban: Militant Islam, Oil and Fundamentalism in Central Asia). Da settembre le vendite sono decuplicate e c'è una lista d'attesa. Così vanno a ruba libri sull'Afghanistan, sul Medio oriente. Oltre che sulla guerra batteriologia: è in testa alle classifiche e campeggia in altissime pile sugli scaffali Germs (America's Secret War) di Judith Mille, Stephen Engelberger e William Broad. C'è però una certa stranezza nella ragazza che entra in libreria e chiede "il libro, quello degli arabi, insomma la loro Bibbia, non si ricorda com'è il titolo, sì, ecco, quello lì, si chiama Corano?". Perché è falso che gli americani non conoscano il mondo. Basta fare un semplice calcolo: dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Usa hanno mantenuto all'estero, costantemente, più di 300.000 militari. Aggiunti agli uomini d'affari, missionari delle varie denominazioni religiose, diplomatici, studenti, accademici, oltre ai turisti, il totale assomma a svariate decine di milioni di statunitensi che hanno visto il grande mondo. Il totale può essere stimato con una certa precisione, visto che solo il 10% degli americani ha il passaporto. Ma è una conoscenza assai bizzarra: conoscono davvero l'Italia il marine di stanza a Napoli o il pilota che decolla da Aviano? Vivono nelle proprie basi, vanno nei propri drug stores, mangiano nei McDonalds, vedono i propri film, guardano il baseball e il football americano, chiusi nella loro enclave, proprio come fanno a Okinawa, in Giappone - e i nipponici pensano che è meglio se non ne escono, visti i ripetuti casi di stupro commessi dai soldati sulle ragazze locali, per cui non riescono a processarli perché, per una clausola inclusa nei protocolli firmati alla fine della seconda guerra mondiale, qualunque militare Usa di stanza all'estero viene equiparato a un diplomatico, gode cioè della sua immunità, come noi abbiamo imparato bene nel caso della funivia del Cermis. C'è così il paradosso di un paese che controlla il mondo, lo domina, incerto se governarlo o no, ma non lo conosce. Un po' come l'altro paradosso: negli Usa ci sono oggi, secondo il Census 2000, 31 milioni di persone nate all'estero - una cifra pazzesca, come se negli ultimi 20 anni tutta la Polonia, o più di mezz'Italia, si fosse trasferita negli Usa. E 7,5 milioni sono gli illegali, che sembrano non dare nessun fastidio ai repubblicani, persino i più fascisti tra loro, mentre da noi la Lega la mette giù così dura per soli 300.000 clandestini. Questi 31 milioni di umani vengono da tutti i paesi, da tutti i continenti, come hanno mostrato in modo tragico, commovente, i numeri dei morti nelle Twin Towers. E però arrivano qui come collettività, sostrato comune, non trasmettono la propria esperienza, la propria cultura, obbedendo alla prescrizione citata da Steven Steinberg nel suo bellissimo libro Ethnic Myth: "Non importa da dove vieni, dovrai diventare come noi" (accoppiata al complementare comandamento rivolto ai neri e ai nativi americani: "Non importa quel che fai, non riuscirai mai a essere come noi"). Guarda in cucina Succede come nelle cucine "etniche": negli Usa ce n'è da tutto il mondo, cinese, italiana, greca, cambogiana, coreana, indiana e così via, e però ciascuna è "reinventata", americanizzata, diventa un'altra forma di "invenzione della tradizione", per riprendere il fondamentale libro dei primi anni '80 di Hobsbawm e Trevor Roper. Basta andare in un ristorante italiano negli Usa per capire che la "cucina italiana" è lì esagerata, a connotare l'italianità, quella immaginata delle donne vestite di nero in groppa al ciuco, e perciò con una esasperata dose di aglio, di olio: la professoressa di Harvard Donna Gabaccia racconta benissimo questa reinvenzione della cucina etnica in We Are What We Eat. Così da due secoli fiumi di stranieri sono entrati a fiotti negli Usa, ma in un certo senso il mondo ne è restato fuori, come sul pianerottolo. Però la distruzione delle Twin Towers può aver costituito una svolta: da un secolo gli Stati uniti erano entrati nel mondo (è del 1899 la guerra contro la Spagna per Cuba e Filippine), ma solo l'11 settembre 2001 il mondo è penetrato negli Stati uniti, che sono diventati un po' più simili a tutti gli altri paesi al mondo, più vulnerabili, come diceva Studs Terkel. Al Monterey Institute sono quintuplicate le iscrizioni ai corsi di arabo, secondo il Los Angeles Times. C'è, qui a Washington, il Middle East Institute: di solito le sue classi di arabo hanno circa 90 studenti a trimestre, adesso ne ha 130. Sono raddoppiati anche gli studenti in persiano, turco ed ebraico. Il suo sito Web riceveva in media 8.000 collegamenti al giorno. Da settembre ne riceve 50.000. I motori di ricerca di Internet sono inondati da richieste sull'argomento: a settembre nove delle dieci ricerche più gettonate su Google riguardavano temi relativi all'attacco: Afghanistan, Talibani, Osama Bin Laden e ... Nostradamus. C'è anche un aspetto economico, i "verdi" - come dicono qui (non i verdoni, come sono tradotti nei gialli in italiano). E' schizzata alle stelle la richiesta di traduttori da queste lingue esotiche. Con i commandos impegnati in Afghanistan e con la prospettiva di una più massiccia guerra di terra, il governo degli Usa scopre di essere del tutto scoperto sul piano linguistico. Il New York Times riporta che la ditta Ad-Ex Translation Worldwide ha ricevuto la commessa di tradurre migliaia di parole ordinarie inglesi in dari, pashtun, urdu e uzbeko, tutte lingue parlate in Afganistan. Tra le parole richieste non compaiono termini né scientifici, né finanziari, né legali: "Secondo me, sono frasi di sopravvivenza e vocabolario per le truppe", ha detto il direttore. Un'altra ditta, Lionbridge Technologies, ha ricevuto una commessa da molti milioni di dollari per tradurre dall'inglese in arabo il software per le comunicazioni militari e manuali di addestramento per equipaggiamenti tecnici. L'American Translator Association ha sede ad Alexandria, il sobborgo più elegante di Washington. Circa 500 dei suoi 8.300 membri sono ditte di traduzioni o reparti di traduzione di grandi corporations. Gli altri 7.800 sono singoli traduttori. E' interessante la tabella pubblicata dal quotidiano newyorkese, delle lingue in cui sono specializzati i traduttori americani: solo 120 i traduttori dall'arabo, 50 dal coreano, 21 dal farsi, 7 dall'albanese, e poi 6 dal dari e dall'hazeri, e uno solo dal cambogiano e dal pashtun! A paragone, spagnolo: 2.217; francese: 1.189; tedesco: 903; russo: 481; giapponese: 384; cinese: 154. Fa impressione soprattutto il rapporto tra francese (parlato da meno di 100 milioni di persone al mondo) e cinese (1,3 miliardi). Passioni effimere? Un altro problema per le agenzie governative è che pagano poco, molto meno dei privati (informazione che farà forse arrabbiare i malpagati traduttori delle case editrici e testate italiane): per un'ora di traduzione dall'arabo l'Fbi paga tra i 27 e i 38 dollari (60-80.000 lire), mentre il settore privato sborsa tra i 150 e i 220 dollari (320-450.000 lire) per la traduzione di 6.000 battute, cioè tra le 110 e le 150.000 lire a cartella. Può darsi che sia transitoria quest'infatuazione per il grande mondo là fuori. Che sia come l'improvvisa passione per le matematiche e le scienze che colse gli studenti americani dopo il 1956, quando l'Urss lanciò nello spazio la cagnetta Laika e, nel '60, l'umano Gagarin. O come l'interesse per l'Estremo oriente che colse l'America dopo Pearl Harbour. O la brama di informazioni sull'Indocina durante la guerra del Vietnam: nell'autobiografica introduzione al volume Spectre of Comparisions, Benedict Anderson (l'autore del libro sulla nascita dei nazionalismi, Comunità immaginate) racconta come mai è diventato uno specialista del Sudest asiatico, anzi come è nata questa categoria, "Sudest asiatico", come è diventata poi una disciplina accademica, infine un dipartimento universitario con biblioteche, riviste, conventions annuali... Può darsi che tutto questo improvviso interesse sia transitorio. E la guerra che gli Usa stanno conducendo in Afghanistan è un pessimo segnale. Il solito ricorso alle solite bombe dalla solita alta quota. La solita equazione (che sciaguratamente ha contagiato per tanti anni la sinistra e il movimento operaio): il nemico del mio nemico è mio amico. Il che non è affatto vero, e ha effetti catasatrofici. Uno può essere contro gli Usa, e nello stesso tempo deve essere contro i talibani che imprigionano le donne in casa, e contro bin Laden che uccide migliaia di innocenti in un colpo. Comunque vada, godiamoci questa breve "estate indiana" (come è chiamata qui l'estate di San Martino), di apertura verso il mondo. Anche se somiglia un po' troppo alla circospetta sospettosità con cui i turisti americani esaminano quegli sconosciuti manufatti che sono i bidet europei.
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